martedì 30 novembre 2010

Idolatri climatici in rotta

Quasi un anno fa iniziava a Copenaghen la conferenza sui cambiamenti climatici che avrebbe dovuto “salvare il mondo”. Non c’era più tempo, bisognava agire in fretta, quella era l’ultima occasione per fermare il global warming (o climate change a seconda del tempo che fa). La presenza messianica di Obama al summit avrebbe messo d’accordo tutti. Mesi di articoli catastrofisti sulle prime pagine dei giornali prepararono le coscienze: ghiacciai che si sciolgono, mari buoni solo per fare le terme, deserti che avanzano. Poi il capolavoro del giornalismo collettivo: il giorno dell’apertura dei lavori in Danimarca, 56 testate da tutto il mondo pubblicarono lo stesso identico editoriale, che nella sua maniacalità arrivava a dire che “le possibilità di controllare il clima da parte nostra saranno determinate dai prossimi giorni”. Come noto Copenaghen fu un fallimento senza precedenti, nelle ultime ore i leader del mondo abbozzarono soltanto un appunto con qualche buona intenzione e tante promesse datate futuro remoto.

Ieri a Cancun, in Messico, è iniziato un nuovo summit sul clima, ancora organizzato dall’Onu. A eccezione del Sole 24 Ore e del francese Monde, nessun giornale ne ha parlato in prima pagina, molti si sono limitati a brevi articoli nelle pagine interne. Tutti sottolineavano un po’ imbarazzati che né a Cancun né forse mai si arriverà ad alcun accordo vincolante sulle emissioni. Il grande circo ha richiuso le gabbie, c’è aria di smobilitazione; persino le richieste degli ambientalisti suonano sciatte, già viste, quasi dovute. Magari è la volta che si discuterà davvero, senza che certa scienza ci faccia credere di avere in tasca la verità. (il Foglio)

Teoremi mafiosi. Davide Giacalone

Ci sono dettagli che illuminano l’insieme. Notizie rimpiattate che dicono più dei titoloni urlanti. A saper leggere, però. Molti credono che l’intreccio fra mafia e politica sia una partita del passato, invece deve ancora essere giocata. Il terreno è quello del processo a Mario Mori, carabiniere, ex comandante del Ros. In quel dibattimento passerà la nostra storia recente, compreso l’atto di nascita della così detta seconda Repubblica.

Ecco alcuni dettagli. Primo: se un qualsiasi macellaio di mafia racconta di aver saputo, dal fratello del suo capo, che il cugino della cognata è stato a colloquio con lo zio di un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale gli ha detto che presto lo nominerà capo dell’Europa, la cosa finisce su tutti i giornali (ed è naturale), nonché al centro di un’indagine che dura venti anni; se, invece, un carabiniere, che arrestò Totò Riina, sostiene che le accuse di cui è fatto bersaglio sono una vendetta dei corleonesi, e dice che ascoltando il pubblico ministero sente parlare il boss mafioso, la notizia raggiunge pochissimi e viene subito dimenticata. Secondo: se lo stesso carabiniere, Ultimo, al secolo Sergio De Caprio (mi scuso per un precedente errore, meramente materiale), dice che “più vedo Ingroia e più capisco la grandezza di Borsellino. Gente come lui e la lobby mediatica che lo sostiene hanno distrutto l’antimafia”, ancora una volta finisce in due righe. Antonio Ingroia è lo stesso pm di cui sopra. Terzo: scrivendo un libro Ingroia mette in dubbio l’assoluzione di un altro carabiniere, Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino, sostenendo cose che aveva taciuto al processo, quando era stato chiamato come testimone. Anche in questo caso, non succede niente. Per giunta, Canale sarà presto sul banco dei testimoni, al processo Mori. Quarto: Mario Mori sostiene che il suo calvario giudiziario è iniziato quando la procura di Palermo affondò il rapporto “mafia-appalti”, voluto da Falcone e Borsellino. Neanche questa volta succede niente.

Sono convinto che molti non colgono la terribile gravità di tutto ciò, perché non hanno un “teorema” con cui tradurre segnali che non capiscono. E’ vero, ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera del 26 novembre), la deposizione del ministro Giovanni Conso, l’avere saputo che il carcere duro (41 bis) fu cancellato dal governo Ciampi, nel 1993, demolisce il teorema della trattativa posticipata, ma sbaglia a non accorgersi che noi lo scriviamo da anni, naturalmente silenziati e minacciati di querela. Degli schieramenti non m’importa un fico secco, ma osservo che, puntualmente, si cerca di buttarla in caciara.

Mori è sotto processo perché sarebbe stato il tramite di una trattativa. Lo sostiene Massimo Ciancimino, assieme ad un altro cumulo di corbellerie. Secondo Luciano Violante lo stesso Mori gli fece presente, quando era presidente della commissione antimafia (1992-1994), che Vito Ciancimino era pronto a collaborare. Se ne è ricordato, Violante, solo nell’agosto del 2009, precipitandosi a Palermo per raccontarlo alla procura. C’è un solo italiano disposto a credere che, nel mentre era il potente presidente della commissione antimafia, Violante non abbia saputo che ai mafiosi era stato revocato il carcere duro? Eppure tacque. Singolare, anche perché Mori ricorda le cose in modo diverso.

Ora, posto che chi chiede spiegazioni facili ha sbagliato tema, provo a fornire elementi utili per la lettura. A. Non credo alla “trattativa”, ma un canale di comunicazione ci fu. Il buon Conso può pure credere di avere deciso da solo, ma stia sicuro che, come su altre faccende, lo avrebbero sbugiardato in tempo reale se quella decisione non fosse stata condivisa. B. La guida di Violante dell’antimafia privilegiò i processi politici rispetto alle indagini sui canali di riciclaggio e il coinvolgimento d’imprese non sicule. Preferì guardare alla politica in visita a Palermo piuttosto che ai soldi mafiosi diffusi per il mondo. C. Contro questa scelta era Giovanni Falcone, che, difatti, fu combattuto da Violante e da altri esponenti della sinistra, come Elena Paciotti, esponente di Magistratura Democratica e poi segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati (infine parlamentare per il partito di Violante). Per non dire di Leoluca Orlando Cascio, che lo accusò di complicità con la mafia, cosa che ripeté del carabiniere Antonino Lombardo, che ci lasciò la vita. D. Contro fu anche Paolo Borsellino, che sollecitò le conclusioni del rapporto mafia-appalti. Tutti e due furono isolati dalla politica (compresa quella vile che non li difese), sconfitti dai magistrati e ammazzati dalla mafia. E. La mitologia successiva vuole che tutto questo non sia mai esistito, ma che la storia s’incardini solo sulle responsabilità di chi, al momento delle decisioni più rilevanti, aveva perso il potere o non lo aveva ancora avuto. F. Infine: per sostenere questa tesi dissennata, questo “teorema”, che fa a cazzotti con le date e con i fatti, si deve togliere credibilità a chi lavorò con Falcone e Borsellino.

Aprite gli occhi, perché attorno al processo Mori balla la nostra storia recente, quella che ancora dura.

Macché 11 settembre, è il 1° aprile della diplomazia. Marcello Veneziani

E venne il giorno del Giudizio Universale, il mondo fu giudicato da un dio imbecille. Un mondo guidato da cretini e presieduto dal principe dei cretini: non ho altre parole per riassumere il senso della bufala cosmica delle rivelazioni di Wikileaks. Scusate ma non capisco l’allarme mondiale. Frattini dice che è stato l’11 settembre della diplomazia mondiale, a me è parso il Primo Aprile. Certo, un furbo circondato da furbetti ci ha guadagnato. Ma vi rendete conto di quale Cazzata Planetaria ci stiamo occupando? Sono giudizi sommari e stupidi espressi da qualche funzionario che deve redigere le sue note informative per la Casa Bianca e copia dai giornali e dalle tv; mica sono le pagelle del Signore sulle convocazioni in paradiso e sulle dannazioni all’inferno.

Riflettete un attimo, per favore, su quei rapporti. E ripassate in rassegna quei giudizi, la fonte e il tenore. Nella migliore delle ipotesi sono aria fritta, cose risapute, traduzioni in forma di gossip di giudizi che già s’intuivano. Nella peggiore sono chiacchiere da saloon, tra un whisky e l’altro, che sembrano ispirate più dalla lavandaia - con tutto il rispetto per le lavandaie - piuttosto che dalla diplomazia più importante del mondo. Se questa è la diplomazia americana, allora Dagospia for president, via Obama dalla Casa Bianca e dentro Roberto D’Agostino che almeno è spiritoso e non pretende con i suoi giudizi di guidare la superpotenza mondiale. Ma che senso ha riferire in mondovisione giudizi scemi su Putin macho e capobranco, la Merkel di scarsa fantasia, Sarkozy l’imperatore nudo e autoritario, Ahmadinejad il nuovo Hitler pazzo, Gheddafi un ipocondriaco che si è fatto il botulino ed ha un’amante ucraina, Karzai il paranoico, Kim Jong Il, leader della Corea del Nord, un vecchio ciccione con l’ictus...

A proposito di ciccioni, una obesa signora americana, come purtroppo ce ne sono tanti negli States, Elizabeth Dibble, trincia un giudizio su Berlusconi dandogli dell’incapace e del vanitoso, e poi riferisce di feste selvagge, probabilmente traducendo alla lettera e senza un filo d’ironia il mitico bunga bunga. Ma i festini dei Kennedy e di Clinton erano da prima comunione? I giudizi della signora in sovrappeso (disturbi ormonali e ghiandolari?, dovremmo chiederci stando ai criteri usati per redigere questi compitini) sembrano solo il frutto di una sommaria lettura dei titoli dei giornali italiani all’attacco del premier; e la cosa perfida e grottesca è che ieri gli stessi giornali hanno riferito con grande solennità quei giudizi di cui essi stessi sono la fonte... Ma pensate che il compitino di una grassa patatona americana, per restare alle categorie usate in questo rapporto, sia così sconvolgente per gli equilibri mondiali e così determinante per influenzare l’azione politica di Obama? Su, sono chiacchiere da dopocena, tra il caffè e l’ammazzacaffè, mica altro. Penso cos’era stata per secoli la diplomazia europea, vaticana, orientale, cinese (a proposito, e della Cina non si dice niente negli States; paura?). Giudizi acuti e valutazioni prudenti, informazioni vere e stile di espressione... Tremila anni di diplomazia e di civiltà finiti nel cesso. Pensieri sparsi attaccati col chewing gum. Naturalmente non escludo affatto che ci siano fascicoli seri, e perfino minacciosi, oltre la giostra per idioti globali che è stata pubblicata ieri. Allora lasciamo da parte la buffonata e pensiamo alle cose serie.

Il ciclone Wiki esplicita molte cose che erano implicite, e porta alla luce quel che tutti gli informati probabilmente già sapevano, regolandosi di conseguenza: la preoccupazione per l’Iran, le pressioni arabe per dichiarargli guerra, i rapporti difficili con Israele, la debolezza internazionale dell’Europa, e via dicendo. Per quel che ci riguarda, viene esplicitata una cosa che pensavamo e scrivevamo da tempo: all’Italia di Berlusconi, al di là del fumo dei pettegolezzi e delle campagne per delegittimarlo, alcuni ambienti internazionali, alcune lobbies e alcune diplomazie, a cominciare da quella americana, non perdonano i nostri rapporti economici con la Russia di Putin, la Libia di Gheddafi, la Cina e l’Iran. Non è il lettone di Putin o le amanti bionde di Gheddafi la loro preoccupazione, semmai è la propaganda; ma il fatto che l’Italia abbia vantaggiosi rapporti con quei Paesi, sia un loro partner significativo. Se vogliamo, è un copione già visto, ai tempi di Craxi e di Andreotti, forse anche di Moro. E non c’è da indignarsi e gridare al complotto ma c’è da capire e agire con realismo di conseguenza.

Quella è la partita più delicata, da lì vengono i suggeritori internazionali che si servono magari di toghe avvelenate, ma anche di scatole vuote nostrane per riempirle di tritolo e far esplodere il governo in carica. Quello è il pericolo reale, oltre la bufala. Vedrete, non si fermeranno lì, le loro feste selvagge proseguiranno in varie direzioni per inguaiare il governo. Non so quanto Obama condivida questa linea. Per il resto, l’effetto immediato di questo gossip cosmico dovrebbe essere solo uno: chiudete le ambasciate e aprite le sale da parrucchiera. È la sede più consona per questi pettegolezzi. (il Giornale)

lunedì 29 novembre 2010

Perché i politici di centrodestra vanno ancora da Floris, Santoro & Co.? Dino Cofrancesco

Sulle trasmissioni di Santoro (& Travaglio), di Fazio (& Littizzetto), di Floris (& C.) di Dandini (& Vergassola) ogni persona ragionevole e con un minimo di senso di imparzialità dà lo stesso giudizio che ne danno professionisti della carta stampata come Piero Ostellino e Giampaolo Pansa, due commentatori politici e saggisti che non votano certo né per Berlusconi né per Fini. Il conduttore televisivo, nei casi ricordati, è il dodicesimo calciatore della squadra che gioca sempre in casa ma con la maglia dell’arbitro. Davanti alla compagnia dei finti «muckraker» – i muckraker erano quei giornalisti d’assalto, come Lincoln Steffens e Edwin Markhan, che al tempo di Theodor Roosevelt denunciarono la corruzione politica e le collusioni con la criminalità organizzata – giornaliste (di parte) come Lucia Annunziata e persino Lilli Gruber diventano esempi di altissima professionalità.

Ci si chiede allora: come mai ministri e giornalisti del centro-destra accettano di intervenire in trasmissioni in cui verranno letteralmente sbranati, messi alla gogna, sbeffeggiati? Quale pugile accetterebbe di salire sul ring sapendo che l’arbitro farà di tutto per metterlo in difficoltà?

La risposta c’è ma è desolante: l’indice di ascolto! Le trasmissioni dei predicatori dell’etere vengono seguite da milioni di italiani, dei quali una minoranza è formata da soli curiosi, mentre la stragrande maggioranza è fatta di nemici e antipatizzanti del Cavaliere.

Come capita spesso nel nostro paese, e in tutte le sue stagioni politiche, gli sconfitti della storia si ritagliano una loro ‘subcultura’ antagonista, fatta di simboli, di linguaggi, di segni che sottolineano una diversità irriducibile e che producono una gratificazione di ‘revanche’ in quanti hanno perduto ogni presa sulle masse apatiche, qualunquistiche ed eterodirette. Come ho scritto in un articolo pubblicato domenica scorsa sul ‘Giornale’: «Da molti anni, ormai, il crollo dell’impero sovietico ha causato il discredito del marxismo e il vuoto seguito al tramonto di una teoria della storia e della società coerente e strutturata è stato riempito da una marmellata anti-capitalistica e antiliberale, fatta di pulsioni anarcoidi e libertarie, che del vecchio materialismo storico ha conservato le passioni, dopo averne perso le ragioni. E’ una muffa rossa che, a Genova ad esempio, ha trovato i suoi simboli in una compagnia di giro che, ‘ai suoi bei dì’, comprendeva Fernanda Pivano, Fabrizio de André, don Andrea Gallo, Moni Ovadia». Un tipico prodotto di questo culturame –absit iniuria verbis – è Fabio Fazio, espressione di una regione, la Liguria, in piena decadenza che si consola organizzando, grazie a un brain trust che va da Pannella a Vendola, il VI Congresso di Anticlericale.net (11-12 dicembre 2010) e l’organizza proprio a Genova giacché «la situazione del capoluogo ligure riassume in sé l’occupazione parossistica di ogni aspetto della vita politica, economica e civile delle gerarchie vaticane ai danni della società, dello Stato fu laico dell’individuo e della sua libertà di scelta». La potenza del catto-berlusconismo dev’essere davvero smisurata se quell’«occupazione parossistica» avviene in un territorio in cui città, provincia e Regione sono amministrate dal centro-sinistra!

A prevenire possibili malintesi, non intendo associarmi a quanti vorrebbero oscurare gli schermi della suddetta ‘compagnia di giro’. La libertà di parola è la più alta conquista della civiltà liberale e se essa viene condizionata (cattolicamente) dai ‘contenuti di verità’ si riduce alla ‘libertà vigilata’ dei regimi teocratici e totalitari, nei loro rari momenti di ‘apertura’. La faziosità, la malafede, la menzogna, l’isterismo ideologico sono ‘giudizi di valore’ che, per quanto motivati – ed è il caso della banda dei nostri imbonitori televisivi – potrebbero sempre, in teoria, essere dettati dal pregiudizio ideologico. Un liberale – segnato e corrotto da David Hume – ha sempre il dubbio che le sue valutazioni siano sbagliate, un dubbio che non sfiora mai animali politici come Santoro & C., le cui menti sono state colpite, senza rimedio, dalle metastasi totalitarie. Ben vengano quindi altri dieci, cento, mille ‘Anno zero’ e ‘Vieni via con me’ che ridiano conforto e ‘joie de vivre’ a quanti hanno perso tutti gli appuntamenti della storia e trovano conforto solo ritrovandosi nella grandi adunate ‘reducistiche’ che le televisioni di Stato preparano per loro (con i soldi di tutti).

Tra l’altro in un paese in cui «nulla si crea e nulla si distrugge», le trasmissioni antagoniste hanno una funzione non trascurabile di ‘sfogo’ emotivo: consentono alla rabbia repressa contro i connazionali che, insensibili alle virtù civiche e all’antifascismo, votano per il PDL, di esplodere verbalmente nella finta satira, nel dileggio sguaiato, nel pernacchio atonale e, in tal modo, forse, fanno sbollire un’aggressività che potrebbe trovare altre vie di fatto (ma talora siamo al limite: è il caso di un negozio di informatica di Trastevere che ostenta una statuetta di Berlusconi sanguinante con accanto il corpo contundente, il plastichetto del duomo di Milano!); ma hanno, pure, una funzione di riproduzione e di rassicurazione culturale in senso lato. Da noi il 68 non è mai finito, i suoi cascami ideologici, nutriti di post-marxismo e della ‘political culture’ dei centri sociali e delle comunità cattoliche di base, hanno de facto il monopolio dell’istruzione media e universitaria, sono diventati, per molti italiani, ‘senso comune’. Qualche esempio vale più di tanti discorsi teorici. Recentemente in una città del Nord un sociologo della comunicazione – docente alla scuola di giornalismo – mi ha inviato una email di protesta per la sentenza dei giudici lombardi che, per la strage di Piazza della Loggia, non avevano condannato nessun fascista. Sono le occasioni in cui si risveglia in me il mio quarto (ma decisivo) di sangue napoletano e, pertanto, gli ho risposto che i tribunali avevano insabbiato tutto perché il mandante di quella strage era Silvio Berlusconi. Pensavo di averlo irritato ma con mia grande meraviglia mi ha subito risposto di non aver preso in considerazione questa ipotesi così inquietante e mi ha pregato di inviargli al più presto lo scritto in cui io o altri rivelavamo i documenti scottanti! Se questi sono i maestri, figuriamoci gli allievi! Del resto quando in una lezione – è capitato a me – si dice che si è innocenti finché una sentenza del tribunale non abbia stabilito il contrario e una simpatica, candida, allieva fa una domanda esordendo «quindi Lei è un berlusconiano!», si ha la riprova che la cultura liberale, nel nostro paese, è ancora più fragile che al tempo dei ‘trinariciuti’ quando, nei licei borghesi, si poteva ancora trovare qualche insegnante amico della ‘società aperta’, del mercato e della proprietà privata. (Oggi, anche se un po’ meno, persino un Giulio Giorello si riempie la bocca di Popper ma dalla sua idea di ‘società aperta’ è escluso il diritto di proprietà e, soprattutto, il principio che l’interesse pubblico si realizza attraverso la tutela dei diritti individuali, al contrario di quanto ritengono i democratici antiliberali per i quali sono i diritti individuali che vengono salvaguardati dal primato dell’interesse pubblico!).

Ebbene senza le trasmissioni fabiofaziose come potrebbe tramandarsi alle generazioni future la cultura sessantottesca? Licei e Università non bastano se i loro ‘saperi’ non si proiettano sul ‘piccolo schermo’: la televisione è la conferma che quei saperi non sono fantasticherie della ‘repubblica delle lettere’ – come in tempi lontani in cui tra la leopardiana ‘Ginestra’ che si leggeva nelle aule scolastiche e le canzoni ‘urlate’di Tony Dallara che si sentivano fuori c’era un abisso planetario – ma ‘vissuto esistenziale’. I commenti politici di Luciana Littizzetto e quelli del docente di ‘Sociologia della comunicazione’ stanno ormai sullo stesso piano, sono identici e intercambiabili sicché non meraviglia che le sociologhe di una Facoltà di ‘Scienze della Formazione’ (nel profondo Nord) abbiano potuto programmare un incontro con Vladimir Luxuria nello stesso ‘spirito di servizio’ col quale, mezzo secolo fa, il mio vecchio Liceo ‘Giosuè Carducci’ di Cassino aveva organizzato un incontro con lo scienziato credente Filippo Medi sul ‘Paradiso’ di Dante e le prove dell’esistenza di Dio alla luce della fisica moderna. E’ finito, quindi, il ‘gap’ tra la ‘scuola’ e la ‘vita’ ma, purtroppo, non nel senso, che la prima si è aperta alla seconda e ne ha lasciato penetrare l’aria fresca e rigeneratrice ma nel senso che una subcultura politica, nella sua strategia gramsciana di conquista della società civile, ha messo profonde radici nel ‘sistema culturale’ e di lì ha conquistato sia le ‘scuole’ – e persino quelle elementari una volta sotto il controllo pressoché capillare dei pedagogisti cattolici – sia i centri di riproduzione massmediatica delle immagini della vita. Che la vita ‘reale’ non sia mai entrata nelle aule medie e universitarie è dimostrato da un’esperienza che come docente universitario di una materia politologica, mi capita di fare tutti i giorni: quando tento di spiegare agli studenti – portati ad attribuire la vittoria del centro-destra alle influenze subliminali delle televisioni di Mediaset – che assai è più determinante è stato «il popolo delle partite IVA», mi accorgo che la maggior parte di essi non sanno di cosa sto parlando e solo un’esigua minoranza ‘informata’ abbozza un sorrisetto ironico come a dire: «certo quelli che non vogliono pagare le tasse!...».

«Se le cose stanno così» è giocoforza rassegnarsi che in Italia c’è un paese nel paese – con le sue scuole, le sue televisioni, i suoi giornali – che non ha più rapporti con l’altro, non solo con quello della maggioranza silenziosa ma altresì con quello della vecchia sinistra riformista e socialdemocratica pur sempre ancorata all’Occidente e che grazie a (ma io preferisco dire: per colpa di) Berlusconi, il paese dei ‘contras’ ha mollato gli ormeggi, naviga per conto suo, rifiutando ogni serio confronto con quanti non fanno parte della sua «comunità di linguaggio».

A questa frattura, sempre più insanabile, non si reagisce con la retorica o con la demonizzazione ma creando strumenti culturali seri e affidabili, in grado di trasmettere un’autentica cultura liberale. Un ‘Anno Zero’ di destra – come da qualche parte auspicato – sarebbe la vittoria degli ‘antagonisti’ giacché porterebbe il match ideologico sul terreno ad essi congeniale. Sul piano dei diritti di libertà un pluralismo rissoso e fazioso non può essere censurato ma sul piano dell’etica pubblica – e della rifondazione liberale di una società civile sempre più lontana dalla political culture del suo fondatore, il Conte di Cavour – il discorso cambia. Qui si vince se all’isteria dei Travaglio, dei Giuseppe d’Avanzo delle Barbare Spinelli si contrappongono i ragionamenti pacati, le analisi fattuali, lo stile scientifico e distaccato dei Luca Ricolfi, tanto per fare un nome.

Nulla, però, lascia sperare che ci si muova in questa direzione. Talora gli stessi politici del centro-destra che vorrebbero allontanare dagli schermi televisivi i Santoro, i Floris & C. vanno volentieri alle loro trasmissioni: se fossero liberali non solo dovrebbero ben guardarsi dal chiederne la chiusura ma dovrebbero altresì evitare inutili esibizioni gladiatorie terminanti regolarmente col pollice verso della claque precettata negli studios. Il fatto è che pur di essere visti da milioni di italiani si fa baratto della propria dignità contrabbandando la comparsata televisiva per un atto eroico – ‘uno solo contro tutti’, ‘Daniele nella fossa dei leoni’ etc. – e non avvedendosi che si vestono i panni del patetico Professor Unrat dell’«Angelo Azzurro» di Heinrich Mann.

Contrariamente a quello che credono letterati, filosofi, preti, maîtres-à-penser di ogni ordine e grado, la politica non è (solo) spettacolo. Quando gli italiani furono chiamati a pronunciarsi in un referendum che avrebbe dovuto, tra l’altro, togliere di mezzo Rete 4 (ero tra i convinti sostenitori di quel referendum e, chiedo scusa a Emilio Fede, non me ne pento affatto), non pochi elettori di Rifondazione Comunista votarono con la destra: nel ‘tempo del lavoro’, quando ne andavano di mezzo i loro (legittimi) interessi, stavano con Bertinotti, ma nel ‘tempo dello svago’, quando stanchi tornavano a casa, non intendevano rinunciare a trasmissioni ‘leggere’ e, soprattutto, gratuite.

Un buon provvedimento sulla criminalità organizzata o sulla scuola producono più consenso (e più popolarità) del battibecco televisivo con Di Pietro o con Vendola. Un quinto potere che, come s’è detto, si avvolge fabiofaziosamente su se stesso serve (ma non sui tempi lunghi) a rafforzare l’identità polemica di una parte politica e a pubblicizzarne le ragioni attraverso l’etere ma una responsabile classe di governo non dovrebbe avere nulla a che fare con i Dulcamara televisivo, spacciatori di elisir dell’odio. E’ un riserbo che si chiede ad essi non come uomini o esponenti di un partito politico ma come rappresentanti delle istituzioni. Un vecchi proverbio ciociaro dice «chi va a durmì cu le criature se sveglia scacat’» («chi va a letto con i neonati, si ritrova la popò nel letto»). Si scachino pure i politici e i giornalisti del centro-destra – a cominciare dal simpatico Maurizio Belpietro tutto gongolante quando viene invitato dalle iene televisive – ma lascino le istituzioni fuori dalla rissa… e dalla melma. (l'Occidentale)

Trovo inutile dialogare con chi sta manifestando contro il Ddl Gelmini. Giuliano Cazzola

Da studente universitario, a Bologna, ero iscritto all’Unione goliardica, la fatidica Ugi che vide le gesta di tanti "fuori corso" (ricordiamo, per tutti, Marco Pannella e Bettino Craxi) che poi avrebbero avuto un ruolo nella politica italiana.
Erano i primi anni ‘60 e si parlava di un progetto di riforma universitaria presentato dal ministro democristiano Giovanni Gui. Noi ci riunivamo frequentemente alla Casa della Cultura (un’altra istituzione di quei tempi) e ascoltavamo lunghi interventi contrari al cosiddetto piano Gui (la scenografia era molto simile alla descrizione del cineforum in cui Fantozzi smitizzava con una battuta il celebre film "La corazzata Potiemkin", ma nessuno all’Ugi di Bologna aveva il coraggio di imitarlo).

Per capirci un po’ di più mi ero procurato il documento incriminato e lo avevo persino letto senza riuscire a capire i motivi per cui ricevesse tante critiche. Così, una sera mi rivolsi ad un ragazzo seduto vicino a me e gli chiesi a bruciapelo: "Perché siamo contrari al piano Gui?". L’interpellato rimase di stucco e mi guardò con l’aria di uno che si chiede: "Ma questo che cosa vuole da me? Che cosa gli ho fatto di male?". Poi capì che non poteva cavarsela e assumendo un’aria seria e compunta rispose: "Il piano Gui vuole l’efficienza dell’Università ma non l’Università efficiente". In quel momento pensai di aver smarrito qualche passaggio essenziale e non mi azzardai più a chiedere ulteriori spiegazioni. Mi restò tuttavia la convinzione - sempre confermata durante lo scorrere dei decenni e l’assistere ai tanti movimenti studenteschi succedutisi nel tempo - che a chiedere spiegazioni sui motivi di tante lotte, occupazioni, manifestazioni e scontri con le forze dell’ordine avrei ricevuto sempre la medesima evanescente risposta di quella nottata bolognese. Ecco perché trovo inutile "dialogare" con gli studenti che manifestano contro il disegno di legge Gelmini.

Mettono a soqquadro le città esibendo slogan deliranti, parole d’ordine stupidine, come se anche in politica si dovesse pagare il fio delle malattie esantematiche. Diverso è il caso dei ricercatori (ne parlano come se i nostri Atenei abbondassero di futuri premi Nobel incompresi, pronti ad essere ricevuti - se solo lo volessero - all’estero con tutti gli onori, ma desiderosi di dare il loro indispensabile contributo ad una patria matrigna). La realtà è un’altra ed è sempre la solita.

Da noi per decenni è valsa la seguente regola: chiunque fosse riuscito a varcare la soglia di un ministero, di una scuola, di un Ateneo o di un qualsiasi ufficio pubblico e a sedersi dietro ad una scrivania o ad una cattedra, magari restandoci per anni sulla base di rapporti di lavoro precari, acquistava un diritto a rimanerci, prima o poi, in maniera stabile. Così, anche in seguito ai vari blocchi del turn over, si sono accumulati centinaia di migliaia di precari, fino a quando non ci si è resi conto – con la crisi della finanza pubblica - che era impossibile stabilizzarli. Ma il cosiddetto precariato è diventato il metro di misura della qualità delle riforme, in quanto nessuno dei progetti di riordino dei diversi settori della pubblica amministrazione adottati da questo Governo è stato ritenuto adeguato dalla sinistra se non risolveva interamente – e non poteva farlo – la stabilizzazione dei precari.

E’ stato così con la riforma Brunetta. Poi è stata la volta della scuola primaria e secondaria (nonostante che il Governo avesse esteso ai precari rimasti senza incarico l’indennità di disoccupazione). Adesso siamo arrivati all’Università.

La pressione è tanto forte che gran parte dello stanziamento (circa un miliardo di euro) previsto nella legge di stabilità per gli Atenei è destinato alla riapertura dei concorsi per professore associato. Nessuno, tanto meno i media o quelli che salgono sui tetti, si è preoccupato di fornire qualche dato all’opinione pubblica che osserva esterrefatta il disordine creato nelle città contro il ddl Gelmini in discussione alla Camera.

In Italia esiste il medesimo numero di Atenei della Germania, una nazione che ha qualche decina di milioni di abitanti in più. Tenendo conto delle tre fasce del personale docente (ordinari, associati e ricercatori) da noi esiste un docente universitario ogni 27,7 studenti iscritti.

Nella scuola primaria e secondaria uno ogni 10 circa. Che altro dire, se non porre qualche semplice domanda ai manifestanti: impiegare più proficuamente le risorse non è forse un modo per averne di più a disposizione? E ancora: è possibile risolvere i problemi del sistema universitario soltanto garantendo posti di lavoro? (l'Occidentale)

La sinistra scherza col morto. Giampaolo Pansa

Sembra un film. Un pessimo film di fantapolitica. C’è una dittatura da far cadere. È sufficiente sconfiggerla in Parlamento? Assolutamente no. Bisogna batterla anche nelle piazze. Detto fatto, esplode la rivolta popolare. Giovani e anziani si scontrano con le guardie armate del Tiranno. Corteo dopo corteo, ci scappa il morto. Ucciso dalle guardie, naturalmente. Il morto viene sollevato da terra e portato, in alto sulle braccia, sino alla dimora del Tiranno. La folla glielo mostra e urla: è colpa tua! In preda al terrore, il Tiranno fugge. E la libertà ritorna.
Ho detto che è un filmaccio. E spero di non vederlo mai. Me l’hanno fatto venire in mente gli infiniti cortei di questi giorni contro la riforma dell’università progettata dal ministro Mariastella Gelmini. Brutta storia, davvero brutta.
Mi ha indignato, e spaventato, l’assalto al Senato, che ha visto una squadra di incappucciati superare il primo ingresso. Il Senato, come la Camera, è di tutti gli italiani. E mi dà sgomento la domanda della Jena apparsa giovedì sulla Stampa. Diceva: «Bisogna rispettare il Senato. Anche se c’è Schifani?». Basta un dettaglio, ben poco ironico, per intuire che la sinistra non sta più scherzando con il fuoco, bensì con il morto.
Troppi politici di opposizione hanno perso la testa. Credono che salire sui tetti possa ridargli i voti che hanno perso. Si sbagliano: quando saremo chiamati alle urne, quei voti andranno tutti al moribondo Berlusconi. È inutile che Bersani entri alla Camera indossando l’eskimo, come testimonia su Libero un deputato di centrodestra, Riccardo Mazzoni. Allo stesso modo, non serve a nulla che il leader del Pd dia dell’arrogante alla Gelmini. E che Di Pietro la descriva «chiusa nel bunker come Mussolini» (Tonino, impara la storia: nel bunker ci stava Hitler, non Benito).
Anche il parallelo con i cortei degli anni Settanta non serve. Se i capi della sinistra di allora fossero saliti sul tetto del Duomo di Milano, i katanga del Movimento studentesco e degli altri gruppi extraparlamentari li avrebbero fatti volare di sotto. Oggi, invece, i politici di opposizione sono diventati tutti scalatori. Persino il futurista Fabio Granata, un signore sovrappeso, inciccionito dalle troppe sedute nei ristoranti vicini a Montecitorio.
Perché i tettaioli della Casta di sinistra e affini si sentono sicuri? Un motivo esiste. L’odierno movimento di piazza non è per niente roba di studenti. È la sommossa di un’altra Casta: quella dei baroni e dei ricercatori universitari. Non vogliono perdere i loro privilegi, tanti per i primi e pochi per i secondi. È questo che gli importa, non lo stato comatoso dell’università italiana. E rifiutano di ascoltare quanto dicono alcuni rettori di buonsenso, non certo di destra, né al servizio del Caimano.
I lettori del Riformista hanno visto quel che ha scritto Guido Fabiani, il rettore di Roma Tre. Giovedì 25 novembre, seminascosto da Repubblica, il giornalone pro-rivolta, aveva parlato Enrico Decleva, rettore della Statale di Milano e presidente della Crui, la Conferenza dei rettori italiani. Intervistato da Laura Montanari, ha spiegato che l’università ha bisogno della riforma Gelmini e ha aggiunto: «Davanti ai cambiamenti esistono sempre resistenze. In questo caso, c’è un freno conservatore anche se viene da sinistra».
Decleva ha smontato all’istante lo slogan più diffuso, gridato in tutti i cortei: la Gelmini privatizza l’università, il capitalismo berlusconiano si sta mangiando i nostri atenei, orrore! Infatti il rettore di Milano spiega: «Pensano che introdurre tre esterni in un consiglio di amministrazione significhi consegnare l’università ai privati».
Il presidente dei rettori ha ragione. Tuttavia non esistono ragioni che tengano di fronte a un caos che ha un chiarissimo obiettivo politico: far cadere il governo Berlusconi. Forse non sarà un’impresa difficile, visto lo stato comatoso dell’esecutivo. Ma l’eventuale successo non cancellerà l’ipocrisia di troppi media. Giornali e tivù stanno per lo più dalla parte dei cortei. Nell’illusione di conquistare nuovi lettori e di strappare qualche frazione di audience in più.
Per portare a casa questo miserando bottino, tradiscono un’altra volta la loro missione primaria: informare in modo corretto sullo stato del paese. Di alcune testate, Repubblica per prima, nessuno si sorprende più. È da anni che il super-giornale di Ezio Mauro e di Carlo De Benedetti è diventato il nemico giurato del Caimano. Siamo di fronte a un foglio guerrigliero che ogni giorno scende in battaglia per distruggere Berlusconi. E forse vincerà perché il Cavaliere è in agonia e non appare più in grado di difendersi.
A meravigliarmi sono altri media. È il caso del telegiornale di Sky. Lo vedo quattro o cinque volte, dalla mattina presto alla sera tardi. E devo registrare la sua stupefacente deriva verso sinistra. Sin dagli inizi lo guida Emilio Carelli, cinquantotto anni, ritenuto da tutti un moderato, nato nella Mediaset del Berlusca, il volto principale del Tg5 per parecchio tempo. E dal 2003 direttore di tutte le edizioni giornaliere del tigì a pagamento.
Ma oggi il suo Skytg24 non lo riconosco più. È malato di settarismo anti-Cav. Mi sembra diventato la Telekabul di Murdoch. Un gemello del Tg3, il telegiornale rosso della Rai. Strano? Mica tanto. Il proprietario di Sky, l’australiano Rupert Murdoch, lo Squalo, non ama per niente Berlusconi. E da che mondo è mondo, l’asino va sempre legato dove vuole il padrone. Soprattutto se è un asino televisivo. (il Riformista)

venerdì 26 novembre 2010

Il futuro dell'Università. Antonio Martino

Il disegno di riforma delle università proposto dal governo che è in discussione alla Camera rappresenta un tentativo di rimediare ai guasti enormi che si sono accumulati nell’ultimo mezzo secolo per colpa delle innumerevoli riforme che hanno distrutto quanto c’era di buono nel nostro sistema universitario e dato vita a una situazione che ha dell’incredibile.

Intervenendo sul provvedimento ho creduto doveroso fare presente il mio punto di vista. Ho dichiarato: “Onorevoli colleghi, avendo passato nell'università la gran parte della mia vita - vi sono entrato da studente nel 1964 e ne sono uscito nel 2002 -, credo di conoscere abbastanza bene il processo di deterioramento che ha colpito i nostri atenei. Le università oggi obbediscono a quella che ormai è diventata una regola generale in questo Paese; cioè, non vengono studiate e progettate nell'interesse dei loro utenti, cioè degli studenti, ma per la comodità e l'interesse di coloro che vi trovano lavoro. Servono a dare occupazione a persone altrimenti inoccupabili perché incapaci e semianalfabeti.

Sforniamo migliaia di giovani che sono condannati alla disoccupazione perché inoccupabili. L'università insegna cose che non servono a nessuno e, in più, inculca nelle loro menti l'idea bizzarra che lo Stato debba dar loro un'occupazione degna del titolo di studio. Ho letto sui giornali che ci sono state mille domande per tre posti di operatore ecologico: molti di questi erano dei laureati. Non vi vergognate di difendere l'esistente, il proliferare di università inutili, di facoltà inutili, di professori incapaci”.

Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi da queste colonne sa che, occupandomi dell’argomento, ho sostenuto che l’università italiana prima che i conati di riforme miracolose ne facessero strame era una istituzione culturale valida, anche se certamente poco moderna. La magagne cui i sinistri volevano porre rimedio erano tali solo ai loro occhi, di persone cioè sovente poco informate di cose universitarie per non averle mai frequentate.

Si inventarono il problema del potere dei “baroni”, i cattedratici, che sopprimevano la vita democratica nelle università. Ritenevano vergognoso che gli studenti, il personale non docente e gli uscieri fossero esclusi dai consigli di facoltà e dai processi decisionali che si occupavano dell’amministrazione delle università. Nello stolto tentativo di placare la contestazione studentesca, s’impegnarono a fondo nella distruzione di un’istituzione che aveva una storia plurisecolare.

Abolirono la libera docenza, che forniva ai giovani assistenti un incentivo a produrre pubblicazioni scientifiche (se non conseguivano la docenza entro dieci anni, erano destinati all’insegnamento scolastico) e ne mettevano a prova le capacità didattiche (per superare l’esame si doveva fare una lezione). Il titolo non costava un centesimo allo Stato e non si capisce perché abbiano deciso di abolirlo. Una delle conseguenze di questa scelta infausta fu che gli assistenti ordinari divennero subito di ruolo per la vita, senza più essere sottoposti ad alcun esame.

Quanto ai “baroni”, si può avere una chiara idea del loro strapotere dal fatto che nel 1966 la Facoltà di Medicina dell’università di Roma aveva meno di dieci professori ordinari, oggi solo quella della “Sapienza” ne annovera ben ottocento, fra associati e ordinari, cui vanno aggiunti quelli delle altre facoltà romane di medicina. Quest’esplosione del numero dei docenti non è stata decisa perché sia cresciuto esponenzialmente il numero degli studenti (che anzi è diminuito per via dell’esame di ammissione) ma perché la “democratizzazione” delle procedure concorsuali ha consentito un aumento astronomico delle cattedre.

Credo, quindi, che le mie affermazioni alla Camera non siano state spropositate e suggerirei al ministro Gelmini di sostituire la sua riforma con una più semplice e più radicale, composta da un solo articolo: “Ogni italiano, compiuto il venticinquesimo anno d’età, è laureato. Può ritirare il diploma di sua scelta presso qualsiasi ufficio postale, previo il pagamento di un ticket, la cui entità viene decisa ogni anno dal ministro dell’Istruzione.” Essendo tutti laureati, all’università andrebbero solo quelli che vogliono imparare qualcosa e pretenderebbero che i professori fossero in grado di insegnarla, pena la perdita di studenti. Elementare, no? (il blog di Antonio Martino)

Mutazioni quirinalizie. Davide Giacalone

Giorgio Napolitano non faccia torto a sé stesso, inducendo i suoi portavoce a sostenere che mai e poi mai intendeva occuparsi dell’attuale legge finanziaria. Lo ha fatto ripetutamente, intervenendo anche sul calendario parlamentare. Possiamo snocciolare un lungo elenco d’iniziative quirinalizie fuori dal binario costituzionale. Ma non è una questione personale, e neanche un attacco all’istituzione (l’identificazione e propria delle monarchie, o dei regimi assoluti). Si deve essere capaci di guardare al nocciolo istituzionale e politico, senza esasperati personalismi. Il nostro sistema costituzionale è un motore che funzionava alimentato dal sistema proporzionale e dai partiti politici, costretto ad adattarsi, senza cambiare, all’alimentazione maggioritaria e leaderistica. Se in un motore diesel mettete la benzina non ci guadagna in scatto, si ferma. Così è successo a quello costituzionale. Non abbiamo più i partiti politici che compongono e scompongono i governi, in corso di legislatura, ma non abbiamo ancora un premierato con l’elezione diretta. Abbiamo un papocchio in cui si crede di votare il capo del governo, invece si vota una coalizione che poi si scopre (puntualmente) rissosa e divisa. E’ successo che mentre alcuni poteri costituzionali, come il legislativo e l’esecutivo, perdevano presa sull’albero di trasmissione, il Quirinale ha allargato le sue funzioni, fino a straripare.
Essendo, quello del Presidente della Repubblica, l’unico potere costituzionale al tempo stesso irresponsabile e non insidiabile, è anche quello ingigantito dal crollo dei partiti e dall’imbastardimento della politica. Il Quirinale ha sempre avuto notevoli poteri istituzionali, ma la rovina costituzionale ha gonfiato quelli politici. Fra i Presidenti del passato ce ne furono alcuni (si pensi a Giovanni Gronchi) senza alcuna vocazione notarile, anzi, decisamente interventisti. Ma dovevano sempre tenere conto o d’essere democristiani, quindi sottoposti al gioco delle correnti, o d’essere esponenti di partiti minoritari, il che suggeriva loro di non avventurarsi troppo sul terreno politico, se volevano finire il settennato. Antonio Segni non lo finì, e non solo per la trombosi (che non a caso lo colpì mentre litigava con Giuseppe Saragat e Aldo Moro), come non ci riuscì Giovanni Leone, e non perché la “macchina del fango” (si direbbe oggi) lo prese di mira, ma perché il suo partito lo lasciò esposto alle zolle umide.
Il punto di rottura arriva con Sandro Pertini, che i comunisti vollero al posto del candidato socialista, Antonio Giolitti (Napolitano s’è guardato dal ricordarlo, parlando di quel grande uomo della sinistra, che denunciò i carri armati sovietici a Budapest). Il vecchio partigiano adottò un piglio assai personale, dal contenuto piuttosto demagogico. E condusse in porto due operazioni complicate: il governo a Giovanni Spadolini e, poi, a Bettino Craxi. Con Francesco Cossiga si sarebbe dovuti tornare alla “normalità”, invece accadde l’opposto, perché si trovò al Quirinale nel mentre finiva la guerra fredda e crollava la Dc, cosa, quest’ultima, cui egli stesso collaborò. Oscar Luigi Scalfaro fu il democristiano craxiano che lasciò il suo partito e l’ex presidente del consiglio in balia del giustizialismo, pur di salvare se stesso. L’uomo della destra che avrebbe consegnato alla sinistra le chiavi d’Italia, pur di non restare fuori dall’uscio. Con Carlo Azelio Ciampi arrivò un senza partito, che, però, non fu il ritorno al tempo di Luigi Einaudi, bensì l’approdo all’Italia senza partiti. Questi quattro salti, nella padella costituzionale, hanno scodellato una presidenza apolide e autoreferente, che, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, talora supplisce ai guasti di una politica assai deficiente, o, a volerlo vedere mezzo vuoto, spesso usurpa poteri e funzioni altrui. E’ l’unico potere a poterselo permettere.
Giorgio Napolitano porta con sé un’ulteriore caratteristica: interpreta la tradizione che si oppone all’attuale sistema politico ed elettorale, ma ne è il più prezioso frutto. Non avrebbe mai potuto mettere piede al Quirinale, se non ci fosse stato il porcellum e la necessità di distribuire i pesi all’interno di una sola parte politica, anziché dell’intero sistema. Fu grazie al premio di maggioranza conquistato dalla sinistra prodiana (2006), per una manciata di voti, che uno schieramento privo di maggioranza parlamentare per reggere il governo fu capace di una maggioranza (nel diverso seggio delle Camere riunite più i rappresentanti delle regioni) per eleggere il Presidente della Repubblica. Napolitano, dunque, è tre volte svincolato: senza il proprio partito, senza la maggioranza che lo elesse, senza la legislatura che visse solo per dargli vita.
Non si arrabbi, allora, se ci capita d’essere occhiuti nel segnalarne gli sconfinamenti, perché a muovere le mani sulla tastiera è il nostro antico amore per la Costituzione, che vorremmo cambiata, non demolita. Non credo affatto che Egli ceda a tentazioni di parte, e sono convinto che detesti Silvio Berlusconi solo un capello meno di quanto detesta i suoi vecchi compagni (che gli davano sempre torto), ma è forte la spinta ad un ruolo protagonista, politico, d’indirizzo e di sanzione. Sconosciuto alla nostra Costituzione.

giovedì 25 novembre 2010

Se un giornalismo “partigiano” finisce col creare soltanto confusione. Giorgio Prinzi

Se si chiedesse ad un talebano ecoambientalista cosa sia un becquerel (simbolo Bq), l’eventualità più probabile, qualora non lo prendesse come un insulto, sarebbe quella di un “alloccamento” muto e silenzioso. Esagerazioni? Qualcosa del genere è già avvenuto a Genova in un confronto tra noi fautori della ripartenza del nucleare e la controparte.
Un allora rampante dirigente nazionale, ora scomparso di scena, dopo un imbarazzato, ma aggressivo “Ma cosa dice professore” rivolto al professore Marino Mazzini tentò una strumentale disquisizione sui rischi di proliferazione. Fui io ad interromperlo chiedendogli “Sa la differenza tra il 239 e il 241?” e Mazzini che mi sedeva accanto “Aggiungici anche il 240”.
Non davamo i numeri nel senso corrente del termine, ma ci riferivamo ai numeri di massa di tre diversi isotopi del plutonio, “denaturato”. Il plutonio “military grade” viene prodotto in macchine come il reattore disastrato a Chernobyl; i comuni reattori commerciali, producendo plutonio “denaturato” non costituiscono un rischio ai fini della proliferazione.
Il malcapitato, che non sapeva neppure cosa fosse un isotopo, rimase poi muto per il resto del dibattito. Che c’entra questo con il “becquerel”, l’unità di misura del sistema internazionale dell’attività dei radionuclidi definita come quella di “un decadimento al secondo”? C’entra, perché la “cultura” ecotalebana che pervade le istituzioni, compresi gli enti normatori, ha prodotto spassosissime “perle” quale quella illustrata al convegno “Nucleare: sicurezza e informazione” dall’ingegner Ugo Spezia, segretario generale dell’Associazione Italiana Nucleare, che si è divertito a fare due conticini facili facili.
La radioattività è un fenomeno naturale. Anche il corpo umano ha la sua dose di radioattività, con in media 12.000 disintegrazioni al secondo, cioè 12 kBq (chilo becquerel), suddivisi in 4.000 Bq dovuti al potassio-40, 4.000 Bq dovuti al carbonio-14, 4.000 Bq dovuti all’idrogeno-3, il trizio divenuto famoso per recenti trasmissioni televisive Rai condotte da ideologizzati e pericolosi incompetenti.
L’ingegnere Ugo Spezia ha fatto un’operazione matematica dalla quale risulta che la radioattività media di un individuo è 1,5 Bq/kg (becquerel al chilogrammo). Emergenza, emergenza! Se prendiamo le norme, vediamo che in un impianto nucleare devono venire considerati rifiuti radioattivi, e come tali trattati, tutti i liquidi che presentino una radioattività superiore a 1 (uno) Bq/l (becquerel al litro) e i solidi che presentino una radioattività superiore a 1 Bq/kg.
Siamo tutti “fuori norma”, una volta e mezza più radioattivi dei rifiuti di una centrale nucleare. L’esposizione dell’ingegner Spezia è corredata da tabelle “orripilanti” che mostrano come talune acque minerali nazionali superino le decine e le migliaia di becquerel al litro con una punta di 67.
438 becquerel litro. Chi lo va ora a raccontare a Milena Gabanelli e a Riccardo Iacona che eventuali sversamenti di liquidi radioattivi di centrale in certe acque minerali avrebbero solo l’effetto di ridurre la “pericolosità” di queste ultime, diluendo la loro radioattività naturale intrinseca? Nel corso dello stesso convegno l’ingegner Massimo Sepielli, che ha parlato in rappresentanza del Commissario Enea Giovanni Lelli, ha affermato che il suo ente ha intenzione di istituire dei corsi destinati ai giornalisti che si occupano di questioni energetiche.
Ottima iniziativa se non ci trovassimo di fronte ad una categoria ideologizzata e partigiana. Nella scorsa consiliatura ho fatto presente almeno due volte, come è possibile verificare dalle registrazioni delle sedute, che Milena Gabanelli, contestata punto per punto con richiesta di rettifica da un dossier pubblicato anche sulla rivista “21mo Secolo, Scienza e Tecnologia”, ha al contrario replicato la contestata puntata sul nucleare.
Uno di questi due interventi è servito solo a bloccare la richiesta di una iniziativa avverso Bruno Vespa, reo di non essere schierato contro “il tiranno” anticomunista. (l'Opinione)

mercoledì 24 novembre 2010

Ma quale Everest, Saviano dà i numeri. Stefano Zurlo

I monologhi di Saviano. I numeri di Saviano. Saviano che dà i numeri. Parla della camorra, lo scrittore, e del business dei rifiuti che ormai ha soppiantato il narcotraffico, e mitraglia di cifre i telespettatori che a milioni lo ascoltano. Difficile non perdersi in quella foresta di dati, cupi e paradossali, ma se solo se ci si ferma un attimo a riflettere si scoprono altri paradossi. Insuperabili. Il ragionamento dello scrittore qualche volta inciampa e va a sbattere contro la realtà. Nessuno vuole negare la drammaticità dei temi sollevati, ma il troppo zelo va a braccetto con la fantascienza. Così, con un’avventurosa progressione, l’autore di Gomorra ci informa che a Pianura sono stati «sversati» veleni di ogni tipo, veleni dai nomi sinistri, veleni che sembrano draghi. Ma quel che conta, Saviano ci spiega che solo fra l’88 e il ’91 dall’Acna di Cengio sono arrivati a Pianura un miliardo e 300 milioni di metri cubi di fanghi; più spiccioli di schifezze varie - sali sodici, fanghi velenosi a base di cianuro, diossine, derivati dell’ammoniaca e altro ancora - per ulteriori 4 milioni cira di rifuti tossici. Numeri ribaditi ieri su Repubblica. Numeri che danno un totale di un miliardo e 304 milioni di tonnellate.

Se si prova a tradurre queste astrazioni, se le si rapporta alla realtà, si arriva a risultati incredibili. In sostanza dovremmo immaginare circa trentamila tir al giorno che fanno su e giù per la penisola, dalla provincia di Savona a quella di Napoli. Dalla Liguria alla Campania. Ora, se solo attribuiamo al tir una lunghezza di dieci metri, dobbiamo simulare una coda quotidiana di quasi trecento chilometri. Trecento chilometri di tir per portare i rifiuti dell’Acna. Trecento chilometri di camion in fila indiana. Trecento chilometri di rifiuti in marcia ogni 24 ore, 365 giorni all’anno per tre anni sull’autostrada della pattumiera. Troppo. Per intenderci, la distanza che separa Firenze da Milano. Insomma, i numeri, suggestivi fin che si vuole, sono numeri dell’irrealtà. Non stanno né in cielo né in terra né, è il caso di dire, sottoterra.

Certo, Saviano non è un matematico e alla vis polemica del saggista si può perdonare qualche svarione. Però è bene segnalare che le cifre non sempre sono le tavole della legge. Qualche volta assomigliano maledettamente a ballon d’essai in volo sulla nostra credulità. Così, proprio l’ouverture del monologo ci porta in alto. Sempre più in alto. Alla vertiginosa quota di 15.600 metri. Quasi il doppio dell’Everest, che non raggiunge i novemila, per non parlare del monte Bianco, al confronto un nano, incatenato ai suoi 4800 metri. Che cosa è questa montagna che sale, sale, sale oltre le nuvole? Ovvio, è l’immondizia accumulata in Campania dalle organizzazioni criminali. Solo che Saviano fa poggiare il suo super Everest su una base di 3 ettari. L’equivalente di sei campi da calcio. Perché tre ettari? Risposta: perché gli viene comodo. Saviano disegna un gigante che poggia sulle zampine di una formica. Impossibile quasi da immaginare.

Insomma, a furia di contare e mettere in fila ecoballe, lo scrittore compone il suo ecomostro. Perché a voler essere realisti, e dare all’Everest la base dell’Everest, almeno 1.200 chilometri quadrati, la montagna di Saviano si fermerebbe a quota 25 centimetri.

Venticinque centimetri. La vetta più bassa del mondo. E soprattutto la meno televisiva dell’universo. Comunque, è questione di gusti. Basta scegliere. A voler restringere ulteriormente la base, da 30mila a 1 metro quadro, Saviano porterebbe i rifiuti fin sulla luna. Dando loro una dimensione non solo planetaria, ma addirittura spaziale. Basta intendersi. Con i numeri si può andare ovunque. Perfino nel ridicolo. Il territorio meno adatto per un problema che è tragico. (il Giornale)

martedì 23 novembre 2010

Le ecoballe dei Faziosi. Mario Sechi

Il Grande Circo antiberlusconiano s’accende ogni giorno della settimana in prima serata sui canali della televisione pubblica. Ogni lunedì abbiamo il piacere di vederlo all’opera nella sua espressione più sfolgorante. Il copione è consolidato, sedici anni di propaganda perdente hanno oliato a dovere la macchinina del soviet culturale. Appena compaiono sulla scena la camicina bianca e la cravattina smilza di Fabio Fazio capisci che i Giusti a Prescindere si daranno un gran daffare anche stasera. Sono talmente chic, rarefatti e plaudenti che il dubbio non può sfiorarli. Non camminano, ma levitano. Non parlano, si raccontano. Non guardano, si specchiano. «Vieni via con me» è la proiezione all’ennesima potenza di un progressismo che si crede talmente avanti da non vedere più neppure la strada che percorre. Sempre dritto. Contro il Cavaliere nero e per un mondo migliore. Uno spot della Nutella condito di verbalate. Ma rispetto a Santoro e Travaglio qui siamo più avanti. Perché l’entertainment prescinde da fatti e misfatti. Prendete Saviano, fa una tiritera barbosa sulla «monnezza» napoletana, ci racconta cose che i cronisti partenopei – quelli che stanno sul marciapiede – descrivono tutti i giorni, ma sorvola su un fatto incidentale: la gestione dei rifiuti a Napoli è tutta intestata al centrosinistra, ai Progressisti del Bidone. Il Saviano nazionale invece ieri ha deciso di spiegare al popolo la storiella del per come e perché i rifiuti sono un business. Sai che novità. Il ventennio Bassoliniano invece è con il silenziatore. Rosa Russo Iervolino idem. Il bestsellerista non li degna di attenzione, poverini. E così la puntata va a colpi di ecoballe, assolve la sua missione fondamentale, non perde quello che Saviano definisce «l’elemento centrale della narrazione», cioè il progetto politico che sta dietro questo programma: dipingere un’Italia buona (vi lascio immaginare quale) e un’Italia cattiva (scatenate la fantasia).

Ma prima di Saviano c’è il pifferaio del programma, il bravo presentatore, Fazio. Il distillato di un mondo che si autoincensa. Siamo noi. Siamo qui. Siamo eroici. Siamo intelligenti. Oh, che bello applaudire noi stessi in questo studio. Roteare gli occhi e bearsi del successo. Una sbornia autocelebrativa. Il rumore di fondo che lo accompagna è quello del cingolato della propaganda. Quando con sguardo da profeta auspica una «televisione che si occupi di politica senza che la politica si occupi di televisione», quando esprime il desiderio che «i finanziamenti pubblici vadano alla scuola pubblica», quando brandisce l’ironia sperando «che gli importatori di ananas non chiedano il diritto di replica», quando gioca con gli slogan sognando un’Italia dove non si dice «scendere in campo ma servire il Paese», quando dà il fiato alla trombe della protesta mettendo in pista il commissario Montalbano contro «i tagli allo spettacolo», lo show di Fazio esprime la sua cifra, la sua reale dimensione. Dietro l’arte, la letteratura, la musica, i guitti di vario titolo e gli scrittori engagè, c’è un programma politico che sostituisce quello dei partiti, un’offensiva politico-culturale che annienta ogni possibilità di replica perché il Totem-Saviano non si può criticare e se lo fai come minimo vieni accusato di concorso esterno con la camorra. I comunisti avevano la religione di Stato, i faziosi hanno quella del Giusto. Un breviario di frasi, sentenze e verità intoccabili e indiscutibili.

La carrellata di personaggi di «Vieni via con me» è la sfilata della retorica pavloviana che ha riscritto la storia d’Italia a sua immagine e somiglianza. Non è una cronaca fedele della realtà, una ricostruzione che tende ad essere oggettiva, ma una narrazione allusiva, una proiezione di desideri, una simbologia che di fronte alle telecamere si trasforma in fiction e paradigma politico. È un copione che è costruito per non avere contraddittorio. La dimostrazione plastica l’abbiamo avuta quando sul palcoscenico è arrivato il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Il suo intervento è apparso immediatamente un altro film, una sceneggiatura eccentrica rispetto a quella interpretata da Fazio, Saviano e compagni di ventura. Maroni elenca gli arresti, le leggi, i sequestri, i numeri. È emozionato. È un uomo di governo che si ritrova a dover spiegare che lui, il suo partito, un’intera classe dirigente, non sono collusi con la criminalità organizzata. Lo fa con dignità e semplicità, concedendosi solo il finale retorico della citazione di Gaetano Salvemini sul Meridione, il federalismo. Fine. Stretta di mano e via. Poi il programma torna a navigare nelle acque dei santini pronti per l’uso e il disuso, incollati sull’album di figurine di una famiglia che ripete sempre gli stessi errori e qualche volta li ha anche trasformati in orrori della nostra storia. E allora ecco comparire l’icona del povero Cucchi, il ragazzo morto in carcere. E l’Ivano Fossati che canta anch’egli se stesso ma almeno ha il pregio di essere un poeta vero. E Fazio che chiama, naturalmente, «un grande italiano», Renzo Piano, il quale è un geniale architetto, ma anche lui finisce nel giochino dei maestri a prescindere e ci dice che è contro il nucleare e fa un discorso sull’italianità che figurati se non lo condividiamo. Il sapere non è spiegato, ma piegato.

Guardare «Vieni via con me» significa entrare in un plot narrativo a tema che non ammette scarti, sorprese e colpi di testa. Il programma è privo di ritmo – il che è davvero un paradosso per un puzzle di elenchi che nel ritmo trova la sua ragione – ma viene riscattato dall’elenco snocciolato da colui che è apparso come il vero genio della serata, Corrado Guzzanti. Ci ha fatto ridere. Almeno era satira, graffiante, cattiva, roboante, e non pretendeva di essere una cosa diversa da quella che è stata. Quando ha detto «Fini era fascista, poi postfascista e ora con il futurismo è tornato prefascista» ci ha deliziato. Il resto è un pallosissimo manifesto zdanovista, al confronto il Porta a Porta di Bruno Vespa è un thriller mozzafiato. Il baraccone messo in piedi da Fazio e Saviano ha successo. La scorsa settimana erano nove milioni incollati al video e non dubito del bagno di folla perpetuo. Non mi stupisce. La noia elevata a programma politico si basa su un meccanismo di autoidentificazione che mette in campo certezze. Niente dubbi, siamo l’Italia migliore, diversa, progredita, che ascolta musica, legge libri, va a teatro, fa i week-end giusti, ha le massime indiscutibili che servono per fare salotto, mangia con le posate, conosce i vini, cita i giornali stranieri, ha la terrazza ma non la esibisce e le tartine, signora mia, le tartine sono macrobiotiche. La puntata scorre via come l’acqua, il giorno dopo se ne parla in ufficio, al bar, di fronte al poveraccio che vota centrodestra, si finisce per darsi di gomito e compatirlo perché è un lobotomizzato che raggiunge il suo apice culturale guardando il Milan su Sky. Poi, improvvisamente, la televisione si spegne, è domenica, gli italiani si levano dal letto, vanno a messa, entrano nel seggio, votano. E qualcuno perde le elezioni.(mariosechi.it)

La Carfagna minaccia di lasciare il Pdl e immediatamente diventa una stella. Alma Pantaleo

“Mara sa volare”. Con questo titolo l’Unità ha ‘messo le ali’ alla ministra Carfagna, scrollandole di dosso in un solo colpo la sporcizia di cui lo stesso quotidiano l’aveva ricoperta in questi due anni di governo Berlusconi. È bastata una presa di distanza dal Pdl da parte dell’attuale ministro per le Pari Opportunità a far cambiare opinione a Concita De Gregorio (e non solo).

Ed ecco che nella moralistissima rubrica di Lidia Ravera vediamo delinearsi la figura di una Mara “di classe” dai “corti capelli neri dal taglio impeccabile”, “gelida e misurata”, lontana anni luce da quella che viene descritta come “buzzicona verace” dai “lun­ghi capelli ossigenati spioven­ti sulle spalle”: Alessandra Mussolini. Protagoniste dello stesso film politico, la Carfagna e la Mussolini, ma descritte come due donne agli antipodi. La prima degna di avere un posto in Parlamento e un ruolo nel Governo (chissà se i media di sinistra saranno della stessa opinione se la “crisi” finirà in una bolla di sapone), l’altra rozza e inadatta. Eppure qualche tempo fa il giradischi dava un’altra musica.

Che fine hanno fatto tutte le sottili (neanche troppo) allusioni con cui nel giugno del 2009 si additava “l'impari” ministro delle Pari Opportunità come una “che ha orrore della prostituzione sulle strade, non certo nelle ville” o come “quella che fa i calendari per camionisti e poi prova orrore per le donne che volontariamente vendono il proprio corpo”?

Che ne è stato di quell’antipatico nome, le “Carfagnacee”, creato ad arte nel lontano febbraio 2007 dalle penne del quotidiano fondato da Gramsci, per etichettare la categoria delle donne, testuali parole, “reclutate da Silvio come fioriere per abbellire i banchi di Forza Italia in Parlamento, previo provino arrancano in cerca di un’immagine monacale casa-famiglia-chiesa a prova di hacker infiltrati nei siti per sbirciare immagini glamour”? E che dire dei versi non propriamente morbidi che Andrea Camilleri, collaboratore bestseller de l’Unità, ha dedicato alla ministra: “Qualcuna viene eletta ai rossi scanni/ sostitui­sce il topless con un colletto se­vero/ ma, a pagarle, infine, è il solito contribuente/ lo stesso che foraggiava il cavallo sena­tore”?

E leggete leggete cosa scriveva della ministra Travaglio nel settembre 2008: ha fatto “conoscere ogni millimetro quadrato del suo corpicino nelle migliori edicole rea di aver “scatenato la crisi nelle presunta famiglia Berlusconi”. Insomma, il “merito” della ministra oggi sembrerebbe quello di essersi affrancata dal Sultanato berlusconiano e di essersi trasformata da geisha ad indipendent woman.

Veniamo a Repubblica: il 3 agosto 2009 annoverava Mara Carfagna nella lista delle “baciate dall’amicizia con Silvio” e nel luglio del 2008, in occasione della manifestazione 'No Cav.' di piazza Navona, dedicava volentieri paginoni all’invettiva violentissima di Sabina Guzzanti nei confronti del ministro per le Pari Opportunità – una dichiarazione su tutte: “A me non me ne frega niente della vita sessuale di Berlusconi. Ma tu non puoi mettere alle Pari Opportunità una che sta lì perché t'ha succhiato l'uccello, non la puoi mettere da nessuna parte ma in particolare non la puoi mettere alle Pari Opportunità perché è uno sfregio” –, ma adesso non fa trasparire alcun aggettivo vagamente offensivo o un espressione che la metta in cattiva luce. Insomma sono “lontani” i tempi (8 gennaio 2010) in cui il quotidiano diretto da Ezio De Mauro apostrofava Mara Carfagna come “l'unico ministro d'Europa il cui nome e cognome, cliccato su Google Immagini, fa apparire una prima pagina con 20 foto di cui ben 11 mostrano la signora ministro in lingerie o in topless” o di quando un Michele Serra la definiva “solo l'ultimo esempio della definitiva confusione tra politica e spettacolo, tra televisione e potere, tra sex appeal e cosa pubblica”.

Come dimenticare, poi, il gran polverone sollevato nel luglio 2008 da l’Espresso e, a ruota, da quotidiani e siti internet con la pubblicazione di alcuni stralci di presunte telefonate “piccanti” tra il Presidente del Consiglio e l’allora direttore di Rai Fiction Agostino Saccà che vedevano come protagonista l’attuale ministra, che per settimane venne sbattuta sulle prime pagine dei giornali, e condannata, come la protagonista del “sexygate all’italiana”. “Carfagna sotto attacco”, titolava il Corriere, e ancora: “Clinton non fece ministro la Lewinsky”. Repubblica, dal canto suo incalzava giorno dopo giorno: “Le intercettazioni stanno per uscire. Alla Camera incubo Grande Fratello”, e non mancava occasione per dare addosso a Mara: “La passerella-sfida della Carfagna”…

Last but not the least, la continua raffica di cattiverie sparate senza pietà alcuna da Guzzanti senior (Paolo, per intenderci) su Mara la “calendarista delle pari opportunità”, la “zarina affamata di potere”, il “prodotto della mignottocrazia e basta”, sin dall’approdo in Parlamento.

Si è dimenticata così in fretta questa tempesta di maldicenze e pregiudizi che da tre-quattro anni imperversano senza sosta sul ministro delle Pari Opportunità? Sembrerebbe di sì.

Sembra che nell’ottica sinistroide sia sufficiente sgattaiolare dalla via maestra e dimettersi (o minacciare di farlo) da un incarico per fare l’enorme salto etico, necessario a riappropriarsi del proprio rispettabile nome – finalmente alla Carfagna è stato associato il sostantivo “ministro”. Un po’ipocrita come logica. Specie per quella parte della stampa che da sempre si erige a moralizzatrice del popolo. Come dire, oggi Mara è una stella. Ma fino a ieri viveva in una stalla. (l'Occidentale)

lunedì 22 novembre 2010

Labirinti mafiosi. Davide Giacalone

Quelli mafiosi sono labirinti. Capisco quelli che ci si perdono e capisco anche quelli che sperano di avere versioni chiare e semplici. Il modo più sicuro per perdersi, in quei labirinti, è supporre che la realtà sia ingannevole e il racconto misterico una buona traccia. Ad esempio: si è discusso, per mesi, con tanto di tesi giudiziarie e processi aperti, della trattativa fra la mafia e Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’Utri, destinata a dare soddisfazione a un “papello”, nel quale si chiedeva la fine del carcere duro, poi si scopre, dalla viva voce del ministro della giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, che quella misura, il 41 bis, fu disapplicata dal governo Ciampi, nel 1993. Conso ha aggiunto: lo facemmo per evitare altre stragi. Quel che qui sostenevo, in via logica, è quindi vero: semmai, furono altri. Ora leggo il secondo libro di Antonio Ingroia, il quale afferma: “E’ innegabile che la struttura gerarchico-militare di Cosa Nostra abbia subito negli ultimi anni colpi durissimi”. Giusto, ma sono gli anni dei governi Berlusconi. Che, detto per inciso, secondo me non c’entrano nulla, ma ugualmente non c’entra alcun presunto asservimento alla mafia.

Ingroia sostiene che se fosse giunto a conoscenza di una trattativa fra Stato e mafia, Paolo Borsellino si sarebbe opposto. Certo. Ma se fu ammazzato perché la trattativa andasse in porto se ne dovrebbero raccogliere dopo, e non prima, i frutti. Il che mi conferma nell’opinione che Borsellino morì per la stessa ragione di Giovanni Falcone: l’inchiesta mafia appalti. Furono traditi da chi li circondava. Ma i labirinti mafiosi si fanno complicati, e nel suo “Nel labirinto degli dei” Ingroia non parla di quell’inchiesta, di quel lavoro investigativo cui Borsellino teneva tanto.

Ma che vuoi? mi si dirà, Ingroia è un pubblico ministero in piena attività, non può mica scrivere di quel che fa. Vero, giusto. Ma è lui ad avere voluto pubblicare, piuttosto precoce, un libro di memorie, mettendo in copertina, quale segno di riservatezza, la propria foto con la toga al braccio e un bel fascicolo ove il montaggio fotografico ha ben stampigliato “Proc. Riina”. E’ lui che usa la toga per per promuovere l’immagine. Di sé medesimo. Badate, la mia non è una fisima estetica, che pure avrebbe un fondamento. C’è molto di più.

Dedica il settimo capitolo a Carmelo Canale, carabiniere e braccio destro di Paolo Borsellino. Ne ho scritto ripetutamente: accusato di collusione con la mafia è stato assolto, in via definitiva, perché il fatto non sussiste. Ingroia lo ricorda, ma aggiunge che la verità processuale non soddisfa. Lui aveva percepito un’increspatura, nel rapporto con Borsellino, sapeva che il magistrato non credeva a Canale, circa l’uccisione di un altro carabiniere e alcuni che falsamente se ne accusarono. Secondo Ingroia, Borsellino diceva: “Carmelo, quando me la racconti la verità?”. Peccato, però, che Ingroia fu testimone al processo e queste cose non le disse al tribunale. Le dice ai giornalisti e le scrive in un libro. Il processo a Canale verteva sul suo essere un traditore, era quella la sede in cui quei ricordi avrebbero dovuto essere raccontati. Invece no, Ingroia disse che Borsellino si fidava ciecamente di Canale. E peccato, inoltre, che Borsellino non dava del tu a Canale. Strano che cada in un simile errore chi scrive, in una pagina sì e nell’altra pure, di avere avuto tanta confidenza con quelle persone. Forse Ingroia vorrà dire che se ne è ricordato dopo il processo, ma temo che a un comune mortale questo sarebbe rimproverato severamente.

Io mi limito ad un’osservazione: oggi Ingroia è pubblico ministero al processo contro Mario Mori, che lavorò con Falcone e Borsellino, al rapporto mafia appalti, e Canale s’appresta ad essere testimone. Non gli pare singolare questa sovrapposizione fra il lavoro d’aula e quello di memorialista?

Sergio De Caprio, il “capitano Ultimo”, colui che arrestò Totò Riina, disse: “in dibattimento non vedevo il pm Ingroia, ma Riina”. Ne chiesi ragione a Ingroia, in un pubblico dibattito, e lui disse di esserne molto amareggiato, ma che non avrebbe denunciato De Caprio. Gli risposi che capivo l’amarezza, ma non credevo vi fosse alcuna alternativa al difendersi in sede penale. Spero che lo abbia fatto.

Nel labirinto mafioso la memoria subisce strane metamorfosi. Parlando del suicidio del tenente Antonino Lombardo, cognato di Canale, Ingroia lo ricorda come un illuso, poi disperato per essere stato abbandonato dai superiori. Non ricorda, invece, che Leoluca Orlando Cascio lo attaccò in televisione, dandogli del mafioso, che i vertici dell’Arma chiamarono in diretta ma non fu dato loro diritto di replica. Strane amnesie. Forse saggezza, per evitare d’essere coinvolto in questioni politiche. Ma, allora, perché Marcello Dell’Utri e Berlusconi compaiono ripetutamente, con una vera sceneggiatura cinematografica delle loro espressioni e intenzioni?

La faziosità politica in salsa mafiologica mi dà la nausea, da qualsiasi parte sia esibita. Qualcuno, per giunta, si mette anche in posa.

Il Cavaliere e la strategia del camaleonte. Gian Enrico Rusconi

Dopo il Caimano avremo il Camaleonte. L’animale che cambia il colore della pelle per muoversi con sicurezza in un ambiente diventato ostile ed attaccare il nemico. Se l’obiettivo di Berlusconi è rimanere al potere, deve solo trovare il modo di ricompattare con operazioni cosmetiche (di cui è maestro) le forze necessarie. E nel parterre politico italiano ce ne sono a sufficienza.

C’è una singolare contraddizione nelle analisi che da mesi enfaticamente annunciano la fine di Berlusconi. C’è incongruenza nelle conclusioni. Se il berlusconismo non è semplicemente espressione di una persona ma sintomo di una profonda mutazione della società, del costume e della mentalità diffusa presso ampi strati sociali, perché dovrebbe sparire d’incanto? Bastano davvero le senili sciocchezze personali del Cavaliere? Se dietro ad esse funziona sempre «il far finta di fare» (Fini) che consente il «fare i propri affari», che sta a cuore ai sostenitori di Berlusconi, perché dovrebbero abbandonarlo?

Basta che milioni di telespettatori assistano maliziosamente divertiti alla messa in berlina o al match di alcuni potenti, per segnalare un potenziale risveglio alternativo?

Ma questa è semplicemente l’ultima versione mediatica di un antico (mal)costume italico. Ridere dei potenti e stare a guardare come va a finire, senza esporsi.

Dov’è il soprassalto morale dell’«altra» società, dov’è la fantomatica «società civile» con le sue energie sane e alternative? Che fanno i cattolici che sono la parte più consistente e qualificata della «società civile»? Ma di quali cattolici parliamo? Di quelli che condividono i giudizi severi di «Famiglia cristiana»? Una severità per altro che va in tutte le direzioni (anche contro il «vanitoso» don Gallo). O parliamo dei cattolici che sostengono le tesi di mons. Rino Fisichella, disposto a tutto comprendere e perdonare pur di avere nel berlusconismo una sponda antilaica e antisinistra? O semplicemente quei credenti (forse la maggioranza) che a Messa o fuori sono infastiditi da qualunque allusione considerata «politica»? Nella gerarchia poi sembra prevalere una mentalità iper-istituzionale: pur nei suoi espliciti rimproveri morali deve stare attenta a non mettere a repentaglio le risorse finanziarie e il sostegno in campo giuridico che le offre il governo più «compiacente» (parole di Berlusconi) mai avuto dopo il Concordato. Molti alti prelati non sopportano l’idea di dover fare di nuovo i conti con i «cattolici adulti». Sin tanto che il mondo cattolico è diviso e politicamente opportunista, Berlusconi può stare tranquillo.

Il Cavaliere è riuscito a creare o a saldare attorno a sé una nuova classe politica, reinventandola o riciclandola dai vecchi partiti, al punto che non si vede all’orizzonte una nuova classe politica alternativa. Questa infatti rischia di essere «ciò che resta» delle vecchie forze politiche nebulosamente orientate verso il centro. Per non parlare di ciò che resta della sinistra masochisticamente ripiegata su se stessa.

Rimane la Lega, ora diventata baluardo del berlusconismo. Strano destino, basato su un patto di reciproco interesse. A Berlusconi interessa la sopravvivenza politica, a Bossi sta a cuore il federalismo. Ma che cosa significhi concretamente questo progetto, non è chiaro. Lo ripetono anche quei pochi analisti che cercano seriamente di andare a fondo del progetto bossiano. In realtà i leghisti lo sanno benissimo: federalismo significa che «ci teniamoci i nostri soldi», «paghiamo meno tasse», «non dipendiamo più dalla burocrazia romana». Più chiaro di così...

Il problema adesso è che cosa è disposto a concedere su questi punti il governo, e soprattutto Tremonti. Bossi fa il gioco di sempre: sta con Berlusconi, ma insieme pensa al dopo; lo sostiene ma dice apertamente (a suo modo lealmente) che non condivide le sue opinioni. Vuole le elezioni perché è l’unico modo di tenere sulla corda gli elettori che vogliono il federalismo che non arriverà certamente da un governo che ha di mira la sola sopravvivenza.

Ma forse sottovalutano il camaleonte Berlusconi che diventerà più verde per mimetizzarsi con i leghisti, sarà azzurro per tenere attorno a sé il malconcio «popolo delle libertà» e sarà sempre bianco per rabbonire i cattolici di chiesa. Chi si aspettava la sua fine imminente, deve riaggiustare le previsioni. (la Stampa)

venerdì 19 novembre 2010

Piagnistei e tagli alla cultura. Davide Giacalone

Le proteste per i “tagli alla cultura” sono commoventi, una rivolta che sembra talmente giusta da essere sbagliata. I governati attuali sono trattati da buzzurri affamatori, da volgari ignoranti. “La cultura non si mangia” dicono abbia detto Giulio Tremonti. Non è molto interessante sapere se l’ha detto o solo pensato, è più rilevante accertare che non siano in troppi a mangiarci. Quindi, stabiliamolo subito: la cultura è una bellissima cosa, ma se invento un capitolo della spesa pubblica, lo intitolo alla pace e alla bontà nel mondo, poi ci butto dentro una valanga di soldi del contribuente, al momento in cui qualcuno mi ferma e mi butta fuori, tagliando quella spesa, non è che sia un nemico della pace e della bontà, ma solo una persona ragionevole.

Sempre per capirsi: “cultura” non significa un accidente. Ci sono i siti archeologici, come Pomepi, che andrebbero gestiti come miniere d’oro e, invece, sono pozzi senza fondo, per giunta in disfacimento. Non si tratta di aumentare la spesa, né di cavarsela con una (pretestuosa) mozione di sfiducia al ministro del momento: il disastro va avanti da decenni. A Pompei e altrove. Deve cambiare il modello: tutela pubblica e gestione privata. Il mercato difenderà e valorizzerà la nostra archeologia assai meglio della burocrazia ministeriale. Quindi non si deve spendere di più, si devono chiamare investimenti e offrire opportunità.

Poi c’è la lirica. Uno straordinario patrimonio italiano, le uniche cose che il mondo canta usando la nostra lingua. Ma guardate un po’: più ci metti soldi pubblici e più l’arte scompare, più si punta al profitto, come i “tre tenori”, più l’arte entra nei salotti e nei vicoli. Lo Stato può fare molto, prima di tutto nella formazione. Fra qualche anno i pianisti saranno cinesi, mentre gli interpreti italiani campano di sussidi e lezioni private (in nero). Formazione, allora, e selezione meritocratica. Stesso discorso per i teatri: fino a quando si potrà sostenere che il cittadino che prende parte alla prima teatrale, sfoggiando la pelliccia quando fa un caldo boia, deve essere finanziato da quello che si sgola tifando allo stadio? Questo accade, oggi. Conosco la risposta: sei una bestia, il teatro è cultura. Dipende, scusate. Vanno in scena boiate assurde, recitate da cani. Usiamo criteri diversi: formazione per evitare che il “grande fratello” sia l’unico linguaggio comune e premi a chi attira il pubblico. Spazio ai giovani attori, mettendoli alla prova del mercato. Così si premia il successo, dicono. Perché, sarebbe invece saggio, a spese del pagatore di tasse, premiare l’insuccesso?

E veniamo al cinema, di cui sempre si parla perché è lì che vivono le star, i divi e le dive, la più grande accolita di ricchi manifestanti che si sia mai vista. Il cinema è un’industria, che non solo produce reddito, ma anche il valore aggiunto dell’immagine italiana nel mondo. Che sia benedetto. Come il resto dell’industria italiana s’era assuefatto alle sovvenzioni pubbliche e al protezionismo (addirittura divenuto legge), perdendo in qualità e competitività. Anche nel cinema si sono socializzate le perdite e privatizzati i guadagni, per giunta creando una genia di ricchi piagnoni. I soldi elargiti ai film di “alto valore culturale” sono un veleno ridicolo e fazioso: amministrati nel disprezzo del pubblico (vale a dire di quelli che scuciono) e spartiti secondo logiche che hanno a che vedere con la cultura, ma delle clientele, delle amicizie, delle camarille e della solidarietà fra falliti. Se li tagliamo non facciamo un soldo di danno.

Come il resto dell’industria, però, il cinema deve essere sospinto con norme che agevolano il mercato, l’innovazione, la produzione: defiscalizzazione degli utili reinvestiti, credito d’imposta, fiscalità di vantaggio per quelle località che vogliano attirare investimenti nel settore (è così che è nata Hollywood, soppiantando New York). Poi, considerato il valore aggiunto immateriale, si può aggiungere un premio al botteghino: chi più incassa più riceve. Scontata l’obiezione: così vince solo il cinepanettone. A parte la spocchia falso culturale, avverto che la platea non popolata da scemi: se i cinepanettone diventano troppi il pubblico ne condanna alcuni, ed è giusto che chi li produce ci rimetta. Come, del resto, il pubblico premia anche gioielli ben fatti e non banali. Il guaio è che ogni autore di mattonate vorrebbe passare per virtuoso della cinepresa. Bravo, continui, ma io non gli finanzio neanche l’autoscatto.

Morale: è bene spendere in cultura, ma è male buttar soldi nella curtura del conformismo esibizionista e autocompatente. Il tutto, tenendo presente che siamo il Paese con il più grande debito europeo, secondo, in percentuale sul pil, solo alla Grecia, e siamo costretti alla virtù del deficit basso. Sicché i manifestanti contro i tagli dovrebbero avere l’amabilità d’indicare chi paga o dove maggiormente si taglia, senza cadere nella stupidaggine di additare le “auto blu”. Battuta buona, questa, per il cinepanettone.

"Solo il nucleare ci salverà dai semianalfabeti verdi". Giancarlo Perna

Entro alla Facoltà di Fisica dell’Università di Modena per incontrare Franco Battaglia. Non ho bisogno di presentarlo. Da una decina d’anni, per la delizia di molti, l’illustre fisico lancia da questo giornale tuoni e saette contro il catastrofismo dei Verdi.

A Fisica però, il nome di Battaglia non risulta. In due minuti dirado il mistero. Quando il prof si trasferì alcuni anni fa dall’Università di Roma, i colleghi storsero i nasini per ragioni politiche. Lui è liberale, loro rosso Modena. Così, Battaglia è approdato alla Facoltà di Biotecnologia. Il padiglione è in mattoni. I cortili del giovane Ateneo sono ampi, le geometrie belle, i viali illuminati dal sole d’autunno.

«Se non sei con loro, sei contro. È la sinistra. A noi non verrebbe mai in mente», sintetizza il prof appena lo raggiungo nel suo studio. Il tono è comprensivo. Il sorriso, sotto i baffetti grigi, ironico. Di Catania - dove Battaglia è nato e si è laureato gli è rimasta solo una lieve inflessione. Un lungo soggiorno negli Usa per il Ph.D. in Chimica-Fisica e l’insegnamento in diverse università hanno mescolato le carte. Ha un cranio lucido da testa d’uovo internazionale. Una disinvolta maglietta blu da velista oceanico. Un paio di occhiali sul naso (vista), un altro al collo (lettura), tipico delle intelligenze complesse che rifiutano la semplificazione delle lenti bifocali.

Fisico-chimico di professione, ecologista critico per hobby?
«Per impegno civico. Metto al servizio della società parte del mio tempo e quello che so».

Scopriamo subito le carte: che pensa dei Verdi?
«Sono una disgrazia».

Articolando?
«Tanta buona volontà e sentimenti nobili. Ma semianalfabeti tecnico-scientifici. Metto il “semi”, per pietà cristiana».

Detestano gli Ogm.
«L’Ogm è una modifica genetica fatta col bisturi. Molto meno invasiva delle mutazioni con bombardamento di radiazioni col quale si ottiene il grano duro caro agli ecologisti».

Accusano l’industria per l'effetto serra.
«L’uomo non c’entra. L’attuale riscaldamento inizia a metà del ’600: un secolo e mezzo prima dell'era industriale. Dal 1940 al 1975 c’è stato un raffreddamento, in coincidenza col boom dell’industria».

Fissati con l’inquinamento, considerano l’energia solare ed eolica la sola salvezza.
«Eolico e fotovoltaico sono una iattura e uno spreco di denaro. Se anche tutti i tetti d’Italia fossero coperti di pannelli solari, quando manca il sole sono inutili. Dovremmo, comunque, tenerci gli impianti a gas, carbone, eccetera».

Sole e vento sono però gratis.
«Falso. Una centrale nucleare costa cinque miliardi. Un impianto, eolico o fotovoltaico, che produca la stessa energia, dieci volte tanto. Privarsi del nucleare per sole e vento è un business che toglie denaro a tutti per farlo intascare a pochi».

Anche l’Enel si è tuffata nelle energie alternative.
«Prende in giro gli italiani».

Una truffa?
«Appropriazione indebita. Una legge ci obbliga a dare mezzo euro per kilowatt prodotto da impianti fotovoltaici, contro i sette centesimi per kilowatt della comune elettricità».

Oltre a lei, molti scienziati di grido considerano ridicolo l’ecologismo verdista.
«Quattro nomi per tutti: Veronesi, Regge, Ricci, Zichichi. Il Gotha».

Ma l’ideologia verdista trionfa egualmente.
«I Verdi occupano i gangli dell'informazione. Tutti i tg sono pieni di “cultura” verde. Anche i politici, che non condividono le stravaganze, non osano esporsi. Mi è successo con Di Pietro».

Di Pietro? Non è il suo tipo.
«Fu lui a chiamarmi agli albori dell’Idv. Voleva suggerimenti in materia ecologica. Dissi: “Tu che sollevi la questione morale, è in atto una truffa colossale sui danni da elettrosmog. Una bugia. Denunciala. Eviteremo di sprecare soldi per combattere il nulla”. Rispose: “Non posso. Perderei voti”. La cosa finì lì.

Il verde più negativo in circolazione?
«Pecoraro Scanio. Un avvocato privo di cognizioni tecniche. Farlo ministro è stato come dare una pistola carica a un bimbo di due anni».

Se le emergenze verdi sono fasulle, qual è la vera?
«Il disastro idrogeologico. Se lungo i fiumi fossero state costruite vasche di espansione avremmo evitato i guai. Ma costano un sacco di soldi, che non ci sono per gli sprechi nell’eolico, ecc. I signori del fotovoltaico, quelli del Kioto qui, Kioto là, sono i responsabili morali del cataclisma veneto».

Per l’incapacità napoletana sui rifiuti, si incolpa la mancanza di raccolta differenziata.
«Sciocchezze. La differenziata è inutile. Facendola avremmo solo cumuli differenziati di immondizia. Il modo serio di smaltire sono gli inceneritori, uno per provincia. Ma i Verdi si oppongono».

Li considerano pericolosi: effluvi, gas letali, ecc.
«Ci sono inceneritori nel centro di Vienna. O di Montecarlo, per fare una citazione di attualità. Le emissioni sono zero, la pericolosità inesistente».

Il Tesoro ha dimezzato i fondi del ministero dell’Ambiente.
«Il ministero andrebbe abolito. La Protezione civile dipende da Palazzo Chigi. Il settore idrogeologico può passare ai Lavori pubblici. L’Ambiente serve solo a dare retta ai Verdi. Negli Usa non c’è».

Prestigiacomo ha però litigato col Tesoro e Napolitano l’ha appoggiata.
«Straparlano. Per l’ambiente, ci sveniamo. Per rinunciare al nucleare e agli inceneritori paghiamo dieci volte in più. Grazie a Pecoraro nei prossimi quindici anni butteremo al vento 20 miliardi per il fotovoltaico».

Lei come spenderebbe i soldi per l’ambiente?
«Per sviluppare il nucleare e combattere i luoghi comuni, informando correttamente gli italiani. Se no, prevale la disinformazione alla Gabanelli che sul nucleare ha raccontato un mucchio di sciocchezze, senza contradditorio».

Meglio l’ambientalismo di destra o di sinistra?
«Di gran lunga quello di destra. Il ministro di sinistra, Willer Bordon, voleva spendere 30 miliardi per interrare i cavi elettrici contro la bufala dell’elettrosmog. Matteoli ha evitato lo spreco».

Anche a destra abbonda il verdismo: Alemanno è contro gli Ogm, Zaia anche contro il nucleare.
«La stupidità è trasversale».

Deluso dal centrodestra?
«Ammiro molto Berlusconi per il pragmatismo. Ma non capisco perché non sia stato in grado di fare ciò che aveva detto di volere fare: separazione delle carriere dei magistrati, Ponte sullo Stretto, ecc. Per me, un mistero».

Guido Bertolaso lascia
«Un padre della patria. Come tra gli antichi greci, si cacciano dalla città i migliori perché suscitano invidia».

Le sue idee controcorrente la mettono in difficoltà nella sua cerchia?
«Non mi sento controcorrente. Il nucleare è la tecnologia più utilizzata in Europa. Gli inceneritori sono la regola nel mondo occidentale».

Altrove i Verdi sono tenuti a bada?
«Così, così. Anche in Germania hanno dovuto pagargli il pizzo. Per evitare la chiusura delle centrali nucleari entro il decennio decisa dal governo rosso-verde di Schroeder, la Merckel ha dovuto fare impianti eolici e fotovoltaici, totalmente inutili, buttando soldi alle ortiche».

Da noi, però, lei si dà la zappa sui piedi.
«Per me, affermare ciò che credo, non è un peso. C’è di peggio».

Contento lei.
«Da siciliano, ho perfetta coscienza della mia finitezza». (il Giornale)

giovedì 18 novembre 2010

Alla fine, Fini...

Ho la speranza, ma anche la sensazione, che la spaccatura dei finiani sia destinata a risolversi in un nulla di fatto.
Il punto è che proprio Fini non ha le idee chiare, se non il desiderio irrefrenabile di disarcionare il Cavaliere.
I finiani hanno tanti propositi quante sono le teste e non credo che si possa fare molta strada quando ognuno tira dalla propria parte.
E' stato detto, da chi lo conosce bene, che Gianfranco è un contenitore vuoto che si riempie quando chi gli sta accanto riesce a far passare un' idea che lo seduce.
Per il resto Fini è come la luna: non brilla di luce propria.
Ecco perché mi viene la voglia di sperare che tutto finisca in una bolla di sapone.

Se Berlusconi mettesse nero su bianco due o tre proposte dei finiani e si impegnasse a farle approvare...

mercoledì 17 novembre 2010

Il partito che non fa più sognare. Luigi La Spina

L’analisi della sconfitta era uno dei più classici strumenti di autoconsolazione, ma anche di autoconservazione della sinistra italiana. Partiva da una spietata ricognizione dei sintomi sociali non avvertiti e non rappresentati, ma si concludeva immancabilmente con l’incrollabile sicurezza della vittoria finale. L’affanno e lo sgomento con i quali il gruppo dirigente del Pd cerca di capire perché i suoi candidati ufficiali finiscano puntualmente perdenti alle primarie dimostra come di quella tradizione si siano perse le due fondamentali caratteristiche: la comprensione della realtà e, soprattutto, la fiducia in una immediata riscossa.

Le risposte a quella angosciosa domanda, così, offrono verità parziali, contraddittorie, perché smentite, magari, dalla consultazione successiva e, comunque, mai in grado di cogliere una motivazione di fondo, sostanzialmente unitaria.

Se vince il fiorentino outsider Renzi, il merito è dell’età. Se trionfa il pugliese Vendola, il motivo è suggerito dalla ribellione alle indicazioni centralistiche della burocrazia romana del Pd. Se il milanese Boeri è sconfitto è perché alla primarie vanno a votare gli elettori più radicali.

La confusione delle spiegazioni produce, naturalmente, un florilegio di ricette tutte lontane dalle motivazioni per cui l’elettorato di centrosinistra esprime il suo distacco, il suo disagio, la sua protesta, persino la sua rabbia contro la dirigenza Pd. Ci si preoccupa perché la scelta di candidati che provengono dall’ala più radicale dello schieramento renderebbe più difficile l’apporto di consensi moderati, senza i quali si vincono le primarie, ma si perdono le elezioni. Si imputa al Pd il presunto fallimento della fusione tra la sinistra cattolica e quella postcomunista e si parla di una crisi di identità di quel partito. Si comincia a scaricare sul segretario tutte le colpe, in vista del prossimo, destinato alla triste sorte del suo predecessore.

Il difetto di tutte queste diagnosi e delle conseguenti terapie è sempre lo stesso: l’ottica. Lo sguardo è costantemente rivolto alle alleanze parlamentari più opportune, alle vecchie ideologie di provenienza dei dirigenti e alle loro lotte interne che necessitano di scaricare le responsabilità sulle altre componenti di quel partito, alle colpe del vertice, di volta in volta troppo socialdemocratico o troppo moderato, poco radicale o poco riformista. Basterebbe, invece, allontanare quello sguardo fuori da sé, smetterla con i vecchi schemi di una vecchia politica, cercare di capire come funziona, oggi, quella nuova e, soprattutto, domandarsi che cosa cerchino disperatamente gli elettori potenziali del centrosinistra, trovandola quasi mai nel Pd.

Eppure, è una scoperta abbastanza semplice. Caduto il sogno dell’ideologia, quella che alimentava le speranze di cambiamento, la fiducia nel futuro, un ancoraggio solido di valori in cui credere, quel popolo ha bisogno di qualcosa che la sostituisca e di persone che, con l’esempio della loro vita, possano restituire l’entusiasmo, la voglia di partecipare a una lotta, la passione per un impegno civile, prima ancora che politico.

Il Pd, dal suo travagliato parto in poi, ha offerto altro. Innanzi tutto, un sostanziale messaggio di conservazione, del tutto contraddittorio rispetto allo spirito di un partito di sinistra, che dovrebbe fare del cambiamento la sua bandiera. Conservare la Costituzione è certamente un bene, perché racchiude valori tuttora validi. Ma non può essere un manifesto mobilitante, poiché, al di là dei grandi principi, si possono adeguare le forme alle esigenze di una moderna democrazia. E’ giusto conservare le tutele sociali, ma come si può pretendere di rispondere, con un vecchio Welfare che aiuta solo gli occupati, alle esigenze dei giovani che non trovano lavoro o lo trovano solo a un insostenibile costo di precarietà? Perché dare sempre l’impressione di opporsi a qualsiasi mutamento nella scuola, nell’università, negli uffici pubblici?

Non dice nulla, alla dirigenza Pd, il grande successo della trasmissione tv di Fazio e Saviano? Perché, nonostante un certo sdolcinato buonismo e l’abuso di retorica, tanti italiani si sentono rincuorati da chi gli dice che la criminalità organizzata può essere sconfitta, se non si ha paura; che i meritevoli, anche se poveri, possono aver successo e che il mutamento è possibile, solo se lo si vuole? Insomma, da chi ridà un sogno perduto al suo popolo e non crede che alla sinistra basti il cinismo di vincere le elezioni con qualsiasi alleato, a qualsiasi prezzo.

Ecco perché non c’entra nulla il riformismo o il radicalismo, il riferimento al cattolicesimo o al tardomarxismo, il gioco delle cordate correntizie o la voglia di sconfiggere il segretario di giornata. Gli elettori delle primarie fanno vincere Renzi, Vendola, Pisapia perché sono in cerca di figure che accendano una speranza di cambiamento e che offrano un progetto di futuro che riscaldi anche il cuore. Perché, nella politica di oggi, l’emozione conta come la ragione. Del resto, con tutti i limiti che conosciamo, non si può dimenticare che Veltroni, a Torino, nel famoso discorso al Lingotto, seppe far intravedere un programma accattivante, capace di attirare molto interesse, se non entusiasmo. Tanto è vero che il risultato elettorale fu tutt’altro che disprezzabile, pur scontando le delusioni di una travagliatissima esperienza governativa.

Nanni Moretti, circa dieci anni fa, preconizzava una sicura sconfitta elettorale del centrosinistra, se l’antenato del Pd non avesse radicalmente cambiato tutta la sua dirigenza. Sbagliava, perché non sempre è andata così. Ma aveva ragione quando pensava che quello schieramento avrebbe perso magari non i voti della sua gente, ma le loro anime. (la Stampa)

Quello che lo scrittore non dice sulla ’ndrangheta e la sinistra. Pier Francesco Borgia

Come ogni bravo cronista, Roberto Saviano sa perfettamente che non fa notizia il cane che morde l’uomo ma il contrario sì. Quindi non può colpire l’attenzione del lettore (o dello spettatore tv) la collusione di un partito con la mafia. Roba già vista. Se, però, il ministro dell’Interno fa parte di quel partito colluso, allora le cose cambiano. Figuriamoci poi se è portato sugli scudi da tutti perché sotto la sua gestione, al Viminale, sono stati sequestrati alla mafia beni per 18 miliardi di euro e assicurati alle patrie galere 29 dei 30 latitanti più pericolosi. E fa notizia, ovviamente, il racconto carico di pathos della riunione dei boss di ’ndrangheta in un circolo culturale intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino. Altro che uomo che morde il cane: Lega nord, ’ndrangheta, lo sfregio ai giudici uccisi dal tritolo. L’audience è assicurata. Ma come la volta scorsa, il Savonarola di Terra di Lavoro omette verità pruriginose per il centrosinistra di cui, ormai, è icona e megafono.
Il riferimento al summit di mafia del 31 ottobre 2009 nel circolo Falcone e Borsellino è da brividi, ma è monco. Non dice, il Nostro, che quel circolo è dell’Arci, associazione da sempre vicina al Pci-Pds-Ds-Pd, e il cui presidente (quello che aveva disposto i tavoli a ferro di cavallo ai trenta convenuti per eleggere il capomafia del nord) è il consigliere del Pd di Paderno Dugnano, Arturo Baldassarre. Si dirà: ma Baldassarre non è indagato, non è stato arrestato. Giusto. Anche il consigliere regionale della Lega che avrebbe incontrato il boss Pino Neri di Taurianova non è stato indagato, non è stato arrestato, ma è stato comunque «mascariato» da Saviano. Il quale, ovviamente, a proposito di ’ndrangheta, di infiltrazioni al Nord, di politici in contatto con personaggi calabresi, s’è ben guardato dal tirare fuori brutti scheletri. Citando a caso. Non ha fatto alcun riferimento all’operazione «Parco Sud» che a novembre portò in cella 14 affiliati alla famiglia Barbaro e che sfociò nell’arresto del sindaco Pd di Trezzano sul Naviglio, Tiziano Butturini, un ex Ds. Non ha ricordato che nel maxi-blitz del 13 luglio contro le cosche in Lombardia ci finì impigliato, per la conoscenza con un imprenditore vicino agli Strangio, un ex rappresentante della giunta di centrosinistra guidata da Penati, ovverosia Antonio Oliverio. Non ha rispolverato il caso di un altro ex assessore provinciale nella stessa giunta, Bruna Brembilla, indagata (e poi prosciolta) perché avrebbe chiesto voti ai calabresi immigrati.
Ragionando come ragiona il Savonarola casalese, si dovrebbe poi appiccicare la patente di mafioso anche a un politico dell’Udc del «nord» che indagato per mafia non è: Rosario Monteleone, presidente del consiglio regionale della Liguria e coordinatore del partito di Casini, il cui nome compare in una telefonata fra calabresi arrestati. E che dire di Pasquale Tripodi, già assessore «in trasferta» di Loiero, coinvolto due anni fa nel blitz della Dda di Perugia (arrestato e poi scarcerato dal Riesame, archiviato) su infiltrazioni del clan Vadalà nell’Umbria rossa. E che dire di quelle elezioni per il consiglio comunale di Cologno Monzese supervisionate dal clan Valle che tanto hanno imbarazzato i Riformisti ed il Pd. E che dire, inoltre, di Cinzia Damonte, candidata alle regionali liguri per l’Idv, non indagata, sorpresa a distribuire santini elettorali a una cena organizzata da calabresi come Onofrio Garcea, 70enne di Pizzo Calabro, oggi latitante, presente nelle maggiori inchieste sulle ’ndrine di Genova e dintorni. L’elenco a tema è lungo, da non leggere in tv perché finirebbe per smontare il gioco del novello professionista antimafia. Accreditare la sua tesi servendosi delle provocazioni culturali di Gianfranco Miglio (che non può protestare per questa strumentalizzazione) equivale a chiedere a una leggenda del Quattrocento di farsi documento giudiziario incontrovertibile. L’audience è una cosa, la fazio-sità cos’è? (il Giornale)

martedì 16 novembre 2010

88 e Quirinale. Davide Giacalone

Non è mai successo, nella storia della Repubblica, che sia stato anticipatamente sciolto un solo ramo del Parlamento. E non avverrà neanche questa volta. Neanche accadeva, però, che i presidenti delle Camere fossero convocati al Quirinale prima ancora delle dimissioni del presidente del Consiglio, come se fossero irrilevanti. Non è questione di galateo costituzionale, ma di sostanza politica.

Siamo stati noi ad evocare la possibilità di votare solo per la Camera, prevista dall’articolo 88 della Costituzione, che poi ha preso corpo nelle parole di Silvio Berlusconi. Il panico derivatone è esattamente quello che avevamo previsto, sicché le reazioni sono istruttive. Suggeriscono più di quel che dicono.

Nelle stanze del Corriere della Sera si suppone che il Presidente della Repubblica sia “in trincea”, la Repubblica parla di “sfida al Quirinale”. Immaginare lo scioglimento della sola Camera dei Deputati è considerata una specie d’oltraggio. Da ogni dove s’ingiunge a non ingerirsi in quelli che sono affari riservati a Giorgio Napolitano. Sapevamo che era un nervo scoperto, ma, accidenti, in certi palazzi si sobbalza al rintoccar del pendolo. Procediamo con ordine: è assolutamente certo che il potere di sciogliere le Camere è presidenziale, così come è certa la possibilità di scioglierne una sola, ciò non toglie che sia del tutto legittimo parlarne, esprimendo opinioni, propensioni e previsioni. Ci mancherebbe! Il problema vero è un altro, ed è per quello che a certuni trema la voce e freme il labbruccio: per esercitare tale potere il Presidente della Repubblica ha un solo dovere da adempiere, ascoltare i presidenti dei due rami del Parlamento, il che equivale a dire che per sciogliere la Camera ha l’unico obbligo di ascoltare preventivamente Gianfranco Fini. Oggi egli varca il portone presidenziale come artefice della crisi, anticipatamente convocato per festeggiare, o come tutore dell’equilibrio istituzionale?

Durante l’estate scorsa sono state reclamate le dimissioni di Fini, per ragioni legate al mercato immobiliare estero. Non ne discussi e non ne discuto. Osservai ed osservo, però, che quelle dimissioni erano dovute per altro, giacché il presidente aveva perso ogni ruolo di garanzia, divenendo il più efficace e pericoloso oppositore della parte politica che gli italiani avevano maggiormente votato. Osservazione banale, che sarebbe dovuta essere un punto fermo per l’opposizione di sinistra. Invece preferirono la faziosità senza sensibilità istituzionale, anteponendo l’antiberlusconismo ad ogni cosa. Quell’osservazione era così fondata, però, che oggi giace sui binari del Quirinale, il che giustifica le reazioni un po’ scomposte e assai rivelatrici di quanti cercano di rendersi utili al Colle, arrecandogli solo danni.

La nostra Costituzione continua ad essere violentata da una prassi piegata alla convenienza miope. La sua pretesa intoccabilità non la rafforza affatto, ma la irrigidisce quanto basta per spezzarla prima e polverizzarla dopo. Ecco perché, allo scoccare di una crisi politica e istituzionale, quindi sistemica, la via d’uscita non può essere limitata alla normale prova di forza elettorale. Sbaglia a pensarlo una sinistra che punta tutto nella liberazione da Berlusconi, che non avverrà, e se avvenisse sarebbe la loro istantanea fine. E sbaglia a pensarlo anche un centro destra che punta sul risorgere del proprio capo, sul suo colpo di genio, sul consenso elettorale fin qui mai mancato (anche nelle sconfitte). Sbagliano quanti discettano di solitudini, come quelli che leggono il mondo alla luce dei nanetti che congiurano nei corridoi. Le urne misureranno le forze elettorali, ma sarà inutile ove non si manifestino disegni politici miranti alla riforma costituzionale, alla nascita di governi istituzionalmente forti e parlamenti non popolati da comparse.

Visto che la nostra “scoperta” costituzionale è piaciuta, avverto di un suo difetto e anticipo un giudizio. E’ vero, l’articolo 88 consente di sciogliere una sola Camera, ma come la mettiamo con le schede elettorali dove s’indica il premier (senza che esista e si possa eleggerlo)? Lo votiamo metà un anno e metà quello appresso? L’attuale legge elettorale fa pena, ma non per quel che tutti dicono, bensì per ciò che tutti tacciono. Anche al Senato, ma soprattutto alla Camera c’è un nutrito drappello di trasformisti tendenzialmente venduti, eletti da una parte e pronti a pesare dall’altra, alla ricerca di due cose: a. la stabilità del seggio; b. la promessa di tornare ad occuparlo. Sono dei contractor, alias mercenari, capaci di (s)qualificare la parte da cui si troveranno. Non è tutta colpa loro, è responsabile anche chi li portò in Parlamento. A loro dedico il pensiero che il grande Petrolini rivolse a uno spettatore loggionista, fastidiosamente e petulantemente disturbatore: nun ce l’ho con te, che così ce sei nato, ce l’ho co’ quello che te sta accanto e nun te butta de sotto.