martedì 29 gennaio 2008

Cuffaro abbattuto a "cannolate". Lino Jannuzzi

Ma che volete? - domanda il Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga -. Vengo a sapere che hanno messo sotto controllo il telefono di un amico e non glielo dico? Non gli raccomando di stare attento a quello che dice, a cominciare da quando gli telefona la moglie? In Sicilia poi, se hai saputo che mi controllano il telefono e non me lo dici, allora sì che sei un criminale, un «infame». Se poi sei Totò Cuffaro, sei nato a Raffadali, figlio di due maestri di scuola, la mamma e il papà, sei stato a scuola dai salesiani e al liceo classico «Don Bosco», e durante le ricreazioni hai giocato e hai mangiato pizzette e pasta cresciuta con i compagni, che sono cresciuti con te e già all'università a Palermo ti hanno votato e ti hanno eletto negli organismi rappresentativi studenteschi, e poi ti hanno dato 20mila preferenze per mandarti subito a Palazzo delle Aquile, e 80mila già la prima volta per eleggerti a Palazzo dei Normanni, e hanno superato il milione e seicentomila voti per farti Governatore della Sicilia, l'isola che tu hai affidato alla Madonna, e più di un milione e seicentomila uomini e di donne, di vecchi e di giovani, che hai baciato uno per uno durante la campagna elettorale, ma anche dopo, ogni giorno, tutti i giorni, e quando sei finito sotto processo, tanti di loro sono venuti con te, per 50 chilometri di pellegrinaggio, fino a Santiago di Compostela, e tu che fai? Vieni a sapere che gli hanno messo il telefono sotto controllo, ai tuoi compagni di banco, ai tuoi elettori di sempre, ai tuoi amici pellegrini, e non glielo dici?
Ammesso che sia vero, ammesso che veramente Totò Cuffaro ha informato un amico che gli controllavano il telefono, perché questa è l'accusa per cui è stato condannato, questa è mafia? Nemmeno per il giudice che l'ha condannato per favoreggiamento questa è mafia. Del resto, lo facevano persino i due marescialli della Procura di Palermo, Giorgio Riolo e Giuseppe Ciuro, quello che sedeva nella stessa stanza del pm Antonio Ingroia e quello che collaborava con il sostituto Guido Lo Forte, quelli stessi che per conto della Procura mettevano le cimici nelle case degli indagati, e poi li avvertivano. Le «talpe» erano gli stessi gatti mammoni della Procura antimafia, quelli che davano la caccia ai topi della mafia. Come facevo a pensare a male - ha detto uno dei due marescialli, quello che spiava e insieme informava Michele Aiello, il Re Mida delle cliniche, se Aiello faceva i bagni di mare assieme al Pm, se d'estate stavamo tutti e tre sotto l'ombrellone, io Aiello e il Pm?
Tutti sapevano. E come potevano non sapere? Nelle carte del processo a Totò Cuffaro ci sono le registrazioni di 2 milioni e 800mila telefonate; per vent'anni, da quando avevano arrestato e processato il suo leader Lillo Mannino, sono stati messi sotto controllo tutti i telefoni di Totò Cuffaro, quelli di casa, quelli dell'ufficio, quelli dei bar dove andava a bere e dei ristoranti dove mangiava, quelli dei negozi dove comprava le mutande, e quelli di tutti i suoi familiari e di tutti i suoi collaboratori, e quelli di tutti i suoi amici: in Sicilia, per i professionisti della Antimafia, sono tutti presuntivamente «amici degli amici«, e tutti sono intercettati, specialmente se fanno politica, se sono amici dei politici. E tutti sanno di essere intercettati. Se non vengono informati direttamente dalle talpe della Procura, c'è sempre un amico che li mette in guardia: stai attento, sono intercettato io, ti intercettano quando ti telefono e quando mi telefoni, poi continuano ad intercettarti solo perché mi hai telefonato. È la catena di Sant'Antonio.
Vent'anni di intercettazioni e 2 milioni e 800mila telefonate registrate non sono bastati a far condannare Totò Cuffaro per mafia, il giudice non ha trovato tracce di mafia in milioni, decine di milioni di parole registrate su nastro. E nonostante la condanna a cinque anni di galera per favoreggiamento, per aver avvertito un amico di stare attento al telefono, Totò Cuffaro si è sentito liberato dall'incubo: se per vent'anni ho baciato tanta gente e ho parlato con loro al telefono senza mafiare, un miracolo della Madonna, a cui ho dedicato la mia Sicilia, nessun altro ci sarebbe riuscito, posso dirmi contento. Ma la mafia era in agguato: sfuggita alle tecniche più sofisticate delle intercettazioni, la mafia si è agguattata nella ricotta dei cannoli. Per festeggiare l'assoluzione per mafia un pasticciere gli ha regalato due dozzine di cannoli. Non è stato nemmeno necessario che Totò li mangiasse, e che ne morisse avvelenato, come pure il cinema aveva immaginato in una faida tra padrini. È bastato che Totò li mostrasse e che lo fotografassero con la guantiera dei cannoli nelle mani. Ciò che non è riuscito per vent'anni ai professionisti dell'Antimafia, farlo dimettere e liquidarlo politicamente, è riuscito alla mafia degli sciacalli.
È una rivelazione anche per i segugi dell'antimafia: queste intercettazioni per cui si spendono miliardi di euro sono inutili, spedite cannoli agli inquisiti. (il Giornale)

lunedì 28 gennaio 2008

Rifondare la sinistra. Davide Giacalone

La sinistra cerchi di fare oggi quel che non è stata capace di fare nel 1994 e nel 2001, di diventare una credibile forza di governo. E’ stata sconfitta ancora, e non ha mai vinto le elezioni. I dirigenti politici della sinistra hanno la storica colpa di averla tenuta in condizioni di minorità politica, culturale e morale, indebolendo così la democrazia italiana. Trovino, adesso, la lucidità di una rottura profonda, irrevocabile, o resteranno, per il resto dei loro giorni, a dipendere dal Prodi di turno, dietro il quale mascherarsi e dal quale farsi massacrare.
La rottura è necessaria con la storia comunista. Non basta dire che i Gulag staliniani furono una brutta cosa, perché quello solo gli scemi e gli assassini non lo sanno. Fu sbagliata ed è da condannare la storia del comunismo italiano, quello di Longo, quello di Togliatti, ed anche quello che con Berlinguer non ebbe il coraggio di definire il regime sovietico per quello che era: dittatoriale e sanguinario. So benissimo che fra le moltitudini attirate dal comunismo c’era tantissima gente per bene, amante della libertà e per quella pronta anche a sacrificare la vita. Ma fu gente presa in giro da una dirigenza che si finanziava con soldi sporchi di sangue, e che continuò ad intascarli anche mentre cianciava di prese di distanza, di raffreddamenti. Il comunismo è stato condannato dalla storia, ma attende ancora d’essere condannato, senza possibile distinguo od appello, da chi fu comunista.
Il berlinguerismo (trattato così bene da una pubblicistica moscia e conformista) proponeva ancora la “fuoriuscita dal capitalismo”. Sbagliava: l’economia di mercato, la libera impresa e le leggi che le regolano non hanno alternative che stiano nel mondo della libertà. Il capitalismo è bello. Il compito della politica consiste nel porsi il problema dell’uguaglianza dei punti di partenza, della redistribuzione sociale, della giustizia. E’ nel mondo capitalista che nascono le leggi antitrust ed a difesa dei consumatori. A queste si dedichi la sinistra moderna.
La smettano di sentirsi moralmente superiori, è ridicolo. Si misurino sulle cose concrete da farsi per rendere migliore questo mondo. In democrazia è utile il confronto continuo fra merito ed uguaglianza, ma è necessario che i protagonisti non debbano mentire a se stessi.

venerdì 25 gennaio 2008

Buono anche il "porcellum"

Certo non è un capolavoro di legge, ma una legge elettorale che piaccia a tutti non esiste.
Poi c'è, anche se a sinistra si tenta di tergiversare, la massima urgenza: il Paese ha bisogno di un nuovo governo.
Si potrebbe, ma esiste la volontà?, fare qualche piccolo aggiustamento: per esempio introducendo le preferenze che furono tolte dalla prima stesura su richiesta, mi pare, di Casini.
Il premio di maggioranza potrebbe essere modificato e alcuni punti controversi, la questione degli otto senatori rivendicata da Pannella per esempio, chiariti e aggiustati.
Roberto Castelli, averne come lui!, ha detto una sacrosanta verità: questa legge ha funzionato benissimo visto che alla Camera è scattato il premio di maggioranza per soli 25mila voti, mentre al Senato l'Unione ha dovuto utilizzare i senatori a vita perché ha preso 200mila voti in meno.
Quindi, anche in presenza di scarti minimi, il pareggio e lo stallo sono scongiurati: governare è un'altra cosa e richiede coesione ed un programma, non una faida.
Allora ancora una volta ha ragione il Cavaliere: subito al voto, anche con questa legge elettorale.

martedì 22 gennaio 2008

Forza italiani!

E' scattata l'ora X.
Da questo momento siamo in campagna elettorale e non possiamo permetterci di perdere nemmeno un minuto.
Inutile illudersi che si possa vincere senza fatica e di slancio: i compagni sono come i gatti, hanno sette vite.
Inutile sperare nel malcontento della gente: i compagni sono abilissimi nel manipolare l'informazione.
Inutile pensare di portare qualche voto da sinistra a destra: essere di sinistra è una fede.
Dobbiamo contare sulle nostre forze, mobilitarci tutti e chiamare all'appello amici e parenti.
Dobbiamo vigilare sulla regolarità del voto rendendoci disponibili a fare gli scrutatori, se siamo iscritti negli appositi elenchi, oppure fare i rappresentanti di lista.
Dobbiamo agire come i candidati in campagna elettorale: mobilitare e mobilitarci, parlare con quanta più gente possibile e spiegare il nostro programma.
Non importa se si andrà al voto coalizzati o alla spicciolata: siamo centrodestra, pensiamo centrodestra, vogliamo centrodestra e lavoreremo affinché vinca il centrodestra.
Questo blog, nel suo piccolo, è nato come riferimento, punto d'incontro e stimolo per coloro che si sentono di centrodestra: chi crede nell'importanza del web, lo segnali a tutti i conoscenti.
Quando sarà ufficializzata la campagna elettorale, provvederò a segnalare altri siti e blog a noi vicini.
Intanto scaldiamo i motori...

Mai cessata la fornitura di elettricità a Gaza. Israele.net

“La fornitura di energia elettrica alla striscia di Gaza dalle reti israeliana ed egiziana (rispettivamente 124 e 17 Megawatt) è sempre continuata senza interruzioni. E questi 141 Megawatt di energia rappresentano circa i tre quarti delle necessità di energia elettrica di Gaza”. Lo si legge in un comunicato diffuso domenica sera dal portavoce del ministero degli esteri israeliano in risposta alla campagna di stampa su un presunto black-out nel territorio sotto il controllo di Hamas.
“Le forniture di carburante da Israele a Gaza – continua il comunicato – sono state effettivamente ridotte a causa dei continui attacchi di missili Qassam da parte di Hamas, ma la deviazione del combustibile dai generatori di energia ad uso interno verso altri usi costituisce una decisione presa interamente da Hamas, verosimilmente per imbastire una campagna propagandistica sui mass-media internazionali”.
Vale la pena sottolineare – dice inoltre il ministero degli esteri israeliano – che, mentre la popolazione di Gaza viene lasciata al buio, il combustibile per generare l’energia necessaria al funzionamento delle officine di Hamas che fabbricano missili Qassam è sempre proseguita senza alcuna diminuzione”.“La pretesa di Hamas che Gaza sarebbe in preda a una crisi umanitaria – conclude il comunicato – è grandemente esagerata. In realtà non si registra penuria degli alimenti di base, e i malati di Gaza che necessitano di cure particolari continuano ad essere ricoverati in Israele”.
Anche la società elettrica israeliana ha vivacemente contestato la campagna di stampa sulla presunta scarsità di corrente a Gaza. Il direttore del monopolio israeliano ha spiegato lunedì che, in realtà, i suoi dipendenti rischiano ogni giorno la vita, sotto i lanci di missili Qassam, per garantire l’afflusso dell’energia indispensabile alla striscia costiera sotto controllo di Hamas. (Da: israele.net, 21.01.08)

lunedì 21 gennaio 2008

Certo, bisogna contrapporsi all'Islam, ma la violenza non serve. Luigi De Marchi

L’Editore Mondadori, pubblica in questi giorni un monumentale “Dizionario del Corano” che tenta di presentare un’immagine dell’Islam finalmente depurata delle troppe edulcorazioni o satanizzazioni che sono finora prevalse nella cultura occidentale. E’ un’opera assai utile perché aiuta il lettore ad orientarsi nelle pagine piuttosto caotiche del Corano: un libro che consiste essenzialmente di una stratificazione storica di versetti e commenti privi di sistematicità concettuale.
In un editoriale sul “Giornale” di Milano Maria Giovanna Maglie trae conclusioni tanto drastiche quanto coraggiose.

“L’Islam – scrive – è un’ideologia che persegue il controllo del mondo. Non è solo una religione. E’ una dottrina politica imperialista. Ha tentato di conquistare l’Europa due volte. La prima volta fu respinto da Carlo Martello a Poitiers nel 732. La seconda volta, nel secolo XVII, fu sconfitto alle porte di Vienna dall’esercito asburgico guidato da Eugenio di Savoia. L’ambizione di conquistare l’Europa rinacque nell’Islam durante gli anni ‘20 col movimento dei “Fratelli Musulmani“ e quello odierno è per molti leader islamici il momento propizio per un terzo tentativo. Insomma, l’ostilità degli islamici verso l’Occidente, contrariamente a quanto molti credono o danno a credere, precede il conflitto israelo-palestinese e risale perfino a prima della nascita del colonialismo europeo. Sicuramente la vicenda palestinese ha fatto da catalizzatore dell’odio islamico, negli ultimi tempi, ma quell’odio resterebbe intatto anche se il conflitto si risolvesse domani. L’Europa paradossalmente viene disprezzata anche perché è diventata fragile e debole. Per di più, la sua permissività la spinge verso l’indulgenza e la trasforma in una preda facile.

“L’Islam – continua Maglie – è ipocrita per principio. In certe circostanze, quando ciò serve gli interessi della religione islamica, per gl’islamici osservanti è legittimo mentire e perfino ostentare un ripudio della violenza totalmente falso. L’ultima stagione integralista, secondo Bat Ye’or, la grande scrittrice di “Eurabia” che ispirò l’ultima Fallaci, avrebbe avuto inizio con la crisi petrolifera del ‘73. Da allora, terrorizzata dal blocco petrolifero, l’Europa ha sacrificato la sua indipendenza politica e i suoi valori culturali e spirituali, pur di ottenere dai paesi islamici formali assicurazioni di regolarità nelle forniture petrolifere e di lotta antiterroristica. Ma quelle assicurazioni sono state poi sistematicamente disattese e violate.

“L’Islam – conclude Maglie – detesta la donna, ritenendo che ella debba vivere solamente rinchiusa, segregata e privata di qualsiasi strumento di emancipazione. Ne abbiamo avuto la dimostrazione anche in Europa e in Italia: qualsiasi donna e ragazza islamica che abbia tentato di liberarsi dal giogo islamico familiare, ha rischiato o perso la vita o ha subito percosse e torture: e questa situazione porta inevitabilmente alla mancata integrazione degli immigrati islamici e al proliferare di cellule terroristiche in tutta Europa”.

Ho citato ampiamente il commento di Maria Giovanna Maglie perché mi sembra evidenziare con molta chiarezza alcune realtà angoscianti dell’Islam che la pubblicistica buonista e pseudo-progressista, oggi prevalente, tende a edulcorare o ignorare. Come ci ricorda Maglie, la vocazione imperialista dell’Islam è antica, ha cercato ripetutamente di conquistare l’Europa ed è risorta prima del conflitto palestinese e addirittura prima del colonialismo ottocentesco. Inoltre Maglie ci ricorda coraggiosamente alcuni aspetti psicologici, anzi psicopolitici, dell’Islam a dir poco terrificanti: la legittimazione della menzogna nei confronti degli infedeli e la svalutazione profonda della donna. Per parte mia, vorrei ricordare che si tratta comunque di atteggiamenti e comportamenti che sono stati tipici anche della tradizione cristiana, fin quando essa non ha incontrato il pensiero liberale e ha dovuto rinunciare all’imposizione sociale del suo dogmatismo. Purtroppo l’Islam non ha mai potuto incontrare il pensiero liberale moderno, ha soffocato al suo interno i fermenti antidogmatici e ci riporta quindi al dogmatismo religioso delle nostre teocrazie medioevali.

Il pericolo è sicuramente mortale, assai più mortale di quello nazista o stalinista eternamente evocato dai nostri storici e politici di batteria. E mi sembra che Maria Giovanna Maglie dimostri un intuito psicopolitico notevole quando scrive che l’indulgenza e il buonismo di tanti ambienti occidentali hanno solo procurato all’Occidente il disprezzo delle dirigenze islamiche. E’ la reazione tipica delle personalità paranoidi al pacifismo: ricordate il disprezzo dei nazi-fascisti per le democrazie liberali, considerate “femminee e imbelli” ? Ma il rimedio proposto dalla Maglie non solo non scongiura la minaccia islamica, ma rischia di aggravarla e farla precipitare nella catastrofe.
“E’ proprio comprendendo meglio l’Islam – scrive la Maglie – che ci si può meglio attrezzare per esercitare una violenza di contenimento: forse non paterna né fraterna ma giusta, questo si”.
Insomma, Maria Giovanna Maglie approda, come a suo tempo Oriana Fallaci, alla rovinosa conclusione di Bush e degli altri fautori della risposta militare alla minaccia islamica. Ma si tratta di una risposta che si è ripetutamente dimostrata fallimentare per l’ovvia ragione, qui spesso ricordata, che il fanatismo va a nozze con il nemico armato, in quanto considera la morte in battaglia la migliore garanzia d’immortalità e di felicità eterna in paradiso. Solo una massiccia, incruenta guerra mediatica, viceversa, consente di sottrarre le masse femminili e giovanili islamiche al sistematico condizionamento antiliberale e antioccidentale dei loro regimi, risvegliando in esse i bisogni, di libertà e di solidarietà che sono presenti in ogni essere umano sotto la scorza velenosa dei condizionamenti sociali fanatizzanti. (il Blog del Solista)

Giù le tasse ora o mai più. Francesco Giavazzi

Riusciremo mai a ridurre le tasse? Berlusconi fu eletto con un mandato preciso ma alla fine della scorsa legislatura la pressione fiscale era rimasta sostanzialmente invariata, intorno al 41% (nel frattempo però la spesa pubblica era cresciuta di 2 punti). In due anni il governo Prodi ha portato la pressione fiscale al 43% e l’aumento delle entrate ha consentito di coprire quei 2 punti di maggior spesa che Berlusconi aveva lasciato in eredità. I conti pubblici sono tornati in ordine ma senza toccare le spese che sono rimaste là dove le aveva lasciate Berlusconi. Sabato il Governatore della Banca d’Italia ha detto che una riduzione del carico fiscale è auspicabile, soprattutto se destinata al lavoro dipendente e alle famiglie con i redditi più bassi.

Ma, ha aggiunto, non si può fare se prima non si riducono le spese. Io penso invece che sia venuto il momento di diminuire comunque le tasse: se non lo si fa ora, non se ne riparlerà più prima della prossima legislatura. Fra qualche mese il governo si accorgerà che il rallentamento della crescita sta già peggiorando il bilancio riportandoci vicino alla soglia del Patto di stabilità. A quel punto di ridurre le tasse non si parlerà più. Se invece si agisce oggi la pressione sulla spesa aumenterà: stretto fra i vincoli europei e l’impossibilità politica di aumentare di nuovo le tasse, dopo averle appena ridotte, forse il governo qualche taglio lo farà.

C’è un altro buon motivo per intervenire ora. Se si alleggerisce il prelievo sul lavoro dipendente e sulle famiglie che fanno più fatica ad arrivare alla fine del mese, si aiutano i consumi e questo potrebbe attenuare il rallentamento dell’economia. Ma occorre farlo subito. Bush ha annunciato una riduzione di imposte pari all’1% del pil: già in marzo le famiglie americane potrebbero ricevere nella posta un assegno di circa 1.500 dollari ciascuna. Forse non eviterà la recessione ma certamente la renderà più tenue e più breve. I rinnovi contrattuali sono una partita a due, tra imprese e sindacato. Ma un euro in più in busta paga costa all’impresa, fra tasse e contributi, quasi 2 euro e spesso il lavoratore neppure lo sa. Ecco un modo concreto per cominciare: decidere che gli aumenti che devono ancora essere negoziati siano esenti da imposte.

Nel 1994 i radicali chiesero un referendum (non ammesso) per cancellare le trattenute alla fonte. Una democrazia esige che i cittadini possano rendersi conto di quanto l’imposizione fiscale incida sulla loro busta paga e sui loro redditi. Ciò che il lavoratore riceve non è lo stipendio cui ha diritto ma solo ciò che gli rimane dopo aver pagato tasse e contributi, salvo i conguagli di fine anno. Se egli si rendesse conto di quanto lo Stato gli sottrae, pretenderebbe un buon uso di quel denaro e chiederebbe conto con maggior forza a chi governa dei disservizi, degli sprechi e del pessimo funzionamento di molti pubblici uffici. (Corriere della Sera)

domenica 20 gennaio 2008

Il senso del laico. Claudio Magris

Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria

Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.

Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.

La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.

Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.

Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.

I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.

Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.

Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.

Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.

Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.

Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.

Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta. (Corriere della Sera)

sabato 19 gennaio 2008

Così scrivon tutti. il Foglio

Il giornalista automatico contro le nomine politiche, ma a intermittenza

I principali quotidiani hanno pubblicato, a commento delle vicende che hanno coinvolto Clemente Mastella, un articolo intitolato “Così fan tutti”. Da angolazioni non troppo diverse, si moraleggia contro il vezzo dei politici di lottizzare i posti di sottogoverno. Qualcuno sospetta che il problema non sia nelle inclinazioni pervasive della classe politica, ma nel sistema, senza però approfondire questo fondamentale aspetto. Se settori fondamentali, dalla sanità ai consorzi di sviluppo, alla magistratura, sono di controllo pubblico, è inevitabile che le nomine dei vertici siano di origine o politica o corporativa. Chi ha la responsabilità istituzionale può decidere di sottrarsi al patteggiamento, ma si potrebbe ricordare che quando qualcuno lo ha fatto, per esempio Letizia Moratti a Milano, ha dovuto fronteggiare critiche politiche e attacchi giudiziari, senza che i censori del “così fan tutti” trovassero il tempo o la voglia di difenderla. L’alternativa presentata come “professionale” è in realtà corporativa, o meglio di lottizzazione politico-corporativa, come dimostra l’esempio della giustizia. Il Csm non riesce a completare i quadri di direzione degli uffici giudiziari per l’incrociarsi dei veti e delle richieste delle diverse correnti della magistratura associata, che forse, applicando il teorema in voga, configurano il reato di concussione. Se l’esempio non basta, si può esaminare il caso dei concorsi nelle università, in modo che, quando si parla di “tutti”, si sappia che questi non sono solo i politici, che almeno ogni tanto sono giudicati dagli elettori.

Il partito delle Procure. Salvatore Scarpino

Il fragore dell’affaire Mastella nei giorni scorsi ha indotto taluni osservatori a ipotizzare che le frange estremiste della magistratura non scegliessero più i loro bersagli politici con criteri di selezione ideologica, ma colpissero in tutte le direzioni, a destra e a sinistra, per affermare la loro volontà di supremazia nei confronti dei poteri (si fa per dire) esecutivo e legislativo. Ecco, s’è detto, se pm e gip un po’ particolari mettono in pre-crisi un governo delle sinistre già traballante di suo, vuol dire che certe toghe oltranziste non seguono logiche politiche ma di puro potere. Purtroppo la cronaca, sincera ancella della storia, s’incarica di smentire questa interpretazione: la magistratura politicizzata e iperattiva tiene fermo nel mirino il centrodestra, i liberali autentici, quello schieramento moderato che nella stagione repubblicana ha impedito che la democrazia italiana diventasse progressiva e progressista, cioè non democratica.Le prove di questa affermazione le forniscono gli stessi magistrati giacobini che, con l’arroganza tipica di chi sa che non dovrà mai rendere conto di nulla, continuano a deporre contro se stessi con inchieste, ordinanze e verdetti.
Le anime belle della sinistra non lo ammetteranno mai, ma il bersaglio grosso dei magistrati oltranzisti - che intendono vendicarsi della storia inseguendo una bandiera rossa già ammainata – resta Silvio Berlusconi. È lui il leader da colpire, perché spariglia i giochi della politica politicante, perché dimostra che sotto il vestito unitario della coalizione di Romano Prodi non c’è niente. Quando il leader del centrodestra inizia un’azione politica per isolare la non-maggioranza di governo, scatta l’inchiesta di Napoli. Non si sa come i pubblici ministeri di quella città riescano a raggiungere i loro uffici facendo lo slalom fra i rifiuti ed evitando le slavine di munnezza. Ma loro non vedono lo scempio e la sofferenza dell’ex capitale, sono presi dall’ansia di impedire che il Cavaliere riesca a dimostrare l’inconsistenza della presunta maggioranza governativa. E allora ordinano spiate e intercettazioni e partoriscono un’accusa di corruzione, che sarebbe ridicola se non testimoniasse una tragedia della nostra democrazia. Un’altra accusa fantasiosa e avventurista che finirà nel nulla e che comunque oggi determina una ricaduta mediatica che appaga gli strateghi stolti dell’Unione. Gli italiani sanno interpretare le tortuosità della giustizia politica: non a caso il leader del centrodestra auspica che il suffragio popolare spazzi quest’anomalia dando a un nuovo governo la forza di varare un’autentica riforma della giustizia, nell’interesse dei cittadini.
Anche l’affaire Mastella presenta aspetti ridicoli e tragici insieme. C’è una procura, quella di Santa Maria Capua Vetere, che grazia un parente stretto del procuratore capo, anche quando le intercettazioni suggeriscono torbide contiguità con la camorra. Questo personaggio è il presidente della Provincia di Benevento (errata corrige: Sandro De Franciscis è presidente della Provincia di Caserta) , nipote del procuratore Maffei, il Torquemada dei Mastella, e sprofonda in uno scandalo legato allo stravolgimento del piano regolatore del comune di Casagiove. Ogni atto dell’indagine lo chiama in causa, ma non viene neanche iscritto nel registro degli indagati, viene sentito come «persona informata dei fatti». I nipotissimi contano pure qualcosa, come i «sargentissimi» nelle repubbliche delle banane. E questo nipotissimo si è prodotto nelle stesse manovre – come provano le intercettazioni – per piazzare amici e famigli nella sanità e altrove, ma nessuno gli ha contestato la concussione e l’associazione per delinquere. Queste accuse, autentici castelli di sabbia, toccano ai Mastella e ai loro amici di partito, chiamati ad ascoltare il tintinnio delle manette, risparmiate – l’ingiustizia sarebbe suonata troppo grave – alla signora Sandra. Un pasticciaccio, una vergogna. Ma una logica politica c’è. Il nipotissimo era dell’Udeur, ma poi era passato al Partito democratico, era passato coi buoni e con gli onesti per antonomasia. Alla luce di tutto questo l’azione contro i Mastella non può essere considerata un’iniziativa contro un esponente del governo, ma contro un leader che, anziché stare nella coalizione, era una spina nell’Unione, con le sue aperte minacce di distacco.
Tutto si tiene. Se gli esempi citati non sono ritenuti sufficienti, si valuti anche il caso di Salvatore Cuffaro, governatore della Sicilia. Con grande strepito mediatico era stato accusato di collusione mafiosa sulla base di prove e argomentazioni fumose. Il dibattimento non ha fatto emergere queste collusioni, l’accusa di mafiosità è caduta, eppure gli hanno inflitto cinque anni di reclusione per favoreggiamento semplice. I giuristi storcono il naso, ma che importa? Cuffaro la smetta di fare il moderato.
Poiché i pm giacobini non riposano, anche il governatore di centrodestra del Molise, Iorio, è finito sotto inchiesta per concussione e abuso di ufficio. Il governatore è di centrodestra e la caccia ai politici non migratori è sempre aperta. (il Giornale)

giovedì 17 gennaio 2008

Il paradosso americano. Maria Giovanna Maglie

Mi viene in mente, in giorni di marasma morale e intellettuale, un paragone che è un paradosso, ma può essere utile. Poco più di un anno fa mi suscitò una grande impressione l'invito che il rettore della Columbia University, luogo di studi altissimi, edificio solenne e allegro nella Harlem storica di New York, aveva rivolto al presidente dell'Iran, Mahmud Ahmadinejad. Mi parve la solita forzatura iper liberal di certi ambienti culturali, che in nome di pacifismo e antiamericanismo, sono pronti al suicidio. Oggi so che i livorosi professori italiani, alcuni dei quali simbolo in ossa e canizie della dittatura degli anziani nel nostro Paese, che ancora ieri con petulanza ripetevano la chiacchiera del Papa intruso, non valgono una scarpa del professor Lee Bollinger. Che il liberal più incallito americano è meglio di un docente nostro, frutto del Pci-Psdi, Ds, Pd oppure PdRC, e via mutando sigle, ma non il leninismo di fondo.
Quel giorno Bollinger introdusse con tranquillità l'ospite, lo definì «un gretto e crudele dittatore», gli chiese di rendere conto della persecuzione sistematica di donne, omosessuali, giornalisti agli studenti, lo accusò di antisemitismo e di negazione dell'Olocausto, «uno dei fatti storici più documentati della storia, che solo un'ignoranza sconvolgente può spingere a negare», concluse dicendosi certo che «parlando in un posto come questo, vi coprirete di ridicolo». Poi gli diede la parola. Ahmadinejad ebbe tutto il tempo per rispondere alle accuse. Naturalmente non lo fece, si lanciò in una predica intrisa di citazioni del Corano, parlò della Seconda Guerra Mondiale, delle colpe degli Stati Uniti, di George Bush. Poi esagerò: non ci sono, proclamò, omosessuali in Iran, dimenticando di aggiungere che forse non ce ne sono più. La platea di studenti e insegnanti rise, poi fischiò. Delle donne disse, bontà sua, che «non è un crimine essere donna, le donne in Iran sono più rispettate degli uomini», suscitando la stessa reazione. Infine, il nucleare. Tutta colpa di «Stati Uniti, Francia e altre grandi potenze mondiali, che hanno di fatto cancellato i trattati per lo sviluppo dell'energia nucleare pacifica. L'Iran non chiede nulla di diverso da quanto previsto dalle leggi internazionali. Non ci sono indicazioni che il programma nucleare iraniano sia uscito da un percorso pacifico», l'Iran «è pronto a negoziare con tutti i Paesi. I politici che cercano di sviluppare e testare armi nucleari non guardano al futuro. Noi non crediamo nelle armi nucleari poiché sono contro la vera essenza dell'umanità». Quando la lectio terminò, c'erano molte più persone che non all'inizio convinte di aver assistito al delirio di un dittatore arrogante e crudele.
Ammettiamo di voler paragonare il diavolo al professor Joseph Ratzinger, e Lee Bollinger, rettore di Columbia, a Renato Guarini, rettore della Sapienza. Il professore, che è capo della Chiesa Cattolica, arriva, nonostante le polemiche, lo stesso corpo docente e gli studenti si impegnano ad ascoltare esprimendo dissenso educatamente, e alla fine si scopre che il tanto temuto ospite parla contro la pena di morte, facile e persino un po' stantio cavallo di battaglia degli iperlaici e di tutta la sinistra, che riconosce laicità e autonomia delle università, che chiede una sola cosa: «Cosa ha da fare o da dire il Papa nell'Università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà». Deve «mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro». Ecco, che la ragione non diventi sorda al messaggio della fede cristiana, altrimenti «inaridisce» come un albero che non ha più acqua.
Pericoloso, vero, ed eversivo? Più o meno del dittatore iraniano alla Columbia? Ma forse il paradosso non c'è, perché alla Sapienza l'avrebbero fatto entrare festanti Ahmadinejad, e avrebbero bruciato bandiere a stelle e strisce tutti insieme, i vecchi docenti colpevoli e i loro studenti analfabeti. (il Giornale)

Stavolta il velo si è squarciato. Pierluigi Battista

Stavolta no. Stavolta una notizia d'arresto divulgata per via mediatica prima ancora della notifica alla persona interessata, e un atto giudiziario che configura di fatto l'incriminazione di un intero partito non sono stati accolti con la solita ipocrisia. Stavolta il ministro Mastella ha ricevuto pubbliche solidarietà che non si aspettava.

Sulla vicenda Mastella, della moglie Sandra Lonardo e dell'Udeur campana inquisita in blocco come una qualunque associazione a delinquere, stavolta si è strappato il velo cerimonioso della simulazione che prevede, da parte della politica, l'omaggio preventivo alla magistratura come salvacondotto obbligatorio per ogni valutazione critica sull'operato di alcuni magistrati (non tutti). Stavolta il presidente del Consiglio, Romano Prodi e il vice-presidente del Csm, Nicola Mancino, hanno espresso la loro solidarietà a Mastella, non temendo di unire le loro voci a quelle, ovviamente ipercritiche verso le modalità di intervento di certi magistrati, dell'opposizione. Stavolta la parte maggioritaria del Parlamento (il Partito democratico più il centrodestra) ha fragorosamente applaudito le parti più dure del discorso con cui il ministro Mastella ha annunciato le sue dimissioni, rompendo l'incantesimo di un bipolarismo primitivo che prevede la scelta di mettere a profitto le difficoltà giudiziarie che funestano il campo avversario. Si è sentita l'enormità di una procedura purtroppo molto, davvero troppo frequente in Italia, che costringe chi viene raggiunto da un provvedimento giudiziario così grave come la custodia cautelare ad averne conoscenza dalla stampa e non dagli uffici che ne dispongono la messa in atto. Ieri è stata una giornata di svolta nel rapporto tempestoso che ha inquinato il rapporto tra politica e magistratura in Italia. Non è stato detto, come è sempre avvenuto, che occorre attendere (sottolineando: «serenamente») le conclusioni del lavoro della magistratura per poterne ricavare un giudizio, ma un giudizio è stato formulato con una certa celerità: troppo clamorose sono state la tempistica, le modalità, l'entità delle accuse rivolte a un intero partito, in questo caso l'Udeur, trattato alla stregua di un'associazione criminale. Il contenuto delle accuse a Mastella, a sua moglie e al suo partito si è appannato e sono emerse fin dall'inizio le implicazioni politiche di un caso che coinvolge pesantemente un esponente del governo. Ci saranno prezzi da pagare, per questa scelta. Il ministro Antonio Di Pietro dovrà decidere come accettare la sua permanenza in un governo che ha accolto con favore i toni molto aggressivi con cui il ministro dimissionario ha attaccato una parte della magistratura tra gli applausi del Parlamento.

Da parte dell'Associazione nazionale magistrati non sono mancate le manifestazioni di stupore per le parole pronunciate con una veemenza mai raggiunta nemmeno dagli esponenti del centrodestra più inclini a un atteggiamento bellicoso nei confronti dell'intera magistratura. Ma un tabù è venuto meno, nel centrosinistra si è definitivamente rotto l'obbligo dell'unanimismo, anche al prezzo di polemiche su un fronte cruciale della politica di questo quindicennio. Nei giorni prossimi si vedrà se il governo saprà reggere le tensioni esplose ieri. Ma una tassativa intimazione al silenzio, vigente oramai da molti anni, è stata apertamente sfidata. Come a voler chiudere una fase storica durata troppo a lungo. Un effetto boomerang non previsto da chi non si rassegna all'idea di rinunciare all'arma giudiziaria come soluzione dei conflitti politici. (Corriere della Sera)

mercoledì 16 gennaio 2008

Solidarietà di Berlusconi a Mastella: "Accaduta cosa gravissima". l'Occidentale

"Quello che è successo al senatore Mastella è di una gravità inaudita". Lo afferma il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi.

"Mi dispiace per lui e per sua moglie Sandra - ha detto l'ex presidente del consiglio - e rinnovo a tutti e due l'espressione della più convinta ed affettuosa solidarietà già espressa in Parlamento dall'onorevole Bondi a nome mio e di Forza Italia".

"Ma al di là dell'aspetto umano - prosegue il leader di Forza Italia - c'è un problema politico che è ancora più grave. Il ministro della Giustizia ha detto oggi in Parlamento le stesse cose che dico io ormai da molti anni e che mi hanno fruttato gli attacchi non solo della magistratura, ma anche di tanta parte della maggioranza di governo".

E ancora: "Che faranno e che diranno adesso questi signori davanti alla drammatica denuncia del Ministro della giustizia? La condividono? E come mai in Parlamento tutti hanno dato a lui la solidarietà che non hanno mai dato a me? Era finta e solo a parole o nasceva dalla condivisione di quel giudizio e di quella denuncia? E che dicono il Presidente del Consiglio e il Governo della emergenza democratica, della giustizia ad orologeria, del pacchetto di mischia e della trappola scientifica, mediatico-giudiziaria denunciate in Parlamento dal loro Guardasigilli?".

Mastella paga i propri errori. Davide Giacalone

Il ministro Mastella non aveva altra scelta che le dimissioni. Non esiste la possibilità che si resti a capo del dicastero della giustizia nel mentre la moglie finisce agli arresti, per giunta a causa di un’inchiesta sull’attività politica. A Mastella va tutta la solidarietà umana, ma non quella politica. No, perché quel che succede è anche frutto dei suoi silenzi e dei suoi errori.
Egli, come il governo di cui fa parte, ha in ogni modo tentato di lisciare la corporazione dei magistrati per il verso del pelo. Oramai siamo giunti all’assurdo che le voci più critiche verso la corporazione si levano dal suo interno. E va ripetuto, senza dimenticare le gravi colpe della coalizione avversa, che ha invece condotto una legislatura all’insegna dello scontro e della polemica, senza, però, essere capace di portare a casa apprezzabili risultati legislativi, che valgano per tutti. Mastella ha creduto che, in fondo, si possa tirare a campare, magari facendo evaporare la pressione, di tanto in tanto, con provvedimenti di clemenza. Non è così.
Il presidente della giunta campana, sua moglie, ha saputo degli arresti domiciliari dalla televisione. Non è la prima, non sarà l’ultima, è comunque la dimostrazione che la giustizia non esiste. Ed è anche la dimostrazione che quei provvedimenti di violenta limitazione della libertà personale, nei confronti di cittadini che abbiamo il dovere di considerare innocenti, sono inutili, quando non illegittimi. Ci sono solo tre ragioni per cui un cittadino può essere privato della propria libertà in assenza di una condanna, mentre, invece, questi arresti si susseguono in una litania di formule burocratiche sempre uguali, e sempre prive di senso del diritto. Ogni volta che abbiamo indicato il problema, ogni volta che abbiamo documentato che il diritto dei cittadini è calpestato, la corporazione togata ha sostenuto che volessimo legargli le mani e tappargli la bocca, mentre il mondo politico la bocca se l’è tappata da solo, per timore, per insipienza, per coscienza sporca. Mastella compreso.
Il caso della signora Mastella non è isolato, anzi, è in compagnia di migliaia di altri casi simili. Il ministro si dimette, perché lo colpisce nella famiglia. Avrebbe dovuto considerare prima che il compito assegnatogli non consentiva le solite relazioni, scritte dagli uffici, avrebbe dovuto, fin dall’inizio, essere il ministro dei cittadini che chiedono giustizia. Ha perso l’occasione, noi non perderemo quella di considerare il caso che direttamente lo riguarda come tutti gli altri. Non la perdiamo mai, questa occasione, nei confronti di nessuno, e nei confronti di tutti difendiamo i diritti ed il diritto. Peccato Mastella sia costretto ad accorgersene una volta persa la funzione.

martedì 15 gennaio 2008

Libertà economica nel mondo: Italia al 64°posto. Eurofinanza

Vengono diffusi oggi i risultati dell’Index of Economic Freedom 2008 - la classifica annuale della libertà economica, elaborata dalla Heritage Foundation di Washington, DC, e dal Wall Street Journal, in collaborazione con un network di think tanks europei fra cui, per l’Italia, l’Istituto Bruno Leoni di Torino.Secondo l’Indice elaborato da Heritage Foundation, Wall Street Journal e Istituto Bruno Leoni, l’economia più libera del mondo resta Hong Kong (considerata libera al 90.3%). L’Italia è classificata al sessantaquattresimo posto (libera al 62,5%), con un punteggio dello 0,2 peggiore rispetto al 2007. Prima dell’Italia, anche Albania (56), Bulgaria (59), Arabia Saudita (60), Belize (61) e Mongolia (62).

L’Indice stima il grado di libertà economica, considerata come assenza di ostacoli da parte dello Stato all’agire individuale, attraverso dieci parametri: libertà imprenditoriale; libertà di scambio; libertà fiscale; libertà dallo Stato; libertà monetaria; libertà d’investimento; libertà finanziaria; diritti di proprietà; libertà dalla corruzione; libertà del lavoro. Tali parametri si concentrano pertanto sia su fattori macro-economici, sia su indicatori che consentano di stabilire la facilità o la difficoltà di aprire e gestire un’attività economica. Secondo molti aspetti (per quanto riguarda la politica monetaria e il peso delle barriere doganali ad esempio), il nostro Paese è beneficiato dall’appartenenza al club europeo.

Il punteggio dell’Italia in queste classifiche di libertà economica è praticamente il medesimo dal 1995. Alcuni indicatori sono migliorati (il punteggio in termini di libertà del lavoro è ora del 73,5%, ad esempio), ma altri restano fortemente negativi. L’Indice in particolar modo segnala la rilevanza della “questione fiscale”, con imposte ancora troppo alte (libertà fiscale: 54,3%); la difficoltà nel riformare la spesa pubblica (libertà dallo Stat 29,4%); l’eccessiva durata e complessità dei procedimenti, che porta a valutare negativamente il grado di tutela dei diritti di proprietà (diritti di proprietà: 50%); il perdurante peso della corruzione percepita (libertà dalla corruzione: 49%).

L’Italia è considerata una economia “moderatamente libera” ed è classificata come la 29ma economia più libera, sulle 41 considerate parte del blocco europeo. A pesare su questo giudizio, non sono solo le difficoltà del nostro Paese - ma soprattutto la capacità di riforma che hanno al contrario dimostrato altre realtà (i Paesi dell’Est europeo come quelli balcanici).

L’economia più libera del mondo è anche quest’anno Hong Kong. Seconda è Singapore, terza l’Irlanda (primo Paese europeo in classifica). Gli Stati Uniti occupano il quinto posto, il Cile l’ottavo posto, la Danimarca l’undicesimo posto e l’Estonia il dodicesimo.

Secondo Carlo Stagnaro, uno dei direttori dell’Istituto Bruno Leoni che è partner di Wall Street Journal e Heritage Foundation per questa ricerca, “questo Indice della libertà economica ci consegna un ritratto fedele del nostro Paese almeno da un punto di vista: la sua difficoltà nel cambiare passo”. Continua Stagnaro “l’Index of Economic Freedom non è un indice di sviluppo non ci dice che ’siamo messi peggio’ dell’Albania, del Belize e della Mongolia. Ci dice però che teniamo in vita più barriere alla libera espressione della creatività imprenditoriale, di quanto facciano questi Paesi. In qualche maniera, non ci dice come ’siamo messi oggi’: ma come staremo domani, se è vero come è vero che un basso grado di libertà economica inibisce la crescita”. Conclude Stagnaro “l’Index of Economic Freedom ci dice che i due nodi da sciogliere sono tasse e spesa pubblica. E’ un’analisi condivisa da più parti, e dovrebbe essere condivisa anche la preoccupazione per il nostro costante arretrare in queste classifiche internazionali”.

lunedì 14 gennaio 2008

Contrada vittima dei prof dell'antimafia. Lino Jannuzzi

È inaccettabile. Si possono inventare tutti gli artifizi da azzeccagarbugli per negare la grazia a Bruno Contrada e per negargli gli arresti domiciliari e per negargli il differimento della pena e per negargli la revisione del processo, ma non si può accettare che il più famoso poliziotto di Palermo, un servitore dello Stato che ha combattuto la mafia per quarant’anni, rischiando ogni giorno la vita, sia stato processato e condannato per le accuse degli stessi criminali che ha perseguito e ha arrestato. Ed è inaccettabile che Contrada resti a marcire in galera, al posto dei criminali che sono stati liberati e stipendiati dallo Stato solo perché lo hanno accusato, fino a morirne.
Perché, per quanto cerchino di nascondere la verità, questo è successo. È stato un criminale assassino, un mafioso che ha confessato di aver compiuto tanti assassinii da non poterli più contare, Gaspare Mutolo, che ha accusato Bruno Contrada, e solo per sentito dire. Ma era stato proprio Contrada a incriminare Mutolo per l’assassinio del poliziotto Cappiello e a portarlo davanti al giudice assieme al boss Riccobono, il capo della cosca mafiosa di cui Mutolo fa parte. Il giudice non ha creduto a Contrada e ha mandato assolti Mutolo e Riccobono. Quando, dopo molti anni, Mutolo ha accusato Contrada di complicità con Riccobono, che intanto era morto assassinato, è stato quello stesso giudice, proprio lui, a condannare Contrada per i suoi rapporti con lo stesso Riccobono. Il poliziotto indaga sull’assassinio di un suo collega e incrimina il mafioso, il giudice assolve il mafioso e manda in carcere il poliziotto al suo posto.
E non è un caso isolato. Bruno Contrada non è il solo poliziotto, il solo servitore dello Stato perseguito e incriminato dai professionisti dell’antimafia della Procura di Palermo. È stato così anche per un collega di Contrada, il questore Ignazio D’Antone, anche lui accusato da un mafioso assassino «pentito», e già condannato in via definitiva e rinchiuso nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, dove Contrada l’ha raggiunto. Ed è stato così per il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, che è stato accusato da un mafioso assassino «pentito» e in diretta televisiva, e per evitare la vergogna di essere arrestato si è suicidato sparandosi in bocca con la pistola di ordinanza nel cortile della caserma.
Ed è stato così per il tenente dei carabinieri Carmelo Canale, il più fidato collaboratore del giudice Paolo Borsellino, che lo chiamava «fratello», e che è stato perseguitato e processato per anni soltanto perché difendeva la memoria del maresciallo Lombardo. E così è stato per il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che aveva avuto il torto di denunciare la fuga di notizie dalla Procura di Palermo dell’inchiesta sulla mafia e gli appalti. E così per il maggiore Mario Obinu, che voleva riportare in Italia dagli Stati Uniti il boss Gaetano Badalamenti a testimoniare contro le false accuse mosse a Giulio Andreotti. E così per il colonnello Carlo Giovanni Meli, che comandava la stazione dei carabinieri di Monreale, ed aveva scoperto che il «pentito» Baldassare Di Maggio, liberato dal carcere e pagato per ordine della Procura di Palermo, scorrazzava per la Sicilia ammazzando i suoi nemici. E per il capitano Giorgio Di Caprio, il leggendario «capitano Ultimo», che ha arrestato il capo della mafia Totò Riina ed è stato perseguito per anni e processato con l’accusa di non aver perquisito in tempo il covo di Riina per complicità con la mafia. E con lui hanno perseguitato per anni e hanno processato il generale Mario Mori, comandante dei Ros e poi direttore del Sisde, il servizio segreto civile. E non contenti di una persecuzione che dura da quindici anni, nonostante alla fine il generale Mori è stato assolto, assieme a Di Caprio, con formula piena, i professionisti dell’antimafia si apprestano a riprocessare Mori con l’accusa di non aver voluto arrestare Bernardo Provenzano: il carabiniere che ha arrestato Totò Riina sarà infamato ancora per anni e processato per non aver arrestato fraudolentemente Provenzano.
Non ce n’è ancora abbastanza per una commissione d’inchiesta del Parlamento sulla gestione di questi «pentiti» che vengono usati per incriminare e processare non i mafiosi ma i poliziotti e i carabinieri che combattono e arrestano i mafiosi? (il Giornale)

Quando Prodi giurava agli italiani:"Non tasseremo i Bot". Felice Manti

«Ci sarà l’imposizione sulle rendite finanziarie. Ma non Bot, Cct... Soltanto le plus-va-len-ze sulle azioni...». Così parlò Romano Prodi nell’aprile del 2006, durante il confronto tv su Raiuno con l’allora premier Silvio Berlusconi. Aggiungendo: «Io credo che i cittadini si possano fidare della mia parola». Ma purtroppo per Prodi, verba volant video manent. È tutta colpa di Youtube (http://it.youtube.com/watch?v=XwEXwrtlFW0) se le promesse (non mantenute) dei politici restano nella memoria della Rete. E se alcune dichiarazioni rilasciate alle agenzie possono abilmente diventare «incomprensioni», col solito codazzo di polemiche contro i giornalisti, le frasi pronunciate davanti alla tv e immortalate dal web non lasciano scampo.
Una stangata annunciata. In quella circostanza, a pochi giorni dalle elezioni, l’allora candidato dell’Unione a Palazzo Chigi probabilmente era già al corrente dell’incredibile rimonta del centrodestra, che poi perse alla Camera per 20mila voti. E dunque l’obiettivo era rassicurare gli italiani che l’aliquota sui Bot non sarebbe aumentata. Con frasi tipo «la destra sta creando turbativa nei mercati e preoccupazione tra i risparmiatori» (ancora Prodi) o tipo «sul problema “tasse” la destra fa terrorismo psicologico in modo irresponsabile e ingannevole» (Piero Fassino). Ora che la stangata sui Bot, Cct, fondi pensione e Tfr prende sempre più consistenza, viene in mente la frase di Vincenzo Visco, oggi viceministro dell’Economia: «Se aumentiamo l’aliquota dal 12,5 al 20%, l’incidenza sul prelievo dai Bot sarebbe comunque modesta, circa 2 miliardi. E comunque per il 90% dei risparmiatori titolari di titoli di Stato si tratterebbe di maggiori costi pari a pochi euro, per altro ampiamente bilanciati dalla riduzione dell’aliquota sui depositi bancari».
La tassa di successione. «Noi applicheremo questa tassa solo partendo da parecchi milioni di euro», giurò Prodi davanti a milioni di italiani. Purtroppo per lui nessuno gli credette: in quei giorni, come peraltro il Giornale scrisse, le famiglie italiane facevano la fila dai notai nel tentativo di aggirare la terribile trappola. Che puntualmente scattò, a dispetto delle promesse di Prodi («parecchi milioni di euro», disse), con una franchigia fissata dalla Finanziaria 2006 a un milione di euro per gli eredi in linea retta (con aliquota al 4%) e di 100mila euro tra fratelli (con aliquota al 6%). Per tutti gli altri casi, venne nuovamente istituita una tassa dell’8% sul valore del bene. Altro che «grandi patrimoni», altro che «parecchi milioni di euro».
Evasione fiscale e nuove leggi.
«Per combattere l’evasione fiscale in Italia non c’è bisogno di aumentare le imposte», disse in tv Prodi replicando alle accuse di Berlusconi, che paventava una raffica di nuovi balzelli. «Abbiamo solo da applicare quelle che ci sono già». Anche in questo caso le promesse elettorali di Prodi sono rimaste lettera morta. Il governo ha abbassato la no-tax area da 15mila a 7.500 euro e soprattutto ha inasprito le aliquote Irpef sui redditi medio-bassi. Col risultato che, da gennaio a dicembre dello scorso anno, i redditi compresi tra 25mila e 40mila euro si sono notevolmente indeboliti (vedi inchiesta del Giornale sulle tredicesime), dando corpo al famoso «tesoretto» e fiaccando le famiglie, come dimostrano le polemiche politiche di questi giorni. Come se non bastasse, la Finanziaria 2006 ha deciso di potenziare l’anagrafe tributaria, dando la possibilità all’Agenzia delle Entrate di incrociare le dichiarazioni dei redditi con i conti bancari, il canone Rai, l’Ici e tutta un’altra serie di balzelli, anche per stabilire l’eventuale congruità delle dichiarazioni con lo stile di vita. E coinvolgendo nella lotta all’evasione anche i Comuni, che avranno in cambio il 30% delle maggiori somme incassate da Irpef e Ires inevaso. Adesso che il governo promette di restituire potere d’acquisto alle famiglie che lui stesso ha impoverito, le ricette si sprecano ma i fondi non si trovano. Secondo l’ufficio studi della Cgia di Mestre «per incidere in maniera significativa su pensionati e dipendenti servono almeno 15 miliardi di euro». Chi ha un titolo di Stato è avvisato. (il Giornale)

venerdì 11 gennaio 2008

La sottile linea Rossi. il Foglio

Gentile prof, attenzione a non sembrare il bue che dice cornuto all’asino

Il pic nic sull’Aventino della borghesia italiana, che socializza o esternalizza gli oneri e privatizza gli onori, è una tradizione incrollabile nella nostra sessantennale storia repubblicana, come dimostra per esempio l’incapacità della Confindustria di darsi una leadership e una missione chiara e forte, oltre al tran tran concertativo. Questa caratteristica usanza forse ha origini ancor più lontane nel tempo. Il particolare Aventino borghese si organizza così: si sta un passo in politica e uno fuori, un passo in economia e finanza e uno fuori, un passo nella giustizia e uno fuori, un passo nella stampa e uno fuori. Per poter poi denunciare la politica che si atteggia a merchant bank, l’economia che opprime la politica, la finanza che è selvaggia, la giustizia che non agisce e la stampa che scodinzola invece di abbaiare, ma senza precludersi la via per trarre giovamento dalla politica, dall’economia, dalla finanza, dalla giustizia e dalla stampa così come sono qui da noi. Troppo facile, anche perché in Italia, e non solo qui, queste cose sono spesso indissolubilmente intrecciate. Il problema è che questa indole così italiana e trasformista, nel senso migliore del termine, e così naturale nel paese di Machiavelli, pervade troppa borghesia, coinvolge borghesi grandi e no.
Il professor Guido Rossi, però, dovrebbe essere immune da pigre tentazioni aventiniane. Lui, grande giurista, brillante argomentatore, temuto avvocato, ispiratore di controffensive giuridico-finanziarie (come nel caso Abn-Amro contro furbetti e furboni e politici), già senatore indipendente nel Pci, già presidente della Consob, già commissario della Federazione gioco calcio, già gran consigliere di aziende italiane e straniere, già presidente Telecom, già dispensatore di giudizi di bocciatura e di perdono di leader politici come, diciamo, D’Alema, insomma uno come lui, quando scrive nel suo ultimo libro che “nei rapporti fra politica ed economia, la prima ormai non indirizza più la seconda, le obbedisce senza discutere”, corre il rischio di passare per il bue che dice cornuto all’asino.

Sinistra: un modello di governo fallimentare. Alessandro Gianmoena

I nodi sono al pettine. Tutte le storture, le lacune ed i ritardi del nostro Paese stanno affiorando nel momento in cui la crisi economica degli italiani sta vivendo il picco più acuto. Dalla spazzatura di Napoli e Campania alle inefficienze dello Stato nella lotta contro la microcriminalità, agli sprechi di denaro pubblico e gestioni clientelari di enti e società partecipate dallo Stato, ai disservizi della P.A., all'incapacità di un governo che vive in un perpetuo stato di emergenza e che ha la forza di decidere solo nel culmine delle crisi del nostro sistema. Così la frattura tra le istituzioni ed il cittadino è destinata ad acuirsi. Il 2008 sarà un anno difficile per tutti poiché tra bollette, mutui, e costo dei beni primari alimentari le famiglie dovranno adeguarsi ad uno standard di vita peggiore. La logica sarà quella di scegliere tra il ridimensionamento della spesa o l'indebitamento famigliare. Un atteggiamento che in entrambi i casi contribuirà sempre più a modificare in peggio il criterio di valutazione dell'operato di chi amministra la cosa pubblica.

Tutte le indagini statistiche sociali ed economiche dei vari istituti ci dicono che il Paese è inghiottito in un clima di sfiducia. Ma la virtù italiana si è sempre contraddistinta nel superamento delle situazioni di crisi, grazie alla nostra creatività, al nostro estro, al nostro inguaribile ottimismo. Ma allora perché gli italiani, oggi, non hanno la forza di reagire, perché la percezione che si ha della nostra società è di un sistema piegato su se stesso? Il disincanto del popolo si concentra nello scetticismo di una società in cui modelli di governo della sinistra e della sua cultura hanno generato situazioni di crisi sociale ed economica. Lo vediamo nella Campania di Bassolino, sepolta dalla spazzatura, nella Calabria di Loiero si avverte una crisi delle istituzioni in una regione dove l'assenza dello Stato lascia ampio terreno al dilagare delle cosche dell'Andrangheta, nella Liguria di Burlando dove la gestione clientare della P.A. e le cooperative rosse plasmano un territorio economicamente depresso, nel Piemonte della Bresso ormai noto per il blocco ideologico della Tav da parte della sinistra radicale, nel famigerato modello emiliano, centro del sistema coperativo della sinistra ma epicentro dei problemi sociali di ordine pubblico che hanno traformato il sindacalista della cgil Cofferati in uno sceriffo. Esempi di governo locale della sinistra che ha amministrato con la politica miope di governare unicamente anteponendo i propri interessi partigiani al bene della collettività. Così nel locale, così a livello nazionale. Prodi nella sua conferenza stampa di fine anno esibì un ottimismo dopato dalla volontà di conservare il potere anche a discapito degli italiani. Il suo governo, inviso alla stragrande maggioranza degli italiani, opera secondo la stessa logica delle amministrazioni locali di sinistra: politica degli annunci ed azione spesso inconcluente e dannosa, si pensi al pandemonio che si scatenò negli ultimi mesi del 2007 sul decreto sicurezza che si rivelò inefficace perchè non vi era sufficente copertura finanziaria per effettuare i rimpatri degli immigrati. Azioni velleitarie, quindi, applicate solo nei casi di crisi irreversibile che possa incrinare persino il consenso generato dal potere clientelare. Ogni problematicità del reale viene gestita con l'approccio di chi non si fa problemi a decidere le sorti di chi non lo ha votato e sceglie l'immobilismo politico per conservare il consenso ottenuto dalla gestione clientelare, portando i problemi fino al culmine della crisi.

Così il dibattito sull'abbattimento delle imposte, uno tra i maggiori problemi degli italiani, diviene centrale solo per i dipendenti, per soddisfare l'istanze dei sindacati, cinghia di trasmissione tra elettorato e partiti di sinistra, così l'onere economico della riforma previdenziale in favore della «classe dei pensionandi» cade solo sui deboli precari e sulle fasce degli automoni che non godono della «libertà protetta» del ceto politico della sinistra. Bisogna seppellire di immondizia Napoli per ottenere termovalorizzatori in Campania, sempre che la stessa sinistra riesca ad ottenere ciò che lei stessa ha bloccato per anni, bisogna arrivare al culmine della crisi economica per far sì che la sinistra parli di tagli alla spesa pubblica. Se ci chiediamo allora il perché lo scetticismo sia così dilagante in Italia basta vivere la quotidianità per rendersi conto di come la cultura dell'immobilismo, dell'ideologismo, del clientelarismo sia penetrata in tutti i campi della nostra società. Ne sono un esempio la scuola italiana, la cui formazione è degradata e fornisce sempre meno eccellenza; il mondo del lavoro, dove la cultura sindacale ha soppresso la ricerca del merito incurante della necessità di produzione della ricchezza del nostro sistema economico e dove l'inasprimento fiscale sta soffocando le piccole e medie imprese. Le difficoltà nel mercato del lavoro divengono problematiche strutturali poiché non ci sono le condizioni per lavorare di più a causa del Fisco che, paradossalmente, stimola i cittadini a fare meno perché percepire un reddito che superi una certa soglia significherebbe lavorare unicamente per lo Stato.

In questo quadro dell'Italia la sinistra ha una grave responsabilità storica ed attuale. Storica per aver coltivato il suo desiderio di Rivoluzione che ha prodotto una maceria di culture antagoniste allo sviluppo economico capitalistico del nostro paese; attuale perché ha bloccato, assecondando politiche di retroguardia localistiche quando era all'opposizione e tentando di cancellare le riforme berlusconiane ora che è al governo, il percorso di sviluppo che il governo Berlusconi aveva iniziato seppure in tempi di vacche magre, causate dalle vicissitudini internazionali dell'11 settembre e da un Paese bisognoso di riforme. I mali dell'Italia risiedono ancora in quella cultura dei diritti a discapito dei doveri che la sinistra ha da sempre cavalcato nella lunga marcia verso il potere. Prodi e Bassolino sono i suoi prodotti, uomini che incarnano un modello politico fallimentare e che rimangono attaccati al potere anche a discapito dei loro cittadini. Gli italiani questo lo hanno capito e finché essi saranno al potere il pessimismo sarà il segno di un'Italia che cerca di sopravvivere malgrado loro. (Ragionpolitica)

giovedì 10 gennaio 2008

Il non senso al potere. Stenio Solinas

Ho fatto un sogno. Ho sognato che gli intellettuali italiani che avevano magnificato il Rinascimento napoletano di Antonio Bassolino, prendevano la penna e firmavano un manifesto in cui lo invitavano a dimettersi. Da Francesco Rosi a Ettore Scola, passando per Dacia Maraini, una lenzuolata di registi e scrittori, filosofi e musicisti, attori... Non un manifesto politico o ideologico, niente di tutto questo, ma la semplice constatazione che chi non ha saputo amministrare può avere anche le sue brave ragioni, ma deve comunque saper dare l’esempio e lasciare quel potere che non ha saputo e/o potuto usare.

Tutto qui, semplicemente, una prova di senso civico, un’assunzione di responsabilità. Ho fatto un sogno. Ho sognato che gli italiani del nord, del centro e del sud prendevano carta e penna e scrivevano una lettera al presidente della Repubblica nella quale gli chiedevano di convincere il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino a rimettere il mandato. Una lettera educata nella forma, ma ferma, in cui si esponeva un pensiero che può sembrare banale, ma che è invece alla base del rapporto fra una comunità nazionale e i suoi rappresentanti istituzionali: fiducia, rispetto degli impegni presi. Ho fatto un sogno.

Ho sognato che mentre gli intellettuali firmavano e gli italiani scrivevano, il presidente Bassolino li batteva sul tempo e lasciava il suo posto. Senza polemiche, senza accuse al tale ministro o al tale sindaco, al partito X o alla delinquenza organizzata Y. Soltanto una dichiarazione in cui, proprio per aver negli anni lavorato a costruirsi un’immagine di efficienza, di pulizia e di serietà, nel momento in cui questa si rivelava fallace non poteva che prenderne atto e regolarsi di conseguenza. A volte, se si pensa di non essere l’unico responsabile di un degrado, ci vuole più coraggio ad andarsene che a restare...

Il nostro è uno strano Paese e il rapporto fra governati e governanti è più strano ancora. Il disprezzo dei primi nei confronti dei secondi è palpabile, e dagli anni Sessanta in poi ha provocato una serie di corto circuiti che non vanno sottovalutati, dalla contestazione al terrorismo, alla scomparsa della cosiddetta Prima repubblica. Ma quello che lascia più sgomenti è l’irresponsabilità e la logica da casta, svincolata da qualsiasi controllo, che anima quest’ultimi, una sorta di armata di cosacchi accampata sul territorio e che vive un’esistenza parallela... Si potrà obiettare che ogni popolo ha la classe dirigente che si merita, ma questo non è sufficiente a spiegare la realtà. C’è qualcosa di più e di più sottile e riguarda l’incapacità, o la non volontà, di chi dirige a espletare le proprie funzioni.

Se chi governa non ha il senso dello Stato, come si può pensare che lo Stato abbia un senso? Nel dramma di Napoli e della spazzatura che la sommerge e la soffoca c’è tutto questo, e qualcos’altro ancora. Per esempio, l’essere arrivati al capolinea di quell’idea di «diversità» su cui la sinistra italiana, a partire dalla fine degli anni Sessanta, basò la propria differenziazione e il proprio successo, l’idea di una sanità morale da contrapporre a una insanità politica, italiani contro italioti...

Nel 1975, trenta e passa anni fa, quando Napoli ebbe il suo primo sindaco comunista, Maurizio Valenzi, quell’idea si era talmente radicata che persino un autore non retorico come Eduardo de Filippo pensò di cambiare il finale della sua Napoli milionaria, rendendolo ottimistico. Insomma, «’a nuttata» non aveva più «da passa’», «’a nuttata» era passata... Si è visto. È anche questo che rende quel primo sogno da cui siamo partiti ingenuo quanto impossibile. Perché significherebbe ammettere che in un quarto abbondante di secolo l’intellighentia italiana che si faceva vanto e scudo della propria diversità, non ha capito niente, non ha visto niente e ha giustificato tutto. L’importante era che non governassero gli altri, come poi governassero i suoi era secondario e relativo. Il falò di rifiuti che brucia Napoli, lascia in cenere il nostro sentimento nazionale e lo fa nel peggiore dei modi. Nessun esponente del governo ha sentito la necessità e il bisogno di trasferirvisi, di condividere una tragedia e una vergogna. È solo un proliferare di comitati e di commissari straordinari, l’incapacità a capire che a volte bisogna rischiare la faccia per legittimamente poter affermare di averne una.

Qui sono tutte maschere di gomma, travestimenti buoni per ogni stagione. Piange il cuore vedere una città, una capitale, sprofondare nella sporcizia, perché significa anche negarle quel senso dell’onore, del decoro e del rispetto che fa dei suoi abitanti degli esseri umani e non una massa abbrutita. Ma forse ancora più ammorbante è il balletto delle responsabilità che come una stanca tiritera avvolge questa tragedia, l’incapacità a tacere, il gusto parolaio di dire la propria su tutto, la vergognosa irresponsabilità con cui si afferma oggi quello che fino a ieri si era negato, lo sgomitare per avere sempre e comunque una visibilità, perché solo apparire, alla fine, è ciò che conta e interessa. È anche questo che rende quel nostro terzo sogno puerile e un po’ ridicolo. Pensare a un politico che lasci sua sponte il potere che ha costruito e usato con mano di ferro, è un’eresia.

Il professionismo che ne è alla base ha finito con l’eliminare qualsiasi elemento etico, qualsiasi spinta ideale, qualsiasi libertà intellettuale. E quindi Bassolino resterà al suo posto. «Perché solo io?» è il mantra che lo tiene attaccato alla poltrona. Quanto al sogno degli italiani del nord, del centro e del sud, forse è l’unico su cui, stando così le cose, varrebbe la pena di impegnarsi perché diventi realtà. Sarebbe bello se, per esempio, questo giornale se ne facesse in qualche modo garante, una sorta di posta centrale di una protesta doverosa, di tramite con la più alta carica dello Stato. Non per un fine di parte o ideologico, ma per quello che per tutto questo articolo abbiamo cercato sommessamente di dire: rispetto, fiducia, dignità. Nel caso che lo riguarda, Bassolino non è più solo o tanto un politico in carne e ossa, ma l’immagine di ciò che la politica non dovrebbe più essere. Assenza di senso. Quanto al Rinascimento, si sarà capito che abbiamo già dato. (il Giornale)

Balzelli sulla benzina: è ora che Bersani si svegli. Carlo Stagnaro

Mentre si moltiplicano, tra le di­chiarazioni dei politici, gli appel­li al buon cuore dei petrolieri, passa quasi inos­servata sui giornali la notizia che Marche e Puglia hanno in­trodotto un'accisa regionale sui carburanti, seguendo l’esempio non edificante di Campania, Molise e Liguria. Ciò avviene quando benzina e diesel sono ai massimi storici a causa dei livelli stratosferici a cui è quotato il barile. Ma se le dinamiche di mercato che determinano il caro-carburan­ti sono scrutinate dall'antitrust e dal governo, nessuno sem­bra curarsi dell'impatto che la componente fiscale ha sui prezzi. Eppure, l'erario si pren­de circa il 60 per cento di quel­lo che paghiamo per un pieno di benzina, poco meno per il gasolio. Su ogni litro di prodot­to, gravano le accise (frutto di un secolo di imposte a capoc­chia), in alcune regioni le acci­se regionali, e poi l'Iva, che si applica alla somma tra queste e il prezzo industriale. (Nelle regioni malandrine, dunque, lo Stato si becca un bonus ag­giuntivo pari al 20 per cento dell'accisa regionale).

Il prezzo industriale contie­ne a sua volta numerose voci di costo, che vanno dalla mate­ria prima alla distribuzione per arrivare ai margini dei ge­stori dei punti di rifornimento e delle compagnie petrolifere (pochi centesimi ciascuno). Né è il caso di ricordare che gli stessi margini inglobano la tas­sazione sui profitti di benzinai e aziende. Guardando alle ci­fre che scorrono impietose sul­la pompa, dobbiamo prender­cela con un colpevole dai con­torni netti: lo Stato e, talvolta, le regioni.

Ormai, tra l'altro, non tiene più la tesi secondo cui le com­pagnie trarrebbero ingiusti pro­fitti facendo cartello: era il fragile teorema del garante della concorrenza, ma, con l'accettazione degli impegni presentati dalle industrie, anche tale pre­sunto anticoncorrenziale viene meno. Sembra quindi para­dossale che governo e associa­zioni dei consumatori non vo­gliano affrontare il tema della fiscalità sui carburanti. Per l'esecutivo, un intervento im­plicherebbe la rinuncia al grasso gettito di queste imposte, e quindi l'esigenza di tagliare vo­ci di spesa. Per le associazioni dei consumatori, è molto più facile prendere la scorciatoia populista. Perché il Ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani non convoca i go­vernatori delle cinque regioni aguzzine con la stessa solleci­tudine con cui si rivolge alle imprese del settore? Forse per­ché il dividendo politico e mediatico da incassare è molto più basso. Oppure perché ulu­lare alla luna è più comodo che sporcarsi le mani contri­buendo sul serio a risolvere i problemi. Lo stesso vale per il centro-destra, pronto sempre a belare contro il governo, ma quasi mai a presentare alterna­tive. La via d'uscita è ovvia: tagliare le accise, come ha chie­sto Daniele Capezzone. Chi sa­prà affrontare la sfida? (il Tempo)

mercoledì 9 gennaio 2008

Emergenza rifiuti: troppo poco mercato. Rosamaria Bitetti

Il problema della spazzatura sta raggiungendo in questi giorni dei toni tragici, e mentre i politici ci promettono di volta in volta “soluzioni definitive” ed i campani, giustamente scettici, scendono in piazza, l’immondizia si accumula. Sottolinea però Carlo Lottieri, nell’ IBL Focus n. 89, che la soluzione non può essere trovata in «una retorica che potremmo battezzare “repubblicana”, [che] vede nel civismo e nella determinazione ad immolarsi per l’interesse generale l’unica maniera di aggirare tali difficoltà», quanto in un’approccio liberale. Un approccio che tenga conto delle vere parti in causa, cioè coloro che vengono danneggiati dalla costruzione delle necessarie strutture di smaltimento dei rifiuti, e chi da questa attività trae un guadagno, e le spinga a negoziare per assegnare un valore ai diritti lesi. Questo costo può emergere solo in una transazione di mercato, può essere definito e ricompensato. La negoziazione, continua Lottieri, non è quello che manca, oggi. Solo, non coinvolge le parti lese ma politici: amministrazioni locali ed imprese, solitamente a capitale pubblico. Porta l’esempio del paesino di Parona, dove Lomellina Energia, per ottenere il consenso dell’amministrazione locale alla realizzazione di un termodistruttore ha offerto di versare ogni anno al Comune una quota del suo fatturato, di circa 2 milioni di euro. Ora, tenendo presente che il paese conta meno di duemila abitanti, in una negoziazione di mercato, l’azienda avrebbe offerto circa 4.000 euro a famiglia, per 15 anni. Troppo pochi per ripagare i danni? Avrebbero scelto le persone che, questi danni, li avrebbero subiti. Avrebbero potuto contrattare un altro prezzo. L'impresa avrebbe potuto offrire la medesima cifra ad una altro paesino, o ad un altro ancora, fino a trovare qualcuno disposto ad accettare l’offerta. Nel mercato, un impianto di termovaloriazzazione (ma leggi anche rigassificatore, centrale nucleare, etc) si trasformerà, per gli abitanti di una città (e non solo per i suoi politicanti), in un’opportunità, e verrà costruito là dove gli abitanti saranno disposti a coglierla. (Realismo Energetico)

Stavolta i giudici stanno a guardare. Filippo Facci

Silvio Berlusconi non ha imprese di smaltimento, neanche un dipendente Mediaset a sorvegliare un bidone della spazzatura: e sarà questa la spiegazione del perché la magistratura napoletana pare ferma e immobile, con le inchieste chiuse nei cassonetti; a meno, ecco, che trattino di telefonate e di attricette e appunto di Berlusconi.
E chiamatela ironia, chiamatelo obliquo stratagemma per difendere sempre il capo: epperò sono veramente in tanti, per quanto non manchino né la puzza né il bruciato, a chiedersi che fine abbia fatto la magistratura campana. Nel pattume sembra rotolata anche l’obbligatorietà dell’azione penale, ciò che riguarda la mera e impunita violenza di questi giorni: aggressione a pubblici ufficiali, resistenza, danneggiamento, incendio, occupazione abusiva oltreché interruzione di pubblico servizio per chi ha bloccato autostrade e tratti ferroviari: a Napoli si può.
Solo l’altra notte due autobus sono stati bloccati e uno è stato dato alle fiamme, sconosciuti hanno fatto scendere i passeggeri di un altro autobus e li hanno usati come blocchi umani per fermare la circolazione, due poliziotti sono finiti in ospedale per ferite e contusioni, un’auto della Stradale è stata semidistrutta, diversi vigili del fuoco sono stati feriti da sassaiole mentre altri deficienti appiccavano fuochi vicino a un distributore di benzina, con tre cine-operatori che intanto venivano picchiati con calci e pugni e derubati, le loro telecamere spaccate, le videocassette rubate, l'informazione pure.
Di quanti reati stiamo o non stiamo parlando, senza contare quelli sanitari? La magistratura brancola nel puzzo anche se il proscenio non pare Napoli ma la Beirut della guerra civile, sembra il Medioriente, c’è anche l’esercito: ma sono soldati che non reprimono, li hanno mandati a portare via spazzatura. Mentre migliaia di spazzini (operatori ecologici, signor ministro dell’Ambiente) sono fermi da tempo immemore: senza che anche lì si muova una foglia, un foglio. È da almeno tredici anni che la spazzatura ha invaso le strade campane, qualcosa di unico in Occidente: una raccolta differenziata pari al cinque per cento e per il resto 7.500 tonnellate di rifiuti il giorno, 350 Tir il giorno, e pure in Campania ci sarebbero ben sette impianti di produzione di Cdr, il Combustibile Derivato dai Rifiuti: regolarmente incendiati dalla camorra, oppure ecco, bloccati dalla magistratura perché il pattume non era trattato, era inadatto alla lavorazione.
Anche il termovalorizzatore di Acerra è stato bloccato dalla magistratura dopo che gli ecologisti l'avevano definito inquinante e ormai vecchio. La Procura di Napoli ha interdetto Fibe e Fisia, le aziende del gruppo Romiti che gestiscono diversi impianti e la costruzione dell’inceneritore di Acerra, dopo aver raccolto le denunce di vari comitati: si è concentrata sulla presunta obsolescenza degli impianti e di fatto ha bloccato tutto.
Per il resto, gli unici magistrati che si sono un minimo mossi sono quelli anticamorra, che sin dal 1992 aprirono inchieste sull’affare della cosiddetta «Monnezza d’oro» che i boss cominciarono a preferire alla droga, perché rendeva di più e rischiavano meno: su tutte, la cosca dei Casalesi e i clan di Rione Traiano e di Pianura, peraltro citati dallo scrittore Roberto Saviano («Gomorra») ma anche dal procuratore Franco Roberti su Repubblica di domenica scorsa: «È la camorra a spingere perché prevalga la violenza, la camorra ha interesse ad agitare la protesta e a mantenere la situazione emergenziale che le porta guadagni». Solare, e nondimeno grave: e allora che aspettano le Forze dell’ordine a intervenire? Meglio: che aspetta la magistratura a intervenire con le Forze dell’Ordine? Risposta che semplicemente sfugge. Quello campano non è più uno scenario sociologicamente delicato sul quale non infierire: stiamo parlando di camorra, di crimine organizzato, di reati gravi contro lo Stato e i suoi uomini, i nostri.
Si era saputo di un’inchiesta sui rifiuti in provincia di Caserta ancora nel 2005: giri di mazzette e favori legati all’individuazione di una discarica e della ditta a cui demandare lo smaltimento: non ne abbiamo saputo più nulla, almeno noi. E fa specie che a porsi qualche domanda, ieri l’altro, sia anche Pn, un sindacato della Polizia: «Le dimissioni di Bassolino e Pecoraro Scanio servirebbero a calmare gli animi della gente esasperata: non è più possibile vedere le forze di Polizia scontrarsi duramente con i cittadini onesti che per anni hanno pagato tasse per la spazzatura». E ancora: «È urgente un intervento chiarificatore della Magistratura per fare definitivamente luce su una gestione ultradecennale scandalosa». Lo dice la Polizia. Speriamo che con la magistratura si facciano almeno una telefonata. (il Giornale)

Addio seconda Repubblica. Pierluigi Battista

Sepolte sotto una montagna di rifiuti, giacciono le spoglie della Seconda Repubblica. Il sogno infranto del «grande cambiamento » lascia le sue scorie nella discarica della vergogna. Marciscono le promesse e i sogni fioriti quindici anni fa. E si chiude nel peggiore dei modi la chimera di un fantastico «nuovo Rinascimento »: non solo la sigla magniloquente di un esperimento che ha trovato in Antonio Bassolino il suo profeta, ma la presunzione fatale di un ciclo politico che avrebbe dovuto archiviare per sempre i fantasmi di un Medioevo chiamato Prima Repubblica. Tutto seppellito nel caos e nelle fiamme della jacquerie napoletana, mentre l'Italia della Seconda Repubblica prende la forma dei cumuli di spazzatura che le tv di tutto il mondo trasmettono come simbolo umiliante del nostro Paese. Altro che Rinascimento italiano.

Persino le date parlano di un fallimento. È comprensibile che Bassolino non voglia arrendersi all'idea feroce di passare come il capro espiatorio del disastro di questi giorni. Ma è proprio nella sua figura che si compendia la vicenda delle speranze e delle disillusioni nate nella Seconda Repubblica. Nell'autunno del '93 (esattamente quindici anni fa, appunto) la sua elezione al ruolo di primo cittadino di Napoli venne salutata come un nuovo inizio di salvezza nazionale. Nacque la stagione dei sindaci direttamente eletti dal popolo. Si inaugurò l'era dell'ammirazione per il «partito dei sindaci», capaci di scavalcare le oligarchie obsolete del passato grazie a un caldo rapporto personale e carismatico con gli elettori. Per completare il grande cambiamento annunciato dal crollo dell'ancien régime, Mario Segni coniò l'immagine suggestiva del «sindaco d'Italia», risolutore illuminato dei problemi italiani, figura che incarnasse la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rinnovate e depurate dalle miserie di un passato coralmente ripudiato. Bassolino era il «nuovo » sindaco per eccellenza, il riscatto dalle infamie di una Napoli che la vecchia politica aveva consegnato alle rapaci mani sulla città denunciate da Francesco Rosi, all'epidemia di colera del '73, al malaffare della ricostruzione post terremoto.

Ecco perché l'immondizia che soffoca Napoli appare come un crudele contrappasso destinato a travolgere nella desolazione e nell'indignazione l'immagine del suo Sindaco per antonomasia. Era il «nuovo» della Seconda Repubblica e il fetore dei sacchi di monnezza ne ha distrutto l'incanto. Ha ragione Raffaele La Capria: le piramidi di rifiuti stavano raggiungendo la cima del Vesuvio e intanto la Seconda Repubblica si contemplava come Narciso nel suo presuntuoso nuovismo tutto immagine, tutto comunicazione, tutto pubbliche relazioni e autopromozione.

Ma Napoli è solo la versione macroscopica di un caso italiano senza redenzione. Quindici anni in cui sono nate Bicamerali per le riforme, si sono vagheggiate senza requie assemblee costituenti, si sono invocati confronti costruttivi tra gli schieramenti, ma che ancora non sono stati sufficienti per trovare un minimo accordo su una legge elettorale decente e condivisa. Quindici anni trascorsi a discettare sull'«anomalia» italiana, senza che un solo passo concreto abbia provveduto a sanarla.Quindici anni che non sono bastati a smaltire l'ebbrezza della «rivoluzione giudiziaria » che travolse nel disonore la Prima Repubblica, sperando senza confessarselo che i giudici potessero completare il lavoro a danno del nemico politico: salvo accorgersi troppo tardivamente che a Napoli la magistratura nulla sa dello scandalo della spazzatura che oscura il Vesuvio ma in compenso si prodiga alacremente per sciogliere il mistero delle vallette raccomandate.

Quindici anni vissuti nell'ossessione di Berlusconi, convinti che con la sua eventuale uscita di scena i problemi si sarebbero dissolti, che la spazzatura si sarebbe smaterializzata, che la buona amministrazione avrebbe trionfato in virtù di una supposta superiorità morale. Quindici anni a maledire i vecchi partiti, i rimasugli che ne restavano, gli apparati impegnati ad arrestare il luminoso avanzamento del «nuovo », del puro, dell'incorrotto e dell'incorruttibile.

Nell'incendio appiccato a Napoli si assiste così a un gigantesco falò delle vanità che, con un'estensione molto più tragica di quello raccontato da Tom Wolfe, incenerisce l'ideologia autoconsolatoria della Seconda Repubblica. Si spalanca una voragine tra le promesse e le realizzazioni, tra i propositi e i risultati. Ma questa non sarebbe una novità. È nuova invece, e sconvolgente, la rivelazione della spaventosa vacuità di quel discorso ideologico. Un'ideologia, una retorica, un lessico che hanno sostituito la realtà, trascinando nell'autocompiaciuto rigetto del passato ogni esame serio dei mali che avevano messo la pietra tombale sulla Prima Repubblica. Hanno degradato la politica all'arte dell'apparire e del proclamare, rinviando sine die ogni soluzione credibile. È più di una delusione: è la scoperta di un bluff durato quindici anni. Anche nei primi anni del dopoguerra democratico presero forma potenti correnti di delusione, di scoramento, persino di rimpianto nostalgico per l'Italia del vecchio regime. Ma la Repubblica democratica tenne, perché poggiava su qualcosa di solido e conservava ancora il senso di una missione comune, malgrado la Guerra fredda e la spaccatura dei blocchi contrapposti. Oggi invece, sotto la spazzatura il nulla. Solo la fine del personalismo plebiscitario surrogato di leadership autentiche, le bandiere oramai stinte del «sindaco d'Italia», la stanchezza per un bipolarismo astioso, inconcludente e intontito dai suoi propri annunci. Il de profundis della Seconda Repubblica, e della sua fascinazione oramai corrosa dal tempo. Delegittimata dal confronto con i successi altrui. Svuotata dal dubbio che nel mondo la «nuova» Italia stia perdendo la partita decisiva, resa per noi impraticabile da un mare di spazzatura. (Corriere della Sera)

martedì 8 gennaio 2008

Giacimenti inesauribili grazie al caro barile. Francesco Ramella

Sembra che lui abbia perso dei soldi. Ma, forse, non gliene importa molto. Parliamo del “trader” di New York che lo scorso 2 gennaio, per primo al mondo, ha acquistato petrolio pagandolo più di 100$ al barile, per poi rivenderlo poco dopo a 99,4$ e sperando così di conquistarsi un posto, se non nella storia, almeno nella cronaca economica. Ciò nondimeno, è un fatto che negli ultimi sei anni il prezzo del petrolio sia quintuplicato. Tale evoluzione potrebbe far pensare ad una scarsità crescente con un’offerta che non tiene il passo di una domanda in costante aumento. Ma stiamo davvero raschiando il fondo del barile come suggeriscono i teorici del “picco del petrolio”? Probabilmente no. Più che nella geologia, per interpretare quanto è accaduto negli ultimi anni è più opportuno guardare alle ragioni della politica e dell’economia.

In primo luogo, è utile sottolineare come negli ultimi anni la salita del prezzo del petrolio è andata di pari passo con il declino del dollaro; rispetto all’evoluzione del prezzo dell’oro, la crescita del petrolio è stata assai più modesta e, se il dollaro non si fosse deprezzato rispetto all’euro, l’attuale quotazione invece che a tre cifre sarebbe intorno ai 60 dollari per barile.
Occorre poi ricordare come l’attuale fase di prezzi elevati faccia seguito ad un periodo di quotazioni in discesa che hanno avuto come conseguenza quella di ridurre gli investimenti nel settore. Oggi, analogamente, con i prezzi in salita, cresce la convenienza a destinare risorse aggiuntive ma i risultati non potranno che essere perseguiti nel medio periodo.

Ma, di per sé, il petrolio non manca. Solo che, per così dire, si trova nel posto sbagliato. La gran parte delle risorse è infatti sotto il controllo di apparati statali che, per non perdere i pingui profitti di cui godono oggi giorno, ostacolano o impediscono tout-court le attività di esplorazione delle aziende petrolifere private: Exxon Mobil, la più grande società mondiale possiede solo l’1,08% delle riserve (e le cinque maggiori compagnie totalizzano una quota pari al 4%). Non mancano poi vincoli alle estrazioni, dettati da motivazioni ambientali.

In altri casi, l’estrazione e la produzione risultano più difficoltose e costose rispetto a quelle dei giacimenti attualmente sfruttati. È il caso, ad esempio, delle sabbie bituminose del Canada che sembrano contenere tanto petrolio quanto se ne trova in Arabia Saudita. Finora, proprio a causa del relativamente basso prezzo di vendita, non è stato conveniente estrarlo non diversamente da quanto accaduto con le riserve di carbone in Europa, dove l’attività estrattiva raggiunse un picco nel 1913 ed è oggi pressoché inesistente: nessuno sarebbe infatti disposto ad acquistare quel carbone ad un prezzo remunerativo per chi lo estrae. Ma se il prezzo continuasse a salire, il quadro muterebbe radicalmente e le risorse “utili” conoscerebbero una forte impennata.
E, a giudicare da quanto accaduto finora, è verosimile che le risorse di petrolio non si esauriranno mai.Le riserve attualmente accertate sono il risultato dei passati investimenti e sono funzione dell’avanzamento tecnologico e dell’attuale ed ipotizzato prezzo di vendita. Ma non equivalgono all’ammontare totale di petrolio che si trova nelle viscere della terra: l’estrazione da un pozzo non termina quando tutto il petrolio è stato recuperato ma quando i costi di estrazione diventano superiori al prezzo di mercato.

È certamente vero che localmente le risorse si esauriscono ma non si può dire altrettanto a livello mondiale: alla fine degli anni ’70 i Paesi non appartenenti all’OPEC avevano 200 miliardi di barili di riserve accertate. Nei successivi trentacinque anni la produzione è ammontata a 460 miliardi di barili e le risorse “rimanenti” sono stimate essere attualmente intorno ai 210 miliardi di barili. Ancora più imprevedibile è stata l’evoluzione degli Stati appartenenti al cartello petrolifero: la situazione iniziale vedeva 412 miliardi di riserve accertate; tre decenni più tardi, dopo che erano stati estratti oltre 300 miliardi di barili, si stimava che ne rimanessero ancora 820 miliardi, il doppio rispetto alla situazione iniziale. L’Arabia Saudita attualmente sfrutta solo nove degli oltre ottanta giacimenti noti e, nel proprio interesse di non vedere diminuire il prezzo del petrolio, non investe nella ricerca di nuovi siti.
Negli Stati Uniti, mezzo secolo fa, non c’era alcuna produzione off-shore. Venticinque anni or sono si estraeva petrolio fino ad una profondità di trecento metri; oggi, grazie al miglioramento delle tecniche di estrazione, si arriva a tremila e si stima che il petrolio estratto dai fondali marini presto rappresenterà la metà della produzione statunitense.
I dati disponibili indicano inoltre che, fino a vent’anni fa a scala mondiale e fino ad oggi nei Paesi non OPEC (per quelli facenti parte del cartello non sono più disponibili informazioni attendibili), i costi per la ricerca e l’estrazione del petrolio sono in declino.
Da ultimo occorre tenere presente che i (temporanei) incrementi dei prezzi, oltre ad incentivare investimenti sul lato dell’offerta, determinano ricadute positive sul versante della domanda: nei Paesi occidentali negli ultimi trent’anni il consumo di energia per unità di ricchezza prodotta si è dimezzato. E, verosimilmente, questa è una delle ragioni per cui le nostre economie sono state capaci di assorbire, almeno finora senza grossi traumi, l’eccezionale aumento dei costi energetici dell’ultimo lustro.
Se lasceremo i mercati funzionare senza troppi lacci e laccioli, possiamo guardare al futuro con moderato ottimismo. Tra qualche anno probabilmente godremo i frutti di quello che oggi ci sembra un prezzo “troppo alto”. (Libero Mercato)