sabato 31 dicembre 2011

Appunto Addio 2011, la poesia di Filippo Facci "Ti ricordi Berlusconi? Scorda lui e le elezioni"

E' finito un altro anno / è iniziato un altro inganno / Ti ricordi Berlusconi? / Scorda lui e le elezioni / L'han deciso in una stanza / l'ha deciso la finanza / l'ha deciso supermario / e anche il fondo monetario / L'han deciso in una sera / quella là, la cancelliera / ha chiamato il Quirinale / poco costituzionale? / forse sì, ma è l'emergenza / di denari siamo senza / ora da Milano a Foggia / fan la danza della pioggia / Largo dunque ai professori / dell'Europa ambasciatori / sono grigi, sono seri / zitti con i gazzettieri / la politica è un tumore / dice il Sole 24 Ore / Ma dal giorno del trasloco / è cambiato niente o poco / non ci metti insieme il rancio / col pareggio di bilancio / Noi che siamo media classe / ci fracassano di tasse / ma non pagano palanche / come al solito le banche / Italiani genuflessi / risaliti gli interessi / Bamboccioni e vari imberbi / del futuro restan servi / Ma infinite le lezioni / di accademia e di Bocconi / Per non esser deludente / Mario, sai, non dice niente / E' finito un altro anno / è iniziato un altro inganno / Un Paese più normale / ma un futuro rateale / La politica si è arresa / meno soldi per la spesa / né pareggio né ripresa / la democrazia sospesa. (Libero quotidiano))

venerdì 30 dicembre 2011

Canone perverso. Davide Giacalone

Il “Canone Rai”, che per i cittadini conserva il suo nome obbrobrioso, essendo il migliore nel rendere la sua orrenda natura, ha tutti i possibili difetti dei peggiori tributi: non si sa cosa tassa, non si sa per cosa serva, non è affatto chiaro a chi vada, aumenta di continuo. E’ vero, non si può abrogarlo per referendum, né si può sollecitare un cittadino a non pagarlo, perché sarebbe induzione all’evasione fiscale. Si può cancellare la legge che gli consente di sopravvivere a sé stesso. Ma si può fare anche dell’altro, prima, ora, talché nessuno si senta assolto o scusato se quest’incresciosa situazione si protrae oltre.

Ricapitoliamo. 1. Non si sa cosa tassa, perché dovrebbero essere i televisori, ma in realtà sono i terminali “atti o adattabili alla ricezione d’immagini”. Tutti, compresi i telefoni, i computers, i navigatori e così via. Una intollerabile corbelleria. Non si sa neanche chi tassa, perché la legge dice che se paghi il canone a casa poi non lo devi pagare al mare, ma la Rai s’è messa in combutta con i comuni e vanno a cercare le case intestate al coniuge, sostenendo che non si tratta dello stesso nucleo familiare. E nessuno li ferma, laddove questa è tentata o riuscita estorsione. 2. Non si sa a cosa serva, perché dovrebbe finanziare il servizio pubblico. Quale? La Rai è una televisione commerciale a totale capitale statale, che svolge un “servizio pubblico” solo perché così si definisce in convenzione. A questo punto si possono anche chiamare “cavalli” i cinghiali e pretendere di cavalcarli. Auguri. 3. Non si sa quei soldi a chi vanno. Perché vanno alla Rai, ma in realtà si pagano al fisco, salvo il fatto che la sollecitazione al pagamento ti arriva dalla Rai stessa, ovvero dal beneficiario, che è una società per azioni di diritto privato, ma al tempo stesso una roba statale, che nella seconda veste prova a mettermi paura e nella prima ingrassa le proprie casse. Una roba così non è neanche un animale misto: è una bestialità. 4. Il fatto che aumenti lo sapete di già, quindi non sto a perdere tempo, solo che se i miei soldi servissero al servizio pubblico qualcuno dovrebbe dirmi dove finisce l’aumento: quali costi sono aumentati, quali nuovi servizi saranno offerti. Nisba.

La Rai è stato un grande servizio pubblico. E’ poi divenuto il paradiso della lottizzazione. S’è trasformato in greppia senza significato. Ora è la sopravvivenza di un passato troppo lontano. La soluzione migliore è venderla. Su questa strada c’è un ostacolo, rappresentato dalla legge 112 del 2004 (alias legge Gasparri), ove si stabilisce che nessuno può possedere più dell’uno per cento delle azioni Rai. Ostacolo che sarebbe bene rimuovere, semmai anche per via referendaria. Ma che si può anche aggirare, essendo oramai trascorsi i tempi oltre i quali quella stessa legge consente alla Rai di vendere “rami d’azienda”. Che non è roba vegetale, ma reti e produzioni. Si vendano.

Qui sento già il lamento più stupido del mondo: sarebbe un favore a Mediaset, azienda del più noto e votato fra i malfattori. Quell’uomo ha una fortuna smisurata, dato che la sorte gli ha spesso riservato avversari d’impareggiabile ottusità: è vero il contrario, perché il duopolio consente di fare del canone un provento che finanzia il sistema, mentre la privatizzazione e la concorrenza ristabiliscono regole di sano mercato, con quel che segue: chi è bravo vince e si fa ricco, chi non lo è esce di scena. Pensare che questo sia un favore a Berlusconi significa fargli un complimento che egli stesso si farebbe solo in privato. E ho detto tutto.

Per concludere. Vedo che non appena si parla di cancellare l’odioso e deforme tributo più d’un politico corre a prendersi uno spicchio di gloria. Bravi: visto che non avete di meglio da fare, visto che la politica conta sempre di meno, nel tempo che vi rimane dopo avere chiesto raccomandazioni per assunzioni e lavori in Rai, raccogliete le firme per i referendum. Se avete idee confuse, circa i quesiti, siamo a vostra disposizione. Gratis. Detto ciò, si può fare subito molto, si può cominciare a vendere, si può far scendere il costo di una baracca che pretende di piazzarmi le chiappe come servizio civile e culturale, come pretende di far passare per pluralismo la spartizione. Si può farlo oggi stesso. Facendolo si libererebbe quel che (se proprio si deve) della Rai è servizio, liberando l’azienda dall’ossessione dell’audience e liberando risorse pubblicitarie per altri competitori.

Ecco, adesso sono sicuro d’essere rimasto in risicata compagnia, con la destra mercatista e la sinistra moralista già fuggite a rimpiattarsi dietro i propri raccomandati, i propri amministratori, i propri lottizzati, le proprie vergogne.

mercoledì 28 dicembre 2011

Biografia non autorizzata di uno strano "antifascista". Milton

Leo Longanesi disse, “I fascisti si dividono in due categorie: fascisti ed antifascisti”. Alla seconda categoria apparteneva Giorgio Bocca, che per la verità fino al 1943 è appartenuto anche alla prima, dopo aver firmato nel 1938 il Manifesto in difesa della razza a sostegno delle leggi razziali e che ancora nel 1942 scriveva “Sarà chiara a tutti … la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù”.

Dopo l’8 settembre, dimostrando ottimo intuito, divenne antifascista e come partigiano nella divisione “Giustizia e Libertà” attese le truppe americane che risalivano la penisola per liberare l’Italia. Il contrappasso lo raggiunse a guerra finita(!), quando come responsabile dei Tribunali del Popolo partigiani, una sorta di industria della vendetta e dell’odio, condannò a morte per fucilazione presunti traditori e repubblichini.

Nel 1975 quando già si contavano i primi morti, dopo aver firmato, con la solita compagnia di giro che a tutt’oggi ci fa la morale, l’appello contro il commissario Calabresi, sostenne, assieme al PCI, che le Brigate Rosse fossero una favola raccontata agli italiani dagli inquirenti e servizi segreti. Nel marzo del 1980 disse ancora “la nascita del terrorismo è stata tenuta a bagnomaria per costruire la teoria degli opposti estremismi”, erano gli anni di piombo e il sangue di giudici, politici, cittadini scorreva ormai da un decennio.

Più tardi, con un linguaggio da far arrossire anche un tipo come Borghezio, vomitò odio anche sul Sud “Durante i miei viaggi al sud c’era sempre questo contrasto tra paesaggi meravigliosi e gente orrenda, un’umanità repellente”. Un commento insomma da razza padana, cinico e sprezzante, non dissimile a quello che riservò, dimostrando un’acerrima omofobia, a Pasolini.

Negli anni ottanta fu uno dei primi giornalisti di un certo nome a frequentare con successo, anche economico, gli studi Fininvest e le tipografie Mondadori, per poi considerare servi tutti gli altri che l’hanno fatto dopo, e definire Berlusconi, in un afflato di lirismo, “un maiale”. Si vantava di essere senza padroni, scordandosi che nel 1976, fondò assieme a ad Eugenio Scalfari “Repubblica”.

Ci lascia un opportunista scaltro, cinico, fascista quando Mussolini era all’apice, partigiano quando il regime cadde e le sorti della guerra erano segnate, leghista quando Bossi predicava la secessione e conquistava il Nord, Berlusconiano quando c’era da mangiare a Fininvest, protagonista di Repubblica quando c’era da strisciare al fianco del fallimentarista De Benedetti.

Insomma il classico percorso di tanti intellettuali nostrani, un percorso a tratti indecente, viscido, fatto di opportunismi e convenienze. Umana pietà per chi non c’è più e per chi ha lasciato, ma ci si risparmi il frignare delle prèfiche inconsolabili che oggi lo definiscono, con la solita ipocrisia, “Maestro”. (l'Occidentale)

martedì 27 dicembre 2011

Stregoni. Davide Giacalone

Quella di un secondo tempo, nel corso del quale il governo Monti saprà fare quel che non ha fatto, rilanciando l’Italia verso magnifiche sorti e progressive, è un’illusione. Una favola che ci raccontiamo per far finta di non capire quel che accade, o perché davvero non lo si capisce, e si prova a darsi un contegno. Quel che il governo Monti doveva fare lo ha fatto. E non è servito. Non poteva servire, pur dovendosi farlo.

La terapia è sbagliata perché la diagnosi non è reale. E’ frutto di un pregiudizio, di una superstizione, non di analisi e conoscenza. Lo “spread” non è un numero che dica quale che sia cosa circa l’affidabilità del debito pubblico italiano, ma un indice che consegna la misura di quanto sia fragile la struttura istituzionale dell’euro e dell’Unione europea. Da quando è comparso sulla scena, da quando la crisi del debito ha attraversato l’Atlantico e morso le carni europee, lo spread è divenuto un dio pagano, le cui ire e bizze si spera possano placarsi con sacrifici umani. Idee da selvaggi. Idee, però, che da noi vestono alla moda del perbenismo trinariciuto, seguendo la linea di chi ha sempre avuto sul gozzo la democrazia, con l’assurda pretesa che il popolo sappia scegliere il proprio interesse. Ma vi pare? Qui il popolino votava Berlusconi! L’impresentabile, l’insostenibile, il vergognoso, l’inquisito, il debosciato. Toglietelo di mezzo e vedrete che lo spread si placherà. Uccidete la vergine, sgozzate l’agnello, e vedrete che il dio si quieterà. Imbecilli.

Già, ma se Berlusconi fosse rimasto al suo posto, se la coalizione degli ignoranti in cattedra, dei ladri moralisti e dei bugiardi giuranti non avesse trovato nello spread il piede di porco per scardinarlo, sarebbe cambiato qualche cosa? No. Questo è il bello: la nostra partita è irrilevante, perché giocata fuori tempo e fuori campo. Due club di scemi, che si spaccano gli stinchi a vicenda.

Occorrerebbe, invece, che si facesse squadra per giocare il campionato europeo, quello in cui ci stanno prendendo a pedate. La si smetta con l’atteggiamento provincialissimo di chi festeggia il fatto che i “potenti” ci rivolgono la parola e offrono un pranzo. Tanto più che i “potenti” sono i colpevoli di quel che accade. I potenti siamo noi: abbiamo popolo, intelligenza e produzioni quanto basta per contare. Possiamo farlo salvando l’Europa, opponendoci fermamente all’andazzo attuale, che porta tutti al massacro. Abbiamo le carte in regola, perché le cose che scrivevamo un anno fa sono esatte, la diagnosi precisa, la terapia efficace: il malato è l’Europa, sicché si deve passare alla cura drastica della maggiore integrazione, ove non si voglia imboccare la via dell’eutanasia.

Ma da noi è come parlare con il muro, perché in questo Paese di trasformisti a dar lezioni d’europeismo ci sono i vecchi arnesi comunisti che hanno passato la vita a battersi contro l’Europa. So che nessuno lo scrive e qualche ignorante lo nega, ma è così. E lo ripeto, nel modo più ruvido possibile, perché è destinato alla tragedia un Paese che credi di potersi mettere nella mani di un comunista mai divenuto ex e di un professore intento a selezionare i contribuenti da immolare al dio spread. Che, poi, diciamolo: non esiste nemmeno il Paese che si mette nelle loro mani, se non nelle pagine di giornali scritti per lisciare il pelo ad una risicatissima minoranza d’italiani. I selvaggi che ritengono incivili i propri connazionali, per non dovere guardare l’anello che portano al proprio naso.

La malattia europea consiste nel non coincidere di democrazia e potere, nel divorzio fra suffragio popolare e governo degli interessi. Noi ci stiamo comportando, in Italia, come se lo scopo fosse quello di adeguarci a quella malattia, laddove è evidentissimo (e lo sarà nel racconto che faremo a posteriori) che serve l’esatto contrario. Solo che serve in ambito europeo: con partiti, popoli, elettori e istituzioni dell’Unione. Il resto, quel che stiamo praticando, è solo un modo per torturare il corpo malato, indebolendolo con la pretesa di guarirlo. Anche gli stregoni, in fondo, erano “tecnici”.

martedì 20 dicembre 2011

L'odio per i ricchi. Gianni Pardo

Tutta la società sembra unita nell’odio contro i ricchi, in un’acida voglia di “fargliela pagare”. E tutta la legislazione è improntata a principi di fattiva ostilità nei loro confronti. Basti pensare alla voglia di tassare a morte i “grandi patrimoni”, all’accresciuto peso di imposte per seconde case (anche all’estero, dove già pagano le tasse allo Stato locale!), barche, e ogni bene che sembri denotare “ricchezza”. Tutto questo è giusto?

È giusto che chi guadagna 1.000 paghi 100 e chi guadagna 10.000 paghi 1.000 o 1.500. Ma è giusto che chi guadagna 10.000 paghi 4.000 o 5.000? Secondo la Costituzione (art. 53) “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ma la progressività poteva estendersi fino a triplicare il tributo per chi ha una casa e la tiene sfitta? Dov’è la maggiore capacità contributiva, se da quella casa non si ricava nessun reddito? Qui si punisce il fatto che il proprietario non faccia beneficiare gli altri del suo bene. La nostra Costituzione è “di sinistra” e ne sono stati accentuati i risvolti giacobini: ora bisogna che “anche i ricchi piangano”. Ma chi sono, esattamente?

Per il disoccupato che non sa come dare da mangiare ai suoi figli, è già ricco il ragioniere del secondo piano che guadagna millecento euro al mese. Ma se la stessa domanda fosse posta all’interessato, il poverino sgranerebbe gli occhi: “Io, ricco? Forse il commercialista del piano rialzato, quello che guadagna cinque o seimila euro al mese”. Ma il commercialista osserverebbe che lui ha cominciato a guadagnare sul serio ben oltre i trent’anni e che comunque, mentre il ragioniere stacca alle due, lui lavora dalle nove del mattino alle nove di sera ed ha delle spese. Ricco è sempre qualcun altro. Se infine si arriva ai ricchi innegabilmente ricchi, ci si accorge che sono così poco numerosi da non avere importanza, nella società. Anche a distribuire tutti i loro averi ai poveri, non cambierebbe nulla.

L’odio per gli abbienti ha una spiegazione. Per molti secoli il grande patrimonio è stato costituito dalla proprietà terriera. Jean-Jacques Rousseau non odiava il ricco in quanto tale ma perché la ricchezza l’aveva ereditata. Il suo patrimonio era pura casualità e pura ingiustizia. Spesso per giunta la proprietà terriera si accoppiava con la nobiltà, sicché le categorie erano stagne, o si nasceva nobili e facoltosi, o si nasceva “roturiers” e indigenti: senza possibilità di cambiare categoria. Persino un genio capace di procurarsi un grande patrimonio, come Voltaire, rimase sempre un inferiore perché non era nobile.

Il tempo è passato. L’esperimento sovietico ha dimostrato che, abolendo la proprietà privata, l’intero popolo si impoverisce invece di arricchirsi. In Occidente la nobiltà è praticamente sparita e la terra ha cessato di essere il paradigma della ricchezza: oggi è ricco l’industriale, il celebre artista, il grande professionista, tutta gente che lavora sodo. Prima l’alto livello economico era conseguenza della nascita, ora è conseguenza del lavoro. Prima le categorie erano impermeabili, oggi il figlio del milionario spesso si ritrova povero prima di arrivare alla vecchiaia. Il mondo è cambiato. Purtroppo, la gente è mentalmente ferma al passato e infatti la nostra Costituzione a proposito della proprietà privata parla di imporle dei limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Parole importanti. Il patrimonio non è più un fatto privato: deve avere una funzione sociale. Inoltre deve essere “accessibile a tutti”, come se prima fosse stato vietato. Accessibile significa che la porta è aperta: e chi l’ha mai chiusa, dopo la Rivoluzione Francese?

Siamo alla contraddizione dei sogni. Da un lato si fantastica che i ricchi siano tali per eredità - tanto che si vorrebbero distribuire i loro beni a tutti - dall’altro si auspica che tutti divengano ricchi: per poi espropriarli dei loro beni?

Chi ha guadagnato molto è tormentato in tutti i modi. Inoltre è additato al disprezzo generale: se ha soldi è un delinquente; se ha soldi è un evasore fiscale; se ha soldi non andrà in Paradiso. In Italia il modello positivo è l’impiegato statale che con lo stipendio arriva a stento alla fine del mese. Il risultato è la scarsa propensione alla produzione, l’esistenza di pochissime grandi imprese e la quasi assenza di investimenti stranieri.

La società italiana ha voluto essere liberale il meno possibile, ha voluto che anche i ricchi piangessero e ci sta riuscendo: si chiama recessione. (il Legno Storto)

Giustizia al gabbio. Davide Giacalone

Quella carceraria non è un’emergenza, ma un’indecenza. Il ministro della giustizia, Paola Severino, fa bene a occuparsene. Ma faccia attenzione a non confondere le cause con gli effetti e a non immaginare soluzioni, come quelle di cui si sente parlare, che suonano come un favore ai colpevoli e un ulteriore sfregio per gli innocenti. Il fatto che il pontefice si sia recato a Rebibbia e qui abbia pronunciato parole dure (e giuste) contro il sovraffollamento, mi fa rizzare le orecchie, perché già le parole del suo predecessore, pronunciate in Parlamento, furono utilizzate per favorire un provvedimento oltraggioso e inutile, l’indulto.

Non sono un’emergenza, le carceri, come non lo è la spazzatura a Napoli: sono fenomeni d’inciviltà permanente, che talora tornano agli onori della cronaca, salvo restare tali anche quando non se ne parla. Nel caso delle galere, quel che causa il problema non è il moltiplicarsi del crimine, ma il crescere dell’inciviltà giuridica. La causa è la malagiustizia, l’effetto il sovraffollamento. Più della metà dei detenuti italiani non stanno scontando una pena, ma stanno aspettando di sapere se devono scontarla. Sono “in attesa di giudizio”, come il titolo del film con Alberto Sordi (regista il grande Nanny Loy), che più lo guardi più ti arrabbi, perché le cose sono peggiorate, restando immutabili. Più della metà dei carcerati, quindi, devono, secondo la Costituzione e la Convenzione Europea Diritti dell’Uomo, essere considerati innocenti. Non ci si deve chiedere dove metterli, ma come dar loro giustizia.

Se, invece, si parte dalle celle, saltando i tribunali, va a finire che si presentano proposte come quelle che il ministro ha formulato: mandare agli arresti domiciliari chi ha ancora 18 mesi da scontare, oppure rilasciare chi ha condanne inferiori ai 4 anni, pensando a pene alternative. Misure concepite per sfoltire le presenze, ma che portano a una singolare e abominevole conseguenza: escono i condannati e restano dentro gli innocenti. E’ già successo con l’indulto, e siamo fra i pochi che protestarono.

Il tema è così delicato, e di così rilevante portata, che tutti dovrebbero proibirsi le sparate propagandistiche. Aggiungo subito, quindi, che il ministro fa bene a dire che il tema dell’amnistia deve essere preso in considerazione, e vado oltre: è necessaria, si deve fare. Al contrario dell’indulto, che cancella solo la pena, l’amnistia cancella anche il reato e il procedimento, quindi evita che il sistema soffochi sotto al peso dell’arretrato. E’ un provvedimento ingiusto, repellente. E’ uno schiaffo in faccia alle persone oneste, una stilettata al cuore degli innocenti. Ma è necessario. Solo che deve essere fatta dopo la riforma della giustizia, non al suo posto. Deve prendere corpo dopo avere liberato i palazzi di giustizia dai corporativismi, dalle politicizzazioni e dalla nullafacenza, non materializzarsi quale succedaneo di ciò che non si è capaci di fare. Perché in questo secondo caso la vergogna sarebbe incancellabile e la rabbia incontenibile.

Ai non condannati il ministro pare abbia rivolto una sola attenzione, immaginando che gli arrestati possano restare per due giorni nelle celle di sicurezza delle polizie. Idea pessima. Consapevole di quel che significa pare lo stesso ministro abbia suggerito di cambiare loro il nome, denominandole “sale di custodia”. Ora, a parte il fatto, cui non voglio credere, che l’idea sarebbe venuta, a lei ed alla collega degli interni, nel mentre andavano alla prima del San Carlo (e vi garantisco, signori del governo, che si vive bene anche senza andare a teatro a scrocco, dimostrandosi già corrotti dall’effimera fama passeggera, così come vi avverto che i vostri predecessori sono stati travolti anche dall’incapacità di comprendere che il loro mondo era divenuto irreale), a parte ciò, dicevo, cambiare il nome alle cose non muta le cose stesse: la cella di sicurezza, senza controlli e garanzie, è roba medioevale. Toglietevelo dalla testa.

Ciascuna persona civile non può non sentirsi offesa dallo stato delle nostre carceri. Ciascun cittadino non può non avvertire che la soluzione deve portare maggiore giustizia, come anche certezza che i condannati scontino la pena. Noi che abbiamo dedicato alla giustizia tanta parte della nostra vita una cosa l’abbiamo imparata: la bontà delle intenzioni non conta nulla. Contano i risultati.

lunedì 19 dicembre 2011

Recessione burning. Fabrizio Grasso

La recessione è una malattia democratica: colpisce tutti.

Recessione: forma religiosa d’impotenza.

Recessione: Ancora tu non mi sorprende lo sai/ ancora tu ma non dovevamo vederci più?

Governare la recessione non è difficile, è inutile.

Recessione, il meglio è passato.

Un contribuente è uno che lavora per lo Stato e la recessione, ma senza avere vinto un concorso pubblico.

Non chiedete cosa possa fare la recessione per voi: chiedete cosa potete fare voi per la recessione.

Certe recessioni non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano.

Recessione: ecco una lametta che ti taglia le vene.

Questa è la recessione del mondo senti che scende questa economia.

Allora prenderò la recessione al volo.

La recessione è la misura di tutte le cose.

Recessione homini lupus.

Datemi una recessione e seppellirò il mondo.

Che cos’è la recessione? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.

***

Hanno collaborato: Indro Montanelli, Charles Régismanset, Lucio Battisti & Giulio Repetti, Benito Mussolini, Ennio Flaiano, Ronald Reagan, John Fitzgerald Kennedy, Antonello Venditti, Donatella Rettore, Jovanotti, Fantozzi, Protagora, Thomas Hobbes, Archimede, Giorgio Perozzi. (The FrontPage)

Differenza tra crisi economica e crisi dei mercati. Gianni Pardo

Se un uomo si rompe una gamba ed ha la diarrea, soffrirà dell’ingessatura e del dover correre continuamente in bagno. Naturalmente ognuno dei due mali renderà peggiore l’altro, ma questo non significa che la frattura dipenda dallo stomaco o il mal di stomaco dipenda dalla frattura.

Nella crisi economica italiana si rischia una analoga confusione. Noi soffriamo del peso degli interessi sul debito pubblico e della recessione economica, ma i due fenomeni non sono eziologicamente collegati: l’unico punto comune è che l’uno aggrava l’altro.

La grande massa del debito pubblico si è formata in anni lontani, mentre negli anni recenti l’Italia è stata molto virtuosa: i proclami di Tremonti non erano infondati. Ma c’è stata la crisi mondiale cominciata nel 2008, si è avuta la crisi della Grecia, l’Italia si è avviata alla recessione, i mercati si sono preoccupati e la cosa ha fatto valanga: da questo l’aumento dei tassi di Bot e Btp. L’Italia aveva ed ha necessità di venderli per pagare col ricavato quelli in scadenza e abbiamo toccato picchi dell’8% di interesse: con impegni che domani potrebbero salassarci a morte.

Facciamo l’ipotesi che la crisi si fosse verificata mentre l’Italia andava a gonfie vele, il pil aumentava del 4% l’anno - non si sta dicendo niente di mitologico - e le prospettive economiche erano rosee. I mercati, pur preoccupati per la crisi mondiale, si sarebbero detti che, comunque, l’Italia rimaneva solida. È quello che pensano della Germania, e proprio per questo i suoi tassi d’interesse sul debito pubblico sono tanto più bassi dei nostri (il famoso spread). Se domani l’euro scoppiasse, non è che la Germania non piangerebbe: ma la sua situazione interna è più rassicurante e i mercati ne tengono conto.

In Italia siamo nei guai perché la crisi dell’euro e il macigno del debito pubblico pesano su una nazione che economicamente non progredisce più ed anzi indietreggia: si chiama recessione. La domanda diviene dunque: come se ne esce?

La formula scelta dalle autorità europee ed italiane, fino ad ora, è stata quella di un aumento della pressione fiscale. Gli italiani sono stati “invitati” a dare di più allo Stato e consumare meno per loro stessi. Solo che il denaro dato allo Stato è sterile, non produce ulteriore ricchezza, mentre consumando di meno gli italiani comprano di meno, i commercianti vendono di meno, gli industriali producono di meno e lo Stato intero tende ad impoverirsi, accentuando la recessione. Prosit.

Un’altra formula, molto in voga nel secolo scorso, era quella di John Maynard Keynes, se l’abbiamo capita bene. Lo Stato lancia (facendo debiti) enormi lavori pubblici, in modo da combattere la disoccupazione, far produrre di più le imprese, immettere liquidità nel sistema, e fa ripartire l’economia. Sempre se abbiamo capito la teoria di Keynes, questo “acceleratore” funziona se il piede su di esso è tenuto momentaneamente, mentre nel secolo scorso non lo si tolse più dal pedale e questo creò il debito pubblico. Oggi Keynes è visto come uno che aveva torto e non bisogna parlarne, mentre forse non è la teoria ad essere sbagliata ma l’applicazione che se ne dette.

Rimane l’ultima soluzione, quella di cui nessuno vuole parlare: un cambio di modello produttivo. Invece di invitare la Cina a fare come noi, noi dovremmo fare come la Cina. Attuare una liberalizzazione selvaggia del tutto dimentica delle famose “conquiste dei lavoratori” che ci hanno portato dove siamo, fino a rilanciare la nostra economia come una tigre. Ché poi, quando fossimo riusciti a riconquistare la prosperità economica, si potrebbe anche riparlare di salari minimi, stabilità del posto di lavoro, pensioni anticipate e ogni sorta di bonus. “Intanto guarisci dalla malattia e vai a lavorare, poi ti godrai le ferie a Montecarlo”.

Ma non c’è speranza. Il dogma corrente è che l’economia deve funzionare e produrre ricchezza anche se si fa di tutto per intralciarne il cammino. Se poi rallenta, la soluzione è aumentare la pressione fiscale e andare a cercare altri evasori. Il grande tecnico Monti non vede altro: da bravo antiberlusconiano, per lui uno Stato serio è uno Stato che impone tasse, e che, quando le cose vanno male, impone tasse, tasse e tasse. Come diceva lo scorpione alla rana, in un famoso aneddoto, “è la sua natura”. E, purtroppo, la natura dell’intera Italia. (il Legno Storto)

sabato 17 dicembre 2011

E' ora che alcune verità rimosse sui palestinesi siano riportate alla luce. Costantino Pistilli

Il candidato repubblicano Newt Gingrich in un’intervista con Jewish Channel ha dichiarato: “I palestinesi non esistono e il processo di pace in Medio Oriente è un’illusione. Dobbiamo ricordarci che non è mai esistito uno Stato di Palestina perché all’origine la Palestina era parte dell’Impero Ottomano. Credo anche che i palestinesi siano stati inventati perché in effetti erano parte della grande comunità araba”. Dal partito democratico statunitense fino a Ramallah la dichiarazione di Gingich ha provocato irruenti proteste. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua lo sospetta addirittura “di ignoranza storica e di superficialità politica”. Neanche la replica del suo portavoce, R.C. Hammond, è servita a calmare gli animi: “Gingrich si riferiva al fatto che questo conflitto è frutto di decenni di storia. Noi sosteniamo una pace negoziata fra Israele e palestinesi che includerà necessariamente i confini di uno Stato palestinese, ma per comprendere meglio cosa viene proposto e negoziato dobbiamo conoscere una Storia lunga e complessa, ed è proprio questo che Gingrich tentava di fare nell’intervista televisiva”. Quelle di Gingrich, però, sono altro che rozze farneticazioni. Il concetto di nazionalità etnica come base dell'identità politica era tipicamente europeo. Un concetto difficile da declinare in arabo. La sua nascita risale alla fine del XVIII e agli inizi del XIX secolo, e si collega alla Rivoluzione francese, alle guerre napoleoniche e al romanticismo. Nel caso della nazione palestinese, a supporto della tesi di Gingrich, arriva la spiegazione del professor Bernard Lewis, uno dei massimi studiosi del Levante e professore emerito di Studi sul Vicino Oriente alla Princeton University. “Dalla fine dello Stato di Israele nell'antichità all'inizio del dominio britannico, l'area ora designata con il nome Palestina non era una nazione e non aveva frontiere, solo confini amministrativi” scrive Lewis in un articolo pubblicato sull’americano Commentary Magazine nel gennaio del 1975.

In Palestine: On the History and Geography of a Name, editato all’International History Reviw, spiega invece come “ Migliaia di anni prima che i Romani inventassero la Palestina, la terra era conosciuta come Canaan. Il nome Falastin che gli arabi oggi usano per Palestina non è un nome arabo. È la pronuncia araba di ciò che i Greco-Romani chiamavano Palestina derivato da Peleshet: nome che iniziò ad essere usato nel tredicesimo secolo A.C., a causa di un movimento migratorio di genti chiamate "gente del mare", provenienti dall'area del Mare Egeo e delle Isole Greche e si insediarono sulla costa del Sud della terra di Canaan. Nel primo secolo D.C. i Romani annientarono lo stato indipendente della Giudea. Dopo la rivolta fallita di Bar Kokhba nel Secondo Secolo D.C., l'Imperatore Romano Adriano determinò di spazzare via l'identità di Israele-Giuda-Giudea. Perciò egli prese il nome Palestina e lo impose alla Terra di Israele. Nello stesso tempo egli cambiò il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina”. Mentre il mondo prova a bocciare Gingrich in Storia, il vice ministro degli esteri israeliano Danny Ayalon ha diffuso su YouTube un filmato di cinque minuti intitolato La verità sulla questione dei profughi - terzo video dopo quello sulla Cisgiordania e Il processo di pace - in cui spiega in parole semplici alcuni dei più complessi nodi del conflitto israelo-arabo-palestinese. Nel video Ayalon chiede chi sono i profughi, del perché dopo più di sessant’anni è ancora una questione aperta, come è incominciata la tragica e obliata storia di più di 850.000 ebrei delle antiche comunità ebraiche cacciati dalla conquista islamica nei Paesi arabi. Al contrario, continua il vice di Lieberman, 160.000 arabi accettarono l’offerta di Israele di restare ed oggi vi sono più di un milione di cittadini arabo-israeliani che vivono in Israele con pieni diritti di cittadinanza.

Uno status invece negato dai vicini arabi che ai profughi palestinesi riservano una serie di leggi discriminatorie: divieto di ottenere la cittadinanza (ad eccezione della Giordania), impossibilità di accedere a molte professioni, limitazioni al possesso di terreni, restrizioni di movimento, diniego di istruzione e assistenza sanitaria. Un’altra stoccata viene scagliata contro l’Onu: “Mentre tutti i profughi del mondo vengono assistiti dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR), un’agenzia separata, l’UNRWA, venne creata specificamente per i palestinesi. Come mai i profughi palestinesi non possono condividere la stessa agenzia con i profughi di Bosnia, del Congo o del Darfur, tanto per citarne alcuni?”. La risposta secondo il vice ministro israeliano è: “Mentre l’agenzia centrale delle Nazioni Unite aiuta i profughi a reinserirsi, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi contribuisce a perpetuare il loro status, applicando criteri atipici. Ad esempio, i profughi perdono il loro status di profugo quando ricevono la cittadinanza di un paese riconosciuto, i profughi palestinesi no; i profughi non possono trasmettere il loro status da una generazione all’altra, i profughi palestinesi sì; i profughi vengono incoraggiati a reinserirsi in altri paesi o ad integrarsi nei paesi che li ospitano, cosa che l’UNRWA evita di fare. Le Nazioni Unite spendono per ogni singolo profugo palestinese circa tre volte più di quanto spendono per un profugo non palestinese, e impiegano uno staff oltre trenta volte più numeroso. Insomma, per tutto il XX secolo le Nazioni Unite hanno trovato soluzioni durevoli per decine di milioni di profughi, mentre l’agenzia per i profughi palestinesi non ha trovato soluzione per un solo profugo”. (l'Occidentale)

Rivincita. Davide Giacalone

Il governo ha ottenuto la fiducia lo stesso giorno in cui promette la rivincita. Torneremo sul capitolo liberalizzazioni, affermano, e questa volta non ci fermeremo. Proposito lodevole, ma sarà bene chiariscano a se stessi perché, questa volta, hanno perso. Un simile esito non sarebbe stato possibile, forse neanche pensabile, se non fosse stato il governo stesso a commettere errori procedurali e politici.

Il contenuto finale del decreto è, per la grandissima parte (più o meno l’85%), fatto di tasse. In un paese già in recessione si tratta di una randellata micidiale. Per ragioni tutte legate alla comunicazione, che è stata sapientemente gestita, il dolore della botta ha assunto una valenza positiva, come a dire che era quello che serviva e ci voleva coraggio e sapienza nell’impartirla. Purtroppo, però, non è così: la sapienza sarebbe stata sprecata, perché quel genere d’operazione riesce a chiunque; il coraggio sarebbe stato meglio utilizzarlo per mettere l’Italia nelle condizioni di crescere, facendo venire meno i freni delle rendite di posizione; mentre il dubbio più consistente è relativo al merito e all’efficacia, perché sbagliare la terapia e praticare un salasso al paziente anemico significa avviarlo verso la tomba.

Ieri il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto che stiamo scontando anche la contraddittorietà delle risposte che l’Europa ha dato alla crisi. Ha ragione, ma noi lo scriviamo da mesi, ripetendo mille volte che prendere soldi agli italiani senza prima avere spento il fuoco della speculazione contro i debiti sovrani equivale a incenerirli. Non ci sono novità, insomma, sono dati e situazioni che tutti, da tempo, abbiamo il dovere di conoscere.

Il governo Monti ha operato in condizioni di grande difficoltà, dati i tempi stretti e le pressioni che ricevevamo da altri Paesi europei, segnatamente da Germania e Francia, oltre che dalle istituzioni dell’Unione. Nessuno può ignorare questo presupposto. Al tempo stesso, però, il governo s’è mosso in una condizione di grande favore istituzionale: nato dalla volontà e con la copertura del Quirinale, dispone, come ieri s’è confermato, dell’appoggio del Parlamento. Che ciò sia dovuto allo stato catatonico in cui si trovano le grosse forze politiche è vero, ma è pur sempre un vantaggio, per l’esecutivo. Partendo da queste premesse, e tenendo conto delle pressioni, il governo ha velocemente preparato un decreto legge, prontamente emanato dal Quirinale. E’ a partire da quel testo che è cominciato il precipitare.

Gli errori tecnici erano imperdonabili. Il che è paradossale, per dei tecnici. Non c’è fretta che tenga, ci sono cose che chiunque sia istruito alla vita istituzionale non può permettersi. A questi si sono sommati errori politici, che qui è bene scarnificare, se si vuol sperare in una “rivincita”, ovvero in un secondo tempo gestito con meno superficialità. La matrice dell’errore politico consiste nel credere che il governo possa andare avanti costruendo un consenso bilanciato, vale a dire ascoltando un po’ la destra e un po’ la sinistra, assecondando ora le richieste degli uni e ora quelle degli altri, nella consapevolezza che i provvedimenti passano, e i decreti si convertono, grazie ad una maggioranza parlamentare, che è pur necessario negoziare. Questa tesi è stata esposta, per giunta a sproposito (con riferimento all’ipotetica asta delle frequenze televisive, che è una bischerata in sé), anche pubblicamente. Se procede in questo modo il governo è finito: tradisce la propria natura e il proprio ruolo, avvicinando fino all’immediatezza la propria caduta. Ingloriosa.

Deve agire, invece, in base ad un criterio opposto: un governo tecnico, sostanzialmente extraparlamentare, che non sia il frutto di un colpo allo Stato, agisce senza contrattare i propri provvedimenti, ma ispirandoli all’unico equilibrio che concili il mandato con le necessità: scontentare tutti. E’ ovvio che, tanto per indicare due esempi, l’aumento delle tasse equivale allo sbugiardamento di tutta quanta l’impalcatura politica del centro destra, ed è ovvio che l’elasticizzazione del mercato del lavoro, comprendendo in ciò la cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, equivale a mettere un dito nell’occhio ideologico della sinistra, ma è anche vero che servono soldi per assicurarsi la discesa del debito e servono le condizioni affinché la crescita riparta, quindi procede, tira dritto, e fa le due cose contemporaneamente. Le forze politiche, in un Parlamento che resta sovrano, decideranno il loro voto, ma dopo che sia stato loro comunicata la non modificabilità dei provvedimenti. Così, forse, si salva la capra dell’emergenza e i cavoli delle istituzioni.

Non solo contrattare è un suicidio, ma diventa anche un obbrobrio se resta ferma la batosta nei confronti di quelli che non possono sottrarsi, mentre il resto viene meno al solo frusciar delle fronde corporative. Ne deriva uno spettacolo orrido. Capisco quei ministri che sentono il bisogno di dire: ci rifaremo, torneremo alla carica, ci sarà la rivincita. Ma rischia d’essere un inutile massacro se tutti, presidente del Consiglio in testa, non avranno la forza di ammettere l’errore compiuto. E di ammetterlo pubblicamente, perché la sola ipotesi che qualcuno faccia il furbo, subordinando l’interesse generale a un qualsiasi disegno politico, farà uscire allo scoperto un branco di volpi spelacchiate. Ma con le fauci sempre possenti.

mercoledì 14 dicembre 2011

Il governo dei ragionieri. Gengis

Pensioni e eccezioni. Perequazioni e indicizzazioni. IMU e detrazioni. 1 e qualcosa per cento di accise, 0.45 di contributi, 0.1 di bolli, 0.76 di patrimoniale estera, 0.4 di altri bolli, 0.0 per-cento-e-qualcosa di tanto altro. Non si capisce se è una manovra o un aiuto di stato all'ordine dei commercialisti. (l'Occidentale)

venerdì 9 dicembre 2011

Terapia pericolosa. Davide Giacalone

La Bce ribassa i tassi (dovrà farlo ancora) dopo che si sono accorti che l’euro potrebbe saltare in aria. Complimenti per la prontezza di riflessi. Cerchiamo di capire, noi italiani, come evitare di far la fine di Pietro Micca, senza neanche l’eroica opportunità di salvare Torino dai francesi. Rischiamo di spappolarci anche in assenza di detonazione. Micca, del resto, finì avvelenato dalle esalazioni, così come noi corriamo il pericolo di finire soffocati dalla recessione.

Il governo Monti ha commesso, sulle pensioni, un grave errore, cui cerca di rimediare facendone uno, politico, ancora più grosso. Sostenemmo subito che l’anticipazione dell’innalzamento dell’età pensionabile e del sistema contributivo era positiva. Ma avvertimmo che togliere l’adeguamento al costo della vita era una misura recessiva. Non siamo tecnici, bensì poveri scrivani, eppure ce ne accorgemmo. Rilevammo un difetto non di “giustizia sociale”, che non è materia maneggiabile da un governo privo di delega popolare, ma di prudenza economica. Ora lo capiscono e dicono che sono pronti alle modifiche, mediante un emendamento (che presto diventerà “maxi”) su cui porre la fiducia e da concepire “a saldi invariati”. E’ il linguaggio dei governi che mediano e s’arrabattano, non di quelli composti da sì alte intelligenze e competenze, privi dell’obbligo di barcamenarsi fra i partiti. Due errori, insomma.

Segnalo il terzo: ci sono lavoratori posti in mobilità o licenziati con la consegna dei soldi per pagare i contributi volontari, tutti alle soglie della pensione. Questo a legislazione allora vigente. Se cambiano le regole vanno tutelati, altrimenti sarà come dire che i più fessi sono quelli che credono nelle leggi. Lo sapevamo già, ma non è il caso di ribadirlo.

Questo governo si giustifica per l’emergenza, non per l’equità, e se quel che scrive non è da prendere in blocco allora il gioco non vale il prezzo della sospensione democratica. Andiamo oltre: il decreto contiene molte norme inique, ma necessarie, il guaio è che c’è tanto bastone recessivo e pochissima carota per la crescita. Non si sono aumentate le aliquote Irpef, ma le addizionali. Nelle tasche degli italiani non fa una grande differenza, salvo il fatto che le seconde riguardano tutti. La logica di tassare per galleggiare è esattamente quella che ci ha portati alla pressione fiscale superiore alla media europea (fra due anni saremo al top), al debito pubblico mostruoso e all’inefficienza della spesa pubblica. Va invertita.

Il quadro dominante è quello europeo. Se il Consiglio di Bruxelles dovesse fallire l’intera questione dovrà essere rivista. Radicalmente, perché in caso contrario non usciremmo dalla crisi, verremmo riaggrediti dalla speculazione e, in più, ci saremmo impoveriti togliendo agli italiani soldi che non servirebbero minimamente ad alleggerire il debito pubblico. Posto ciò, e fidando nel fatto che non si arrivi alla follia del fallimento, noi abbiamo il problema di non accasciarci per anemia. Non possiamo permetterci di far prima la chemioterapia e poi il sostegno, perché la terapia ci ammazza prima di passare alla convalescenza. Una cosa è certa: senza sviluppo e senza svalutazione (che non è nei nostri poteri) quel debito non è sostenibile. Punto. Possiamo anche torturare le vecchiette (e i loro nipoti), ma non sarà mai sostenibile, in queste condizioni.

Mettere sul mercato una fetta consistente del patrimonio pubblico, subito, è indispensabile. Più si aspetta e più ce lo mangiamo. Cambiare le regole del mercato del lavoro, superando la sicurezza dei posti fissi e rendendolo il più elastico possibile, non è un modo per minacciare l’avvenire e la tranquillità dei lavoratori, ma l’unica via sensata per tutelarli. Senza crescita non c’è lavoro. La quantità di italiani che non lavorano è impressionante. Succede per rigidità o per patrimonio accumulato, ma è pur sempre la condotta di chi consegna ricchezza verso mercati esteri e verso lavoratori stranieri. I tecnici dovrebbero conoscere questo ingranaggio infernale, che va fermato. Subito. Cancellare il valore legale del titolo di studio e mettere scuole e università in concorrenza fra di loro non è una minaccia al diritto allo studio, è la formula che porta cultura e saper fare. Il ministro della giustizia fa bene ad occuparsi di carceri, perché sono in condizioni pietose, ma la giustizia, civile e penale, è messa peggio. Qui occorre scardinare le resistenze corporative, dei magistrati e degli avvocati, azzerandole.

Sono materie politiche, spettanti al Parlamento, lo so. Ma se i partiti sono in stato confusionale e il Parlamento in condizioni comatose il dovere di provvedere passa nelle mani dei commissari, del governo in carica. Altrimenti saranno commissari liquidatori.

giovedì 8 dicembre 2011

Europa ed europei. Davide Giacalone

L’Europa che si riunisce oggi è molto diversa da quella, retorica e palloccolosa, di tante celebrazioni e discorsi rituali. Si gioca la pelle. Se la salverà lo farà a dispetto dei cittadini europei, in gran parte delusi, se non direttamente avversi. Ciascuno per propri motivi, talora opposti e inconciliabili, a dimostrazione che non ha saputo affermarsi, né nel bene né nel male, come patria comune. Sappiamo esattamente dov’è l’errore, ma difetta la forza di rimediare.

Con le macerie ancora fumanti della seconda guerra mondiale le potenze vincitrici, e prima fra tutti gli Stati Uniti, decisero che non si sarebbe commesso l’errore con il quale si concluse la prima: non si sarebbero ridotti gli sconfitti (fra i quali noi) in miseria, ma il contrario. Germania e Italia furono escluse dall’armamento atomico. La Germania fu sfregiata dalla divisione, poi ricucita grazie al crollo dell’Unione Sovietica, alla copertura europea e alla sicurezza data dalla Nato. L’Italia divenne terra di confine, con il “più grande Partito comunista d’occidente” e una strisciante guerra civile, alimentata dalla guerra fredda. In questo scenario i padri d’Europa immaginarono che l’integrazione economica potesse precedere e propiziare l’integrazione politica. Se vedessero quel che sta succedendo, non ne sarebbero punto orgogliosi.

Si cominciò con la Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, per proseguire con altri mercati in comune. La nascita di quell’Europa era guardata, dai cittadini, con estranea fiducia. Era una cosa buona e giusta, ma lontana. Poi si prese a costruire il Parlamento europeo, figlio delle assemblee parlamentari, e l’embrione del governo europeo, la Commissione. I cittadini guardavano con distratto disinteresse: restava cosa buona e giusta, ma anche sede di vaniloquio ed elefantiasi burocratica. Gli europeisti (fra i quali chi qui scrive) s’affannavano a dire che il bello sarebbe arrivato e che, comunque, quel che c’era non era poco. Venne la stagione del serpente monetario e dell’Ecu, i nonni dell’euro, in un crescendo che avrebbe dato effettività solida all’integrazione economica. La nascita della moneta comune fu salutata con gioia dai nuovi arrivati, provenienti dall’Europa che fu comunista, schiavizzata, immiserita. Gli altri guardavano con il sopracciglio alzato: gli italiani subivano un cambio che quasi dimezzava il potere d’acquisto, i francesi perdevano un simbolo della grandeur, i tedeschi perdevano il loro marco, ma ci guadagnavano i costi della riunificazione, la ripresa e un mercato interno ricchissimo. Sono loro, i tedeschi, quelli che ci hanno guadagnato di più. Sebbene oggi se ne siano dimenticati. Sarebbe dovuto essere l’apice dell’integrazione economica, dopo la quale sarebbero venuti gli Stati Uniti d’Europa, invece fu l’innesco della tragedia.

La moneta senza testa ha scontentato tutti, anche quelli che ci hanno guadagnato. Fra i quali gli italiani, che pure la guardano spesso con avversione. E’ vero, il cambio fu masochista, ma anni di tassi bassi hanno aiutato tanti che hanno sottoscritto mutui e hanno aiutato la collettività a pagare meno l’imponente debito pubblico. Ma che conta, oggi? Il soldo acefalo non ha resistito un solo minuto quando la speculazione s’è accorta dell’evidenza: avere una sola moneta, ma debiti diversi, venduti a tassi diversi, è una ciclopica cretinata. Capace di distruggere tutto, perché neanche la libera circolazione di persone e cose ha senso ove ciascuno portasse nel sangue di nascita una quota di debito pubblico autoctono e uno svantaggio (o vantaggio) fiscale.

Eccoci qui: la via dell’economia per federare la politica non s’è rivelata un vicolo cieco, come gli euroscettici avvertivano, ma un viale in fondo al quale c’è una voragine. Siccome viaggiamo con il pilota automatico, e dato che le classi politiche europee (con rare eccezioni) sono popolate da esseri minuscoli, abituati ad amministrare la dispensa e non interrogarsi sul mondo, corriamo il serio rischio di finirci dentro. In questo modo partorendo un’Europa di popoli antieuropeisti. Né migliore sarebbe l’Europa che, per restare unita, fosse costretta a ignorare l’opinione degli europei, cittadini democraticamente minorati.

Dubito che il Consiglio di oggi si concluda con una soluzione limpida, ma è necessario che qualcuno azioni il freno a mano, prima che i passeggeri si buttino dal finestrino. Dobbiamo tornare indietro e decidere: o ammettiamo d’avere sbagliato, che la moneta unica fu pura presunzione e incompetenza, oppure ne traiamo le conseguenze politiche e ci gettiamo verso la vera federazione, rinunciando a molta della sovranità nazionale. Di tutti, però, non di alcuni.

Quella in corso è una guerra, che in altri tempi si sarebbe combattuta con le armi. Fermarla è l’unico modo per vincerla. Guardo al mio Paese, purtroppo, e mi dispero all’idea che si sia giunti a questo appuntamento con la storia senza nulla che somigli alla grandezza e alla dignità della politica. Né tale è quella dei tromboni europeisteggianti, che hanno passato una vita a battersi contro l’Europa.

venerdì 2 dicembre 2011

Lo scandalo delle pensioni. FR

L’età media dei pensionati Inps per anzianità nei primi 10 mesi del 2011 è di 58,7 anni, in lievissimo aumento sui 58,6 anni del 2010. L’età media di uscita nel complesso (vecchiaia e anzianità) è stata di 60,2 anni, in calo rispetto ai 60,4 anni del 2010. Se poi si guarda solo ai lavoratori dipendenti, l’età media di uscita nel 2011 è stata, tra vecchiaia e anzianità, di 59,7 anni e dunque la più bassa degli ultimi 3 anni; era stata infatti di 60,9 anni nel 2009 e di 60 anni nel 2010. Per i lavoratori autonomi l’età media complessiva di uscita è stata di 61,1 anni, in calo rispetto ai 61,4 del 2009. È quanto dicono gli ultimi dati Inps, diffusi dall’agenzia Ansa.

Per quanto mi riguarda, il dibattito sulle pensioni finisce qui. Il sistema pensionistico italiano è uno scandalo e una vergogna, e il governo Monti non farà mai abbastanza per smantellarlo come meriterebbe. Le pensioni in Italia sono (state) la tangente che la politica ha pagato agli elettori per comprarne il consenso. I sindacati e la sinistra dovrebbero essere i primi a vergognarsene, perché ne sono corresponsabili.

La benedetta crisi europea – e speriamo che duri ancora a lungo, e che peggiori – svela finalmente il vero trucco contabile dell’Italia, lo scandalo profondo della sua corruzione civile e politica: la trasformazione dei cittadini in sudditi, e dei bisogni in “diritti”. La democrazia dei liberi mercati ha sferrato un attacco mortale all’oligarchia partitocratica della spesa pubblica. Nessun diritto acquisito è da considerarsi un diritto in tempo di rivoluzione: le pensioni di anzianità o di invalidità o sociali o come altro si chiamano non valgono oggi più di quanto valessero i diritti feudali dopo la presa della Bastiglia.

Il feudalesimo corrotto del Welfare all’italiana, di cui il sistema pensionistico costituisce una delle architravi, prima salta per aria e meglio è. In pensione in media a cinquantott’anni? Vergognatevi! (the Front Page)

Gentile professor Monti. Christian Rocca

Vorrei tagliarmi anch'io i capelli di domenica, come ha fatto lei la settimana scorsa. E magari anche di lunedì, se possibile anche di sera.
Le vette liriche raggiunte dai giornali sul suo taglio di capelli domenicale, nell'elegante Via Vincenzo Monti in Milano, resteranno nella storia della pubblicistica italiana e anche nordcoreana. Non importa che se a farsi lo shampoo fuori dall'orario vigente fosse stato uno come La Russa le medesime gazzette intente a lodare la sua cotonatura borghese avrebbero sparato a pallettoni contro la casta arrogante, infingarda e profittatrice. Lasci stare, sono chiacchiere. Ma si impegni, egregio professore, a favorire la casta dei cittadini. La aiuti a liberalizzare gli orari dei negozi. Barba e capelli per tutti. Anche la domenica, anche il lunedì, anche dopo il tramonto. Mi faccia comprare l'insalata a mezzanotte e le lampadine a mezzogiorno. Mi lasci libero di spendere e gli altri di guadagnare. Grazie. (Camillo blog)