domenica 31 agosto 2008

Solo in America. Christian Rocca

Con la solita puzza sotto il naso di chi si considera antropologicamente superiore, noi europei siamo abituati a pensare che la politica americana sia un grande spettacolo e un business mostruoso, dove contano soltanto gli spot televisivi e i giochi d’artificio, i soldi e le lobby. Associamo a quel processo democratico l’idea di una politica venduta alle big corporation e agli interessi speciali, distante dalla gente e vicina agli affaristi. Elitaria e pacchiana allo stesso tempo. Quando da noi si prova a introdurre qualche elemento di quel sistema politico che, peraltro, si basa sulle stesse solide istituzioni di oltre duecento anni fa (e noi, nel frattempo, che cosa abbiamo passato e in che stato ci troviamo?), immancabilmente si parla di americanate e di derive plebiscitarie, come se la spettacolarizzazione della democrazia americana fosse un pericoloso narcotico per la gente comune e una manna dal cielo per le solite caste di ricchi e potenti. “Bullshit”, per dirla nel moderno latino. Solo in America un quarantaseienne nero, figlio di un immigrato africano e di una mamma del midwest, cresciuto in Indonesia e nelle lontane isole Hawaii, può essere a un passo dal diventare presidente del suo paese e leader del mondo libero, dopo peraltro aver annichilito con la forza delle sue idee, e il denaro che ne è conseguito, la più potente macchina politica degli Stati Uniti.
Solo in America può capitare che una ragazza di quarantaquattro anni, cresciuta nel posto più lontano possibile da Washington, madre di cinque figli e sposata con un metalmeccanico eschimese che per arrotondare e divertirsi fa il pescatore, abbia la possibilità di diventare vicepresidente del paese più importante del mondo. Fino a quattro anni fa Barack Obama era un perfetto sconosciuto, fuori dal suo collegio elettorale di politico locale dell’Illinois. Otto anni fa, nel 2000, il Partito democratico che oggi guida con piglio sicuro non lo ha fatto nemmeno entrare alla convention di Los Angeles che stava per nominare Al Gore alla presidenza. Sarah Palin era sindaco di un paesino di novemila abitanti quando, due anni fa, ha sfidato l’establishment del suo partito e sconfitto, prima alle primarie poi alle elezioni generali, il governatore uscente, il suo predecessore e l’industria del petrolio. Fino a un paio di mesi fa, nemmeno gli insider di Washington l’avevano mai sentita nominare. Solo in America. Purtroppo.

giovedì 28 agosto 2008

Mettete un burqa ai politicamente corretti. Maria Giovanna Maglie

Non è straordinario ascoltare la battuta tranchant con la quale il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, ha creduto di giudicare la vicenda del burqa? Ha detto che nei musei veneziani tutti entrano vestiti come vogliono, basta che si vedano gli occhi. Pensa ancora che gli occhi siano lo specchio dell'anima, coltiva ancora la splendida certezza, insieme al suo direttore dei Musei civici, che gli usi e costumi altrui, anche quando sono patentemente illegali, anche quando mettono in serio pericolo la nostra sicurezza, vadano rispettati fino a che morte non sopraggiunga. In questo Oriana Fallaci è stata profeta fulminante, immaginando un'Italia di pecoroni, propaggine più debole di un'Europa sbrindellata, dedita a costruire moschee, accettare integralisti, lasciare le donne immigrate in segregazione, permettere circoncisioni ed infibulazioni caserecce, insomma pronta a svendersi.

Leggerete che la cronista del Giornale, capo e testa velati, è entrata ed uscita senza problemi da qualunque luogo pubblico, quando invece una legge del nostro Stato lo proibisce. L'altro cronista, che indossava un casco integrale da motocicletta, non è andato da nessuna parte. Giustamente, dico io, perché in faccia bisogna pur farsi guardare, e c'è la faccia sui nostri documenti. Ma il burqa, allora, perché dovrebbe per forza rappresentare la riservatezza di una donna inerme e disarmata, e perché dovrebbe essere indossato volontariamente, non a causa di un odioso obbligo? Soprattutto, perché dobbiamo essere noi, Paese occidentale e sedicente emancipato, ad accettare, a sopportare questa indecenza?

La sola idea che a qualcuno sia passato per la testa, chiamiamola così, di licenziare il custode che seguiva le disposizioni e rispettava le nostre leggi, mi ripugna. Diciamo che è stato l'eccesso di zelo dei dirigenti politically correct che affliggono le nostre istituzioni e tarlano le nostre opere d'arte. Diciamo che oggi, al massimo domani, lo giudicheremo uno scherzo. Se così non accadrà, sarà bene che i ministri del nostro governo armino un grande casino, di quelli che fanno rumore e che si ricordano. Non siamo più nell'era Prodi. O no?
Resta la dolorosa sensazione, forse la certezza, che il razzismo, odiosa idea e pratica, si sia capovolto, e cammini all'indietro e a testa in giù. Pensate che mascalzone quel custode, che voleva sapere chi ci fosse dietro quel velo, magari preoccupandosi delle ricchezze che custodisce. Pensate a quella povera famiglia, i maschi davanti, magari in jeans e maglietta, perché in laguna fa un caldo tremendo, le femmine dietro, abiti neri, chiusi dalla testa ai piedi, testa schiacciata sotto un tessuto altrettanto pesante, e per finire in bellezza, il volto interamente velato, che non si è potuta godere la sua visitina al museo.

I pochi Paesi liberali dell'Islam vivono vita grama, circondati come sono da pescecani come l'Iran e la Siria, da altri che tengono furbescamente il piede in due scarpe, come l'Arabia Saudita. Il re del Marocco, diretto discendente di Maometto, ha chiuso tutte le moschee sospette di terrorismo, ha proibito la preghiera durante le ore di lavoro, ha tolto il velo alle dipendenti pubbliche, e, nella speranza di cambiare ignoranza e pregiudizi, ha cambiato le foto e le immagini femminili anche dai libri di scuola. Conta naturalmente sull'appoggio dell'Occidente per non fare una brutta fine.
Noi no, siamo troppo occupati a scusarci con coloro che ci frequentano senza rispettarci. Il burqa io lo farei portare al sindaco Cacciari e al suo compare direttore dei Musei civici. Basta un giorno, forse capiscono. (il Giornale)

Per i giornali italiani i cristiani vittime dell'Islam non fanno notizia. Carlo Panella

Suggeriamo un utile esperimento: leggete con interesse i due paginoni fitti fitti di notizie e stupore sui due cristiani uccisi in India dagli induisti. Apprezzate come è giusto il rilievo scandalistico che tutta la stampa progressista ha dato in Italia al caso. Poi andate su Internet e scoprite quanti sono i cristiani uccisi nello stesso modo da musulmani negli ultimi anni, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane. Infine, controllate lo spazio che la stessa stampa progressista (Repubblica, Corriere, Stampa, Messaggero, ecc…) ha dato loro. Vi anticipiamo il risultato: nulla.

Dunque: se due cristiani vengono barbaramente massacrati da estremisti indù è una notizia, anzi: una notiziona. Se decine e decine di cristiani vengono con uguale barbarie massacrati da estremisti musulmani, è una non notizia, un nulla, è cosa di cui non si deve parlare. Per dirne una, il 30 luglio scorso, 4 cristiani sono stati tirati giù da un bus e massacrati a suon di botte da estremisti musulmani nelle Filippine. Rilievo sulla stampa nazionale: zero.

Dunque, se i massacratori dei cristiani sono musulmani, la consegna è il silenzio. Se sono indù, fa sensazione: pagine e pagine di inchieste, cronache e commenti. E’ questa una delle tante follie del politically correct di cui però è anche pesantemente responsabile la stessa Chiesa. Da anni infatti, la Chiesa di Roma accetta in silenzio non solo - e questo è comprensibile e giusto - il martirio dei suoi fedeli e padri, ma anche una consegna ben peggiore che pure subisce senza protestare: il divieto di proselitismo in tutti i paesi musulmani.

Da anni si fa finta che il tema della reciprocità riguardi solo la libertà di culto. Da anni in Vaticano si accetta la pantomima che questo sia il punto. Ma se così fosse, il palmarés della tolleranza spetterebbe all’Iran di Khomeini e di Ahmadinejad, là dove esistono conventi e chiese e vengono dette messe senza scandalo. Ma il punto vero non è questo. La follia dell’Islam contemporaneo, in prima fila l’Islam “moderato” o laico come quello algerino e siriano è il divieto assoluto di fare proselitismo cristiano in terra d’Islam. E questo divieto viene supinamente accettato da tutte le chiese locali che si accontentano di celebrare i sacramenti - quando possono - dentro comunità verticali, tra cristiani che sono tali per generazione, mai per conversione.

E’ ora che la Chiesa s’interroghi e chiarisca a sé stessa e al mondo perché rifiuti, come rifiuta, di abbassare la testa a fronte del divieto del proselitismo così crudelmente praticato dagli estremisti indù e perché invece accetti senza veementemente protestare contro il divieto al proselitismo praticato anche dai moderati musulmani. Ed è ora soprattutto che di questo tema si facciano carico i laici, i non credenti, che devono finalmente capire che la libertà religiosa non è solo la libertà di non avere nessuna religione. (l'Occidentale)

lunedì 25 agosto 2008

Anm: politicizzati e straparlanti. Davide Giacalone

Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati, può tranquillamente essere bocciato in diritto, storia e politica. Gli studi, su di lui, sono passati come il pudore per il ridicolo, senza lasciare traccia. Si lamenta di un’ipotesi: “se introduciamo la politica nel Csm ...”. A parte l’ennesima violenza togata alla lingua italiana, come sarebbe a dire: “se”. Il Consiglio Superiore della Magistratura è organo politicizzatissimo, eletto tramite correnti corporative e partitiche. Ma gli sfondoni arrivano appresso.
Dice che ove non si conservi l’unità delle carriere potrebbe intervenire la Corte Europea. Scempiaggine superlativa, giacché in Europa sono ovunque separate. Né rileva il fatto che la Costituzione italiana è invocata in senso opposto, giacché la questione non sarebbe di competenza europea, ed ove lo fosse ciò deporrebbe contro quella lettura, alquanto storta, del nostro dettato costituzionale. Gli studi universitari sono alquanto decaduti, se si può superarli in queste condizioni.
Sostiene il nostro pensatore che se la politica s’impadronisse del Csm si tornerebbe al fascismo, con l’obbedienza al regime. Si è già negata validità alla premessa, ma anche la deduzione è sbagliata: la magistratura italiana, durante il fascismo, dipendeva dalla politica meno di oggi. Per avere giudici fidati si crearono i Tribunali Speciali, mentre il corpaccione dei magistrati, pur iscritto al fascio e ligio ai suoi odiosi rituali, conservò la sua natura e funzione. Oggi, invece, è la politica correntizia che decide delle carriere, dei trasferimenti, dei premi e degli incarichi. Un’orgia politicizzata come non ce ne sono mai state nella nostra storia unitaria.
Infine, la politica. Dato che il diritto non è il suo forte, il buon Cascini ha da ridire sulle prescrizioni di Berlusconi, considerandole mezze condanne. Al sindacalista togato sfugge del tutto la presunzione d’innocenza, contenuta nella Costituzione ed in un paio di trattati internazionali, come gli sfugge un principio che risale ai romani: è l’accusa che deve dimostrare la colpevolezza, non l’accusato la propria innocenza. Se non ci riesce in un dato tempo vuol dire che non ne è capace. Vale in tutto il mondo civile e vale a dimostrare quanto politicizzata sia la funzione del segretario dell’Anm.

domenica 17 agosto 2008

Caro don Sciortino, rimetta la tonaca e si ripassi il breviario, che è meglio. Milton

E’ così apprendiamo, nel bel mezzo della calura estiva, con l’inno di Mameli che orgogliosamente risuona ogni giorno dalla lontana Pechino, che siamo alla deriva autoritaria ed il fascismo, se non è tornato, è perlomeno strisciante.

Che sia chiaro, poiché chi scrive non è particolarmente allergico a questo genere di epiteti, il caro lettore non si arrabbi troppo se i modesti pensieri che seguiranno possono sembrare non proprio by-partisan e politicamente scorretti. Una scusante però ce l’ho: vivo nel Paese di Eco, Cordero, Villari, Asor Rosa, Scalfari, Parlato, Fò, Lidia Ravera, Furio Colombo e di tutto il solito codazzo di nani e ballarine d’appoggio; e ci vivo da quarant’anni. Non ne posso più!

Con cadenza quasi quotidiana, con alternanza scientifica, questi signori evocano il regime paragonando il governo Berlusconi addirittura al nazismo (Lucio Villari, 7 agosto 2008 “Il berlusconismo? Nel 1933 anche il governo di Hitler fu eletto democraticamente”). Intendiamoci, meglio dire baggianate sui giornali d’agosto, che firmare appelli contro comissari di polizia poi puntualmente assassinati, come qualcuno era abituato a fare più di trent’anni fa….

Tant’è, non ci si scandalizza ormai più di niente. Ma onestamente sono rimasto letteralmente allibito nell’apprendere che Famiglia Cristiana a proposito del governo Berlusconi, la pensa nel merito, e soprattutto nei toni, come Daniele Luttazzi o Sabina Guzzanti. Ma se per i due (gli unici clown al mondo che non fanno ridere) c’è la solita scusante della libera satira, in nome della quale è lecito ormai dire ogni genere di stronzata, dal settimale più letto nelle parrocchie e che a dire del suo direttore in giacca e cravatta, Don Antonio Sciortino, si ispira al Vangelo e ai valori cristiani, ci si dovrebbe aspettare una capacità di analisi e di esposizione meno acefala e psicotica

Famiglia Cristiana ha iniziato dando dello “spazzino” al Presidente del Consiglio (lo chieda ai napoletani Don Sciortino, ed attento a non macchiarsi la cravatta, qualche sacco di immondizia qua e là potrebbe ancora esserci), per poi paragonare i provvedimenti sulla sicurezza adottati dall’Esecutivo alle atrocità naziste contro i bambini ebrei, facendoci nascere il sospetto che il vero ideologo del nazionalsocialismo hitleriano sia il povero Roberto Maroni. Ed ancora i tremila “soldatini” schierati dal governo per garantire più sicurezza contro la microcriminalità, sarebbero l’anticamera di dittature sudamericane e il ministro La Russa un aspirante generale argentino (immagino che il desaparesidos sia Veltroni). Risultato di tali sciocchezze è ovviamente che “si rischia di tornare al fascismo”.

Alla levata di scudi di alcuni esponenti del centrodestra. Don Sciortino risponde che questo è semplicemente libero dibattito, confronto.

Ecco, e me ne scuso in anticipo, è qui che la mia natura autoritaria di cui sopra, si tramuta in autoritarismo strisciante e si domanda se la libertà d’espressione debba essere difesa ad ogni costo, se il dibattito debba essere sempre libero anche quando domina l’isterismo militante, l’arroganza di una presunta morale superiore che tende a bollare eticamente ogni idea diversa dalla propria. Questi, caro Don Sciortino, sono i veri prodromi delle dittature.

Ho distribuito per anni Famiglia Cristiana dal sagrato della chiesa del mio piccolo paese, ogni domenica orgogliosamente prima di andare a fare il chierichetto alla Messa delle undici, e non avrei mai pensato che per un settimale cattolico esprimere liberamente le proprie posizioni significasse usare questi toni pieni di astio e rancore. Dove sono i valori cristiani, dov’è il Vangelo?

Caro Don Sciortino, proprio questi fascisti ora al governo e non Lei, solo qualche settimana fa, nelle aule di Montecitorio, hanno difeso la sacralità della vita di Eluana, questi fascisti e non i suoi amici cattolici “adulti”, hanno difeso i valori della famiglia dall’attacco dei zapateristi nostrani.

Caro Don Sciortino provi a togliersi giacca e cravatta, rimetta la tonaca e si ripassi il breviario. (l'Occidentale)

martedì 12 agosto 2008

Un anno con la crisi mondiale. Domenico Siniscalco

Difficile dire come andrà a finire. Un anno fa, prima di Ferragosto, scoppiava una crisi globale di credito e liquidità che le autorità monetarie definiscono la più grave dal 1929. Oggi, a un anno di distanza, la situazione continua ad essere caratterizzata da segnali negativi.

L’inflazione ha superato il 10% in più di cinquanta Paesi, e anche da noi è in continuo rialzo, soprattutto per ciò che riguarda i prezzi alla produzione e i beni acquistati più frequentemente. La crisi politico-militare in Ossezia investe una regione crocevia di oleodotti strategici per l’Europa. La crescita dell’economia reale, infine, sta diventando negativa, dalla Germania, all’Italia, alla Spagna, con ripercussioni sulla qualità del credito. Negli Stati Uniti il clima economico negli ultimi giorni pare rasserenarsi, ma molti osservatori ritengono si tratti di segnali positivi lungo un sentiero di deterioramento. Parimenti, i minori prezzi di alcune materie prime, tra cui il petrolio, sono un segnale di recessione.

Il quadro negativo non sorprende. Con il passare dei mesi sta emergendo con chiarezza che il settore finanziario era l’anello debole, ma che la crisi che si sta dipanando è più grave e più estesa di una crisi finanziaria e creditizia. Ciò che si è rotto è un meccanismo di sviluppo, e questo deve essere aggiustato in vista di una ripresa duratura.

Cominciamo dagli Stati Uniti. Quel Paese è noto per la scarsa propensione al risparmio. Ma negli ultimi anni ha finanziato i consumi crescenti non solo con il reddito, ma con il proprio patrimonio.

Questo è stato possibile grazie al credito a buon mercato, che ha costituito una vera e propria droga. Contraendo più mutui sulla stessa casa e più debito su qualsiasi attività in grado di sopportarlo, i consumatori americani hanno aumentato il potere di acquisto sino al 9% del reddito disponibile, spingendo i consumi a livelli record. La maggiore domanda dei consumatori americani è stata soddisfatta in misura crescente dalle importazioni dall’Asia - e dalla Cina in particolare - che proprio l’anno passato ha superato gli Stati Uniti come maggior produttore mondiale di manufatti. Sempre l’Asia, acquistando titoli Usa, ha garantito l’afflusso di valuta necessario a finanziare lo sbilancio commerciale. I volumi sono senza precedenti: l’afflusso di valuta negli Usa per compensare la mancanza di risparmio deve superare i 3 miliardi di dollari al giorno. I flussi di valuta sono stati garantiti anche dalla politica dei Paesi asiatici di mantenere la parità del cambio col dollaro per tutelare la crescita del loro export.

Il modello americano, basato su debito e consumi, ha dunque trovato come controparte il modello asiatico, basato su credito e esportazione. Ma nessuna economia, nemmeno gli Usa con una valuta di riserva, può vivere per sempre al di sopra dei propri mezzi. E nessuna società, nemmeno la Cina, può comprimere indefinitamente i propri consumi, per dedicare il prodotto all’esportazione. Così, in sequenza, sono andati in crisi il mercato dei mutui e del credito, il mercato immobiliare e da ultimo l’economia reale. E in Cina è partita l’inflazione.

Anche se osserveremo rimbalzi e fasi di ripresa, non credo che l’economia si possa riprendere in modo duraturo sinché non aggiusteremo questo squilibrio di fondo. E le politiche americane, come osserva l’economista Stephen Roach, dovrebbero aiutare l’aggiustamento, anziché perpetuare al massimo il vecchio modello, ad esempio con pacchetti fiscali di stimolo al consumo.

L’Europa, nel quadro globale, presenta un caso diverso: sostanzialmente in equilibrio e fuori dagli sbilanci mondiali, se pure con scarsa crescita e scarso investimento, si è illusa di essere ai margini dei problemi. Questo apparente isolamento è durato meno di tre trimestri, per lasciare rapidamente spazio a crisi bancarie e a un inizio di recessione. Le spiegazioni sono molteplici: con mercati finanziari globali anche la più piccola banca di provincia può avere in portafoglio prodotti tossici; con l’inflazione globale si comprime il potere d’acquisto in ogni Paese; e con il rallentamento globale che si delinea nessun’area può restare immune.

La soluzione europea non sta dunque nell’isolarsi dall’economia mondiale, nemmeno se ciò fosse possibile. Sta nel contribuire con idee e soluzioni all’aggiustamento. Si discute spesso di una nuova Bretton Woods, di un grande accordo su scambi internazionali, valute e capitali. L’Italia, che l’anno prossimo avrà la presidenza del G8, dovrebbe mostrare che il regime di oggi è insostenibile e che occorre tornare verso un maggior equilibrio reale e finanziario in grado di promuovere la crescita duratura. (la Stampa)

Quel che insegna la lezione rosa. Caterina Soffici

Se l’uomo italiano è cacciatore (almeno un primato lasciamoglielo), questa volta la freccia scoccata dall’arco ha mancato il bersaglio. Ai nostri tiratori è venuto il braccino corto, la mano ha tremato e la medaglia d’oro è svanita di un soffio. Invece le ragazze made in Italy non hanno avuto sussulti, non hanno avuto paura di vincere contro avversarie supertoste.L’oro di Valentina Vezzali che trionfa all’ultima stoccata, a quattro secondi dalla fine, dopo una gara mozzafiato e l’oro della judoca Giulia Quintavalle, dominatrice nonostante un gomito dolorante, parlano da soli. Ma parla ancora di più la sconfitta di Federica Pellegrini che esce bastonata dalla vasca dei 400 stile libero e non molla, si ributta in acqua e straccia il primato del mondo nei 200 metri. Questo ha solo un nome, si chiama carattere. Sulle Olimpiadi al femminile leggerete cronache grondanti retorica. Leggerete di Giulia, 25enne che per la prima volta ha saputo credere in se stessa («ero convinta, ce l’ho messa tutta»), di sudori, sacrifici, sogni e passione.Leggerete la favola bella di Vale, che a 34 anni, con un figlio di tre, non ha mai mollato la carriera per la maternità. Vale che dedica la vittoria al piccolo Pietro: «Mi ha chiesto di portargli un oro dalla Cina e mi ha accompagnato all’aeroporto con il suo fioretto di plastica». Leggerete che ringrazia Dio per il talento messo a frutto, cita Eros Ramazzotti, il suo preferito: «Quando la festa comincerà tu sarai regina, tutta la gente si fermerà a guardarti stupita». Altro che quote rosa, qui non ce n’è bisogno. Qui non ci sono soffitti di cristallo a tarpare la voglia di vincere. Qui c’è solo il cuore, la passione, il lavoro, la volontà di arrivare. E qui niente è stato d’intralcio a queste ragazze italiane, che sono come le vedi. La Vezzali alza la maschera e sotto c’è la faccia sudata e stravolta dalla fatica di una donna di 34 anni che non ha mai rinunciato a sognare.
La Quintavalle butta a terra l’avversaria per 11 volte e non molla mai la presa. Altro che quote rosa, qui le quote sono rovesciate. Dei tre ori che portano l’Italia al terzo posto nel medagliere olimpico (a parimerito con gli Stati Uniti) due sono femminili: 66,6666666666666 per cento. Se le sognano anche le parlamentari finlandesi, quote del genere. Potremmo avventurarci in analisi socio-politiche per dire vedete, quando alle donne non viene messo il freno da qualche agente esterno, anche le italiane vincono. Guardate di cosa sono capaci. Lo pensate voi che sanno solo fare le mamme e stare dietro i fornelli.
Sono loro a portare avanti il Paese, ci fanno fare bella figura all’estero. Potremmo, ma non ne vale la pena. Perché lo sapete come dice la strofa seguente della canzone di Ramazzotti citata dalla Vezzali? «Quando la festa poi finirà, e torneremo a terra, tutta la gente si ricorderà d’aver visto una stella». La stella passa e ci ricorderemo che l’Olimpiade italiana per un giorno è stata donna. Non tanto e non solo perché a vincere è stata l’“altra metà del cielo” (fatto curioso, questa espressione l’ha coniata Mao Ze Dong), ma soprattutto per la lezione che viene da Pechino. La Vezzali ha ricordato Rocky Balboa: «Quando dice che nella vita non è importante quanto fanno male i colpi che prendi, ma come ti rialzi». Ti viene in mente la faccia di Sylvester Stallone tumefatta e insanguinata e non puoi fare a meno di confrontarla mentalmente con quella di tanti vip e politici nostrani, i quali anche sotto il solleone ferragostano non si negano alle telecamere per la solita banale dichiarazione, frasi fatte, senza entusiasmo, senza passione, da navigatori consumati che non sono più capaci di vendere uno straccetto di sogno. Ed è sempre la Vezzali a commentare con una semplicità disarmante: «Il mondo si divide in quelli che hanno le palle e in quelli che non ce l’hanno...».
Inutile dire chi ce l’ha avute, ieri, a Pechino. «Quando la festa poi finirà, e torneremo a terra, tutta la gente si ricorderà d’aver visto una stella». Speriamo che la stella brilli ancora un po’. (il Giornale)

sabato 9 agosto 2008

Giustizia, riforma Radicale. Dimitri Buffa

Non si tratta più delle solite riforme da libro dei sogni sulla giustizia come la separazione delle carriere, la responsabilità civile personale e non traslata sullo Stato del magistrato per colpa grave (così come era stata introdotta dal referendum del 1984 stravinto sull’onda del caso giudiziario di Enzo Tortora), l’abolizione degli incarichi extra giudiziali per i giudici o la modifica costituzionale sulla obbligatorietà dell’azione penale. No, nella mozione bipartisan presentata dai radicali italiani, prime firmatarie Emma Bonino e Rita Bernardini (il vero cervello di questa operazione politica) nel capoverso dedicato alla eventuale abolizione della obbligatorietà dell’azione penale è contenuto qualcosa di più: “un procedimento che veda la partecipazione dei pubblici ministeri e di altri soggetti istituzionali, che individui un soggetto istituzionale politicamente responsabile di fronte al Parlamento per la loro effettiva ed uniforme implementazione a livello operativo”. E questo potrebbe significare una forma di vera e propria sottoposizione dell’operato dei pm al vaglio parlamentare, se l’italiano non è un’opinione.

Di più, in un paragrafo in cui si parla sia dell’obbligatorietà dell’azione penale sia della “vexata quaestio” della responsabilità civile dei magistrati (vanificata con uno spostamento dell’obbligo patrimoniale risarcitorio in capo allo stato dalla legge Vassalli che Craxi regalò ai magistrati illudendosi di comprarsene la benevolenza) si aggiunge che sarebbe auspicabile “la responsabilizzazione del pubblico ministero per l’osservanza delle priorità fissate ed al contempo la creazione di meccanismi atti ad evitare che chi è politicamente responsabile per la implementazione delle politiche pubbliche nel settore criminale possa indebitamente condizionare, su singoli casi, l’attività del pubblico ministero deviandolo dal rispetto delle priorità prefissate”. In pratica, il governo decide e il Parlamento approva ogni anno le priorità dell’azione penale e il pm ci si deve conformare, sia pure senza venire condizionato impropriamente. Se non è la sottoposizione dell’azione penale all’esecutivo (cosa peraltro per niente disdicevole e anzi praticata in mezzo mondo) poco ci manca.

Se si guarda alle firme bipartisan della mozione radicale, che contiene anche gli ovvi richiami ai temi referendari da loro proposti per anni (incarichi extra giudiziali dei magistrati, riforma del sistema elettorale del Csm, vagli anche di professionalità nella carriera per tutti i giudici, perentorietà dei termini processuali per tutti e non solo per le difese degli imputati, riduzione della carcerazione preventiva ecc.) non si possono non notare le firme degli esponenti dell’attuale opposizione, segnatamente del Pd, cui peraltro la componente radicale almeno formalmente appartiene: da Silvio Sircana a Cesare Marini, da Luciana Sbarbati a Franca Chiaromonte. E siamo solo all’inizio della raccolta di firme bipartisan che nella maggioranza è stata recepita da parlamentari come Benedetto Della Vedova, Giancarlo Lehner, Lamberto Dini, Enzo Raisi, Giorgio Stracquadanio, Amedeo Laboccetta, Antonio Paravia e svariati altri parlamentari del Pdl. A tutti questi si aggiungono ovviamente i parlamentari radicali (Turco, Poretti, Farina Coscioni, Beltrandi, Mecacci, Zamparutti, Bernardini) e la senatrice Emma Bonino. Senza considerare che sul tema della giustizia Berlusconi vuole andare fino in fondo senza “se” e senza “ma”: le parole l’altro giorno di Tremonti (“ci stiamo lavorando”) lasciano intendere che a settembre la questione verrà presa di petto.

E nei giorni prossimi si attendono le firme di tanti altri riformisti del Pd su cui i radicali stanno facendo il solito discreto pressing. Che sia veramente finito l’idillio tra i post comunisti e la magistratura? Se le riforme bipartisan che si dovessero fare nella sedicesima legislatura dovessero essere quelle proposte dai pannelliani in parlamento (da sempre esperti nel creare imbarazzo e contraddizioni con la parte politica con cui si alleano contingentemente) in materia di giustizia, la risposta non potrebbe che essere positiva. (l'Opinione)

giovedì 7 agosto 2008

Petrella tragicomica. Davide Giacalone

Quel che accade nel caso di Marina Petrella è tragicomico. Cittadina italiana, brigatista rossa, condannata all’ergastolo, latitante da venti anni, infine arrestata in Francia. Non v’è dubbio alcuno che debba essere estradata in Italia. Ma le proteste di alcuni spingono Sarkozy allo sproposito di perorare la grazia e commuoversi per le condizioni di salute della detenuta. Indigna per la pretesa punitiva di noi italiani. Roba da umorismo demenziale, se non fosse per tre, serissimi, aspetti.
1. La giustizia italiana fa pena, ma per la sua incapacità, non per l’eccesso di repressione. Dobbiamo vergognarci per le migliaia di processi che non riusciamo a concludere, non per quelli giunti a sentenza. Le nostre carceri sono sovraffollate, ma non sono peggiori di quelle francesi. Nel corso dell’espiazione della pena il detenuto è seguito da un magistrato di sorveglianza e se le sue condizioni di salute destano serie preoccupazioni viene scarcerato. Insomma, da noi la signora Petrella non correrebbe alcun rischio superiore a quello che corre altrove. La pretesa punitiva, infine, non si amministra per conto delle vittime (quella europea non è giustizia islamica), ma per conto dello Stato. In Francia ed in Italia si leggono appelli a tenere conto di quelli che la Petrella ha contribuito ad ammazzare, e dei loro familiari. Lo si faccia, ma il criminale paga perché viola le leggi dello Stato, non perché gli orfani sono tristi.
2. Il pregiudizio ideologio, le minchionerie alla Ardant, vuole che si guardi con rispetto, se non con ammirazione, ai terroristi. Erano combattenti idealisti, si dice. No, si dividevano in coglioni allo stato puro, in pedine nelle mani di servizi dell’est, in violenti profittatori. La dottrina Mitterrand, secondo la quale potevano rifugiarsi in Francia i criminali con credenziali politiche, ricercati in Italia, non era affatto innocente, ma un pezzo della guerra fredda e dello scontro gollista con un Paese Nato. I Francesi provino a pensarci.
3. Il nostro Parlamento ha approvato all’unanimità il nuovo Trattato europeo. Sarkozy, presidente di turno, dice che si deve andare avanti con l’integrazione. Ma non si va da nessuna parte se neanche si riconosce il valore delle sentenze, quindi l’impianto di diritto. L’Europa sta già male, ma questa è eutanasia.

Statali, calano le assenze per malattia: -37,1%

Nel mese di luglio le assenze degli impiegati statali si sono ridotte del 37%.
Visco, per combattere l'evasione fiscale, disse che avrebbe usato molto bastone e poca carota.
Brunetta dice di usare antibiotici e vitamine: tutt'altra classe!

martedì 5 agosto 2008

Tafazzismo di destra. Orso Di Pietra

Vuoi mettere, dico io, vuoi mettere? Vuoi mettere quello che succede nel Partito Democratico ed, in particolare, in quell’area curiosa formata dagli ex diessini? Vuoi mettere il fatto che Massimo D’Alema si è creato la propria fondazione Italiani-Europei, che questa fondazione ha figliato una seconda fondazione che si chiama Red, che questa Red si è pappata “Nessuno Tv”, la Tv satellitare creata a suo tempo da Franco De Benedetti, e che da settembre “baffino” avrà la televisione della propria corrente per diventare il nuovo padrone del partito? Vuoi mettere poi che Walter Veltroni, incazzato, per la televisione di D’Alema, ha creato in fretta e furia un’altra televisione. Che andrà sul satellite e che servirà alla propria corrente per farlo rimanere padrone del Pd? Insomma, vuoi mettere tutte queste smanie televisive e correntizie degli ex Ds con quanto è successo nel Pdl? Da noi tutto questo non succede. Noi chiudiamo la “Tv della Libertà”, tagliamo i contributi ai giornali così Feltri si fotte, difendiamo la “manomorta” della sinistra su Rai Tre, seguiamo con interesse la progressiva “dipietrizzazione” de La 7 e ci apprestiamo a salutare con gioia il ritorno di Lilli Gruber sugli schermi in sostituzione di quel fazioso di Giuliano Ferrara. Insomma, diciamocela tutta, a noi i Tafazzi di sinistra ci fanno una pippa! (l'Opinione)

lunedì 4 agosto 2008

Starnazzamento della sinistra

Intorno alle 16 di oggi un sondaggio di Repubblica on line con più di 13000 votanti, dava al 70% i contrari ai militari nelle città in funzione di ordine pubblico.
Repubblica ha i lettori che si merita e, dispiace doverlo ammettere, decisamente orientati verso... il vuoto di pensiero.
Trovo inconcepibile non approvare che tremila militari in tutta Italia facciano la guardia ad ambasciate, centri di raccolta di immigrati, stazioni ferroviarie e di metropolitana, siti cosiddetti sensibili e luoghi dove può dilagare la delinquenza.
Anche poliziotti e carabinieri sono con armi lunghe quando fanno la guardia, mentre i militari di supporto ai pattugliamenti sono armati solo di pistola e non hanno la mimetica.
Non vedo, quindi, il motivo di tanto starnazzamento da parte delle anime belle della sinistra che gridano alla militarizzazione delle città e al colpo di Stato strisciante.
Anzi il motivo esiste: siccome la decisione è del governo Berlusconi, non va bene per definizione.
Centrodestra ringrazia quei cittadini che insisteranno nel contestare l'uso dei soldati: sarà un'ulteriore dimostrazione del masochismo della sinistra e lo spostamento all'infinito del suo ritorno al potere.

domenica 3 agosto 2008

In Libia l'Europa ha abbandonato l'Italia. Gabriele Cazzulini

Uomini-merce. L'emergenza degli sbarchi clandestini a Lampedusa è la conseguenza di una complessa manovra internazionale. L'intensificarsi dei flussi migratori verso l'Italia, porta sempre aperta verso l'Europa, rappresenta il messaggio trasversale inviato dalla Libia, che continua a battere cassa. Il pretesto è lo stesso. La riparazione per i danni del colonialismo italiano è diventata l'arma di ricatto puntata alle tempie dell'Italia. Purtroppo i proiettili di questo revanscismo libico sono gli immigrati che attraversano l'Africa in condizioni bestiali per raggiungere le coste libiche e poi salpare per Lampedusa. Invece di adottare le misure di prevenzione concordate con l'Italia, la Libia non effettua controlli sui suoi porti, lasciando partire le carrette del mare. Ecco la ritorsione contro l'Italia. La megalomania di Tripoli non guarisce mai, arrivando a pretendere dall'Italia una montagna di quattrini coronata da un'autostrada che scorra lungo tutto il paese. Inutile constatare che la tensione con Tripoli non guarda in faccia a nessun tipo di governo italiano, di destra o di sinistra. Gheddafi vuole un'unica cosa: soldi. E sa che la tasca è solo quella italiana. La mano non conta.

In anni di tentativi, contatti, negoziati, accordi che puntualmente non soddisfano mai l'appetito di Tripoli, emergono una constatazione e un'esigenza. Quando serve, l'Unione Europea non c'è mai. Tutto il peso della diplomazia di Bruxelles svanisce quando si tratta di sostenere un paese membro, l'Italia, in una vertenza internazionale con un altro paese, la Libia, che abusa esplicitamente dei movimenti migratori come arma di ricatto. Bruxelles che è sempre sollecita a inviare i suoi rappresentanti nelle aree di crisi per fare foto di gruppo al fianco di capi di Stato e di governo. Quando c'è però bisogno di un ruolo attivo, le comparse mandate dall'Europa si dileguano. Stesso discorso per una politica migratoria europea, che ancora non ha trovato consenso tra gli Stati. E' la classica ambivalenza dell'Europa, pronta a usare la frusta per una virgola nei bilanci ma impotente di fronte alla tragedia di esseri umani mercificati per gli interessi di uno Stato non europeo. La logica esigenza è irrobustire la politica estera nazionale. Siccome Roma è lasciata sola, si segua la politica estera di Roma. E' un semplice sillogismo che è già diventato una realtà. La questione dell'immigrazione clandestina si fonde con la sicurezza pubblica e i rapporti internazionali. Di fronte a questa gravità e a questa complessa realtà, se l'Europa è Golia, tocca ad ogni governo nazionale fare la parte di David.

Il caso della Libia arriva proprio mentre il parlamento italiano ha ratificato all'unanimità il trattato europeo di Lisbona. Adesso le coscienze degli europeisti più ideologici potranno sbandierare allegramente il foglio di carta col nuovo, ennesimo trattato che introduce l'ennesima, inutile, miglioria per lasciare tutto com'era. L'augurio in calce a quella firma è che il «drizzone» di Berlusconi rivitalizzi l'Europa quel tanto che basti a destarne la ragione. Nel frattempo basta una gita a Lampedusa. (Ragionpolitica)

sabato 2 agosto 2008

Commemorazione della rabbia. Maria Giovanna Maglie

Ancora una volta l’anniversario della strage di Bologna sarà trasformato dai soliti noti, particelle elementari di Rifondazione Comunista e sinistre sciolte, in uno spettacolo osceno di contestazione al rappresentante delle Istituzioni, in questo caso il ministro Gianfranco Rotondi in vece del Guardasigilli, Angelo Alfano, che ha rinunciato, d’accordo con il governo, per cercare di calmare almeno un po’ quella piazza. Troppo generosi, probabilmente, perché magari per una volta sola sarebbe bene trasmettere in diretta quale scempio venga compiuto del ricordo doloroso e silenzioso di ottantacinque morti, in una strage che, a differenza di altre vicende tragiche italiane, ha colpevoli accertati, in condanna definitiva, che scontano ancora la pena. La verità giudiziaria secondo me, e secondo quelli che conoscono le carte, in questo caso non corrisponde alla verità dei fatti, ma l’anniversario di oggi si celebra con quei colpevoli, e nessuna riapertura delle indagini. Di che lamentarsi dunque?
Dicevo i soliti noti perché ci sono ad aizzarli anche degli ignoti, o meglio che vorrebbero passare per tali, ma ci riescono malamente. Prendete due interviste comparse ieri sul Corsera a Libero Mancuso e a Paolo Bolognesi. Il primo è ora assessore del sindaco Sergio Cofferati alla Sicurezza (infatti Bologna è tornata linda pinta e sicura quasi come il porto di Marsiglia di notte), ma soprattutto pubblico ministero in servizio permanente effettivo. Per Adriano Sofri ha fatto lo sciopero della fame, per altri condannati esige che le sue sentenze non vengano nemmeno sfiorate da critica, figuratevi da fatti e testimonianze serie. Il secondo è presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime (attenzione al «tra», vuol dire che non tutti i familiari si riconoscono in quel tipo di gestione), e ogni anno alza le pretese, che sono, spiace dirlo, soprattutto economiche; quando Romano Prodi fu contestato, l’anno dopo Giulio Tremonti, sibilò che i familiari avevano avuto già molto. Che avrà voluto dire? Certo, se è stato il precedente governo Berlusconi, nel 2004, a votare la legge per le vittime del terrorismo, certo, il bilancio e le voci di spesa dell’Associazione non sono facili da ottenere, mentre il denaro e l’affitto della sede vengono da Comune, Provincia e Stato.
Bolognesi e Mancuso si professano contrari al casino di piazza già programmato, ma poi lo giustificano: la colpa è di Alleanza Nazionale, spiega l’assessore, che aveva convinto il ministro Alfano a fare un discorso in piazza che mettesse in discussione le sentenze, che attaccasse la procura di Bologna. Proclama Bolognesi che si tratta di raddrizzare il comportamento di Inps, Inpdap e Agenzia delle entrate per 1.500 persone. Sul presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, il presidente dell’Associazione sguazza nell’insulto, dice che ormai le ha sparate tutte e non gli sembra un personaggio affidabile, anche se è sicuramente informato dei fatti. Conclude minaccioso di non voler dire cosa pensa di lui: Cossiga ha l’immunità parlamentare, lui no.Questi sono i personaggi, sempre gli stessi da tanti anni, arroganti e tromboni. Quanto importa loro dei morti?
Quando accusano Alleanza nazionale, ce l’hanno con Enzo Raisi, un deputato del Popolo della Libertà che quel giorno alla strage sfuggì per pochi minuti, che da allora persegue testardamente la verità. In una lettera al Guardasigilli, Angelo Alfano, firmata insieme ad altri parlamentari del centrodestra, ha chiesto che il ministro della Giustizia «verifichi se effettivamente la Procura di Bologna stia attentamente e scrupolosamente indagando sulle importanti novità emerse nella Commissione bicamerale Mitrokhin e relative alla strage del 2 agosto 1980». Poi, insieme al vicepresidente dei deputati del Pdl, Italo Bocchino, ha presentato un dossier serio e documentato dal quale emergono lacune, mancate indagini, insabbiamenti.
Chiedere accertamenti è legittimo o no, cari Mancuso e Bolognesi? Sarà per ricattare chi potrebbe decidere di farne, che ogni anno fate occupare la piazza? Dovevano essere i fascisti e il dogma non si discute. Speriamo che sia l’ultimo anniversario così tristemente oscurato. (il Giornale)

Del Turco dimenticato. Massimo De Manzoni

Qualcuno si ricorda Ottaviano Del Turco? Sì, l’ex sindacalista che fino a metà luglio faceva il presidente della Regione Abruzzo in quota Partito Democratico: qualcuno se lo ricorda? L’hanno preso e sbattuto in carcere venti giorni fa. È accusato di corruzione e subito i pm e i loro trombettieri hanno fatto capire che le prove erano schiaccianti, salvo poi tenerlo tre giorni in isolamento per evitare... l’inquinamento delle prove.

Noi del Giornale che, ammettiamolo, un po’ di sana diffidenza nei confronti della pubblica accusa ce l’abbiamo nel Dna, abbiamo cercato di andarci a fondo. Tra gli strepiti dei giustizialisti e nel silenzio dei compagni di partito di Del Turco, dal lavoro del nostro Gian Marco Chiocci è emerso più di qualche dubbio sulla solidità dell’inchiesta abruzzese: conti che non tornano, case «comprate con tangenti» che non esistono, intercettatori che intercettano tutto meno che la voce dell’indagato, «pentiti» che fotografano tutto meno il passaggio di denaro. Insomma, niente pistola fumante.

Nemmeno questo basta a dare fiato ai garantisti che, ci assicurano, sono in maggioranza anche nel centrosinistra, ma sono talmente intimiditi dai Di Pietro e dai magistrati che faticano assai a tirare fuori la voce. Poi all’improvviso, quando si sente sotto schiaffo per tutt’altra faccenda (il caso Telecom e i presunti conti segreti), la dirigenza del Pd esala un timido accenno di critica all’inchiesta abruzzese, prima di precipitare di nuovo nel silenzio più totale.

Nel frattempo Del Turco continua a soggiornare in cella e, visto che non lo chiede nessuno, lo facciamo noi: perché? Non è che abbiamo particolari motivi di simpatia nei confronti dell’ex socialista che, tra l’altro, ai tempi dei guai giudiziari di Bettino Craxi fece un po’ come Amato: l’alieno ingrato. Però, siccome la galera «gratis» non ci piace, non riusciamo a farcene una ragione: quali sono i motivi che impongono la custodia in carcere di quest’uomo? Reiterazione del reato? Impossibile, si è dimesso dalla carica. Inquinamento delle prove? Vien da ridere. Pericolo di fuga? Riesce difficile crederlo.
Eppure, a quanto pare l’ex governatore deve marcire in galera. E se poi per caso il processo dimostrerà che è innocente, pazienza: tanto il referendum sulla responsabilità dei magistrati se lo sono scordati tutti. Come Del Turco. (il Giornale)