giovedì 29 gennaio 2009

Contro l'immigrazione clandestina non serve "la legge del Kebab". Carlo Panella

E ora tocca al Kebab: l’infinita serie di provvedimenti legati in qualche modo all’immigrazione che parlamento, comuni e istituzioni varie assumono si è arricchita di un nuovo piatto. Il provvedimento del comune di Lucca, che vieta “ristoranti di altra etnia” nell’area del centro storico, segue l’esatta impostazione di tutti i suoi predecessori: preso in sé rischia di essere demente, se fosse però inserito in un serio contesto riformatore e regolatore dell’integrazione di etnie e culture, potrebbe essere assolutamente valido. La demenza del provvedimento è evidente, là dove auspica che comunque venga inserito un qualche piatto della tradizione culinaria toscana nei menù etnici. Il solito pastrocchio da azzeccagarbugli, che banalizza e rende tragicomico un tema drammatico.

Se in Italia vi fosse una qualche traccia di una cultura urbanistica, se le nostre star mondiali dell’architettura sospendessero per un attimo l’emissione delle loro parcelle milionarie per costruire grattacieli, sarebbe chiaro il disastro che si è verificato in questi ultimi dieci anni nei centri storici del centro nord. All’inizio, appare in un quartiere, una macelleria haram, che vende carne macellata secondo la shari’a; passano pochi mesi e il macellaio affitta un seminterrato e vi apre un “centro di cultura”, in realtà, una moschea; contemporaneamente qualcuno impianta sempre nell’area di quel isolato, prima un negozio per chiamate telefoniche internazionali e infine uno sportello per l’invio di denaro - lecito e illecito - in patria.

I negozi di Kebab, intanto, sono già fioriti e strapieni. Les jeux sont faits, su queste palafitte, naturaliter, si costruisce aggregazione abitativa e sociale. E’ passato un anno dall’apertura della macelleria e quella che da mille anni era una strada di vecchi, vecchissimi residenti, è diventata un micro ghetto. Questo è avvenuto a Canneto il Lungo e in via Pré a Genova, a Porta Palazzo e a S, Silvario a Torino; a via Sarpi - con i cinesi - a Milano; in piazza Vittorio a Roma, a Parma, a Brescia, ovunque.

E’ indispensabile dunque che nel paese si sviluppi una discussione che permetta ai comuni - nella loro autonomia - di comprendere innanzitutto che la politica delle licenze commerciali è oggi fondamentale, strategica e poi di definire le linee di loro distribuzione nel contesto urbano. Se questo processo si avvierà, Lucca avrà il merito di avere spezzato il ghiaccio (ma segnalo che Alba l’ha preceduta di un anno). Se no, quel provvedimento, finirà tra le mille inutili grida che intasano i tombini delle principali piazze del nostro paese. (l'Occidentale)

mercoledì 28 gennaio 2009

Bonus famiglia: verificate se ne avete diritto

Bonus famiglia: tetto fino a 35mila euro se c'è un disabile. È stato potenziato nell'importo e nella platea dei beneficiari il bonus che raggiungerà pensionati e famiglie con figli a carico.
Si tratta di un bonus da un minimo di 200 a un massimo di mille euro, che sarà distribuito in base al reddito.
Ad averne diritto saranno i nuclei di lavoratori dipendenti con figli e i pensionati con un reddito annuo fino a 22mila euro (e non più 20mila euro). Per le famiglie con portatori di handicap il tetto sale fino a 35mila euro.
Il «bonus straordinario per famiglie, lavoratori, pensionati e non autosufficienti» riguarderà poco meno di 8 milioni di soggetti. Il costo complessivo dell'operazione si aggira intorno a di 2,4 miliardi di euro. Il bonus è cumulabile con la social card.
Entrando nel dettaglio verrà erogato dai sostituti d'imposta a gennaio-febbraio attraverso una detrazione.
Il beneficio sarà di 200 euro per i soggetti unici componenti di un nucleo familiare se il reddito non è superiore a 15 mila euro, di 300 euro se la famiglia è composta da due persone con un reddito di 17 mila euro l'anno, di 450 se la famiglia è composta da tre persone, sempre con un reddito di 17 mila euro all'anno.
Il bonus sarà invece di 500 euro per le famiglie di quattro componenti con un reddito di 20 mila euro, di 600 euro se i componenti la famiglia sono cinque, sempre con un reddito annuo di 20 mila euro.
Avranno mille euro le famiglie di cinque o più componenti con un reddito di 22 mila euro. Se nella famiglia c'è un portatore di handicap il tetto di reddito sale a 35 mila euro.

Esclusi dal beneficio i lavoratori autonomi, i titolari di partita Iva e chi ha redditi fondiari superiori a 2.500 euro.

Le scadenze per richiedere l'agevolazione dipendono dall'anno d'imposta che viene preso come riferimento per la verifica dei requisiti previsti dalla norma per il riconoscimento del bonus.
A questo riguardo, ci sono due alternative:
chi sceglie come anno di riferimento il 2007 deve presentare la richiesta al datore di lavoro o all'ente pensionistico entro il 31 gennaio 2009, utilizzando il modello "sostituto" predisposto per la richiesta del bonus al sostituto d'imposta o agli enti pensionistici. Nel caso in cui il beneficio non è erogato dai sostituti d'imposta, la domanda potrà essere invece inviata, in via telematica, all'Agenzia delle Entrate entro il 31 marzo 2009, utilizzando il modello denominato "agenzia".
coloro che , invece, scelgono il 2008, devono presentare la richiesta al datore di lavoro o all'ente pensionistico entro il 31 marzo 2009.
In tutti casi in cui il beneficio non è erogato dai sostituti d'imposta, la richiesta può essere presentata, sempre in via telematica, all'Agenzia delle Entrate entro il 30 giugno 2009.

lunedì 26 gennaio 2009

D'Avanzo, l'archivio Genchi e Berlusconi. l'Occidentale

Se a Giuseppe D’Avanzo arrivasse la notizia che un terribile terremoto sta per abbattersi sull’Italia con il suo seguito di vittime e distruzione, il suo articolo su Repubblica comincerebbe così: “Attenzione potrebbe essere il pretesto per Berlusconi per dare un colpo di spugna ai suoi abusi edilizi”.

L’articolo di oggi con cui si impanca a difensore di Gioacchino Genghi, l’oscuro consulente telefonico di Luigi De Magistris e di molti altri pubblici ministeri, suona più o meno nello stesso modo. Genghi è un vice-questore da anni in aspettativa sindacale (di un sindacato fondato da lui) che offre i suoi servigi informatici a qualsiasi pm in cerca di trame telefoniche. Così facendo però si è costruito un immenso archivio che riguarda, dice lo stesso D’Avanzo, un milione di contatti, 578 mila schede anagrafiche e 390 mila controlli eseguiti anche su presidenti del consiglio e vertici dei servizi. Nulla di illegale, dice D’Avanzo, a meno che Genghi non abbia usato le deleghe ricevute dai magistrati a scopi personali e inconfessabili. Ma questo, sottolinea il giornalista, lo deciderà la procura di Roma.

Ma a D’Avanzo quella decisione non interessa, infatti può già anticipare che la denuncia di Berlusconi circa la gravità della vicenda è una “bufala”, strumentale a modificare la legge sulle intercettazioni e a togliere potere ai magistrati.

Il riflesso è così condizionato che D’Avanzo perde persino quel minimo di cautele che un giornalista, anche se obnubilato dalla sua ossessione, dovrebbe mantenere. Dice ad esempio: “Berlusconi è in malafede perché non ha emesso un fiato quando il suo nemico Prodi è stato indagato proprio alla luce di quelle analisi”. Gli sarebbe bastato prendere il suo stesso giornale, la Repubblica del 13 luglio 2007, dove sotto il titolo. “Prodi indagato a Catanzaro per abuso d’ufficio”, avrebbe trovato questo “fiato” berlusconiano: “Auguro di cuore a Romano Prodi di uscire presto con onore da questa situazione". Nessuno, dall’opposizione di allora maramaldeggiò sulla vicenda. Sentite cosa disse Renato Schifani: “Ho la sensazione che si tratti di un’inchiesta dai contorni un po' confusi. In ogni caso non ne traggo alcun piacere o motivo di soddisfazione nei confronti dell’uomo Prodi. Mi auguro che il premier chiarisca, perché il Prodi politico vogliamo contrastarlo sul terreno della politica, in Parlamento, e non nelle aule di giustizia”. Scrive invece D’Avanzo per testimoniare la malafede di chi oggi evoca lo scandalo e ieri taceva: “Quell’indagine poteva azzoppare il governo di centrosinistra e tutto faceva brodo”.

Altro punto: secondo D’Avanzo, Berlusconi oggi mente perché “non ha battuto ciglio quando si sono scoperti gli archivi illegali della Telecom dell’amico Tronchetti Provera, anche lì si raccoglievano abusivamente tabulati”. Ma qui è lo stesso D’Avanzo a fornire involontariamente il motivo del silenzio berlusconiano, quando, parlando della vicenda Genchi, spiega: “Decisivo è il rapporto tra il consulente e il pubblico ministero: è questo lo snodo”. Da un lato dunque c’è il sospetto di un rapporto distorto tra un consulente e un potere dello Stato, dall’altro c’è una vicenda maturata nell'ambito di una società privata, sulla quale difatti è già intervenuta l'autorità giudiziaria. Berlusconi fa bene ad occuparsi del primo caso, che contiene un difetto sistemico da correggere per via legislativa, e a lasciare che del secondo si occupi la magistratura.

D’Avanzo conclude prevedendo “il can can spettacolare” che Berlusconi organizzerà nei prossimi giorni. Non si è accorto però che il can can lo sta già ballando lui e la musica la suona Gioacchino Genchi. Seduto sulla pila dei suoi dossier, Genchi allude e minaccia, fa capire di possedere segreti su tutto e tutti e continua ad accumulare dati e tabulati. Ma state tranquilli: non c'è nulla di illegale. Parola di D'Avanzo.

venerdì 23 gennaio 2009

Errore di giustizia

Egregio dottor Giacalone,
come saprà nel mio blog “copio” spesso gli articoli del Suo sito.Condivido quello che Lei scrive e mi piace il Suo stile asciutto e graffiante: non tutti coloro che scrivono i commenti nel blog sono del nostro parere.In particolare Irene, assidua del mio blog e giustizialista a prescindere, ha citato la sentenza che condanna Lei ed altri per tangenti in merito ad una fornitura alle Poste.Siccome le sentenze, a mio avviso, vanno interpretate e citate per intero, mi permetto di allegare il Suo pezzo nei cui commenti vi è la citazione della Sua condanna.Io non sono in grado di controbattere e sono certo che Lei vorrà replicare. Se crede può farlo direttamente nei commenti al Suo pezzo.Mi scuso dell’eventuale disturbo, La ringrazio dell’attenzione e dei Suoi articoli che impreziosiscono il mio blog.
La saluto con grande stima.


No, gentile M.,
non intendo replicare direttamente, perché dovrei denunciare chi scrive certe cose. Ove lei avesse la cortesia di farmene conoscere l’esatta identità, procederò senza indugio.Sappia, comunque, che nessuno mi ha mai condannato per tangenti, corruzione o altro. E che la citata sentenza della Corte dei Conti è stata annullata, dalla stessa Corte, per “errore di giustizia”. Hanno ammesso di avere letto a capocchia le carte e di avere commesso un imperdonabile strafalcione. Per questa ragione, come anche per giudizi precedenti, ho poi citato in giudizio la giustizia e mi è stato riconosciuto il diritto al risarcimento.La autorizzo a pubblicare quanto scritto, e spero che i diffamatori chiedano scusa o si identifichino.
Con un cordiale saluto

Davide Giacalone

La morta gora di Rai e Vigilanza. Davide Giacalone

Non si poteva fare diversamente e non si poteva fare peggio. Lo scioglimento della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai è un precedente assai pericoloso, indotto sia da un’opposizione che ha impedito la nomina di un vero presidente, sia da una maggioranza che ne ha votato uno burletta, salvo poi restarne prigioniera. Lo scioglimento di una bicamerale di garanzia, con atto d’imperio, è una decisione che umilia e dirocca l’istituzione parlamentare. Vediamo, allora, quel che si dovrebbe fare e quel che, invece, gli sventurati faranno.
1. La commissione parlamentare va soppressa. Cancellata. Basta così. In tutte le democrazie è l’editoria a far da cane da guardia sulla politica, solo da noi i politici hanno una sede istituzionale dove tenere a bada i cani. 2. Va abolito il canone, odioso balzello. Pago il fisco quando compro una lavatrice od un frigorifero, non per avere il diritto di possederli. L’elettrodomestico con lo schermo non deve fare eccezione. Non c’è nessun servizio pubblico da finanziare, ma solo un carrozzone clientelare e lottizzato da smontare. 3. La Rai va privatizzata, a pezzi, non a quote. Se ne gioverebbero le casse dello Stato ed il pluralismo, così come anche il mercato, dove il più importante gruppo privato troverebbe concorrenti credibili.
Non faranno nulla di tutto questo, ed i problemi si aggraveranno se: a. si nominerà Zavoli alla presidenza della commissione, che essendo stato dipendente e presidente della Rai incarna tanto la continuità impermeabile quanto la commistione d’interessi; b. si continuerà a tenere immobile il mercato, con concorrenza debole nell’analogico e (assurdo) monopolio nel satellite; c. si sprecheranno ancora risorse per riempire di paccottiglia il piccolo schermo, nel mentre non s’investe nel settore dei contenuti digitali, che porterebbero ricchezza e lavoro per i giovani.
La maggioranza sarà ingessata dal timore di scatenare interessi in conflitto (sovente in senso opposto a quel che tutti credono di sapere), mentre l’opposizione non avrà diritto di parola, dopo avere prima fermato e poi affogato la vigilanza. “Mentre noi corravam la morta gora,/dinanzi mi si fece un pien di fango”. Guardando l’insieme, osservando la Rai, viene alla mente l’immagine di una palude dantesca. Questa, però, a spese nostre.

mercoledì 21 gennaio 2009

Macché svolta, la sinistra non s'illuda. Peppino Caldarola

È dai tempi di Lenin che non si registrava un così grande entusiasmo della sinistra mondiale per un leader. Ed è già un bel passo avanti passare dal feroce capo sovietico all'accattivante e «abbronzato» nuovo presidente degli Stati Uniti. Barack Obama, appena incoronato, ha sollevato speranze inaudite. Tutti si aspettano il miracolo. Stiamo passando dal «Santo subito» al «Santo prima». Non era successo a nessun altro leader occidentale. Gli apolidi di sinistra che, come è capitato a me, avevano pubblicamente espresso la loro simpatia per il maverick John McCain guardano questo culto della personalità «preventivo» con stupore, preoccupazione e, diciamolo, ironia. E se fosse tutto un bluff? Se le aspettative si rivelassero sproporzionate alle possibilità concrete?

Tradizionalmente nella politica dei Paesi anglosassoni decisivi sono i primi cento giorni. Il panorama che guarderà da Capitol Hill il nuovo presidente è devastato da una crisi economica senza precedenti, dal dossier afghano, da quello iracheno, da quello iraniano, per tacere di Gaza e Cisgiordania. È un mondo sottosopra quello che dovrà governare Obama. Per quanto forte sia il suo carisma, per quanto innovative siano le sue idee, è difficile che un uomo solo al comando sia in grado di dare una risposta immediata a tutte queste domande. Sarà tanto se riuscirà a imprimere fiducia, se cioè sarà abbastanza berlusconiano da imporre a un'America attonita un po' più di ottimismo. Ma miracoli non potrà farne. Proseguirà la linea di Bush nel sostegno dello Stato ai settori in crisi, rilancerà la domanda pubblica nel ricordo del New Deal di Roosevelt, porrà le basi per la ripresa ma il povero Obama non ha la bacchetta magica e già mi immagino i musi lunghi al termine dei cento giorni quando finita la luna di miele, magari dopo un nuovo scossone delle Borse, ci si accorgerà che la situazione è pressoché uguale a prima.

Stessa cosa nella politica estera. Chiuderà Guantanamo, cambieranno alcuni toni nel modo di proporsi dell'America, ma Obama dovrà riuscire in primo luogo a preservare l'America da un secondo attacco terroristico e poi dovrà concentrarsi sui punti caldi senza troppi fronzoli. Aumenterà l'impegno afghano, ci sarà una data lontana per il ritiro iracheno, continuerà la faccia feroce contro Teheran, deluderà i sostenitori europei di Hamas e Hezbollah. Invece della brutale franchezza di Bush, avremo i toni ispirati di Blair o di Clinton, ogni decisione sarà infiocchettata di miti democrats, ma cambierà poco, anche se molti scriveranno che sta cambiando tutto. Come ci sono state le guerre di Bush e quelle di Clinton avremo anche le guerre di Obama e le marce di Assisi contro di lui.

Una sinistra ragionevole affronterebbe con sano realismo e pragmatismo l’avvento epocale del primo afro-americano alla guida della superpotenza occidentale. Farà quel che potrà, esporrà in modo fascinoso le sue iniziative, ci dovremo accontentare e sperare che passi la «nuttata» dell'economia. Lo sentiremo più vicino a noi solo quando dovrà affrontare i conflitti con Hillary e le altre star del suo governo che gli contenderanno la prima scena. Sarà l'unico momento italiano della presidenza Usa. (il Giornale)

lunedì 19 gennaio 2009

In piazza l'odio razzista: l'antifascismo come scusa per eliminare gli ebrei. Paolo Guzzanti

All’articolo uno del manuale del perfetto antisemita del XXI secolo c’è scritto: «Io non sono antisemita, io sono antisionista, i nuovi ebrei sono i palestinesi e perfino il mio più caro amico (amica, compagno di scuola, fidanzata) è ebreo/a». Il perfetto antisemita dice, come diceva Stalin quando lanciò la grande purga contro gli ebrei poco prima di morire: «L’antisemitismo è una barbarie nazifascista che noi respingiamo totalmente e con sdegno. Noi però condanniamo il cosmopolitismo». Il perfetto antisemita ha imparato che deve mostrare deferenza alle vittime di Auschwitz e subito dirà che Gaza è la nuova Auschwitz. Quando brucerà in piazza a Bologna o a Milano le bandiere con la stella di Davide, dirà a se stesso che è come se bruciasse la svastica di Hitler. Il perfetto antisemita indossa la kefiah palestinese a quadretti rossi e bianchi o a quadretti bianchi e neri. Il perfetto antisemita resterà indifferente e cambierà discorso se gli mostrate le foto dei militari di Hamas che marciano facendo il passo dell’oca e il saluto hitleriano.

Il perfetto antisemita ignora che il Gran Muftì di Gerusalemme era alleato del nazismo e chiedeva a Hitler di sradicare e uccidere tutti gli ebrei che vivevano in Palestina, questa regione inesistente, inventata dall’imperatore Adriano dopo l’espulsione della maggior parte degli ebrei dal loro regno.Il cosmopolitismo come sinonimo di antisemitismo, caro a Stalin, era il nome che si usava prima dell’antisionismo per evitare di professarsi antisemita, odiatore e, in pectore, sterminatore di ebrei. Cosmopolita era Leon Bronstein, detto Trotskij, ed ebrei cosmopoliti erano i grandi padri della rivoluzione bolscevica fra cui Kamenev, Zinoviev, Sverdlov, Radek, Ioffe e Litvinov per la festa degli antisemiti di tutto il mondo i quali potevano scegliere fra i due grandi complotti ebraici da usare per giustificare il loro antisemitismo. Il primo complotto era quello degli ebrei alla guida della grande finanza e del capitalismo imperialista mondiale e il secondo quello degli ebrei alla guida del comunismo e della rivoluzione mondiale. A scelta.

I giovani e i meno giovani che si rovesciano nelle piazze in questi giorni per urlare il loro odio razzista e viscerale per Israele pensano di poter prendere piccole precauzioni, indossare il loro preservativo morale della premessa antifascista per poter esprimere ciò che le viscere più profonde comandano loro. Odio. Non critica, non preoccupazione, ma odio. Al loro fianco militano moltissimi ebrei che odiano Israele e la propria stessa identità ebraica. Questo è un altro problema dell’ebraismo: l’antisemitismo interno, una varietà di quello esterno, che invoca la negazione dell’identità per raccogliere l’applauso del nemico.
Un passo indietro. George Orwell, in genere citato soltanto per 1984 e per La fattoria degli animali descrisse la furia distruttiva, rabbiosa e violenta contro gli occidentali, quando Hitler attaccò la Polonia (subito imitato da Stalin, secondo accordi congiunti) e tutti i pacifisti francesi, inglesi e americani si rovesciarono come dementi per le strade reclamando «pace subito», e «no alla guerra», intendendo bloccare i governi dei propri Paesi impedendo che scendessero in guerra contro il nazismo. Quella gente orrenda raccontata da Orwell era la stessa, geneticamente la stessa, che oggi brucia le bandiere di Israele e vomita odio per gli ebrei, dicendo di essere «antisionista», per non ammettere di essere antisemita.

Quando ero in Medioriente negli anni Ottanta molti colleghi dei giornali di sinistra di cui non faccio il nome per pietà, raccontavano con successo barzellette antisemite ai palestinesi riscuotendo applausi a scena aperta. Un autorevole commentatore adorava la seguente barzelletta: «Sapete che differenza c’è fra un ebreo e una pizza napoletana? Ve la dico io: venti minuti di cottura al forno». Gli antisemiti confessi hanno sempre delle barzellette bonarie sullo sterminio del popolo ebraico. Sono come l’amico ebreo.

Quello che è successo e sta succedendo sulle piazze italiane è nelle foto e nei telegiornali, nei volti paonazzi, nelle mascherature. Lo stesso atto di bruciare una bandiera è un gesto simbolicamente genocida: esprime il desiderio di mettere al rogo un popolo, un’etnia.

E poi Santoro. Ciò che mancava alla nostra analisi della infernale e ben padroneggiata trasmissione era l’oggetto, lo scopo di Santoro. Che non era quello di fare propaganda, non era quello di sfornare una trasmissione giornalistica squilibrata dalla parte di Hamas, ma quello di promuovere la discesa in piazza. Lo si è capito quando ha troncato brutalmente la parola di chi, seguendo ciò che aveva detto poco prima di andarsene l’Annunziata, sosteneva la necessità di capire, ricondurre alla ragione. Ciò ha fatto saltare i nervi a Santoro: razionalizzare? Capire? Cercare di descrivere i motivi del conflitto? Ma per carità: tutta la trasmissione era indirizzata allo scopo di promuovere la discesa in piazza, la scena di esaltazione collettiva alla Orwell.

A costoro non importa nulla, ma proprio nulla, se nello statuto di Hamas si prescrive non già di uccidere ogni cittadino israeliano (e dunque sgozzare se possibile bambini, vecchi, donne) ma di uccidere «ogni ebreo» sulla faccia della terra. Non è una novità, ma è un dato di fatto che chi difende Hamas e Hezbollah, queste infernali creature iraniane non troppo diverse da quel che era Al Fatah fino ad Abu Mazen, compera in blocco tutto il pacchetto, compresa la prescrizione di assassinare ogni cittadino francese, italiano, americano, olandese e di non importa quale passaporto e bandiera, purché sia «ebreo».

La strategia di Hamas, come prima quella di Hezbollah, è stata sotto questo punto di vista perfetta. Sapendo di non poter competere militarmente, neanche nello scontro corpo a corpo, nel combattimento casa per casa, con le truppe israeliane, i dirigenti di questa organizzazione razzista e nazionalsocialista (un’antica tradizione araba, il nazismo) che è Hamas hanno dichiarato in pubblici comizi che abbiamo visto e ascoltato che alla diversa capacità bellica si deve supplire «con l’industria della morte: noi possiamo trasformare le nostre donne, i nostri bambini, i nostri vecchi, in morti. Loro lo sanno e ne sono felici, sono pronti al sacrificio, e noi dobbiamo farli morire come scudi umani, dobbiamo far sì che la loro morte diventi la nostra migliore arma». Questo è il passaggio cui l’Idf non ha saputo porre rimedio: non è bastato che gli uomini dell’Israeli Defence Forces telefonassero a ogni casa in cui era stata sistemata una rampa, prima di bombardarla. Hamas ha costretto la gente a morire e abbiamo anche visto i video in cui le donne urlano con tutta la loro forza e il loro odio la maledizione ad Hamas, non agli israeliani, per aver causato la morte dei loro bambini.

Ma per il mondo di Santoro tutto ciò è dettaglio un fastidioso dettaglio. L’industria della morte andava usata come carburante per rilanciare il vittimismo di chi ha scatenato la guerra con il lancio di migliaia di missili Grad, Qassam, katiushe e colpi di mortaio e attribuire agli israeliani, tutti, la patente di infami assassini.

Gli ebrei che indossano i panni che furono dei loro persecutori e che fanno dei palestinesi gli ebrei di oggi. Sono 40 anni che sentiamo questa litania. E i giovani, i ragazzi e le ragazze italiani che vedono in televisione carri armati da una parte e bambini morti dall’altra, tutte le anime semplici e anche quelle furbe, da che parte volete che siano? Ma naturalmente dalla parte delle apparenti vittime, che poi sono le vere vittime della violenza subita all’interno di una criminale scelta propagandistica.
Pochi sanno che molti ebrei ex combattenti e spesso eroi della prima guerra mondiale furono fascisti e camerati di Mussolini, il quale aveva un’ebrea come fidanzata fissa, la Sarfatti. Alcuni di quegli ebrei si suicidarono per lo schifo e la vergogna delle leggi razziali del 1938. Ma perfino sotto il fascismo e malgrado moltissime enormi infamie (la razzia del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, con partecipazione di delatori fascisti) l’Italia aveva evitato la piaga dell’antisemitismo di massa, corale, quello da «notte dei cristalli».

Oggi siamo al boicottaggio dei negozi degli ebrei, all’alleanza con chi vuole la morte degli ebrei di ogni età, sesso e condizione. E questa massa violenta, stracciona, ignorante, con la bava alla bocca, agitata da capipopolo mediatici e no, che ne fanno uso per la propria protezione dei propri missili, è oggi lanciata sulle strade e le piazze italiane. Per carità, non ditegli che sono emuli di Himmler, seguaci di Goebbels, si offenderanno. Ditegli invece che difendono le buone ragioni dei nuovi ebrei, quelli che legano le donne e i bambini ai loro cannoni per farne carne da televisione e vincere sul piano politico e mediatico le guerre che non sanno combattere sul terreno. (il Giornale)

Ora diamo scandalo noi. Ida Magli

Le buone parole fanno sempre comodo; ma c'è una cosa fondamentale che i cristiani non debbono dimenticare: la tattica di Gesù era quella di agire prima di parlare. La sua forza era soprattutto questa, in un mondo in cui predicatori e profeti abbondavano: rompere la consuetudine con il gesto, non con le parole. Prima stacco il fico dall'albero, anche se di sabato è un gesto che comporta la condanna a morte; poi ti spiego perché l'ho fatto. Perché questa strategia? I motivi sicuramente erano molti e noi oggi possiamo soltanto a fatica comprenderli tutti. Alcuni però sono evidenti: le parole istituzionali dei commentatori della Sacra Scrittura erano logore, lontane dalla realtà, dai bisogni degli uomini e delle donne, ma soprattutto non colpivano più le orecchie di nessuno, non «scandalizzavano». Ci si abitua a tutto, anche alle buone parole. È necessario che gli scandali avvengano per scuotersi dalla routine dello spirito e Gesù lo sapeva bene. Per questo la sua persona è rimasta così viva e forte attraverso i secoli: le parole si possono manipolare, le azioni no.
Noi dunque ci dobbiamo scuotere dalla routine dello spirito, una routine che ci sta uccidendo, sotto le spoglie della bontà, della tolleranza, della carità, perché non corrisponde alla verità. Sopportare è più comodo, è meno faticoso, non richiede coraggio; ma siccome della tolleranza, della carità, della bontà non ne possiamo più, abbiamo l'obbligo di suscitare scandalo gridando che non le abbiamo affatto dentro di noi, che anzi siamo convinti del contrario. L'ipocrisia della «tolleranza» è la peggiore di tutte. Andava bene ai tempi di Voltaire; adesso è priva di senso. Gli immigrati, infatti, se ne infischiano di convertirci: occupano la nostra terra, le nostre piazze, le nostre case e il gioco è fatto. Dunque dobbiamo per forza scendere anche noi ad occupare le nostre piazze semplicemente perché sono nostre e nessuno ha diritto di togliercele. È questo che ci è richiesto per salvare la nostra civiltà: il coraggio delle azioni. Le azioni di Gesù erano violente proprio perché affermavano la verità che nessuno osava dire e sfidavano le buone parole delle istituzioni. Non si tratta perciò di imbracciare bastoni o fucili, ma di difendere i nostri beni; di sfidare le istituzioni che non difendono la nostra verità. Riflettiamoci bene: il Gesù «mielato» non è il vero Gesù altrimenti non lo avrebbero ammazzato. E comunque, anche per chi non è credente, si tratta di un momento decisivo per la sopravvivenza della civiltà occidentale, europea, italiana.
La carta dei diritti universali, di cui fanno tanto vanto i nostri governanti, afferma che non si debbono compiere azioni che peseranno sulle generazioni future. Quali azioni peseranno sulle prossime generazioni più di quelle che si stanno compiendo in questi giorni trasformando il nostro Paese in un Paese musulmano? Il clero rivendica l'universalità del messaggio cristiano. Sebbene si tratti di un assunto che l'esperienza storica avrebbe dovuto costringere a rivedere, i sacerdoti sono liberi di pensarlo. Ma i sacerdoti italiani, dato che favorendo l'immigrazione si trovano a operare contro gli interessi e la vita stessa della società e della cultura italiana, debbono onestamente rinunciare alla cittadinanza italiana prendendo quella degli Stati che prediligono, oppure quella dello Stato del Vaticano. Anche per loro si presenterà così il difficile compito di comprendere ex novo il messaggio di Gesù, togliendosi dalla comoda abitudine delle opere di bene con i soldi degli italiani.
Si dice che «Dio vomita i tiepidi». A noi deve averci vomitato da un pezzo. (il Giornale)

venerdì 16 gennaio 2009

Qugliariello su Annozero: "Che Santoro mostri le atrocità di Hamas"

"Servizio pubblico non vuol dire né appiattimento di posizioni, né tantomeno informazione politicamente corretta, ma a tutto questo c'è un limite. Non si possono tollerare apologie di un movimento terroristico, né si può dimenticare che Hamas persegue la distruzione di un altro popolo e con i suoi reiterati comportamenti è la responsabile di questa guerra". Lo dichiara Gaetano Quagliariello, vicepresidente vicario dei senatori del PdL.

"Sfidiamo Santoro, visto che è così bravo nel giornalismo d'inchiesta e di denuncia, a mandare in onda i filmati che anche in queste ore attestano le atrocità compiute da Hamas nei confronti dei civili e dei più deboli per poi spacciarsi come vittima. E' poi francamente intollerabile che si arrivi all'insulto nei confronti delle massime cariche dello Stato da parte di chi compie il proprio mestiere in un'azienda pagata dai cittadini. Le parole che Santoro ha usato contro Fini - conclude Quagliariello - segnano la distanza che passa tra la libertà di informazione e una presunzione infinita velata di anarchia". (l'Occidentale)

giovedì 15 gennaio 2009

Ma resta un assassino. Cesare Martinetti

E’ più grottesco che paradossale il fatto che il primo «perseguitato politico» della Repubblica italiana abbia il nome di un grande patriota come Cesare Battisti. Non di irredentismo stiamo parlando ma di quella replica che la storia talvolta concede sotto forma di farsa. Il «nuovo» Battisti, condannato per omicidio, è in realtà un ferrovecchio di quel periodo anch’esso storico che ricordiamo sotto il nome di «anni di piombo».

Passato - ci auguriamo definitivamente trapassato - ma purtroppo vivo per la scia non consumata di dolori individuali e famigliari, di segreti di Stato - veri o presunti - irrisolti, di sfiducia per una vicenda storica sanguinaria che si chiude per casi individuali, solitamente in modo maldestro, quasi sempre iniquo. In altre parole di giustizia incompiuta.

Su tutto ciò precipita ora il caso dell’(ex) terrorista rosso Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per quattro omicidi, che la Repubblica Federale del Brasile ha laureato ieri «rifugiato politico» negando l’estradizione chiesta dal nostro Paese. Non è una notizia banale perché questa qualifica - la prima data a un italiano all’estero dai tempi del fascismo - conferisce automaticamente al Paese che ne richiede l’estradizione l’attributo di Paese che nega le libertà politiche. In altre parole una «non democrazia» per l’evidente contraddizione in termini.

Dunque l’Italia come il Cile di Pinochet? No, il nostro era e resta un Paese libero, però attenzione alle parole che in questo caso rivelano una drammatica debolezza diplomatica che si traduce in una debolezza tout court del peso e dell’immagine italiana nel mondo. Dopo il presidente francese Nicolas Sarkozy (che il 12 ottobre negò l’estradizione della brigatista Marina Petrella) è ora Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile, ad offendere l’Italia negando l’estradizione a un terrorista condannato con sentenze passate in giudicato, dopo processi regolari che si sono svolti davanti a corti popolari e che hanno subito il vaglio della Corte di Cassazione.

Tutto ciò per la Repubblica brasiliana non conta nulla, a Brasilia e Rio de Janeiro l’Italia è considerata un Paese minore dove si pronunciano sentenze che non hanno valore. Evidentemente la diplomazia delle relazioni personali e del sorriso del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi serve soltanto a sketch televisivi e fotografie di circostanza. Quando Lula venne in visita in Italia, il 12 novembre scorso, il premier ha mobilitato i calciatori brasiliani del suo Milan per coinvolgere l’ospite in un siparietto trasmesso in forma di tormentone dai Tg. Lula, presidente di una Repubblica che vive (anche) di calcio, deve essersi sentito sfidato e ora risponde con una lezione di legalità al Paese che si diceva patria del diritto.

Lo status di «rifugiato politico» concessa a Battisti è un’assurdità, uno schiaffo, uno sberleffo. Nemmeno la Francia, rifugio storico dei terroristi italiani, ha mai osato tanto. A Parigi le estradizioni venivano negate per tecnicismi giuridici, mai per ragioni politiche. Queste riposavano nell’equivoco dei rapporti politici che si instaurarono ai tempi di Craxi-Mitterrand, quando cominciò la pratica sopravvissuta per oltre vent’anni e ora clamorosamente riabilitata dal più sorprendente degli attori: Nicolas Sarkozy, il presidente di una destra che si voleva di «rupture».

Dietro l’operazione Battisti, infatti, non può non esserci la mano di Sarkò. Da quando il Presidente s’è accasato con Carla Bruni non è più quello di prima, si sa. L’ex mannequin ora première dame di Francia ha introdotto all’Eliseo il virus di quel milieu intellettuale, borghese e gauchiste che ha accolto, nutrito, protetto e blandito con una fraternité sconosciuta ai pochi terroristi autoctoni i rifugiati italiani. Carla e la sorella Valeria hanno piegato la scorza del Presidente, ex primo flic della République, per la brigatista Marina Petrella, trattenuta a Parigi per «ragioni umanitarie». Facile prevedere che più o meno lo stesso sia accaduto per Battisti. Il terrorista godeva di una biografia perfetta per il mondo di Carla e dei suoi amici: ex delinquente comune, politicizzatosi in carcere, arruolato nei PAC (proletari armati per il comunismo) attivi nelle vendette sociali sul finire dei sanguinari Anni Settanta, una fuga durata vent’anni e trasformata in benzina letteraria per romanzi maledetti, polar a sfondo politico e sociale. Magnifique! Quando finalmente i giudici hanno concesso l’estradizione (estate 2004), Battisti è stato messo in condizione di scappare.

Quando finalmente è stato preso in Brasile, Sarkò (durante le vacanze di fine anno con Carla) ha chiesto a Lula di sbrigare il lavoro sporco. Lo ha scritto un settimanale serio come Le Point. Evidentemente la contropartita diplomatica francese ha pesato di più delle figurine dei calciatori brasiliani con la maglia del Milan. Cesare Battisti, un assassino condannato, può tornare libero. La giustizia italiana è mortificata. Le librerie di boulevard Saint-Germain si preparano ad accogliere il nuovo romanzo del terrorista-scrittore. (la Stampa)

lunedì 12 gennaio 2009

Noi, fragili, contro la marea musulmana. Ida Magli

L’immagine di piazza Duomo riempita di musulmani in preghiera, pubblicata da Il Giornale, ha finalmente provocato, non soltanto nei milanesi ma in tutti gli italiani, quel sentimento di angosciosa sorpresa che fino a oggi nulla era riuscito a provocare. Eppure sono molti anni ormai che si susseguono le notizie sugli sbarchi a Lampedusa, sulle scuole che rinunciano a festeggiare il Natale per non offendere i bambini islamici, dei crocifissi sempre sul punto di essere sloggiati da qualche aula; per non parlare delle prediche inutili di quei pochi che hanno tentato di mettere in guardia sia i politici sia le gerarchie ecclesiastiche sui pericoli che la presenza di credenti musulmani avrebbe inevitabilmente comportato per una civiltà fragile come la nostra. Che la nostra civiltà sia fragile tutti lo sanno bene; ma è necessario mettere l’accento sul fatto che è fragile soprattutto a causa dei suoi stessi valori principali: il cristianesimo, la libertà, la indulgente benevolenza tipica del carattere degli italiani.
Sia il benvenuto quindi questo sussulto perché, se ci muoviamo subito, forse siamo ancora in tempo a salvarci. Prima di tutto cerchiamo di guardare la realtà in faccia senza gli accomodamenti di maniera. I musulmani che si riuniscono nelle piazze per pregare e per manifestare i loro sentimenti ci turbano perché sono tanti, visibilmente troppi perché noi si possa tenerli a bada. Questo è il dato fondamentale: sono troppi. Nel loro essere troppi è inclusa, poi, anche la visione del loro immediato moltiplicarsi con i numerosissimi figli e parenti. Che faremo? La questione della Palestina è grave e sicuramente non troverà soluzione in pochi giorni. È proibito dare fuoco alle bandiere? Certo, lo sappiamo, ma dirlo non è sufficiente. Comunque è soltanto la motivazione di oggi. Domani ce ne sarà un’altra, dopodomani un’altra ancora...
Quello che ha turbato di più, però, è l’associazione «Duomo-musulmani». Il grande spazio vuoto davanti a una cattedrale o alla chiesa principale di un paese segnala la sua sacralità, il «limite» oltre il quale si addensa la presenza divina che risiede nel tempio con l’eucarestia. In termini etnologici, diciamo che la piazza davanti al Duomo non è stata creata come luogo di riunione ma per porre una distanza «di rispetto» fra il profano e il sacro. Per i cristiani, ma soprattutto per i cattolici, una chiesa inoltre è un luogo dove si celebra il rito per eccellenza, il sacrificio della Messa, con la trasformazione reale del pane e del vino nel corpo di Cristo. La lampada sempre accesa davanti all’altare dove è custodita l’eucarestia testimonia che Gesù ha mantenuto la promessa: «Io sarò sempre con voi».
Naturalmente tutto questo non ha alcun senso per i musulmani ai quali è sufficiente un tappetino e volgersi in direzione della Mecca per pregare. Si riuniscono in piazza Duomo perché è al centro della città, è un luogo molto grande e perché comunque percepiscono, sia pure inconsapevolmente, la positività della risonanza culturale, storica, sacrale di cui i luoghi si impregnano attraverso il vissuto degli uomini. Prendiamocela dunque con noi stessi, con i nostri politici, con le nostre gerarchie religiose se oggi ci troviamo di fronte a una così drammatica situazione, non con loro. Né si dica (cosa che spesso si sente dire) che gli immigrati debbono imparare a rispettare le nostre leggi, le nostre consuetudini, i nostri valori: le culture sono una diversa dall’altra proprio in questi aspetti, non in altri. Possono imparare ad andare in orario al posto di lavoro anche se la percezione del tempo è diversa da cultura a cultura; possono imparare, sia pure con molta fatica, a parlare la nostra lingua, a mangiare qualcuno dei nostri cibi, a vestirsi come noi, ma i tratti che fondano una cultura non si possono cambiare. E non esiste cultura senza religione, o meglio: sono le religioni che fondano le culture.
Questo significa che siamo noi a dover agire. Prima di tutto prendendo coscienza che, per quanto laica sia la nostra società, si fonda su valori che, già presenti nella romanità, sono stati forgiati dal cristianesimo e rimangono a fondamento della nostra convivenza civile anche quando non ci accorgiamo più della loro origine cristiana. Credenti oppure no, dunque, non possiamo lasciar prevalere l’islamismo senza perire. Anche se accettassimo di diventare musulmani, o vi fossimo costretti, questo significherebbe ugualmente la fine della nostra civiltà.
Nessuno si faccia illusioni in proposito. L’islamismo è una religione forte, vitale e inflessibile (non ha la Grecia, Roma e Gesù di Nazaret dietro di sé). Né si guardi agli Stati Uniti d’America come esempio di luogo dove convivono razze, popoli e religioni diverse. L’America possiede un territorio immenso, cosa che già di per sé permette di non sentire l’acqua alla gola davanti alle diversità, come succede invece a noi con il nostro spazio ristrettissimo. Poi, essendo tutti in origine degli immigrati, gli americani non si trovano nella condizione di invasi e sopraffatti nella propria terra, nel proprio Paese, nella propria casa. Infine, tanto per dire la verità fino in fondo, bisogna togliersi dalla testa che l’America sia il paradiso delle etnie: la conflittualità negli Stati Uniti è fortissima, e lo è proprio per tutti quei motivi di cui da noi non si vuol sentir parlare come la razza, la cultura, il Paese di provenienza, la religione, la classe sociale, la ricchezza e così via. Dunque, non abbiamo più un minuto da perdere. Prima di tutto è indispensabile fare, da laici, quello che già molte volte i laici hanno fatto lungo la storia della Chiesa: scendiamo nelle piazze a predicare la nostra verità, creiamo dei movimenti nuovi nell’ambito del cristianesimo, dei movimenti che non si occupino di fare la carità o di rinnovare la teologia, ma che parlino di Gesù; che gridino anche alle istituzioni ecclesiastiche il Suo: «Non ripetete parole!». Sì, sono troppo logore le parole rituali, e la fame della nostra società è la fame dell’anima. Non lo vedete, dunque, che siamo tutti, anche voi, con i vostri conventi vuoti, i vostri seminari deserti, le vostre parrocchie abbandonate, come pecore senza pastore? I francescani sono nati così: andando per le strade, senza né libri né sacerdozio, soltanto con il Vangelo. Gridiamolo anche ai nostri politici: «Non ripetete parole!» perché noi delle parole non ne possiamo più. Non avete il diritto, parlando sempre di come diventeremo ricchi, di ucciderci nell’anima, di strapparci la nostra terra, la nostra cultura, la nostra religione. Avete giurato di essere fedeli all’Italia, non al mondo intero. Cominciate oggi. Neanche un immigrato in più, niente permessi di soggiorno, niente rifugiati, nulla. In Italia non c’è più posto per nessuno. Non aiuteremo il mondo lasciando morire la nostra civiltà, la bellezza della nostra musica, della nostra arte, della nostra poesia, al contrario. Il mondo sarà infinitamente povero senza l’Italia. La Chiesa sarà infinitamente povera senza l’Italia. (il Giornale)

martedì 6 gennaio 2009

La sinistra che non ama Israele. Peppino Caldarola

Torno dopo qualche giorno di assenza. Non ero in vacanza. Ma me la sono cavata lo stesso. Fra i miei amici più cari, come fra i vostri, si discute molto e si litiga (io, in questi giorni, posso farlo molto meno), attorno a Gaza. Mi colpisce il tono acceso degli anti-israeliani. Nelle piazze si bruciano le bandiere con la stella di Davide e uno si immagina che si tratti di estremisti. Poi parli con quelli che non vanno in piazza né bruciano le bandiere e senti dire le cose più orribili. La stupidaggine più di moda è l'equiparazione fra ebrei e nazisti. Non ne trovi uno che dica una parola contro Hamas. Sono tutti dalemiani, anche Veltroni, ormai. Con Hamas bisogna trattare, Hamas ha la rappresentanza del popolo eccetera. In verità Hamas è una feroce organizzazione terroristica, che ha fatto un colpo di stato contro l'Autorità palestinese, elimina i moderati palestinesi e ha nel suo programma la distruzione di Israele. Ho posto a questi amici, che si commuovono per Gaza ma non per l'Africa o il Tibet, una domanda: ma se il nostro Paese venisse aggredito da missili ogni giorno, se i nostri vicini decidessero di distruggerci, se quelli che scagliano missili e minacciano di buttarci a mare fossero diretti da una classe dirigente fra le più corrotte al mondo, noi che dovremmo fare? Non ti rispondono. La guerra di Hamas è la loro guerra, sono i vecchi scheletri di ieri che tornano a fare politica. A sinistra ci sono molti nemici di Israele, meno di prima ma ancora tanti e tutti ai piani alti. (il Riformista)

La carta della fiducia. Luca Ricolfi

Se ripensiamo alle notizie economiche delle ultime settimane c'è da restare sconcertati. La maggior parte dei mezzi di informazione ha prima annunciato un crollo dei consumi (-20% a Natale) e un aumento della povertà (il 15% della famiglie «non ha i soldi per mangiare»), per poi accorgersi che i consumi erano sostanzialmente stabili e le notizie sulla crescita della povertà erano un po’ vecchiotte, visto che risalivano al biennio 2006-2007, ossia alla scorsa legislatura. Prima l’idea sconsolata del Natale povero, poi le immagini delle fiumane di gente in coda per le strade davanti ai negozi, pronta a spendere centinaia di euro a testa in saldi.

Ma non si tratta solo di dati detti e contraddetti. Quando non è il dato ad essere controverso, è la sua interpretazione che diventa ballerina. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che il deficit dello Stato nel 2008, il cosiddetto fabbisogno, è risultato di quasi 8 miliardi superiore al previsto. Per alcuni è l’ennesima conferma che Tremonti sa solo sfasciare i conti pubblici, per altri è segno che il governo ha già fatto quello che l’opposizione da tempo gli chiede di fare, ossia allargare i cordoni della borsa per combattere la crisi.

Questa altalena di fatti e contro-fatti, interpretazioni e contro-interpretazioni, rende estremamente difficile orientarsi per capire quel che realmente sta succedendo nel nostro Paese. A mio parere, in questo momento, l’errore di prospettiva più grande che stiamo commettendo è quello di proiettare le nostre paure per eventuali guai futuri sulla realtà, più modesta e meno allarmante, dei segnali che attualmente ci stanno arrivando. Il fatto che nei prossimi mesi possa esserci qualche nuovo crack (come Lehman Brothers), o una crisi di panico dei risparmiatori, o una guerra nucleare fra Israele e Iran, non autorizza a pensare che già ci siamo dentro, né a ignorare i segnali positivi che continuano ad affiancare quelli negativi.

I segnali negativi sono ben noti e ribaditi ad ogni piè sospinto: aumento dei disoccupati e delle ore di cassa integrazione, difficoltà di accesso al credito, crollo della borsa, caduta della produzione industriale e più in generale dell’attività economica. A questi segnali, tuttavia, si affiancano anche parecchi segnali di segno opposto, che tendiamo a ignorare ma su cui sarebbe invece opportuno riflettere.

Primo, e più importante: negli ultimi 6 mesi, soprattutto grazie alla diminuzione dei prezzi (confermata giusto ieri dall’Istat), il numero di famiglie che non riescono a quadrare il bilancio si è ridotto di circa il 30% (indagini Isae di luglio-dicembre 2008), riportandosi al livello del 2006, ossia dell’anno migliore dai tempi dell’introduzione dell’euro (2002). Secondo: finora, le domande per la social card sono poco più di 1/3 del previsto, un fatto che è difficile spiegare solo con i ritardi delle istituzioni e la «vergogna» dei potenziali beneficiari. Terzo: nel corso del 2008 i bandi di gara per le grandi opere hanno avuto un incremento record, pari al 26,9% (dati Crem diffusi pochi giorni fa). Quarto: nonostante la crisi, fra il 2007 e il 2008 l'occupazione dipendente è aumentata di oltre 300 mila unità (ultima indagine Istat, 18 dicembre). Quinto: benzina, gasolio, energia elettrica, mutui, case stanno diminuendo di prezzo. Sesto: a dicembre, per la prima volta da 9 mesi, l'indice Pmi del settore manifatturiero, che misura le aspettative dei responsabili acquisti delle imprese, è salito anziché continuare la sua corsa verso il basso.

Bastano questi segnali a convertire il nostro pessimismo in ottimismo? No, e non solo perché in qualsiasi momento lo tsunami può piombarci addosso dall’esterno, ma perché vi sono rischi strettamente interni che, al momento, paiono sottovalutati dal governo. Il primo, ben noto, è il rischio di un aumento della disoccupazione dovuto al licenziamento di operai e impiegati non tutelati dalla legislazione e dai sindacati: non solo lavoratori atipici, ma anche semplicemente dipendenti in imprese medie e piccole. Il secondo rischio, assai meno noto, è che il rallentamento dell’attività economica costringa a chiudere centinaia di migliaia di artigiani e di piccole imprese, oltre alle più di 200 mila che hanno già chiuso nell’ultimo anno e di cui nessuno parla. Il terzo rischio, forse il più importante, è che anche chi non perderà il posto ma semplicemente teme di perderlo, sia indotto a comportamenti di consumo e di investimento eccessivamente prudenti, contribuendo così, senza volerlo, ad aggravare la recessione in corso. È paradossale, ma dal punto di vista macroeconomico, ovvero del sostegno della domanda, è più importante tranquillizzare i 20 milioni di occupati che si salveranno, che aiutare 1 milione di occupati che il posto lo perderanno davvero.

È dunque su questo versante, quello delle garanzie a chi rischia di perdere il lavoro, che i nostri governanti - ma anche un'opposizione costruttiva - hanno una grande responsabilità. I provvedimenti finora varati, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali, vanno senz’altro nella direzione giusta, ma sono largamente insufficienti se il loro scopo non è semplicemente di tappare qualche falla futura, ma di creare fin da ora un clima di serenità e di fiducia generalizzato. Se si vuole che i comportamenti economici tendano a normalizzarsi, non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse, ma occorre dare un chiaro segnale di attenzione nei confronti di chi teme di perdere il lavoro, sia esso lavoratore atipico o normale, dipendente o indipendente. E l’unico segnale che può funzionare, lo sappiamo tutti, è che gli ammortizzatori sociali diventino automatici, permanenti e universali. Non a caso, nel giro di pochi mesi, il lavoro è divenuto di gran lunga la preoccupazione centrale degli italiani (vedi l’ultimo sondaggio pubblicato da Mannheimer sul Corriere della Sera).

Certo, un’operazione del genere avrà un costo elevato, né potrà essere condotta in pochi mesi o senza fare qualche sacrificio su altri versanti. Ma sono certo che, se il punto di arrivo sarà chiaro, per governo e opposizione sarà più facile trovare un ragionevole accordo, e a quel punto la fiducia, premessa cruciale della ripresa economica, lentamente ma inesorabilmente tornerà a scorrere nelle vene della società italiana. (Corriere della Sera)

lunedì 5 gennaio 2009

Veltroni non critica Hamas e dice cose senza senso, ma malevole. Carlo Panella

Walter Veltroni ha scoperto ieri, con il suo abituale ritardo, che il centro dell’attenzione del Pd non deve essere la Commissione di Vigilanza o l’Iva per Sky Tv, temi su cui si è incredibilmente infervorato nelle settimane scorse.
Avesse solo letto i giornali, Veltroni si sarebbe infatti accorto sin dal 20 novembre scorso (in pieno “caso Villari”) che a Gaza stava per scoppiare l’inferno, perché Hamas aveva rotto unilateralmente le trattative di pacificazione con Abu Mazen. Avrebbe cioè avuto la conferma che Hamas intende continuare la guerra civile palestinese, proprio perché vuole sconfiggere Abu Mazen che intende trattare con Israele. Scoppiata la crisi di Gaza, dopo ben otto giorni e 500 morti, Veltroni deve dunque avere letto finalmente un giornale, ed essersi così accorto che il caso Villari non è esattamente al centro dei problemi del mondo. Purtroppo, li ha letti male e –come spesso gli accade- ha detto cose prive di senso, ma comunque malevole. Veltroni infatti non si è neanche accorto così che la sua critica durissima alle scelte di Israele, definite “fallimentare strategia di chi riteneva che le crisi non vadano affrontate con le armi della politica bensì con la politica della forza” sono riferite ad una strategia gestita oggi in Israele da Ehud Barak, laburista, riferimento specifico suo e del suo partito in Israele. Non si è neanche accorto che il socialista Ehud Barak applica esattamente la strategia indicata da Barack Obama durante la sua visita a Sderot: “Se in una di queste case dormisse una delle mie figlie, farei di tutto per impedire ad Hamas di bombardarla”, tanto che ieri i due leader democratici del Senato Harry Reid e Dick Durbin, hanno avallato la scelta di guerra di Israele: “Quello che Israele sta facendo è molto importante. Quest’organizzazione terrorista, Hamas, deve essere spinta a farsi da parte”. Altro che tregua! Sempre se avesse letto i giornali invece di occuparsi di Villari, Veltroni si sarebbe anche accorto che Israele, ha affrontato per 38 giorni la pioggia di 500 razzi sul suo territorio, senza sparare un colpo, scegliendo di dispiegare le armi della politica, cercando di ricostruire, con la mediazione egiziana, la tregua con Hamas, ma che alla fine ha dovuto difendere il suo territorio con la forza. Ma tutto questo non interessa a Veltroni, che peraltro ritiene –allineandosi in pieno con i bruciatori di bandiere israeliane- di non sprecare neanche una parola per criticare la politica omicida di Hamas. Quello che gli interessa è rimestare nel torbido, captare un po’ di consenso a sinistra e fare demagogia, accusando il governo italiano di non essere riuscito a imporre la tregua a Gaza. Ma che senso ha accusare Frattini di non essere riuscito a imporre la tregua a Gaza? E chi ci può riuscire? E poi: è ora che la sinistra la smetta di proporre ogni volta che inizia una guerra, che si faccia una tregua. Questa è una posizione etica, non politica, sintomo di mancanza di idee, esattamente quella mancanza di idee che caratterizza una vecchia Europa che in questi giorni sta facendo –con Sarkozy- una figuraccia dietro l’altra, dopo avere lasciato che dello strapotere guerrafondaio di Hamas a Gaza si occupasse solo Israele, senza avere mosso un dito, neanche quando Hamas ha massacrato centinaia di uomini di Abu Mazen nella Striscia, proprio per arrivare allo scenario di oggi. Infine, stia attento Veltroni: questa guerra non finirà il 20 gennaio. Il 21 gennaio Barack Obama, finalmente, parlerà e deciderà. Allora si vedrà se –su Israele- è più vicino alle posizioni sue o di Berlusconi e Frattini. Scomettiamo che Veltroni anche qui avrà una delusione. L’ennesima. (il Tempo)

Quel silenzio sulla moschea in piazza Duomo. Michele Brambilla

Mille, forse duemila musulmani hanno occupato piazza Duomo a Milano per protestare contro i raid israeliani a Gaza, hanno bruciato bandiere con la stella di David e poi hanno pregato rivolti verso la Mecca. Anche il sagrato è stato occupato. Il Duomo ha dovuto chiudere. Se un cristiano, ammesso che ce ne sia ancora qualcuno in circolazione, avesse voluto entrare nella cattedrale per pregare, o per partecipare alla messa, avrebbe dovuto rinunciarvi. La stessa cosa è successa a Bologna in piazza Maggiore, davanti a San Petronio. Anche in altre città d’Italia e d’Europa molte piazze e molti sagrati si sono trasformati in improvvisate moschee all’aperto. Guardate e tenete presente un dato: è la prima volta che succede.Ma perché i musulmani, per protestare contro la guerra in Palestina, hanno scelto i luoghi simbolo della cristianità? Perché non davanti a un consolato israeliano? O americano? Perché per la preghiera, invece che in una moschea - ce ne sono ormai parecchie - hanno scelto le cattedrali, come a Milano, o la basilica più importante come a Bologna?

Domande alle quali si possono dare due risposte. La prima sgombrerebbe il campo da qualsiasi dietrologia: sono andati davanti al Duomo e davanti a San Petronio perché quelle sono le piazze principali di Milano e di Bologna. Secondo un’interpretazione ancor più benevola, hanno addirittura voluto cercare un’ideale solidarietà con i cristiani, pregando l’unico Dio: in fondo, ha osservato qualcuno, sulla facciata del Duomo sta scritto Mariae Nascenti, e se c’è un culto che accomuna cattolici e musulmani questo è proprio quello mariano. La preghiera di massa sarebbe dunque un atto di pietà, una richiesta di carità in un momento di sofferenza per il popolo arabo.

Ma c’è un’altra possibile chiave interpretativa, che è quella di una simbolica occupazione. Di un atto di arroganza e perfino di violenza: a Milano i dimostranti - guidati dall’imam di viale Jenner, già condannato per terrorismo - sono arrivati di corsa, seminando paura, sgomberando di forza la piazza, occupandola senza alcun permesso, costringendo appunto il Duomo a chiudere. Dove sarebbero, visti i modi e i fatti, il rispetto e la solidarietà con i cristiani?

Sembra quasi che, con questa azione forse coordinata nelle varie città, il mondo islamico abbia voluto lanciare un segnale: i vostri tradizionali luoghi di preghiera adesso diventano nostri. Dove prima pregavate voi, adesso preghiamo noi. Per il devoto musulmano i luoghi, i segni, i simboli hanno un valore ben più profondo di quanto ne attribuiamo noi occidentali, ormai largamente secolarizzati.Può darsi che quest’ipotesi di un’occupazione simbolica sia un allarmismo esagerato. Resta il fatto che non si vede che cosa c’entrino il Duomo e San Petronio con i raid israeliani; e che mai la preghiera collettiva si era tenuta sui sagrati delle chiese cattoliche. (Non vogliamo neanche immaginare che cosa avrebbe scritto Oriana Fallaci. Avrebbe parlato come minimo di sfregio, di oltraggio. Quando cominciò a sostenere quelle sue tesi, fu fatta passare per un’invasata. Adesso sono molti, invece, a temere che avesse ragione).

Ma la vera notizia, quella che ci ha indotti - a distanza ormai di due giorni - ad «aprire» il giornale con la foto che avete visto in prima pagina, è la distrazione, il disinteresse, il deprimente silenzio che ha accompagnato le invasioni di piazza Duomo e piazza Maggiore. I saldi e le code agli outlet valgono ben di più, nel nostro media-system, di un Duomo trasformato in moschea.
Ed è di questo che abbiamo paura. Non dei musulmani, la cui aggressività in tutto il mondo è piuttosto, probabilmente, un segno di debolezza e di declino. Abbiamo paura dell’ignavia, della viltà, dei contorcimenti mentali di un Occidente che soffre di infiniti complessi e sensi di colpa. Di un mondo che per non offendere i musulmani cancella i presepi, i riferimenti a Gesù nelle canzoni di Natale e il prosciutto dalla mensa dell’asilo: ma che non ha nulla da eccepire se il Duomo è costretto a chiudere. Che cosa avremmo letto sui nostri giornali se quattro cattolici tradizionalisti fossero andati a pregare davanti alla moschea di Segrate?

È il nulla dell’Occidente che spaventa. Il vuoto pneumatico di valori e ideali che lascia campo libero a chi, invece, si nutre di un pensiero forte e di uno spirito di conquista. Non ce ne frega nulla di rinunciare al presepe perché al Natale non crediamo più, così come non crediamo più in niente: né in una filosofia che non sia quella del godersi la vita, né in una morale che non sia quella del secondo me. L’Occidente tace, di fronte all’avanzata dell’islam, perché non ha niente da dire: la stessa Chiesa sembra spesso rinunciare, per paura chissà di che, ad essere se stessa.

C’è chi dice che proprio questo nulla ci salverà dall’islam. Che i musulmani saranno alla fine sconfitti, più che da quel che resta dei nostri valori, dall’effetto contagioso dei nostri vizi. È probabile che finirà così. Ma non prima di uno scontro che sarà tutt’altro che breve e indolore. (il Giornale)

domenica 4 gennaio 2009

Tre per uno. Davide Giacalone

Prendete l’ignoranza, impastatela con la malafede ed avrete la sostanza dei titoloni che i giornali (quelli che vogliono far credere d’essere seri) sparano sulle inchieste giudiziarie. Aggiungete una buona dose di paura, e capirete anche il senso della proposta fatta dal ministro ombra, ds, della giustizia: a disporre il carcere preventivo non sia più un solo giudice, ma tre.
Il tribunale della libertà, a Potenza, ha annullato la richiesta d’arresto, prima avallata dal gip, di un parlamentare ds. E subito tutti a scrivere che l’“impianto accusatorio” s’è ridimensionato e indebolito. Stessa commedia, con diverso copione, a Pescara, dove è il gip stesso ad averci ripensato, dopo avere incarcerato un sindaco, sempre ds. Commenti frettolosi, e non innocenti, dimenticano che: a. l’avviso di garanzia o la custodia cautelare non sono neanche indizi di colpevolezza; b. la privazione cautelare della libertà è possibile, secondo la legge, solo se c’è concreto pericolo di fuga, rischio di reiterazione, per reati di sangue e pericolosi, o di effettivo inquinamento delle prove; c. sia la disposizione che il venir meno delle misure cautelari non hanno nulla a che vedere con l’accertamento dei fatti, che spetta ad un tribunale vero (fra anni!). Gli “impianti”, di cui tanti straparlano, se li dovrebbero fare al cervello.
A vigilare sulle richieste della procura sono stati posti due livelli: il gip ed il tribunale della libertà. Due fallimenti. Dice Tenaglia, magistrato, già membro del Csm, ed ora ministro nella zona oscura: mettiamocene tre, al posto di uno. Ce ne può mettere un’assemblea, magari sperando di averne almeno uno nella corrente amica, ma sarà sempre un obbrobrio, perché il pm, il gip, il gup e gli altri sono tutti colleghi. Se lo ricorda, il non soleggiato, quel gip milanese che si faceva la campagna elettorale, in modo da raggiungerlo a Palazzo dei Marescialli, grazie ad un pm? Ecco, questo è il motivo per cui non funziona.L’Italia vive, da molti anni, senza giustizia, ciucciando un succedaneo velenoso, il giustizialismo. Siamo ancora qui, con Napolitano che vuole le “riforme condivise” ed auspica il “dialogo”, alimentando conservazione e chiacchiere. Nella Costituzione c’è scritto come si fanno le riforme. Peccato la trascurino, anche alla Corte Costituzionale.