mercoledì 31 ottobre 2007

Il divorzio annunciato. Paolo Guzzanti

La maggioranza, se questa parola si può ancora usare, ci ricorda una di quelle vecchie Soyuz sovietiche che restavano in orbita sgangherate e perdendo i pezzi che poi finivano in fiamme sull’oceano. Tutti restavano col naso all’insù a chiedersi quando sarebbe caduto il trabiccolo spaziale che però seguitava a macinare orbite. Il governo Prodi e la sua maggioranza perdono pezzi come quelle navicelle, ma non hanno più orbite da macinare e tutti a bordo lo sanno.
Ieri è venuto giù il pavimento, o una fiancata, quando il cane e il gatto della coalizione, ovvero Di Pietro e Mastella sempre divisi su tutto, si sono uniti per affondare il progetto governativo di fare una Commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del G8 a Genova nel 2001, quando la sinistra radicale e ultracomunista si scatenò in una operazione di guerriglia violentissima il cui risultato finale fu la morte di un giovane manifestante ucciso per legittima difesa da un suo coetaneo carabiniere. Quell’episodio e i pestaggi alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto furono un’oscura provocazione preordinata per mettere in difficoltà il neonato governo Berlusconi sul piano internazionale.
Ma l’intento del governo e della maggioranza nel chiedere di istituire una tale commissione è proprio quello di mettere sotto accusa, mentre si avvicinano le elezioni, la parte politica avversa, cioè di fare esattamente quel che la sinistra ha sempre rimproverato (a torto) al centrodestra circa le commissioni Telekom Serbia e Mitrokhin. La Commissione ovviamente doveva essere usata come una clava contro il futuro governo Berlusconi attaccando quello di allora, scatenando la caccia alle streghe contro il ministro degli Interni e contro il capo della polizia De Gennaro, nel frattempo silurato insieme ai vertici della Guardia di Finanza e dei Servizi segreti. Ebbene, Clemente Mastella e Antonio Di Pietro hanno detto di no, hanno sfidato la maggioranza di sinistra e il progetto di Commissione si è staccato dalla Soyuz. Naturalmente nella maggioranza è scoppiato il finimondo: quel fine liberale che è Oliviero Diliberto insieme a vari ministri fra cui il furibondo Ferrero sono saltati in aria profferendo frasi di profondo rancore e disprezzo.
Tutto ciò dimostra che quel che accade è la lite furiosa e la concorrenza per sopravvivere fra i due segmenti della sinistra, quella moderata di Dini, Mastella e Di Pietro che non riesce a stare insieme a quella parolaia e ultracomunista. Quel che è accaduto ieri con la Commissione sul G8 ripete lo schema di quanto già sta accadendo con la vicenda dei precari di cui il nostro Giornale si sta ampiamente occupando. A chiacchiere la sinistra oltranzista promette ciò di cui non può disporre: un’assunzione per tutti i precari del pubblico impiego, che sono una mezza milionata compresi i consulenti siciliani amici degli amici.

I soldi non ci sono, ma si fa finta che ci siano e che la sinistra radicale sia molto buona perché, lei sì, vorrebbe dare un lavoro a tutti. La sinistra normale ovviamente si oppone e alla fine si prospetta una truffa politica in grazia della quale si dirà ai precari che verranno assunti e poi si comunicherà loro che purtroppo l’intenzione c’era ma non ci sono i soldi. Come si vede si tratta di volgarissimi giochi, piccoli escamotage da illusionisti.
La sinistra estrema sa che le prossime elezioni imporranno il divorzio fra le due anime oggi in litigiosa concorrenza e sa che potrà prendere più voti se darà fondo al massimo di demagogia, di statalismo e di assistenzialismo. La sinistra che oggi cerca di mettersi in salvo da quell’abbraccio mortale, per le stesse ragioni sa che deve smarcarsi alla svelta e far vedere di saper dire di no. Nel frattempo altri pezzi della vecchia Soyuz volteggiano prendendo la via dell’oceano in fondo al quale si preparano le elezioni anticipate. (il Giornale)

La comparazione degli orrori. Pierluigi Battista

Il Walter Veltroni che paragona gli orrori di Pol Pot ai crimini commessi dal nazismo non è un cultore del passato che si lascia invischiare in una polverosa querelle storiografica. Da neosegretario di un nuovo partito post-ideologico che vuole chiudere i conti con i lutti del Novecento, recide l’ultimo legame emotivo e simbolico con una storia, quella del comunismo, che malgrado fallimenti e atrocità inenarrabili rivendica ancora uno statuto di «superiorità» morale rispetto ad altre, analoghe mostruosità storiche rigettate dalla coscienza civile. Rompe il tabù dell’inconfrontabilità di nazismo e comunismo e si libera dei compromessi di una memoria selettiva, accomodante, autoconsolatoria e perciò autoassolutoria.

Veltroni lo ha fatto alla presentazione pubblica di un romanzo, «L’illusione del bene» di Cristina Comencini, che molti ex comunisti (ovvio: comunisti italiani che materialmente non misero in pratica le nefandezze altrove compiute nel nome del comunismo) farebbero bene a leggere, colmo di un pathos ammirevole per le conseguenze di quel crollo del «mondo interiore », del «sistema mentale che va in frantumi» assieme alla catastrofe di un’idea grandiosa e grandiosamente cruenta: «Il male, il bene, la sensazione nostra di essere i migliori, l’idea che esistesse un progetto futuro che avrebbe permesso a milioni di persone di essere uguali». Lo ha fatto, certo con un’astuzia da consumato leader politico, scegliendo di menzionare le abiezioni di un regime, quello di Pol Pot, già condannato nella morale condivisa: l’«autogenocidio » di cui parlava Primo Levi, l’immagine delle piramidi di teschi ritrovate nei killing fields cambogiani, l’annichilimento di un quarto della popolazione, la deportazione e lo sterminio di tutti gli abitanti della città bollati come esseri impuri e contaminati dal morbo borghese, gli sciami indottrinati di bambini delatori e carnefici delle loro famiglie.

Ma lo ha fatto, sfidando un’interdizione, un veto politico e culturale ancora funzionante a vent’anni dallo sfaldamento comunista, e malgrado le intimazioni al silenzio di chi continua ad anatemizzare il paragone tra nazismo e comunismo come il frutto di una molesta «nevrosi comparativa». Troppo facile prendersela con Pol Pot? I puristi incontentabili avrebbero forse preferito un accenno alle dimensioni apocalittiche del massacro maoista della «rivoluzione culturale» o una citazione più esplicita del Gulag sovietico, la cui tragedia echeggia nelle pagine di «L’Urss di Lenin e Stalin», il nuovo libro di uno storico non lontano dall’itinerario politico di Veltroni, Andrea Graziosi, che non occulta le profonde «affinità » tra i due dioscuri «grandi e feroci» del totalitarismo comunista.

Ma resta la sostanza di una prima volta, il coraggio di un’equiparazione morale che è ancora sottoposta ai rigori di un divieto perentorio. La menzione di Pol Pot rappresenta piuttosto la strada obbligata per imporre un tema che ancora nessun dirigente cresciuto alla scuola del Pci aveva osato affrontare con tanta radicalità di giudizio. Come se la liquidazione definitiva dell’ultimo tabù, attuata con la necessaria sapienza retorica nella scelta delle citazioni e dei riferimenti storici, fosse il segno di un congedo doloroso ma irrevocabile con il passato e la condizione di un «nuovo inizio» che abbia, finalmente, il sapore della sincerità e dell’autenticità. (Corriere della Sera)

martedì 30 ottobre 2007

Perché ancora Lui

Le elezioni si percepiscono all'orizzonte.
Cominciano a scaldarsi i motori dei partiti e delle organizzazioni di supporto.
Si apre il dibattito e la disputa per le candidature.
Per chi votare?
Personalmente non ho dubbi e vi spiego perché.
Berlusconi, checché se ne dica, rappresenta ancora la novità e l'antipolitica.
Per quanto massacrato da processi e avvisi di garanzia, rimane pulito: sfido chiunque ad uscire indenne dalle attenzioni molteplici e continue della magistratura. I meno trinariciuti tra i compagni cominciano a mettere in dubbio certe accuse...
Il fatto che sia il più ricco d'Italia depone a suo favore: intanto perché lo era prima di mettersi in politica e poi perché non ha bisogno del potere per fare soldi. Il presunto conflitto di interessi esiste per tutti coloro che fanno politica ed è maggiore per chi fa della politica un mezzo per arricchirsi. Senza contare che chi è molto ricco non è corruttibile con il denaro.
Siccome c'è ancora chi non crede alla buona fede di Berlusconi, analizziamo il personaggio sotto il profilo politico. Partendo da zero ha catalizzato il voto di un terzo degli italiani: vogliamo
considerare questa fetta di elettori succubi delle sue televisioni e rimbambiti dalle sue promesse? Oggi più della metà della popolazione sta dalla sua parte: quindi ognuno di noi ha in famiglia dei rimbambiti video-dipendenti elettori di centrodestra incapaci di capire i pregi e i vantaggi di un governo di centrosinistra?
Anche il più incallito antiberlusconiano dovrà ammettere che forse non sono tutti rincoglioniti i berlusconiani.
Nei cinque anni di legislatura, la più lunga della nostra storia, avrebbe potuto fare di più, ma ha comunque fatto molto e cominciato a fare moltissimo.

Il quadro politico è, invece, cambiato dal punto di vista dei partiti: l'appartenenza e la stretta osservanza dell'ideologia non sono più di moda.
La nascita del Pd ha ufficializzato la fine dei dogmi e delle dottrine: loro stanno dalla parte opposta di Berlusconi e questo basta e avanza, anche se le idee e i programmi fossero quelli del centrodestra.
Noi stiamo nel centrodestra, con Berlusconi e i suoi alleati, lontani dalla sinistra comunista e aperti a tutte le istanze di rinnovamento, sviluppo, deregolamentazione, emancipazione e progresso per il nostro Paese.
Ma l'intercambiabilità del voto di centrodestra sarà l'innovazione delle prossime elezioni.
Infatti, mentre il Pd crea partitini satelliti e antagonisti provocando divisioni, l'idea del partito unico del centrodestra, anche se non porterà ad una federazione, ha già dato il via al localismo del voto: si voterà, anche per il Parlamento, il partito di centrodestra più attento ai problemi locali.
Il centrodestra rappresenterà l'alternativa al Pd nei fatti, senza dover rinunciare alle singole appartenenze, alle tessere dei vari partiti che lo compongono, con un unico leader della coalizione ed un programma comune.
In bocca al lupo Silvio!

Andrea's version. il Foglio

Finalmente. Finalmente un partito senza casta, senza gruppo dirigente, senza riunioni, senza finanziamenti occulti, senza personaggi oscuri ed eroici che bisogna giocoforza rinnegare, senza commissioni culturali, operaie e di probiviri, senza gli indipendenti a fare i dipendenti. Era ora. Un partito senza tessere e senza funzionari, senza correnti e senza le tradizionali sezioni, senza le forme del passato che lo legano, senza alleati da trovare a tutti i costi, senza comitati centrali, senza bandiere per sostituire le idee, senza striscioni, senza simboli opprimenti se non quello, semplice, della scritta che lo indica. Un partito moderno, senza niente. Senza manco un segretario, e sarebbe perfetto.

Italia, è boom di immigrati. Corriere della Sera

Sono 3 milioni 700 mila i regolari in Italia. Un numero aumentato del 21,6% in un anno.

Sono 3 milioni 700 mila gli immigrati regolari in Italia. Un numero aumentato del 21,6% - pari al 6,2% sulla popolazione complessiva (nell'Ue è il 5,6%) - in un anno e tale da collocare l'Italia, per ritmo di crescita, al vertice europeo. Lo stima il 17/o rapporto sull'immigrazione redatto dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione Migrantes, presentato martedì.

Nel 2006 il trend di crescita (700 mila in un anno) è stato tale che, se sarà confermato, farà arrivare fra 20-30 anni gli stranieri a 10 milioni ed oltre. Novità di quest'anno, la presenza paritaria delle donne rispetto agli uomini (49,9%) e tale da essere maggioranza. Le uniche ad avere una prevalenza maschile sono solo Lombardia e Puglia. I minori sfiorano le 700 mila unità (18,4% del totale). Ogni 10 immigrati, 5 sono europei (la metà comunitari); 4 suddivisi fra africani e asiatici, 1 americano. L'aumento di 700 mila unità in un anno (un sesto rispetto all'anno precedente) è il numero complessivo di stranieri contati appena 5 anni fa, nel 2002. I rumeni, col 15,1% di presenza, è la comunità più numerosa; segue i marocchini (10,5%), gli albanesi (10,3%), gli ucraini (5,3%). Sei immigrati su 10 si trovano al nord; al centro c'è il 26,7%, al sud il 10,2% e nelle isole il 3,6%. In sei anni, dal 2000 al 2006, gli immigrati dall'Est sono saliti di 14 punti mentre l'Africa ne ha persi 5 e l'America 2.

Il rapporto segnala che negli ultimi due anni, la crescita «è stata fortissima» anche in assenza di regolarizzazioni ma facendo leva sulle quote di ingresso. Ad avere impresso questo ritmo sono il fabbisogno delle industrie e delle famiglie di manodopera aggiuntiva (540 mila domande), i ricongiungimenti familiari (poco meno di 100 mila) e le nuove nascite tra gli immigrati (quasi 60 mila). Se il ritmo di crescita continuerà anche nel biennio 2007-2008, la Lombardia passerebbe da 850 mila ad oltre un milione di presenze; il Veneto, l'Emilia Romagna e Roma supererebbero il mezzo milione di unità; il Piemonte sfiorerebbe le 400 mila, la Toscana le 350 mila. Sotto le 100 mila unità resterebbero solo il Trentino Alto Adige, l'Abruzzo, la Sardegna, la Basilicata, il Molise e la Valle d'Aosta.

Gli occupati stranieri sono 1.348.000 (più della metà nei servizi e più di 1/3 nell'industria) - i 2/3 sono al nord - mentre i disoccupati sono 127 mila. L'aumento annuale dell' occupazione è stato di poco inferiore alle 200 mila unità; il tasso di attività è risultato essere del 73,7% (superiore di circa 12 punti di quello degli italiani), quello dell' occupazione dell'8,6%. Gli stranieri incidono per il 6,1% sul Pil; pagano quasi 1,87 miliardi di euro di tasse attraverso 2 milioni 300 mila dichiarazioni dei redditi. Più della metà delle donne (circa 700 mila) è impiegata nel lavoro domestico e di cura (molte lavorano in nero). Più di un quarto degli stranieri lavora in orari disagiati: il 19% la sera (dalle 20 alle 23), il 12% la notte (dopo le 23) e il 15% la domenica. L'85% lavora come dipendente. Gli imprenditori sono aumentati dell'8% (sono 141.393); per il 70% operano nel commercio e nelle costruzioni. Gli immigrati guadagnano in media 10.042 euro l'anno; nel 2006 le rimesse inviate dall'Italia hanno superato i 4,3 milioni di euro per una crescita annua dell'11,6%. La Romania, con 777 milioni di euro, è la prima destinazione dei flussi in uscita. L'atteggiamento degli immigrati nei confronti degli italiani è definito dal rapporto «benevolo»: la maggioranza afferma di stare bene in Italia; la difficoltà più grande riguarda trovare un affitto (57%). L'Ufficio nazionale antidiscriminazioni ha riscontrato lo scorso anno 218 casi di discriminazione razziale su 10 mila segnalazioni. Un matrimonio su 8 coinvolge ormai un cittadino straniero (solo nel 20% dei matrimoni misti sono protagoniste le donne italiane rispetto ai maschi); le coppie miste sono oltre 200 mila. Gli alunni stranieri sono oltre mezzo milione, il 5,6% della popolazione scolastica. Metà degli italiani continua ad essere contrario all'immigrazione anche se non è la prima loro preoccupazione, superata dalla precarietà del lavoro.

lunedì 29 ottobre 2007

Sme, chi chiederà scusa a Berlusconi dopo l'assoluzione? Domenico Giugni e Giuseppe Giliberti

“Sì è vero la legge è uguale per tutti ma per me è più uguale che per gli altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani”.

Era il giugno del 2003 e l’allora Capo del Governo Silvio Berlusconi si rivolgeva con queste parole al magistrato milanese Luisa Ponti, nel corso di una delle udienze più infuocate del processo SME.
In quei giorni la vicenda occupava le prime pagine di tutti i giornali perché il Presidente del Consiglio chiedeva di coordinare i tempi del processo con i suoi compiti istituzionali.
“Un Tribunale non può sindacare sugli impegni del Capo del Governo. Questo è inaccettabile”, affermava il leader di Forza Italia in aula e, da sinistra, i vari Violante, D’Alema e l’immancabile Di Pietro lo accusavano a gran voce di volersi difendere dal processo anziché nel processo.
La vicenda SME, insieme ai casi collegati “lodo Mondadori” ed IMI-SIR, ha vissuto tuttavia tante altre giornate di enorme popolarità, nel corso delle quali l’intero scenario politico italiano appariva interamente focalizzato sulle presunte difficoltà giudiziarie del Cavaliere.
In principio furono le ingegnose ricostruzioni del fantomatico teste Omega, alias Stefania Ariosto, a destare l’interesse prima dei Pubblici Ministeri milanesi e poi della stampa e della televisione. Seguirono gli arresti del giudice Squillante, il famoso avviso di garanzia consegnato a mezzo stampa a Berlusconi, quando era alla guida del suo primo Governo, la condanna di Cesare Previti.
Soprattutto ci fu una sentenza che, accanto all’assoluzione relativa ad alcuni capi d’accusa, pronunciò la colpevolezza di Berlusconi per il reato di corruzione, che tuttavia era ormai prescritto.
Oggi sappiamo che il Capo dell’opposizione non commise nemmeno quel reato, perché, dopo la Corte d’Appello di Milano anche la Cassazione ha confermato la sua assoluta innocenza.
In attesa delle motivazioni è già di per se estremamente significativo che lo stesso Procuratore Generale della Corte Suprema abbia anticipato la decisione finale, chiedendo nella sua requisitoria l’assoluzione del Cavaliere.
Da questa circostanza, prima ancora che dalla sentenza, viene fuori in tutta la sua evidenza quello che la difesa di Berlusconi ha vanamente ripetuto per i dodici anni del Processo: lontano dall’ambiente politicizzato della Procura di Milano non sarebbe mai stato possibile trovare un solo Pubblico Ministero disposto a portare in giudizio le fantasiose accuse rivolte al Cavaliere.
Eppure, all’indomani dell’assoluzione, più che alla giustizia finalmente conseguita, la mente di Berlusconi e dei suoi difensori sarà certamente tornata sui torti che si sono susseguiti ai loro danni in questi dodici anni.
Quanto è realmente costato al leader di Forza Italia il processo SME?
Non bisogna dimenticare che da questa vicenda sono venute fuori decine di altre accuse per Berlusconi, con nuovi processi e con capi di imputazione a volte assurdi più che fantasiosi, che hanno trovato il loro vertice assoluto nel concorso in strage del 1998.
L’immagine del Cavaliere, per tutto questo tempo è stata offuscata a livello dia nazionale che internazionale.
Nemmeno la sentenza della Cassazione può mettere riparo ad anni di ingiustizia e, allo stesso modo, sarebbe del tutto vano attendere delle scuse da parte dei vari Violante, D’Alema o Di Pietro, che negli anni hanno continuamente strumentalizzato le sue vicende giudiziarie.
Per non parlare dei Pubblici Ministeri che gli hanno contestato dei reati mai commessi.
Il modo per porre veramente rimedio ai torti subiti sarebbe quello di trarre dall’assoluzione definitiva nuovo spunto per impegnarsi nel progetto di offrire agli italiani quella Giustizia serena ed equilibrata che Berlusconi ha sempre posto al centro del proprio impegno politico, senza però mai riuscire ad andare fino in fondo.
Il Capo dell’opposizione, tornando al Governo, dovrebbe cercare in sostanza di garantire agli italiani i diritti che a lui sono stati negati, in modo che la giustizia non possa più essere utilizzata come strumento persecutorio. (l'Occidentale)

Il Capo dei Capi e l'epica di sinistra. Valerio Fioravanti

Sei puntate sulla vita di Totò Riina. Ce le da Mediaset, società che certa sinistra accusa da tempo di essere, tra le varie cose, in odore di mafia. L’accusa non sembra delle meglio provate, ma deve aver comunque convinto i dirigenti ad affidare il tutto a gente di sinistra, così non si corrono rischi. E così autori e registi ci annunciano che il loro prodotto sarà diverso da tutti gli altri: “Abbiamo raccontato la mafia senza epica”. Senza epica. Strano, perché a leggere gli articoli, di epica sembra invece essercene molta: la strage di Portella della Ginestra, il sindacalista Placido Rizzotto ucciso perché unico avversario dei mafiosi, le bandiere rosse e i pugni chiusi, e Falcone e Borsellino che, come ormai accade sempre più spesso, vengono fatti diventare comunisti anche loro. Insomma, di eroi ce ne sono eccome in questo nuovo sceneggiato, e sono i comunisti. Solo loro hanno contrastato la mafia, tutti gli altri, se ne deve dedurre, erano collusi. Potrebbe anche essere una spiegazione, per carità, vallo a sapere se i siciliani sono davvero tutti mafiosi. L’unico difetto di questa teoria è che non spiega la camorra, che regna altrettanto potente e florida in una regione da sempre governata dalla sinistra, e non spiega la ‘ndrangheta, anche lei florida in zone di sinistra. Ma allora, perché insistono a darci versioni tanto retoriche e manichee, dove basta essere di sinistra per stare automaticamente dalla parte del bene, a basta non esserlo per stare automaticamente dalla parte del male? (l'Opinione)

giovedì 25 ottobre 2007

C'era una volta il pool antimafia. Palermo, i giudici cannibali. Attilio Bolzoni

Si sono divisi sui processi politici e scontrati su come fare le indagini. Si sono contesi l'eredità di Falcone. Inchiesta dopo inchiesta, si sono combattuti su tutto. Su Andreotti. Sui pentiti. Sulla caccia a Provenzano. Sulle "talpe" infilate nelle loro stanze. Prima hanno scatenato violentissime guerre in nome dell'antimafia e poi la loro antimafia l'hanno divorata. Quasi venticinque anni dopo è finita per sempre la storia del pool di Palermo. L'hanno sepolto antichi rancori, l'hanno sbranato tribù giudiziarie in perenne sfida. E ormai, di quell'idea e di quella struttura investigativa nata in un piccolo bunker del Palazzo di Giustizia mentre i mafiosi spadroneggiavano per la città, sono rimaste solo macerie. Resti di pool sui quali camminano giudici che si azzannano, che si fanno a pezzi fra loro. Sono giudici cannibali quelli di Palermo. Rappresentato dagli stessi abitanti del Palazzo di Giustizia come uno dei tanti conflitti originati da due "scuole di pensiero", il caso Palermo in realtà questa volta è il segno di un'avventura al suo epilogo: la conclusione di una stagione italiana nella lotta a Cosa Nostra.

Quelle di Palermo non sono soltanto dispute - come era accaduto anche più volte in passato - di natura tecnico giuridica o divergenze sul vaglio delle contiguità fra mafia e politica. È tutto più evidente e doloroso: è lo spegnimento, l'estinzione di un'esperienza che ha marcato un quarto di secolo.

È implosa la procura della Repubblica di Palermo. Dietro le polemiche, le risse, le comunicazioni a mezzo stampa per precisare pubblicamente "la linea dell'ufficio", c'è una devastazione mai conosciuta prima. Neanche ai tempi dei veleni e dei magistrati eccellenti sospettati di collusione. Gli effetti di questo disastro sono già visibili. Investigazioni rallentate. Processi pasticciati. Deleghe d'indagine sospese. Sostituti che nascondono carte ad altri sostituti, che non si salutano più, che dichiarano apertamente "il proprio odio" nei confronti di altri magistrati. Colleghi della porta accanto, blindati come loro, prigionieri delle stesse scorte e delle stesse paure.

Un pool pieno di nemici. Una parte accusa l'altra di "massimalismo" nelle investigazioni di mafia, il riferimento è alla gestione Caselli, ai suoi processi politici - quasi tutti persi - e allo schema operativo che si sta riproponendo ora con il nuovo procuratore capo Francesco Messineo. Sarà un caso, ma nei corridoi della procura di Palermo è ricominciato a circolare il nome di Silvio Berlusconi. L'altra parte accusa i fedelissimi di Pietro Grasso di avere creato un "centro di potere" nella direzione distrettuale, con indagini affidate a pochi. Di avere impedito la "circolarità" delle informazioni, mantenuto un "basso profilo" investigativo, concentrato energie quasi soltanto sul versante militare di Cosa Nostra. Trascurando la mafia economica e politica.

L'ultimo atto di questa lotta è la vicenda Cuffaro. Su come portare alla sbarra il governatore della Sicilia per le sue frequentazioni mafiose, sui reati da contestargli. Il caso è emblematico. Ma quali discordie e quali diverse "scuole di pensiero", i fatti che si sono susseguiti intorno all'inchiesta sull'imputato Totò Cuffaro rasentano la perversione giuridica. Oggi, a Palermo, contro il governatore ci sono due procedimenti fotocopia. Tutti e due con le stesse fonti di prova. Uno aperto il 26 giugno 2003, l'altro il 21 maggio del 2007. Il primo è approdato in dibattimento e - in sede di requisitoria - per lui sono stati chiesti 8 anni di reclusione per rivelazione di segreti e favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Il secondo ha prodotto l'iscrizione di Cuffaro nel registro degli indagati per gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, concorso in associazione mafiosa. Una procura lo sta già processando per un reato, un'altra procura lo vorrebbe processare per un altro reato. L'inchiesta però è sempre quella, non sono emersi altri indizi, non ci sono altre acquisizioni (un paio di deleghe e nulla più), non c'è un altro collaboratore di giustizia o un'altra intercettazione ad arricchire il quadro probatorio.

L'affaire Cuffaro è stato in sostanza soltanto il pretesto per l'ennesimo duello, il più rabbioso. Il governatore della Sicilia di fatto passerà alle cronache come l'imputato che ha dato il colpo finale alla credibilità dei procuratori di Palermo. Se ci sarà una data per ricordare la fine ufficiale del pool antimafia quella è proprio oggi: l'ottobre del 2007.

Più che una resa dei conti sta andando in scena una resa collettiva. Fra quel gruppo che faceva riferimento al procuratore Gian Carlo Caselli (i suoi fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Nico Gozzo, Gaetano Paci) e quegli altri che sono vicini al suo successore Pietro Grasso (Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino). Gli uni e gli altri sono consapevoli che, d'ora in avanti, alla procura della Repubblica di Palermo niente sarà più come prima. "Non c'è speranza", dicono tutti.

La ferita è profonda. Condiziona le strategie generali e l'attività quotidiana. Per esempio tutti aspettano con terrore il prossimo 12 dicembre la requisitoria al processo contro l'ex maresciallo dei carabinieri Antonio Borzacchelli, poi diventato deputato della Regione e arrestato per corruzione. L'atto di accusa è affidato a due sostituti che non si rivolgono più la parola. Ma è quell'ordinaria amministrazione che "ordinaria" non è mai stata a Palermo, che è influenzata e limitata dalle spaccature. Quando c'è un omicidio al confine fra una borgata e l'altra, il funzionario di polizia o l'ufficiale dei carabinieri che fa il sopralluogo entra in agitazione per capire chi è il referente in procura, l'aggiunto delegato a coordinare le attività investigative sui "mandamenti" mafiosi. Ce ne sono 7 di "aggiunti", tutti hanno il loro territorio, tutti vogliono in esclusiva la notizia criminis.

E subito, prima degli altri. "La stessa informazione sono costretto a girarla in una mattinata anche a cinque magistrati diversi", confessa un ufficiale di polizia giudiziaria che è da molti anni in Sicilia. La distribuzione di incarichi con la guida del procuratore Messineo si è rivelato uno "spezzatino antimafia" per accontentare tutti. Ne è derivato un disordine organizzativo e investigativo. Con un'aggravante: hanno isolato, messi da parte con la scusa della loro imminente uscita dalla direzione distrettuale per "scadenza", quei sostituti legati a Pietro Grasso come Prestipino e De Lucia che erano i titolari di quasi tutte le inchieste più importanti. Due magistrati con una capacità investigativa - di qualità e, particolare non trascurabile, di quantità - decisamente fuori dal comune.

La vera svolta, dichiarata e sbandierata, rispetto alla procura di Grasso è quella di "alzare il tiro". Un annuncio per rinnegare l'azione palermitana dell'attuale Superprocuratore nazionale, liquidata da alcuni addirittura come la fase più "oscura" della lotta alla mafia. Dall'altra sponda già tremano per la riproposta di vecchi "teoremi". E poi c'è un passato siciliano troppo pesante per poterlo dimenticare. I risentimenti covano sempre. Nel mirino dei sostituti che hanno riconquistato la procura con Messineo c'è - primo fra tutti - Giuseppe Pignatone, al quale si rinfaccia la sua ostilità Giovanni Falcone. È il magistrato che ha coordinato l'indagine sulla cattura di Provenzano e contemporaneamente l'indagine su Cuffaro. In tanti però lo ricordano sempre per quel suo peccato originale, lo considerano un "prudente". Sull'altro fronte si scandalizzano per inchieste ferme da più di un anno, per arresti che risalgono ancora ai "pizzini" di Provenzano o agli sviluppi di una retata del giugno del 2006. Un'apatia investigativa che avrebbe concesso già fin troppo tempo alle "famiglie" per riorganizzarsi.

Nell'antimafia di Palermo è muro contro muro. Un paio di giorni fa Messineo ha steso la bozza di un documento per provare a "pacificare" l'ufficio, l'ha fatta girare per sentire gli umori dei suoi sostituti. Quella bozza, qualcuno, l'ha già definita "indecente". Come era prevedibile, un altro tentativo di riconciliazione è finito ancora prima di diventare in qualche modo ufficiale.

È in questa tormentata procura che fra il gennaio e il giugno del 2008 se ne andranno per legge tutti e 7 gli "aggiunti". Si fanno già i nomi dei nuovi. Uno è quello di Girolamo Alberto Di Pisa, il magistrato accusato di essere il Corvo di Palermo. Fu assolto, naturalmente. Tornerà lui e torneranno altri in procura. Come negli anni prima del pool. (la Repubblica)

mercoledì 24 ottobre 2007

No al suicidio dell'italiano. Magdi Allam

Aiuto, stiamo «suicidando» la lingua italiana! Dalla pubblica amministrazione alla scuola, dalla sanità alla giustizia, dalla religione alla sicurezza, dal lavoro alla pubblicità, ci affanniamo a persuadere le menti e a conquistare gli animi degli immigrati comunicando con decine di idiomi diversi, mobilitando un esercito di mediatori linguistico-culturali, anziché chiedere ed esigere che siano degli ospiti— che accogliamo dando loro l'opportunità di migliorare la loro condizione di vita — a conoscere e a dialogare nella nostra lingua nazionale.

Oltretutto, se ci pensiamo bene, l'italiano è la certezza che ci è rimasta di un'identità collettiva vilipesa e tradita dal rischio di estinzione a causa delle conseguenze letali del morbo del multiculturalismo sul piano della perdita dei valori comuni e condivisi. In un mondo in cui siamo soltanto noi a parlarlo e che ci ha già declassato a idioma di serie B, se siamo noi stessi a relativizzarne il valore all'interno stesso dell'Italia mettendolo sullo stesso piano di decine di lingue straniere, la sua morte certa sarà ancora più precoce dell'inevitabile tracollo demografico di una popolazione autoctona a tasso di natalità zero. Non è una scoperta assoluta ma l'apparire sui tram milanesi della pubblicità della Kinder Ferrero in inglese, spagnolo e arabo ci costringe a una rinnovata riflessione.

Come interpretare il fatto che la parlamentare di An, Daniela Santanchè, decida di far pubblicare un manifesto a pagamento con una scritta in arabo che recita «Imparate l'italiano e sarete più sicuri dei vostri diritti, dei vostri doveri e del posto che vi spetta nella nostra Patria»? Perché in uno Stato che si rispetti un privato cittadino si accolla l'onere anche finanziario di esortare lo straniero a imparare la lingua nazionale? Non dovrebbe essere una prerogativa e un dovere del governo e delle istituzioni affermare la centralità dell'italiano? Evidentemente non è così visto che non solo non si ritiene che l'immigrato debba conoscere la nostra lingua, ma ci si rifiuta per ragioni ideologiche di prendere in considerazione tale ipotesi.

Tutt'al più si offre l'opportunità all'immigrato di imparare l'italiano, come è nei piani del ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, ma a condizione che sia lui a decidere se, quando e come accettare. E' stato il ministro dell'Interno Giuliano Amato, lo scorso 11 ottobre, a formalizzare il rifiuto del governo a chiedere all'immigrato di conoscere l'italiano. L'ha fatto con una battuta: «Se a mia zia fosse stato chiesto di recitare l'Oxford Dictionary quando sbarcò a Staten Island, probabilmente sarebbe stata respinta dagli Usa e rispedita in Sicilia a fare la fame perché, a quei tempi, lei e tanti altri emigranti parlavano a stento l'italiano». E questa è stata la sua conclusione: «Ciò che non hanno chiesto a mia zia non intendo chiederlo agli immigrati che arrivano in Italia». Il discorso di fondo è una esplicita opzione per una società multiculturalista in cui vengono relativizzate le identità, le culture, le religioni e le lingue.

In quell'occasione Amato ha presentato raggiante un opuscolo «In Italia in regola », tradotto in sette lingue straniere e stampato in un milione di copie. Iniziative simili sono state fatte da diversi ministeri che interagiscono con gli immigrati. Ebbene se lo Stato investe milioni di euro per tradurre le regole comuni e riuscire a comunicarle a chi risiede nello stesso spazio territoriale, significa che ha fallito in partenza perché non ha compreso che solo condividendo la lingua nazionale, in aggiunta ai valori e alla cultura, potrà iniziare il percorso per una costruttiva integrazione. L'investimento deve essere fatto non per rincorrere le lingue dei nostri ospiti,ma per vincolare l'ospite a conoscere la nostra lingua. Deve essere un obbligo, non un optional.

Non c'è poi da sorprenderci se al tradimento dell'italiano in patria si accompagna l'abbandono totale della sorte della lingua nazionale all'estero, concedendo spiccioli alla Società Dante Alighieri (solo 1,7 milioni di euro contro i 300 milioni del Goethe Institut) e assottigliando sempre più i finanziamenti agli istituti di cultura italiani nel mondo (17,5 milioni di euro nel 2006). Ecco perché è ridicolo che ci si scandalizzi se l'Unione Europea e le Nazioni Unite declassificano l'italiano. Ma se non ci crediamo noi stessi al valore della nostra lingua e l'abbiamo trasformata nel simbolo di un suicidio nazionale, perché dovrebbero riabilitarla e riesumarla gli stranieri? (Corriere della Sera)

martedì 23 ottobre 2007

A novembre scendiamo in piazza per mandare a casa la sinistra. Silvio Berlusconi

Pubblichiamo il testo della lettera inviata ieri da Silvio Berlusconi ai parlamentari di Forza Italia.

Cara amica, caro amico, Forza Italia è nata per difendere la libertà durante un'emergenza democratica che rischiò di consegnare a tempo indefinito l'Italia nelle mani della sinistra comunista. Da allora, grazie alla nostra presenza nelle istituzioni e nel Paese, molte cose sono cambiate: ma il ritorno delle sinistre al governo contro il volere della maggioranza degli elettori ha purtroppo riportato indietro di dieci anni l'orologio della politica e ha fatto riemergere una nuova, e forse più grave, emergenza democratica.
L'unico governo occidentale che annovera dei partiti che ancora, orgogliosamente, sono e si definiscono comunisti, sta trascinando l'Italia dentro un tunnel senza uscita, scavando un solco tra Palazzo e cittadini che rischia di divenire incolmabile. L'Unione tra i comunisti e la ex sinistra democristiana ha perpetuato l'antico patto di spartizione del potere nato sotto l'ombrello ideologico del cattocomunismo, riproponendo vecchi vizi e vecchie logiche politiche, con un governo che assomma impotenza ed arroganza e che blocca, come una pesante zavorra, lo sviluppo del Paese. L'Italia in mano alle sinistre sta collezionando una impressionante serie di record negativi, primi fra tutti la tassazione eccessiva e l'immigrazione senza controllo, che ha abbassato in misura inaccettabile il livello della sicurezza dei cittadini.
Gli italiani ne hanno abbastanza. Sono stanchi di assistere ogni giorno al desolante spettacolo dell'ingovernabilità assunta a sistema, sono stanchi di vendette sociali consumate sulla loro pelle, sono stanchi di un governo ostaggio dei diktat della sinistra estrema. Per questo è l'ora di voltare pagina e di recapitare l'avviso di sfratto al governo delle tasse, dei tesoretti estorti e dello sfascio politico e morale. Il compito di ogni responsabile forza di opposizione è di convogliare la rabbia che sale da tutto il Paese in manifestazioni democratiche, di dar voce al malcontento dei cittadini e di trasformare la protesta in proposta. Ti prego a tal fine di contattare tutti gli elettori e tutti gli iscritti di Forza Italia della tua città per una grande mobilitazione da organizzare per il 17 e 18 novembre attraverso gazebo, dibattiti, diffusione di volantini e altre iniziative per mettere al corrente più cittadini possibile del nostro impegno al fine di mandare a casa questa sinistra dannosa e pericolosa. Più grande sarà la mobilitazione in ogni angolo del Paese, più forte sarà la possibilità di tornare subito al voto per restituire la parola al popolo sovrano. (Ragionpolitica)

Quando la piazza dà i numeri. Filippo Ceccarelli

Chi vuoi essere milionario basta che ne annunci in piazza almeno mezzo mi­lione. Perché di lì a poco, nell'im­mancabile tripudio della folla-record, il raddoppio verrà evoca­to come l'abbagliante entità che unifica, ordina, stupisce e si rispecchia in se stessa. E infatti: «Siamo un milione!» si è sentito gridare sabato scorso dal palco di San Giovanni alla manifestazio­ne della sinistra radicale.

Ed è anche vero che questo è un tempo di naturale enfasi e macroscopiche bizzarrie: ma si ha (ancora) un'idea di che cos'è veramente un milione? Non per fare i pierini, gli scetticoni o i gua­stafeste, ma esiste qualche fondatissima ragione per ritenere che a San Giovanni l'altro giorno non erano più di 150 mila. Che sono anche tanti, diamine, ma non è questo il punto.

Il punto è che per quanto ri­guarda le cifre delle manifesta­zioni, sempre più spudorata­mente i partiti e i loro leader «ci marciano», nel senso che non so­lo danno i numeri, ma li sparano ogni volta più grossi; con il che la forchetta tra il dato reale e quello immaginario comprende di solito una tale massa di persone da poterci riempire una città assai popolosa, o altre sei o sette piaz­ze.

Va da sé che questa pregiudi­ziale esagerazione fanta-numerica viene messa in scena senza alcuna diversità di schieramen­to. Mezzo milione di presenze ha reso noto due settimane orsono An al Colosseo. Ma quando mai? Tutto lascia credere che fosse 70, al massimo 80 mila, e proprio a tenersi larghi. Come per la sini­stra radicale, anche nel caso di Alleanza nazionale la politica c'entra nulla: è un fatto di mate­matica, geometria, fisica dei soli­di.

Un tempo, si sa, c'erano le sti­me della questura: valutazioni istituzionalmente al ribasso che facevano da contrappeso e oggi si può dire: anche da calmiere, al trionfalismo algebrico degli or­ganizzatori. Ma da qualche tem­po, se non espressamente solle­citata, la Polizia se le tiene per sé. C'è da dire che alla questura di Roma il conteggio dei manifestanti è sempre stata un'arte ap­plicata con enorme dispiego di impegno e di forze. Nel 1973, sciopero generale dei lavoratori delle costruzioni, al giovane fun­zionario della Ps Carlo De Stefa­no l'allora leggendario capo della Digos Bonaventura Provenza e il questore (poi capo della Ps) Giuseppe Parlato richiesero di contare, letteralmente ed effettivamente, quanti manifestanti erano presenti a piazza San Gio­vanni. Era un'impresa immane e De Stefano dovette quindi esco­gitare un metodo che rese il futu­ro e attuale Direttore dell'Ucigos il maggior conoscitore delle piazze romane, vuote e piene, deserte o stracolme che siano.

Sistema empirico, ma fino a un certo punto. Si tratta di calcolare la metratura dello spazio e misurarne la densità. In ogni metro quadrato stanno in genere dalle tre alle quattro persone. Ma esistono diverse altre variabili: la posizione del palco (più o meno addossato alla basilica), la dislocazione della folla nelle vie late­rali, l'ampiezza e la velocità del corteo (tanto compatti quelli di un tempo quanto sfilacciati quelli odierni). A quest'ultimo ri­guardo il parametro di raffronto è il tempo di deflusso dello stadio Olimpico (80 mila posti) dopo una partita di grande rilievo. Questi elementi vanno fatti rea­gire con l'afflusso dei pullman (ogni pullman 50 persone) e dei treni straordinari (con 13 carroz­ze si va dalle 700 alle 900 presen­ze).

A Provenza e Parlato il giovane De Stefano, che in mancanza di elicotteri scrutava il tutto dal ter­razzino dell'edificio che contie­ne la Scala Santa, disse che quel giorno del lontano 1973 i partecipanti erano dagli 80 ai 90 mila. Il sindacato ne dichiarò 300 mila. L'esempio è interessante perché da allora consente di stabilire che piazza San Giovanni, stracolma, ospita al massimo 150 mila individui. E non due milio­ni, come proclamò Berlusconi nel dicembre 2006; né un milio­ne e mezzo, come annunciato dal palco durante il Family day del maggio scorso.

Piazza Navona contiene d'al­tra parte tra le 80 e le 90 mila per­sone; e piazza del Popolo a mala pena 60 mila. Il Circo Massimo è uno spazio molto più ampio, ma non riesce a ospitare più di 300 mila unità, a dispetto dei tre mi­lioni propagati dalla Cgil nella manifestazione contro il terrori­smo e le modifiche all'articolo 18 del marzo 2002. Fu quella certa­mente fra le più affollate manife­stazioni della storia repubblica­na. Eppure, rispetto ai criteri di comunicazione propagandisti­ca, per non dire bugiarda, ciò che più fa riflettere è che il coeffi­ciente di scostamento numerico è passato da uno a tre degli anni settanta a uno a dieci di oggi.

Per alcuni decenni, ha soste­nuto lo storico Mario Isnenghi, autore di Piazze d'Italia (Mondadori, 1989), «centomila persone è parso l'ideale». Difficile dire quando esattamente i politici hanno cominciato a farsi presti­giatori, novelli baroni di Munchausen, signori Bonaventura alla ricerca del milione, parteci­panti alla surreale «Gara Mon­diale di Matematica» raccontata da Cesare Zavattini. Certo un buon contributo al fenomeno deve averlo dato Bossi reclaman­do tre milioni di dimostranti nel 996 sulle rive del Po ; e altrettan­ti o forse più nel 1998 ai seggi del­le elezioni padane, quando a suo dire vennero mobilitati 25 mila gazebi. In realtà, calcolò il Vimi­nale, i tendoni furono 2.200, per giunta montati e rimontati nei vari paesi. E' probabile che a quel punto, per malintesa emulazio­ne, anche gli altri vollero sperimentare la «voluttà del numero che cresce» (Elias Canetti).

Ed eccoci così alla smilionante balla contabile normalizzata. Ci­fre asiatiche, cinesi; o forse cifre televisive. Metafore più o meno aggressive in alto e in basso. Co­munque irreali. Truccate e insie­me svergognate. Dopo tutto ci crede solo chi vuole crederci. (la Repubblica)

Il buco nero. Davide Giacalone

Nessuno, tranne i congiunti, conosceva Nonna Eleonora. Ora che è morta possiamo piangere l'ennesima vittima della malagiustizia, il rinnovato prototipo dell'italiano per bene che si vede svillaneggiato ed offeso nelle aule del tempo perso ed inutile. Nonna Eleonora aveva un appartamento, a Roma, e nel 1982 ottenne la prima sentenza di sfratto per liberarsi dell'inquilino che non pagava né canone né condominio. Ma, dopo 23 anni, è morta senza avere indietro quel che era suo. Già, perché in Italia non è mica sufficiente avere ragione e vincere una causa, è necessario curarsi anche dell'esecuzione, continuare a finanziare con i propri soldi lo Stato incapace di far rispettare se stesso, cercare un non gratis ufficiale giudiziario. E non basta nemmeno essere tenaci, perché poi arrivano le “proroghe degli sfratti”, che, in un colpo solo, rendono inutili i diritti dei cittadini, il diritto alla proprietà, ed anche il lavoro lentissimo ed esasperante delle toghe. Pace all'anima sua. Anzi, alle anime loro: quella di Nonna Eleonora e quella di una giustizia defunta. Nel secondo caso ammettendo per ipotesi che un'anima l'avesse.
A Foggia due pensionati hanno fatto causa all'Inps, chiedendo la rivalutazione della loro pensione. La prima udienza è stata fissata per il 2020. Poi si discuterà, si rinvierà, ci si appellerà. Diciamo che si potrebbe giungere a sentenza definita intorno al 2030. Ora, è vero che si va in pensione troppo giovani, che si dovrebbe lavorare più a lungo e non pesare troppo sulle spalle dei più giovani, ma qui s'eccede in ottimismo. Quei due saranno morti, sebbene camperanno assai più a lungo della giustizia italiana, già in stato avanzato di putrefazione.
Il presidente della corte d'appello di Milano, Giuseppe Grechi, andava sventolando un cartellino a suo dire scandaloso: la corte d'appello di Firenze aveva fissato la prima udienza di una causa civile al 15 febbraio del 2012. M'è sorto il dubbio che l'abbia colpito l'estrema vicinanza di quella data.Nel mentre questa è la realtà, c'è gente che ne vive fuori, navigando in un mondo delle favole. Siedono al governo e discettano d'inasprimenti delle pene, pugni duri e giri di vite, presentano pacchetti sicurezza da discutersi urgentemente. Ma da quali tribunali sarà mai amministrata la giustizia della quale straparlano? Ed ancor più originali sono dei loro colleghi che, invece, s'ammazzano di ridicolo e d'arroganza per cercare di fermare delle inchieste. Ma quando mai vanno avanti? L'unica cosa che si muove è lo scambio d'informazioni con i giornalisti, lo sputtanamento a mezzo stampa, il processo mediatico. Tutta roba dalla quale ci si difende bene finché si è in sella, mentre dopo scompare nel buco nero della malagiustizia. Del buco nero in sé non ci si occupa. Da lì, come si sa, non sfugge neanche la luce, l'attrazione gravitazionale è troppo forte. Secondo alcuni astrofisici, però, anche quelli non sono ermetici e qualche radiazione l'emanano. Confermo, e fa una puzza terribile.

lunedì 22 ottobre 2007

Un decalogo per sconfessare le bugie della sinistra sulla precarietà. Antonio Mambrino

Dopo che anche il Papa Benedetto XVI ha lanciato il suo grido di dolore contro la precarietà, emergenza etica e sociale del nostro tempo, noi sostenitori del libero mercato ci siamo sentiti un po’ smarriti. Se anche il Santo Padre ci abbandona, come possiamo sperare di riuscire ad arginare l’offensiva restauratrice di chi in nome di un malinteso “diritto al lavoro” rivendica regole che rischiano di soffocare l’economia e di impoverire la società?
In realtà, le cose non stanno così. Dalle parole del Papa non è affatto possibile trarre alcuna conseguenza a sostegno del movimento contro la precarietà allestito dalla sinistra radicale. Il Papa si è, infatti, limitato a sottolineare come una condizione di precarietà possa minare la stabilità e lo sviluppo di una società è un dato indiscutibile. Una considerazione quasi scontata che diventa tanto più vera se riferita a società avanzate che hanno raggiunto un elevato grado di benessere. Naturalmente – fatta questa ovvia constatazione – occorre interrogarsi cui caratteri che connotano lo stato di precarietà, sulle sue cause e sui possibili rimedi.
A tale preciso scopo, abbiamo provato a fissare un breve decalogo in materia che ci sembra utile per evitare che si consolidino gli equivoci ed i pregiudizi che sinora hanno caratterizzato il confronto politico sul tema.
1. L’incertezza del singolo scambio non necessariamente si traduce in incertezza di sistema. Le economie di mercato si sono storicamente affermate, consentendo alle società occidentali enormi progressi economici e sociali, proprio come strumenti per ridurre le incertezze negli scambi senza ricorrere a vincoli rigidi imposti dall’alto (ogni mattina non c’è nessuna certezza che io possa trovare il pane al mercato, ma come d’incanto, lo trovo. Mentre, nelle economie di piano vi è qualcuno obbligato a farmelo trovare ma, come di incanto, – dopo tre ore di fila – il pane è finito).
2. La stabilità del lavoro è un valore che deve essere riferito non al singolo rapporto di lavoro (a tempo indeterminato, con garanzia reale contro il licenziamento) ma alla condizione lavorativa del singolo, il quale deve avere la ragionevole certezza di trovare in tempi rapidi un nuovo lavoro quando il precedente venisse meno.
3. Per la particolare rilevanza sociale del bene “lavoro” è opportuno che il sistema appronti, per il periodo di transizione da un lavoro all’altro, degli strumenti a tutela di coloro che perdano in lavoro e si mettano a cercarne uno nuovo.
4. Il crescente ricorso a forme contrattuali flessibili è un tratto comune a tutte le società occidentali e deriva dal profondo mutamento dell’economia globalizzata, che ha registrato un enorme processo di velocizzazione degli scambi e richiede maggiore flessibilità nell’organizzazione delle attività di impresa. Le percentuali di lavoro flessibile del nostro Paese sono inferiori alle medie europee.
5. Dati alla mano, la legge Biagi (o come pudicamente la chiamano i suoi detrattori, la legge n. 30) non ha svolto alcun ruolo nella crescita del lavoro flessibile. La legge accanto ad alcune innovazioni poco utilizzate dalla pratica, ha modificato in senso restrittivo i vecchi co.co.co., sostituiti dai co.co.pro. (Innovazione che, ad esempio, ha consentito agli Ispettorati del lavoro di costringere alcune grandi imprese di call center di assumere gli operatori addetti alle telefonate in entrata.)
6. Separatamente occorre considerare il fenomeno del precariato nelle pubbliche amministrazioni (circa 500.000 persone) che nulla ha a che vedere con la legge Biagi ma deriva unicamente da una malintesa cultura privatistica nella riforma della burocrazia, dalle tentazioni clientelari della nostra classe politica e dalla rigidità nella gestione del personale pubblico dovuta anche allo strapotere sindacale.
7. Se nel nostro Paese vi sono fenomeni di utilizzo distorto della flessibilità ciò è dovuto essenzialmente alla rigidità delle tradizionali regole del diritto del lavoro, le quali hanno sostanzialmente determinato una frammentazione del mercato del lavoro in cui vi sono gli insider tutelati come in nessun altro Paese e gli outsider privi di tutela e sino a qualche tempo fa anche di rappresentanza sindacale. La scelta dell’imprenditore di ricorrere al lavoro flessibile è spesso motivata dall’esigenza di ridurre i rischi derivanti dalla tutela rafforzata del lavoro tradizionale.
8. L’unica strategia per aggredire il fenomeno e cercare di ridurre le distanza fra insider e outsider, facendo sì che la scelta dell’imprenditore sia motivata unicamente da ragioni di carattere imprenditoriale e non anche di arbitraggio normativo. La strategia opposta – irrigidire i vincoli costringendo gli imprenditori ad assumere a tempo indeterminato – avrebbe l’unico risultato di ridurre l’occupazione e favorire il lavoro nero (forma assoluta del precariato).
9. Occorre in particolare avere il coraggio di riproporre la questione del superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che fissa il principio della tutela “reale” contro i licenziamenti (ovvero la possibilità per il giudice di disporre il reintegro sul posto di lavoro) in favore di un sistema di tutela risarcitoria in caso di licenziamento, commisurata alla durata del rapporto di lavoro, in modo da superare l’attuale segmentazione del mercato del lavoro.
10. Parallelamente occorre dotare il sistema di un efficace rete di ammortizzatori (indennità di disoccupazione involontaria, incentivi al reinserimento ed alla formazione) dirottando una quota significativa delle risorse destinate alla spesa sociali che oggi sono in gran parte utilizzati per tenere in piedi un sistema pensionistico anacronistico, che consente il ritiro in età ancora attiva. Tale sistema danneggia i giovani due volte. Perché drena enormi risorse che potrebbero essere altrimenti destinate. Perché fa si che i pensionati ancora attivi siano dei formidabili concorrenti (semmai in nero) sul mercato del lavoro. (l'Occidentale)

Il giallo della strage di Bologna. Ecco le prove della pista araba. Gian Marco Chiocci

Il governo Prodi mente sulla strage di Bologna. Incalzato da due interrogazioni parlamentari di Enzo Raisi (An) l'Esecutivo ha dato, di fatto, la netta sensazione di voler aiutare un terrorista di sinistra tedesco a crearsi un alibi a posteriori per la bomba alla stazione del 2 agosto 1980. A scoprire il bluff governativo sulla presenza nel capoluogo emiliano di Thomas Kram, legato all'estremismo arabo del network terroristico di Carlos «lo Sciacallo», è stato un blog di sinistra, curato da Gabriele Paradisi (gabrieleparadisi.splinder.com) una sorta di poeta intellettuale bolognese che si è messo a spulciare minuziosamente le versioni ufficiali della procura rivelatesi piene di errori e contraddizioni. E così quando il sottosegretario Scotti, a nome del governo, ha risposto a Raisi sui motivi per cui non si era mai voluto indagare sulla presenza di un terrorista di quel calibro a Bologna il giorno della strage, sono stati i segugi del blog a smascherare reticenze e gravissime omissioni. La prima: il governo ha spiegato che Kram non poteva essere coinvolto nella strage perché aveva preso un treno in Germania l'1 agosto, ed era arrivato in Italia dopo la strage.

Il treno che non c’è

I blogger sono andati a consultare l'orario delle ferrovie europee di quell'anno, e hanno scoperto che il treno di cui parla il governo non esisteva, e che comunque quel treno non era quello citato nel rapporto di polizia, che invece datava il viaggio del Kram al 31 luglio, quindi in tempo utile per la strage del 2 agosto. Sbugiardato e messo all'angolo, il rappresentante del governo Prodi replicava che evidentemente si era trattato di un errore dovuto alla nota della procura che citava un altro treno... Purtroppo per Scotti, i soliti blogger nello scoprire che il sottosegretario citava treni impossibili, arrivano a ipotizzare che una strana coincidenza segnava la risposta ufficiale del governo italiano: sembrava ricalcare a pieno l'alibi che aveva fornito lo stesso Kram in una intervista al Manifesto dell'agosto scorso. Secondo il nostro governo, quello che diceva Thomas Kram era tutto vero. E siccome date e orari non tornavano, ecco che il governo sistemava le discrepanze. Kram, costituitosi in Germania dopo 26 anni di latitanza (iniziata, guarda caso, proprio il 2 agosto 1980) nell'intervista si giustificava dicendo di essere stato sì a Bologna, ma di aver notato, appena uscito dall'albergo, una certa confusione, e di aver preferito quindi non andare in stazione, ma andare in taxi a prendere una corriera per andare a Milano da una sua amica. I blogger hanno però scoperto che dal suo albergo era impossibile vedere la stazione ferroviaria, e poi la stazione delle corriere era proprio accanto a quella ferroviaria. Quanto alla supposta amica milanese di Kram, interrogata dalla Digos, ha smentito categoricamente di aver visto il tedesco in quei giorni.
A questo punto il sottosegretario Scotti, in palese difficoltà, replicava che le informazioni del governo provenivano direttamente dalla procura di Bologna, e che quindi eventuali imprecisioni andavano addebitate a loro. Ma aggiungeva, involontariamente, un dato clamoroso: «Il fascicolo relativo a Thomas Kram venne distrutto nel 1997 in seguito all'entrata in vigore dell'Accordo di Schengen», perché Kram a quel punto era solo un cittadino tedesco che aveva diritto alla sua privacy. Kram, però, non era un cittadino tedesco qualsiasi essendo ricercato nel mondo per una serie di attentati.

Lettera ai tedeschi

La storia «italiana» di Kram era iniziata nel 2003 quando il magistrato Lorenzo Matassa, consulente della commissione Mitrokin, assieme ad un altro consulente, Gian Paolo Pelizzaro, arrivano in ritardo ad un appuntamento per consultare gli archivi della polizia a Bologna. In questura i consulenti trovano solo il piantone che, preso alla sprovvista, li accompagna negli archivi lasciandoli liberi di guardarsi attorno. I due notano una cartella intitolata «T Kram». Il nome non era del tutto nuovo, visto che il giudice istruttore francese Jean-Louis Bruguière lo aveva inserito tra i costitutori di un gruppo terrorista filopalestinese facente capo a Carlos lo sciacallo. Aperta la cartella, vi trovarono dentro una lettera firmata dall'allora capo della Polizia Gianni De Gennaro, datata 8 marzo 2001, indirizzata alla magistratura tedesca. Su Thomas Kram, De Gennaro scriveva: «Risulta essere arrivato a Bologna l'1 agosto 1980, aver preso alloggio presso l'Albergo Centrale, stanza 21, ed essere ripartito il 2 agosto». De Gennaro stabiliva che la copia venisse trasmessa anche alla Procura di Bologna, per verificare eventuali collegamenti con la strage. Nella risposta ai colleghi tedeschi, elencava una serie di segnalazioni provenienti dalla Germania tra il 1979 e il 1980 perché gli italiani «tenessero d'occhio» quel Thomas Kram, portaordini del terrorismo filopalestinese. E De Gennaro aggiungeva che Thomas Kram era stato individuato al momento del suo ingresso in Italia via treno il 31 luglio 1980, pedinato, fermato, perquisito e rilasciato.

Compagno a Bologna

Un dettaglio singolare perché proprio di un «compagno» aveva parlato pochi mesi prima Carlos in una intervista rilasciata dal carcere francese. «Un nostro compagno si accorse di essere pedinato, uscì dalla stazione di Bologna di corsa, e pochi istanti dopo ci fu l'esplosione». Carlos e De Gennaro dicevano la stessa cosa: quel giorno, a Bologna, alla stazione, c'era un «compagno». E infine. Anziché accanirsi ossessivamente sui «fascisti» Mambro e Fioravanti la procura di Bologna forse avrebbe potuto scandagliare di più sul fronte arabo anche perché, Kram a parte, tre settimane prima del 2 agosto 1980 l'allora prefetto Gaspare De Francisci, capo dell'Antiterrorismo lancia l'allarme sulle possibili ritorsioni ai danni dell'Italia da parte del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) che faceva pressioni per ottenere la liberazione di Abu Anzeh Saleh, rappresentante del Fronte in Italia detenuto nel carcere di Trani. Contestualmente la magistratura francese scopre, fra le carte di Mourkabal Michel Walib, braccio destro di Carlos, un indirizzo di Bologna («via S.Pio V 13, secondo piano a sinistra») e una parola d'ordine per accedere in un appartamento con granate, dinamite, detonatori, congegni a tempo. A quell'indirizzo corrisponde proprio il covo bolognese di Abu Saleh. Ce n'era abbastanza per indagare anche sul fronte arabo. Ma la strage doveva essere fascista, e fascista è passata in giudicato. (il Giornale)

domenica 21 ottobre 2007

I vandali rossi della fontana? Veri artisti. Vittorio Sgarbi

A sentirne parlare, nel pomeriggio di ieri, la reazione fu di immediata simpatia per l’autore del gesto, non conoscendone l’entità, e valutandone il carattere di burla senza danni per il monumento. Così le mie dichiarazioni alle agenzie furono sdrammatizzanti e paradossali rispetto alla dominante «verde» che, indignata, esecrava. Ma a vederla, a vederla oggi nelle fotografie sui giornali! Quale rinnovato divertimento che le parole non possono descrivere! Quell’effetto di gazpacho, di zuppa di pomodoro fredda nel piatto settecentesco, e il felice contrasto con il bianco del prospetto e delle sculture. Da ringraziare, e da conservarla così per qualche tempo e invece la smodata reazione del nuovo segretario del Partito democratico, le parole pronunciate con tono grave e voce bassa: «Quanto è accaduto oggi alla fontana di Trevi è stato davvero molto grave. È un’offesa a Roma per fortuna senza gravi conseguenze. C’è gente che non perde occasione per dimostrare di voler male alla città».Fatico a capire. Dov’è il male; quali sono le conseguenze, se non gravi; e perché davvero. In quel «davvero» c’è tutto Veltroni. Come può un gesto divertente offendere la città? D’altra parte non doveva essere «davvero» così grave se nel resoconto del vicecapo gabinetto del sindaco, Luca Odevaine, si dice che, già alle 22, «a tempo di record, la fontana era completamente ripulita». Si può discutere la quantità di valore estetico del divertimento, ma non si può discutere che il gesto si sia fermato nel più autentico spirito dell’avanguardia. E non si capisce perché le baggianate di Maurizio Cattelan o, prima, gli impacchettamenti di Christo abbiano avuto ammiratori deliranti e critici assolutamente favorevoli. Così come i concerti al Colosseo e tutte le imprese Son et lumière che hanno illustrato Roma e i suoi monumenti per maggior gloria del sindaco. E perché Veltroni invece di preoccuparsi della grave offesa di un gesto innocuo non si è pronunciato sull’immondo ascensore che svetta dietro il Vittoriano?
La ragione potrebbe essere nel fatto che l’ignoto, e forse presto riconosciuto autore della coloritura, ha agito nell’illegalità senza essere autorizzato come l’architetto Richard Meier che ha stuprato l’Ara Pacis o i due vandali che hanno «sistemato» piazza San Cosimato. Quelli sono stati benedetti da Veltroni. Ma intanto per qualche ora la fontana di Trevi si è rivista con la stessa emozione di quando vi si bagnò Anita Ekberg. Un ritorno della Dolce Vita. Ma anche, per Veltroni un richiamo a quel rosso da cui si è voluto allontanare. Lui che non è mai stato comunista. (il Giornale)

sabato 20 ottobre 2007

In piazza la sinistra reazionaria contro la sinistra conservatrice. Benedetto Della Vedova

Oggi scende in piazza quella che Ernesto Rossi chiamava sinistra reazionaria, contro una sinistra che si definisce “riformista” e che invece è strenuamente conservatrice. Per essere chiari, scende il piazza la sinistra “delle pensioni di anzianità a 57 anni” contro quella “delle pensioni di anzianità a 58 anni”, quella che spenderebbe 30 o 40 miliardi per arrestare il corso delle riforme, contro quella che si limita a spenderne 10 per rallentarlo.
Oggi è il giorno di dire tre piccole verità.
La prima è che il tabù della sinistra, la Legge Biagi, ha aiutato milioni di lavoratori italiani tra i più deboli - giovani, donne e meridionali – a sottrarsi alla disoccupazione e al lavoro nero.
La seconda è che le riforme su pensioni e mercato del lavoro sono state realizzate dal governo Berlusconi e manomesse o smontate dal governo Prodi, anche se, per paradosso, oggi le piazze massimaliste accrediteranno a Prodi e alla sua maggioranza un immeritato profilo riformista.
La terza è che il totem delle piazze rosse – l’articolo 18 – è una delle cause principali di quella che loro chiamano precarietà. Il resto è propaganda. (Riformatori Liberali)

La forza di un percorso comune. Gianteo Bordero

Sembra un paradosso, eppure c'è una motivazione profonda alla base del consenso di buona parte dell'elettorato cattolico nei confronti di un partito laico come Forza Italia, nato nel ‘94 per «superare» la forma del partito confessionale che tanta fortuna ebbe nella prima Repubblica. Una motivazione che serve, oggi, anche per legittimare la posizione di coloro che, giustamente, si oppongono alla nascita di una corrente cattolica, strutturata e ben riconoscibile, all'interno del soggetto politico fondato da Silvio Berlusconi. Il punto è questo: Forza Italia è riuscita, grazie alla sua leadership carismatica, a radunare sotto un medesimo tetto laici e credenti, e lo ha potuto fare perché i suoi valori fondanti, la sua anima, fanno parte del patrimonio costante della nostra civiltà e, in particolare, del nostro Paese. Non solo: oltre al dato storico, c'è un dato oggettivo per cui determinati principi, che di solito vengono etichettati dalla vulgata culturalmente corretta come esclusivamente «cristiani», appartengono in realtà alla natura stessa, all'essere stesso (all'ontologia, potremmo dire usando un termine filosofico) dell'uomo.

Lo ha ricordato Claudio Scajola rispondendo su «Libero» ad un articolo di Renato Farina: «Questi valori - l'attuale presidente del Copaco cita, tra gli altri, la sacralità della vita, la centralità della persona, la tutela della famiglia - sono fatti propri da tutti, cattolici e laici, in Forza Italia (e complessivamente nella Casa della Libertà). La grandezza di Silvio Berlusconi sta anche proprio nell'essere riuscito a raccogliere intorno a questi principi persone che vengono da famiglie politiche diverse». Senza questo connubio tra laici e credenti, fondato sul comune denominatore della ragione aperta al vero così come essa ha preso forma nella storia occidentale, Forza Italia non avrebbe ottenuto il successo che invece ha ottenuto, non sarebbe diventata il punto di riferimento di quasi un italiano su tre, non sarebbe stata il motore di una nuova politica, post-ideologica ma non per questo priva di idee e di ideali. Soprattutto, non avrebbe potuto mettere in campo una serie di provvedimenti di tutela dei suddetti valori, come, ad esempio, una buona legge sulla fecondazione assistita che ha pure resistito all'assalto di un referendum abrogativo fortemente sostenuto da tutti i grandi mezzi informazione del nostro Paese.

Se un partito confessionale come la Dc non fu in grado, talvolta, di difendere fino in fondo la vita e la famiglia, ciò è invece potuto accadere con un partito laico come Forza Italia. Per questo, come sottolinea ancora Scajola, non c'è bisogno di alcuna corrente. Non c'è bisogno di una costola cattolica, che, scrive Farina, «diventerebbe solo una lobby macina-poltrone». Una lobby, dunque, che per ciò stesso svilirebbe la mission politica di Forza Italia, la snaturerebbe e, inoltre, farebbe calare in maniera significativa il suo appeal nell'elettorato, dal momento che già esistono, nel panorama politico nazionale, altri soggetti che si richiamano più o meno esplicitamente al cattolicesimo.

Il voto cattolico a Forza Italia è un voto popolare, non è il voto delle élites intellettuali o dei circoli clericali, da tempo simpatetici, anche nel linguaggio, alla sinistra. E' popolare perché Berlusconi e il suo partito hanno saputo toccare le corde più profonde del sentimento del credente, il quale chiede innanzitutto, ben prima che una politica «confessionale», una politica «umana», che recuperi e metta al centro della sua azione il «bene comune» e la «libertà del cristiano», li preservi dall'invadenza statalista e dal sottile ma pervasivo dominio dei poteri non eletti. Forza Italia è nata come - ed è tuttora - il partito della libertà e del bene comune. Per questo i cattolici la votano e chiedono ad essa di mantenere intatta la sua carica ideale, la sua ragion d'essere, il suo istinto sanamente popolare e nazionale di là da ogni rivendicazione «di parte», che lascia il tempo che trova. E per questo una corrente cattolica rigetterebbe indietro le lancette dell'orologio, e lo farebbe nel tempo in cui il papato di Benedetto XVI invita laici e credenti a confrontarsi e a camminare insieme sul comune terreno del «logos», della ragione prima ancora che della fede. (Ragionpolitica)

"Non salvateci più"- Anche gli africani l'hanno capito. Francesco Borgonuovo

Intellettuali ed economisti criticano la politica dell'elemosina: «Così non ci sarà mai sviluppo vero».

Per farla ancora più impressionante, provate a tradurre la cifra in lire: il risultato finale occupa tutto lo schermo della calcolatrice. 23.000 miliardi di dollari sono i soldi che i Paesi occidentali hanno versato negli ultimi cinquant'anni a beneficio dell'Africa e di altri stati del famigerato Terzo mondo. Migliala di miliardi sprecati, non ci vuole un economista per capirlo. Nonostante i rubinetti del «nord del mondo» siano costantemente aperti e riversino cascate di denaro sui governi delle zone povere del pianeta, la velocità dei progressi in campo economico e di qualità della vita in Africa si misura nell'ordine di ere geologiche.

Sono gli africani stessi a dirlo: cari bianchi, basta con gli aiuti, ci fanno solo del male. Mentre Madonna scorrazza per il Malawi e Angelina Jolie accarezza i faccini smunti di bambini nel profondo del continente nero, gli abitanti di quei luoghi si sono stancati del loro «umanitarismo sexy». Uzodinma Iweala, classe 1982, professione scrittore (in Italia è uscito l'anno scorso il suo "Bestie senza una patria" Einaudi pp. 130, euro 9,5) l'ha scritto senza mezzi termini addirittura su Repubblica, non più tardi di quest'estate: «Caro Occidente, smetti di salvare rAfrica».

Bono, Bob Geldof e Madonna: i profeti della pietà

«L'Africa non vuol essere salvata» ha spiegato. «Ciò che l'Africa chiede al mondo è il riconoscimento della sua capacità di avviare una crescita senza precedenti, sulla base di un vero e leale partenariato con gli altri membri della comunità globale». Un concetto chiarissimo, che però dalle nostre partì fatichiamo a capire, presi come siamo dalla cultura dell'umanitarismo pietoso, la quale fa presto a trasformarsi in compassione un tanto al chilo.

Il leader degli U2 Bonovox, l'organizzatore del Live Eight Bob Geldof, l'economista fabbricante di ricette contro la povertà Jeffrey Sachs, Naomi Klein, lo scrittore Bave Eggers e le sue struggenti storie di bambini soldato: c'è bisogno di elencarli di nuovo, i profeti del bla bla bla terzomondista? Campeggiano sugli schermi tivù e ci chiedono un sms al costo di un euro per salvare il Burundi, l'acquisto di un cd a 9,9 per pacificare il Darfur, un obolo nella lattina per pagare un pranzo a un disperato del Ghana, tanto per sparare nel mucchio.

Eppure - spiega l'economista William Easterly, che dopo un passato alla Banca mondiale si è dedicato alla pratica del sostengo umanitario in Africa - con tutto questo denaro non riusciamo neppure a pagare ai Paesi poveri medicine che costano pochi euro a scatola.

Con la connessione a Internet, ma senza strade e medicine

Le strategie di aiuto pianificato, sostiene nel suo nuovo saggio "I disastri dell'uomo bianco. Perché gli aiuti dell'Occidente al resto del mondo hanno fatto più male che bene" (Bruno Mondadori, pp. 437, euro 34),sono piovuti dal cielo senza conoscenza delle esigenze reali e hanno prodotto soltanto dei mostri.

Qualche esempio? In Tanzania è facilissimo prenotare online un volo per gli Stati Uniti, ma è spesso impossibile percorrere cinque chilometri in auto perché mancano le strade. Oppure: si spendono 1500 dollari all'anno per garantire a un africano farmaci retrovirali contro l'Aids, che aumenteranno di un anno la sua aspettativa di vita. E Intanto i suoi compatrioti continuano a morire come mosche per malattie come il morbillo o la diarrea.

«Non bisogna cadere nel tranello di pensare che la quantità dell'aiuto risolva il problema della cooperazione di un paese» ha spiegato qualche tempo fa in un'intervista alla rivista "Nigrizia" Biagio Bossone, direttore esecutivo della Banca Mondiale per l'Italia (non certo un esponente del "capitalismo assassino").

«Quando la comunità internazionale era più generosa, vedi gli anni '60, arrivava a dare anche lo 0,50% (del Pii, ndr)» ha detto «ma queste risorse venivano spesso utilizzate per fini politici. È lì che è nato il seme del debito, che tanto angustia ancora oggi i paesi del sud del mondo. Il tema è quello dell'efficacia degli aiuti e non solo della quantità».

Non è solo una questione di soldi, ci sono anche scogli culturali. Lo strumento degli aiuti - lo sostengono da decenni perfino gli esponenti dell'ultrasinistra, i filosofi e scrittori neri dell'esperienza "Black Atlantic", i fautori del black power e i seguaci del postcolonialismo come il regista Spike Lee o il saggista Paul Gilroy - è un fallimento colossale e per di più è umiliante.

L'Africa può farcela da sola, non ha bisogno dell'elemosina. Può crescere a modo suo, inserita in un mercato globale, ma con le proprie regole, secondo le sue vere necessità. E poi se non conviene buttare cinquanta centesimi nel cappello del lavavetri al semaforo, non si capisce perché dovrebbe servire a qualcosa versare miliardi di dollari in quello di un capo di Stato militare. Anche se vive al di sotto dell'Equatore. (Libero)

venerdì 19 ottobre 2007

Indietro, miei Prodi! Luigi De Marchi

Un recente numero di “Panorama” pubblica i risultati a dir poco sconfortanti di un sondaggio che la rivista stessa ha commissionato all’Unità di Indagini Demoscopiche della Camera di Commercio di Milano per esplorare le aspirazioni professionali di 840 giovani residenti nella capitale lombarda nonché a Roma e Napoli.
Ebbene, una maggioranza degli intervistati (34,3 % ) dichiara di aspirare a lavorare in un ente pubblico, mentre una quota di poco inferiore (33,3 %) dichiara di preferire una grande azienda e una quota del 18,6 %) dichiara di volere il posto in banca.

Certo, a Milano la preferenza per l’azienda privata è maggiore rispetto a quella per l’ente pubblico ( un 35 % contro un 27 %), ma a Roma le due percentuali sono identiche e a Napoli stravince l’aspirazione al posto pubblico con quasi il 42 % degli intervistati. E tutto questo ci conferma, in contrasto col ben noto vittimismo di tanti meridionali, che l’inerzia del Sud non è soltanto un’invenzione di Bossi.L’indagine di “Panorama”, comunque, ha due aspetti particolarmente deprimenti. In primo luogo essa segnala un pericoloso regresso rispetto ad un’analoga indagine condotta da “Repubblica” nel 2003 e da me fortemente segnalata in uno di questi miei interventi intitolato, non a caso, “Un popolo liberale soffocato da dirigenze stataliste”.

In quell’intervento potevo proclamare con grande soddisfazione che l’indagine di “Repubblica” confermava le inclinazioni liberali e liberiste nella maggior parte dei giovani e, al tempo stesso, la totale indifferenza, anzi il totale disprezzo, della nostra classe politica per quelle inclinazioni.Anzitutto, infatti, l’indagine segnalava che una forte maggioranza di italiani (62 %) erano dispostissimi a praticare orari di lavoro flessibili, mentre solo il 38 % chiedevano orari fissi e prestabiliti, come pretendono i sindacati di regime.
Ma il dato davvero impressionante del sondaggio emergeva dalle risposte alla domanda: “Se potesse scegliere il suo lavoro, quale sceglierebbe?”. Ebbene, una cospicua maggioranza (quasi il 57 %) aveva dichiarato di preferire o un lavoro autonomo (32,5 %) o una libera professione (24,5 %) mentre un altro 20 % circa aveva dichiarato di aspirare a lavorare in un’impresa privata. Insomma da quella inchiesta risultava che tre italiani su quattro preferivano lavorare nel settore privato. E per di più i picchi dell’aspirazione al lavoro autonomo o libero-professionale erano stati riscontrati tra i giovani tra i 25 e i 24 anni (63 %) o tra gli adulti dai 35 ai 55 anni (58 %) mentre i minimi di questo orientamento (46 %) erano stati rilevati tra gli anziani tra i 65 anni o più.

Ecco però che a soli 4 anni di distanza, stando al sondaggio di “Panorama”, gli orientamenti degli italiani sembrano profondamente cambiati. E’ difficile sottrarsi alla conclusione che questo deprimente cambiamento, questa crescente aspirazione degli italiani a una vita di burocrati non derivi in larga misura dal trattamento persecutorio e intimidatorio che certi esponenti del Governo Prodi hanno riservato proprio ai lavoratori autonomi e ai liberi professionisti. Come ho gia avuto modo di sottolineare, si tratta di una denigrazione doppiamente inaccettabile da parte di forze stataliste che, mentre denunciano indignate la presunta evasione fiscale dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti, non dicono una parola e non muovono un dito contro la sistematica rapina dei lavoratori dipendenti e indipendenti del privato condotta per mantenere nell’ozio, nel parassitismo e nel privilegio se stesse e milioni di dipendenti pubblici.
L’altro aspetto deprimente delle due indagini è che rivela la totale ottusità dei grandi giornali di destra e di sinistra dinanzi alla sostanza di questi problemi. Infatti, a segnalare la preferenza dei giovani del 2003 per il lavoro privato era l’organo magno del potere statalista, “Repubblica”, mentre a segnalare qualche settimana fa lo slittamento delle aspirazioni giovanili verso l’impiego pubblico è stato “Panorama”, cioè il principale settimanale del Centro-Destra. Inoltre né “Repubblica” né “Panorama” hanno minimamente compreso il grande valore politico di questo slittamento: evidentemente per le due redazioni si tratta solo di fatti statistici marginali.

Infine, l’inchiesta di “Panorama” rivela che ormai il 58 % dei giovani dichiara di apprezzare, nell’impiego pubblico, soprattutto la sicurezza. Come però ho ampiamente dimostrato con le mie ricerche psico-politiche, il Burocrate è appunto un individuo che privilegia la sicurezza sopra ogni altra cosa, proprio perché è intimamente insicuro, così come privilegia l’autorità delegata dall’alto proprio perché non ha fiducia nella propria capacità di conquistare autorevolezza con le sue qualità personali. Viceversa chi si orienta verso il lavoro autonomo e libero-professionale privilegia soprattutto la sua indipendenza personale ed ha fiducia nella sua capacità di affrontare la vita e la competizione camminando sulle proprie gambe. Purtroppo, il clima persecutorio e denigratorio promosso negli ultimi tempi nei confronti del lavoro autonomo sembra aver scoraggiato nei giovani l’aspirazione all’indipendenza e la fiducia in se stessi: un risultato a dir poco preoccupante in un paese che dissipa già i tre quarti del gettito fiscale nella retribuzione di burocrati in gran parte inutili e che sembra aver dimenticato che i soldi per mantenere queste burocrazie sterminate e parassitarie sono prelevati dalle tasche di chi lavora nel privato. (il Blog del Solista)

Una lezione per l'Italia (e per il centrodestra). Paolo Del Debbio

Ieri un bel po’ di lavoratori francesi hanno scioperato contro Sarkozy. Il presidente Sarkozy non si è fermato e non si ferma perché pensa che le sue riforme facciano il bene dei francesi. Anche di quelli che hanno scioperato. Avant?
Contro cosa hanno scioperato? Il presidente vuole superare gli attuali regimi speciali pensionistici che riguardano molti del settore pubblico. In particolare vuole portare da 37,5 a 40 gli anni di contributi necessari per andare in pensione. Siccome in pochi cominciano a lavorare prima dei vent’anni, tutto questo vuol dire che in Francia si andrà in pensione dai sessant’anni in poi. Altro che scalone e scalini.
Vi immaginate, in Italia, un presidente che propone una cosa e la porta avanti nonostante tutto e tutti? Per noi è come parlare di un altro mondo. Il nostro governo ha la stessa vivacità di un serpente chiuso in un rettilario. L’avete presente? Lo infastidisce il movimento. Più sta fermo, meno fa e più dura. Ricordate quando il centrodestra fece la riforma del lavoro che portava il nome di Biagi? Biagi non c’è più. Lo ammazzarono perché aveva ispirato quella riforma.
Nicolas Sarkozy procede in modo spedito perché ha i poteri per farlo. Il centrodestra provò a dare questi poteri al premier con una riforma, ma il referendum lo bocciò perché la sinistra non volle farla. La sinistra non ha bisogno di un premier forte, ha bisogno di una colla forte, una sorta di Attack per parlamentari che li tenga incollati da una parte alla sedia e dall’altra a Prodi.
Nicolas Sarkozy procede spedito anche perché ha un progetto chiaro e sa che vuole portare la Francia al di là del fiume su una sponda sicura. Per questo non è intimorito dal guado. Conta che i francesi capiscano, magari non subito, che quello che sta per fare sarà fatto nell’interesse della totalità dei francesi e non di questa o di quella categoria. In Italia il nostro professor Prodi parla spessissimo di bene comune. Fino al disgusto. E poi si occupa solo del bene di questo o di quello, che, alla fine, gli fanno più comodo del bene comune. Ma questo è il centrosinistra e, ormai lo sappiamo, non potrà mai seguire la lezione di Sarkozy. Del resto dopo l’elezione si sono accodati, ma avrebbero preferito che vincesse la Royale.
Può servire la lezione Sarkozy al centrodestra? Pensiamo proprio di sì, per due motivi: il primo, sul quale al momento il centrodestra non sta lavorando, è quello della costruzione di un programma chiaro, corto e preciso; il secondo è che bisognerebbe che imparasse a fidarsi un po’ di più del blocco sociale che lo sostiene, che è maggioritario, e si occupasse un po’ meno dei mormorii, borbottii e urla della piazza. Nella piazza non ci stanno tutti gli italiani, ce n’è solo una parte, gli altri stanno a casa e memorizzano tutti gli errori commessi da Prodi. (il Giornale)

giovedì 18 ottobre 2007

Con W, alla Cdl serve un'idea di fresco conio. Per esempio la flat tax. Daniele Capezzone

Non troppo tempo fa, in occasione del lancio di non so più quale romanzo di Walter Veltroni, una nota scrittrice, in una indimenticabile - chiamiamola così recensione, non ebbe remore né scrupoli, e fece i nomi di Pirandello e Musil: anche il Corriere della Sera non ebbe remore né scrupoli, e pubblicò tutto in bella evidenza. Figurarsi se, dopo le primarie di domenica scorsa, qualcuno avrà remore o scrupoli, ed eviterà di fare i nomi di Blair o di Sarkozy. Fuor di scherzo, dopo l`indubbio successo numerico delle primarie di domenica, non occorre troppa fantasia per comprendere quale sarà la strategia di Veltroni: creare, sia pure in modo (apparentemente) morbido, una nettissima cesura di immagine rispetto all`era Prodi. Alimentare la convinzione che vi sia un "prima" e un "dopo", e che il "dopo" non abbia nulla a che vedere con i diciassette mesi diciassette di uno dei governi più screditati della storia della Repubblica. Invano, quindi, si chiederà conto a Veltroni delle attività o dei misfatti del governo: Veltroni agirà tamquam Prodi non esset, come - cioè - se vi fosse una sorta di estraneità tra il Partito democratico e la vecchia compagine governativa. Si pensi al pasticciaccio del welfare: in questi giorni, Veltroni è riuscito a non pronunziare una sola parola sull`argomento. Il resto del compito sarà affidato alle "recensioni". Gli editorialisti "giusti" sapranno ogni giorno cogliere le sgrammaticature e gli svarioni di Prodi (che, effettivamente, si fanno sempre più imbarazzanti: e solo qualche "ultimo - o penultimo - giapponese" sembra non accorgersene), e contemporaneamente sapranno illuminare i tratti innovativi, perfino di rupture, della NFV (Nuova Fase Veltroniana). Veltroni stesso alimenterà questo corso delle cose: e - credo - si permetterà molto presto il lusso di qualche intervento assai meno vago, fumoso ed evasivo, rispetto a quanto detto finora (peraltro, se venisse qualche proposta interessante, sarebbe un bene per tutti, ovviamente). E comunque, alla luce di tutto questo, c`è da scommettere su una consistente crescita, anche nei sondaggi. del Pd. Aggiungiamo che pezzi consistenti dell`establishment italiano, a propria volta convintisi dell`impresentabilità del governo Prodi, sono entrati nell`ordine di idee di liquidarlo. Ma, nello stesso tempo, mossi da un`incancellabile ostilità nei confronti di Silvio Berlusconi, sono pronti a tutto pur di evitare elezioni subito, e spingono per un governicchio destinato a durare più di qualche mese. Dopo di che - è la loro speranza, ma anche il loro obiettivo -, passato almeno un annetto, Berlusconi potrebbe essere meno avvantaggiato di oggi, Veltroni sarebbe certamente cresciuto in immagine e nei numeri, e - allora - potrebbe nascere una "cosa nuova", più o meno da presentare come liberale e riformatrice, pronta ad allearsi con Veltroni, in nome del "nuovo conio", e allo scopo di scongiurare il ritorno dell`odiato Cavaliere a Palazzo Chigi. E` per questo che il centrodestra, a mio avviso, farebbe bene a non sottovalutare gli eventi in corso. Ed è per questo che non dovrebbe soltanto adagiarsi sulla pessima prova di governo dell`attuale centrosinistra, ma avrebbe il dovere di mettere in campo alcune idee forza, alcuni obiettivi concreti, qualcosa che possa ricreare un “mainstream". Proprio Blair e Sarkozy ci hanno insegnato che il punto non è scegliere una "collocazione" centrale o centrista nella cartografia politica, quanto piuttosto definire un`agenda, stabilire di cosa parlare (e su cosa far parlare gli avversari), scegliere il terreno lessicale e contenutistico di gioco. Nel nostro piccolo, noi di Decidere.net abbiamo offerto a tutti 13 questioni concrete, a partire da una rivoluzione fiscale possibile: il passaggio in cinque anni a una fiat tax del 20 per cento. E abbiamo già chiarito, con cifre e dati, che questo obiettivo apparentemente irraggiungibile è - invece - lì, a portata di mano. Ciascuno comprende cosa significherebbe affrontare una campagna elettorale con un simile elemento di forza dalla propria parte. Ma anche al di là delle nostre proposte, resta - per tutti - l`esigenza di non "attendere", di mettere in campo progetti convincenti (e coinvolgenti!) di trasformazione dell`esistente. Nel `94 Berlusconi sconfisse la "gioiosa macchina da guerra" perché seppe creare una situazione nella quale a lui poteva essere assegnata la patente di "nuovo" e di "riformatore", e agli altri quella di "conservatori". Occhio: perché la "gioiosa macchina da guerra" si sta ricostituendo, e - stavolta - il pilota, abile come pochi altri, sta anche cercando di procurarsi la patente "giusta". (il Foglio)

La città è più vivibile se il tuo vicino non si lava? Carlo Lottieri

Come ogni anno, con la stessa inesorabile puntualità dei primi raffreddori di stagione, Legambiente ha reso pubblica la classifica delle città italiane più vivibili. Realizzata in collaborazione con “Il Sole 24 Ore”, tale graduatoria ha posto in cima alla classifica Belluno, Bergamo e Mantova, mentre gli ultimi posti sono occupati da Ragusa, Benevento e Frosinone. Qualche sindaco festeggerà e qualche altro cercherà di non farsi vedere troppo in giro: almeno per qualche giorno.
In realtà, l’inchiesta pare costruita sulla base di criteri a dir poco discutibili. Per definire i punteggi che poi delineano la classifica generale (dai 71,40 punti di Belluno giù giù fino ai 26,84 di Ragusa) Legambiente ha individuato sette ambiti fondamentali e, all’interno di ognuno, tutta una serie di elementi.

Scorrendo gli indicatori di questa inchiesta sugli ecosistemi urbani si scoprono però cose veramente curiose. Ad esempio, all’interno dell’analisi riguardante “Ambiente e verde” si attribuisce un punteggio più alto alle città che hanno una maggiore superficie di aree verdi in rapporto alla superficie complessiva. In prima battuta ciò sempre comprensibile, salvo che le città sono entità amministrative molto arbitrariamente definite. Milano è una città senza campagna (ha solo 182 chilometri quadrati) perché i confini comunali sono assai ristretti, mentre Roma (1.285 chilometri quadrati) è notoriamente al centro di un comune vastissimo ed all’interno del territorio amministrato da Veltroni anche chi vive a molti chilometri di distanza dal Colosseo. Tutto questo ha qualche ricaduta sulla vivibilità della Garbatella o di corso Vittorio Emanuele? Non credo.Continuiamo. Un criterio che “dà punti” in classifica è la lunghezza delle piste ciclabili. Questo spiega perché sindaci e assessori amino alla follia tirare qualche riga di vernice sui marciapiedi e allungare la lista delle corsie per le biciclette. Trovarsi in mezzo a qualche mountain-bike ogni volta che ci si decide a fare due passi vuol forse dire che si vive in una città “ecologica”? Chissà.
Un altro parametro è la qualità del parco-macchine, ovvero sia la percentuale delle vetture Euro 3 ed Euro 4 sui veicoli in circolazione. E qui è difficile dare torto all’inchiesta, che in tal modo finisce per sottolineare come la crescita economica faccia bene all’ambiente.

Il rapporto insiste pure sul numero dei passeggeri dei mezzi pubblici. Chi scrive usa molto l’autobus e quindi sa molto bene una cosa: che un elemento che fa crescere in maniera significativa il rapporto tra i viaggi con i mezzi pubblici e l’insieme della popolazione residente è la percentuale degli immigrati. Aumentare il numero degli stranieri, molti dei quali senza vettura e/o senza patente, e quindi la percentuale della popolazione che usa bus e metrò significa migliorare la vivibilità? Ho qualche dubbio.

Un altro elemento in grado di alterare la propria posizione in classifica è il consumo di acqua. Questa però è davvero bella, dato che il sindaco di Ragusa – che immaginiamo desideroso di scalare la classifica e perdere la “maglia nera” – dovrebbe quindi non limitarsi a usare la vernice gialla per moltiplicare le piste ciclabili, ma dovrebbe pure invitare i propri concittadini a… lavarsi meno. Questo fu il consiglio dato da Fulco Pratesi, qualche mese fa, in un esilarante articolo apparso sul Corriere della Sera, ma tutti avevamo creduto che in realtà quello fosse uno scherzo architettato da via Solferino a tutto danno di uno dei guru dell’ecologismo nostrano… Ovviamente, finisci in cima alla lista anche se ai dipendenti pubblici la mensa dà cibi “bio”, se negli uffici si usa carta riciclata, se le auto comunali vanno a energia elettrica, e via dicendo.

Non bastasse tutto ciò, Roberto della Seta (presidente di Legambiente) ha sintetizzato i risultati dell’inchiesta sostenendo non soltanto la necessità di far sempre più ricorso a fonti di energia costose e inefficienti (sole, vento, ecc.), ma ha anche enfatizzato l’esigenza di proteggere la città dal cemento e affrontare con decisione l’emergenza-casa. Concludendo in questo modo: “dare nuovo impulso al mercato degli affitti è una necessità sociale e ambientale inderogabile”.
Sottoscriviamo in pieno quest’ultima considerazione, ma facciamo fatica a comprendere come ciò sia possibile se si attacca chi – come Milano – “in meno di quattro decenni ha urbanizzato il 37% del territorio comunale, convertendo quasi tutti gli spazi agricoli e naturali”. Perché l’unico modo serio di affrontare strutturalmente i problemi di quanti oggi sono costretti a pagare canoni di locazione molto alti consiste nel liberalizzare l’urbanistica e restituire la piena titolarità sui terreni ai legittimi proprietari. Quanto costerebbe un affitto a Milano, oggi, se quel 37% del territorio comunale fosse tutto campi e rovi come piacerebbe ai nostalgici della via Gluck?

La classifica stilata da Legambiente presenta tratti perfino imbarazzanti. Basti dire che quanto più una città estende le isole pedonali e tanti più punti ottiene (ma davvero Roma e Milano sarebbero più vivibili, secondo Legambiente, se fossero tutte chiuse al traffico?).
Al di là di questi svarioni, però, ben più grave è il fatto che questa operazione – di sicuro effetto mediatico – è tutta costruita su logiche anti-industriali, sull’avversione alle automobili e l’esaltazione degli autobus, e su tutta una serie di altri miti ambientalisti che con la qualità reale della vita dei centri in cui viviamo hanno davvero poco, ma molto poco, a che fare. (l’Opinione)

Andrea's version. il Foglio

Vero. Il popolo di sinistra sopporta tutto. Gli dicono una cosa un giorno e quello dopo un’altra. Viva le tasse, abbasso le tasse, viva il lavavetri, abbasso il lavavetri, viva l’indulto, abbasso l’indulto, abbasso la sicurezza, viva la sicurezza, tolleranza cento, tolleranza zero, premierato forte, premierato debole, parlamento debole, parlamento forte, maggioritario, proporzionale, partito in un modo e partito in un altro. Vero. Il popolo di sinistra sopporta tutto. Il welfare così, il welfare cosà, il welfare come lo vuole Confindustria, no, i sindacati, no, la Fiom, no, il portinaio di palazzo Chigi, no, il Consiglio dei Ministri, che però prima non lo convocano, poi invece lo convocano, per mettersi d’accordo oggi, anzi, domani. E dopo bisogna tagliare i costi della politica, e non bisogna più tagliarli, e lì Santagata s’incazza, e allora dice che è tutta una farsa, e la colpa è della Lanzillotta, ma la Lanzillotta di Santagata se ne sbatte, e il povero popolo di sinistra? Il popolo di sinistra sempre lì, sempre con la pazienza di Giobbe, sempre a sopportare tutto. Tutto, ma tutto, ma tutto. O meglio, stando alle primarie, tutto meno la Melandri.

mercoledì 17 ottobre 2007

Vigna e l'America. Orso Di Pietra

Pier Luigi Vigna si è incazzato assai. Questi americani, ha sostenuto, ce l’hanno con noi. Un po’ per la pretesa della magistratura italiana di portare e processare in Italia il marine che sparò a Nicola Calipari. Un po’ per il grande clamore suscitato sempre nel nostro paese per il rapimento da parte della Cia del presunto terrorista Abu Omar. Un po’, infine, perché debbono farsi perdonare Guantanamo e l’idea fatta propria , del generale dei paracadutisti francesi Massu durante la battaglia d’Algeri, che per combattere il terrorismo un po’ di tortura non guasta. Insomma secondo l’ex Procuratore Nazionale Antimafia la decisione di un giudice di Los Angeles di non estradare in Italia il mafioso Rosario Gambino è una semplice ritorsione. A parere dell’ex magistrato non è affatto vero, come sostenuto dal collega Usa, che il 41 bis applicato ai grandi mafiosi sia una forma di tortura. E’ vero, invece, che oltre ad essere utile è anche una misura umanitaria visto che i detenuti sottoposti al trattamento possono uscire dalle celle anche per due ore nell’arco della giornata. Lasciamo ad altri il compito di ricordare a Vigna che neppure nel carcere duro d’epoca borbonica i criminali veivano trattati con tanta severità. Il punto è un altro. E’ giusto sfiorare l’incidente diplomatico se gli Usa non ci consegnano Gambino? Non è meglio accendere un cero alla Madonna visto che se lo vogliono tenere risparmiandoci una serie infinita di rotture di scatole per il ritorno, il trasporto e la successiva custodia in un carcere di massima sicurezza? Di mafiosi veri e presunti, in fondo, ne abbiamo in sovrabbondanza. E quando mancano ci pensa la Procura di Palermo a fabbricarne dei nuovi. Per cui, con la speranza che il giudice di Los Angeles non ci ripensi, leviamo in alto un canto di benedizione e ringraziamento per gli Stati Uniti, ora e sempre “God Bless America”! (l'Opinione)

Chi pagherà tutti i "no" agli Ogm? Gilberto Corbellini e Roberto Defez

L’Italia è un Paese strano. Chi lo governa paga (poco) migliaia di ricercatori per fare ricerca, anche allo scopo di trarne applicazioni di interesse economico. Ma poi ignora completamente i dati scientifici. Anzi decide in direzione opposta.

Da circa 10 anni gli scienziati che fanno ricerca di qualità internazionale sostengono che gli Ogm sono sicuri sia dal punto di vista della salute umana sia dal punto di vista dell’impatto agronomico-ambientale. A sostenere che gli Ogm rappresentano una formidabile opportunità e quindi vanno studiati e che quelli già dimostrati sicuri vanno coltivati si sono schierate l’Ue, la Fao, l’Onu, l’Oms, l’Agenzia per la Sicurezza Alimentare Europea e tutte le più prestigiose accademie scientifiche internazionali. Inclusa la Pontificia Accademia per le Scienze. Nella scelta oscurantista di vietare lo studio degli Ogm in pieno campo l’Italia è isolata sia a livello mondiale sia europeo.

L’aspetto paradossale è che la discriminazione contro gli Ogm viene praticata nel nome dell’interesse economico e della protezione della salute e dell’ambiente. In realtà, la censura danneggia economicamente i consumatori e gli agricoltori, a vantaggio della grande distribuzione e dell’agricoltura assistita, aumentando l’impatto ambientale e i rischi per la salute dei cittadini.

Infatti, costringe gli italiani ad acquistare prodotti da agricoltura biologica o lotta integrata, aumentando di quasi il 30% la spesa media alimentare. Una stangata da 600 euro l’anno a nucleo familiare. Inoltre, se si prende in esame il caso del mais, si può constatare che la scelta di non coltivare il mais BT (cioè trasformato con un gene prelevato da un bacillo per renderlo naturalmente resistente ai parassiti) ha comportato danni enormi agli agricoltori italiani. In otto anni le produzioni italiane medie per ettaro di mais non hanno subito alcun incremento, perché non vi è stata innovazione. L’Italia importa quantitativi sempre più consistenti (tra pochi anni fino a tre milioni di tonnellate di mais, pari a 540 milioni di euro) del mais che non riesce più a produrre. Gli agricoltori italiani oggi perdono il 12% della produzione potenziale, che convertita in resa di un campo coltivato con mais si aggira sui 430 euro per ettaro. Insomma, per la smania di protagonismo di qualche politico, l’Italia rinuncia ogni anno a oltre 600 milioni. Triste constatazione, mentre va in scena la commedia della Finanziaria!

Il lettore penserà: però ci guadagnano la nostra salute e l’ambiente. No! Perché il mais tradizionale contiene una quantità di tossine vegetali di molto superiore, in alcuni casi fino a 100 volte quelle contenute nel mais Ogm. In particolare fumonisine, che causano tumori all’esofago nell’uomo e possono indurre malformazioni al sistema nervoso centrale del feto di donne in gravidanza. Le nuove norme europee per la presenza delle fumonisine (regolamento 1881/2006) prevedono che nei cibi destinati all’infanzia il contenuto di fumonisine debba essere di 200ppb, ossia 20 volte più basso della soglia consentita per il mais non lavorato. Il mais tradizionale, confrontato nell’unico esperimento italiano condotto in pieno campo, ha un contenuto di fumonisine pari a 6000. Ossia è vietato al commercio. Con la nuova normativa europea oltre il 50% di tutto il mais italiano risulterà fuorilegge. Quello Ogm, con 60ppb di fumonisine, è buono anche per i bambini. A peggiorare le cose, da un punto di vista ambientale, sul mais BT non si devono usare pesticidi, mentre sono indispensabili sul mais tradizionale.

Il governo e il Parlamento hanno il dovere di mettere gli agricoltori italiani, che desiderano sperimentare gli Ogm sui terreni di loro proprietà (rispettando la Direttiva europea 556/2003), nelle condizioni di farlo. Nonché di erogare fondi competitivi per la ricerca pubblica in modo da studiare a fondo l'impatto degli Ogm in pieno campo sui suoli italiani, restituendo alla ricerca, anche nel nostro Paese, quel ruolo di alta consulenza che svolge in tutti gli Stati sviluppati. (la Stampa)

L'Italia pignorata. Alessandro Agnese

Era inevitabile che la crisi dei subprime americani travolgesse anche il nosto Paese, con un conseguente quadro della situazione molto preoccupante. Le ultime stime Adusbef riportano dati allarmanti: 1,9 milioni di persone hanno problemi per pagare le rate restanti del mutuo e 1,7 manifestano lo stesso problema nei confronti dell'affitto. Ma dove ha sbagliato il sistema bancario italiano? Per diversi anni - soprattutto nel biennio 2003/2004 - l'erogazione dei mutui si è basata quasi totalmente sul tasso variabile (91% del totale), in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei dove un mutuo su 2 era a tasso fisso. Spontaneamente ci si domanderà quale sarà stato il motivo di tale scelta.

Prima di tutto bisogna precisare che gli interessi sono calcolati in base all'aspettativa sulla variabilità dei tassi: se si crede che questi si alzino è ovviamente meglio il fisso, nel caso si preveda un abbasamento si opta per il variabile: in quegli anni erano ai minimi storici. Per definirli tuttavia non ci si affida di certo al caso o alla cartomanzia, si guarda alla Bce, la quale gioca al ribasso per incoraggiare gli investimenti o al rialzo per combattere l'inflazione. A questo punto il ragionamento si conclude da sé: l'iniezione di capitale da parte di Fed e Bce per risanare il recente danno causato dal crack dei subprime porta ad un innalzamento dell'inflazione tamponabile con l'innalzamento dei tassi; ed è così che si sta procedendo.

La scorsa finanziaria, con una pressione fiscale rilevata al 43,1% - la più alta dopo quella del 1997, stimata al 43,7% grazie all'eurotassa inventata da Prodi per rientrare nei parametri europei - aveva già assestato un duro colpo all'economia, la crisi dei mutui ha finito l'opera. A questo punto come fanno le banche a far rientrare i prestiti di chi non riesce a pagare? Due sono le strade possibili: la rinegoziazione del finanziamento o il pignoramento. Ovviamente la prima ipotesi sembrerebbe a prima vista la meno problematica; questa è solo un'impressione. Gli istituti di credito, nonostante si dichiarino flessibili, non rinegoziano più del 60% del valore dell'immobile, inoltre le pratiche costano in media 550 euro; se si decidesse di rottamare il mutuo vecchio con uno nuovo si arriverebbe addirittura a pagare fino 1300 euro. A conti fatti non sempre il gioco vale la candela. Non è difficile giungere quindi al pignoramento o all'esecuzione immobiliare, arrivando all'aumento stimato al 20%.

Inoltre gli speculatori trovano sempre un modo per accrescere le loro ricchezze a discapito dei più deboli: nasce quindi la figura dell'«estintore», colui che acquista la casa al prezzo del restante prestito da pagare più una piccola plusvalenza. Un finto benefattore che fa contenti tutti: la famiglia, che oltre a saldare il debito ha da parte ancora qualcosa, e sé stesso che al momento della rivendita della proprietà avrà un ulteriore guadagno. In questi casi non si può però parlare di intermediazione immobiliare, prima di tutto perché non vi è nessun incontro diretto tra il nuovo proprietario ed il vecchio, seconda cosa in quanto il prezzo di norma non è stabilito in base alle esigenze economiche di chi deve cedere, ma in base al valore effettivo dell'oggetto in vendita. Si tratta per ora di un fenomeno di nicchia, che non dovrebbe portare alla nascita di nuovi furbetti.

Con tutto ciò siamo dunque di fronte ad una situazione problematica, dove risalta chiaramente l'alto grado di indebitamento delle famiglie italiane, problema che si va ad aggiungere alla nostra economia che non decolla come dovrebbe; è necessaria una scossa, una scossa forte che ridia fiducia al cittadino, che gli permetta di acquistare senza contrarre troppi debiti. Allo stato attuale ci si trova invece a non arrivare alla fine della terza settimana, perciò è fisiologica la richiesta di prestiti e dilazioni. Sicuramente anche la complessa congiuntura internazionale ci sfavorisce, ma se qualcosa, non di certo il miracolo, si poteva fare con questa finanziaria, non è stato fatto: gli sgravi ed i bonus fiscali saranno solo un palliativo, serviranno solamente ad andare in pari con gli aumenti che avverranno nel corso dell'autunno e al cittadino in tasca non rimarrà niente. L'occasione per fare del bene, economicamente parlando, è stata buttata al vento e all'Italia non aiuta, anzi non serve affatto, un governo che spreca potenziali opportunità e pensa solamente al proprio benessere economico. A breve la tanto attesa svolta. (Ragionpolitica)