venerdì 24 maggio 2013

L'Italia che vale. Davide Giacalone

Dopo la giusta durezza delle parole usate ieri da Giorgio Squinzi, oggi è una giornata istruttiva, l’occasione per mostrare il volto vincente dell’Italia. La lezione si tiene a New York. Per la precisione a Coney Island. Sulle giostre di un parco divertimenti. In cattedra c’è un italiano che qui non troverebbe ascolto, perché non s’esibisce portando nella piazza televisiva la rappresentazione della miseria, non passa il tempo a raccontare che stiamo diventando tutti dei morti di fame, non alimenta i rancori sociali sostenendo che se non fossero mai nati gli uni si troverebbero meglio gli altri, non cincischia con la politica delle tifoserie, non s’atteggia a tecnico e non sta lì a menarla sulla “società civile”. Alberto Zamperla è un italiano che non fa audience. Lavora. Lavora bene e oggi porta alta la bandiera dell’Italia e del made in Italy. Anima “New York meets Venice” perché sa che il “prodotto Italia” va forte ed è molto apprezzato. Lo fa per convinzione, ma anche per convenienza: gli italiani che girano il mondo parlando male dell’Italia non sono solo degli sciocchi, sono prima di tutto degli incapaci di far affari.

A Coney Island i newyorkesi sono suoi ospiti, perché è lui che ha fatto il parco divertimenti. Le giostre. 20 milioni di visitatori nei primi 1000 giorni. Le strutture sono state fatte in Italia, ad Altavilla Vicentina, e trasferite con 1800 containers, allestendo il parco a tempo di record. Mi capitò di trovarmi a Suzhou, in Cina, fra Shanghai e Nanchino, dove c’è un parco divertimenti, presso il quale si teneva un incontro. Guardo le giostre e vedo il nome del realizzatore: Zamperla. L’ho incontrato una volta in vita mia, non ho alcun motivo per fargli pubblicità, ma questo italiano che non si piange addosso ha creato un protagonista globale del divertimento (sua anche gran parte di Eurodisney). Mica con spaghetti e mandolino, ma con tanta ricerca, tanta innovazione tecnologica, tanta meccanica sofisticata, oltre a tanta inventiva e fantasia. E quando si presenta al pubblico straniero, come oggi a New York, dice: sono uno dei numerosi piccoli e medi imprenditori italiani, capaci di stare nel mondo e di non restare indietro. Anzi, di stare avanti. E’ l’Italia che in anni difficilissimi ha fatto mangiare la polvere ai tedeschi, in quanto a crescita nei mercati extra-Ue. L’Italia che ancora ci consente di essere la seconda potenza industriale d’Europa, con una meccanica di altissimo livello. Quella che dimostra, come si legge nell’invito per la festa di oggi: “the tenacity of the Italian culture”. Ed è questa la ragione per cui dobbiamo essere grati a Zamperla, e ai tanti come lui: essi sanno che la loro operosità è la cultura italiana. Sono loro i protagonisti di un Rinascimento che non smette di rinascere. Sono la forza atomica dell’italianità.

Ci sono legioni di presunti politici e presunti finanzieri, c’è un’intera presunta classe dirigente, ivi compresi giornalisti e opinionisti vari, accompagnati da saccenti professori, che dovrebbero andare a lezione di giostre e di “Italian culture”. Per imparare quel che valiamo, quando non ci dimentichiamo di chi siamo e quando non siamo occupati a crogiolarci nella rappresentazione dei nostri guasti.

Qualcuno potrebbe concludere: prendete Zamperla e fatelo ministro, dategli il commercio estero, o l’innovazione (dove ancora perdura l’inoperatività di un’Agenzia che è divenuta presa in giro della digitalizzazione), mettetelo a guidare gli istituti che presiedono (si fa per dire) all’internazionalizzazione delle nostre aziende. Sbagliato: ciascuno deve fare quel che sa fare. Il guaio è che il mercato seleziona gli Zamperla, mentre la politica e lo Stato non sono più in grado di selezionare un accidente. Non conta il merito, non contano neanche i risultati, non conta l’esperienza, contano solo le appartenenze e gli opposti analfabetismi. Non conosco Zamperla quanto sarebbe necessario, ma non è affatto detto che sarebbe un buon governante. Ciò non di meno ho un suggerimento per Enrico Letta: si congratuli per la giornata di oggi e lo inviti al Consiglio dei ministri, in modo da ascoltare la voce di uno di quelli che sanno rendere grande l’Italia. Non si tratta di tributargli un onore, ma di avere l’onore di conoscere cos’è e cosa può l’Italia che lavora.

Pubblicato da Libero

giovedì 23 maggio 2013

I giudici vogliono silenziare "Panorama": carcere ai giornalisti. Alessandro Sallusti

Ci risiamo. Un altro giornalista, anzi altri due in un colpo solo, sono stati condannati al carcere per un presunto reato di diffamazione. La sentenza, di primo grado, è stata emessa ieri dal tribunale di Milano nei confronti del direttore di Panorama, Giorgio Mulè, e del giornalista Andrea Marcenaro. La colpa? Aver scritto (Marcenaro) e pubblicato (Mulè) un articolo nel quale si sosteneva la tesi che la Procura di Palermo è politicizzata. Così come nel caso che portò al mio arresto, i querelanti sono dei magistrati e i condannati giornalisti non allineati al pensiero unico sul ruolo delle Procure, di area centrodestra e di un giornale che fa capo a società della famiglia Berlusconi. Coincidenze? Non credo. Non è possibile che tra le migliaia di querele in corso, alcune delle quali sacrosante, solo quelle fatte da magistrati contro di noi vengano sanzionate da loro colleghi con l'arresto dei giornalisti coinvolti.

Nel merito non vedo dove sia la diffamazione e mi associo senza indugio alla tesi sostenuta da Panorama, al cui direttore va tutta la mia solidarietà. Siete politicizzati e la sentenza di ieri è l'ennesima prova. Basterebbe dire che un pezzo importante di quella Procura, Ingroia, era talmente politicizzato da fondare un partito e presentarsi alle elezioni. Non basta? E allora rileggiamo quello che ha dichiarato il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo: ho trovato una Procura divisa in due schieramenti di carattere ideologico, chi non era schierato doveva fare slalom tra le faide.

Quella di ieri non è una sentenza, ma una provocazione. A noi giornalisti (non tutti, c'è ovviamente chi si frega le mani), al presidente della Repubblica Napolitano che ridandomi d'imperio la libertà ha bollato come ingiustificate e abnormi le sentenze di arresto per reati d'opinione. Ed è uno sberleffo alla politica inaffidabile (compresa quella del Pdl) che per evitare altri casi come il mio aveva promesso di cambiare una legge assurda e illiberale ma che passato il pericolo, ovviamente, non ha fatto nulla, come nelle sue peggiori tradizioni. Ma sì, amici deputati e senatori liberali, che ci arrestino tutti, noi che ogni giorno ci esponiamo per difendere anche la vostra libertà di fare politica. Diamogliela vinta a quei galantuomini di pm e giudici che usano il loro potere per intimorire e imbavagliare. Basta poi che alle prossime elezioni non ci chiamate per avere l'intervista di rito. Perché non so Mulè, ma io la risposta l'ho pronta, ed è da querela. (il Giornale)

Quando Berlusconi non ci sarà più. Gianni Pardo

In Italia il contrasto fra destra e sinistra è tanto acre che Angelo Panebianco ha potuto parlare di “guerra civile fredda”. Da vent’anni questa guerra si combatte riguardo a Silvio Berlusconi ma le sue radici sono ben più profonde. Il Cavaliere è stato importante perché ha ripetutamente azzerato le speranze di vittoria della sinistra ed è normale che ognuno odi ciò che gli impedisce la realizzazione dei propri desideri. Ma, assente quell’uomo, la guerra civile finirà? Il pessimismo sembra più ragionevole della speranza.

Il contrasto fra destra e sinistra in Italia non è fra due programmi politici ma tra due visioni della realtà. Un po’ come avviene fra pigri e attivi, fra freddi e appassionati, fra giovani e vecchi. I gruppi rivali non riescono a capacitarsi dei gusti e delle idee della controparte e addirittura finiscono col considerarla imbecille o in mala fede. Il discrimine non è fra diverse concezioni politologiche ma tra accettazione della realtà e anelito ideale. I partigiani della sinistra sono i paladini del bene. Sono per l’uguaglianza, per la pace, per la conservazione dell’ambiente, per l’accoglienza degli stranieri, per il perdono di chi sbaglia, per la riduzione dell’orario di lavoro, per l’aumento della paga a chi ha retribuzioni inadeguate, per il soccorso ai malati, ai disoccupati, agli ultimi. La necessità di conseguire ad ogni costo questi risultati è tanto grande che ci si può disinteressare dei mezzi indispensabili per ottenerli. Chi rischia la vita nell’incendio non dà certo indicazioni tecniche: chiede soltanto di essere salvato. E del resto Marx ha detto: “Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

L’attenzione si è dunque spostata, per la sinistra, dal dovere al diritto, dal merito al bisogno, dalla punizione al premio. Ad esempio, per millenni si è accettato che la scuola fosse noiosa e faticosa e si è pure accettato che chi non imparava fosse un asino e andasse bocciato. Poi ci si è detti che, se la scuola fosse più interessante di un gioco, se il docente sapesse far appassionare gli alunni alla materia, questi non avrebbero più bisogno di studiare. Forse non chiamerebbero più l’apprendimento “studio” (che significa sforzo) ma divertimento. Insomma se un alunno non sa ed è bocciato, la colpa non è sua, ma dei suoi professori. I primi ad esserne convinti sono i genitori. E la scuola va come va.

Se metà della nazione ha questa mentalità, non può certo mettersi d’accordo con la metà che segue principi del tutto diversi: ognuno deve avere ciò che merita, nel bene come nel male; chi non studia deve essere bocciato; il problema non è la distribuzione della ricchezza ma la sua produzione; il denaro non cade dal cielo ed appartiene a chi l’ha guadagnato; “ogni volta che qualcuno ottiene un’utilità che non ha prodotto c’è qualcuno che non ottiene un’utilità che ha prodotto”. Il benestante può fare la carità ma è assurdo che lo si guardi come un ladro e lo si voglia depredare. Insomma lo Stato deve imporre poche tasse e lasciare che ognuno provveda a sé stesso. Può costringere i cittadini ad assicurarsi contro la responsabilità civile automobilistica e contro l’infermità e la vecchiaia, ma non deve occuparsi di tutto, con costi rovinosi e mantenendo un esercito di burocrati pressoché nullafacenti: gente per la quale, mentre lo stipendio è un diritto indefettibile, si può mandare un amico a timbrare il cartellino.

È chiaro che queste due metà della nazione non potranno mai scendere a patti. Dalla caduta del fascismo il Paese è stato in mano agli idealisti, i quali prima hanno tolto qualcosa a chi aveva per darla a chi non aveva (indipendentemente da meriti e demeriti), poi hanno scoperto che potevano dare senza togliere, cioè facendo debiti, e hanno fatto un buco corrispondente al 130% del pil. Infine Prodi ha “portato l’Italia in Europa”, e con l’euro da un lato essa non può contrarre nuovi debiti, dall’altro deve pagare circa settanta miliardi l’anno per interessi. E assolutamente non sa come uscire dalla recessione.

Forse bisognerebbe che una buona parte dei sognatori – tutta l’intellighenzia del Paese, i giornali, le università, la Chiesa, i sindacati, la Scuola – si convertisse alla mentalità prosaica dei bottegai. Orrore, avete detto dei berlusconiani? Meglio tenersi la recessione. E forse l’Apocalisse.
(LSBlog)

venerdì 10 maggio 2013

Ius sola. Davide Giacalone

Il problema è solo accessoriamente quello della cittadinanza, ma primariamente consiste nella regolazione dell’immigrazione. Il che comporta il contrasto della clandestinità. Quando si smetterà di parlare per frasi fatte e in latinorum, entrando nel merito delle questioni, molti si accorgeranno di star sostenendo il contrario di quel che credono di sostenere. Giusto per assaggio: il diritto di cittadinanza per nascita in loco (ius soli) non esiste e non può esistere in nessuna parte dell’Unione europea. Esiste negli Stati Uniti, dove, non a caso ma del tutto coerentemente, praticano la più dura politica contro l’immigrazione clandestina.

I romani praticavano quel principio come strumento imperiale, abili come furono ad espandersi e portare il diritto, come anche le strade e gli acquedotti. Il concetto era semplice: sei nato dentro i confini del mio impero, ergo sei soggetto alla mia autorità. Sembra una cosa brutta, ma per molti fu un’ottima cosa. In era successiva, dopo le guerre di religione, la cittadinanza per nascita comportò anche la fede per nascita. Tanto per restare al latino: cuius regio eius religio. Pace di Augusta, 1555. Sei nato qui, rispondi al tuo signore e professi la sua stessa religione. Non esattamente un tripudio di libertà, o il sol dell’avvenire. Nel mondo in cui viviamo, però, non si regolano diritti imperiali sulle popolazioni, ma flussi migratori dati dall’economia (ove fossero provocati da guerre o persecuzioni si chiamano in modo diverso, e quegli esseri umani sarebbero rifugiati, non immigrati).

Se nel nostro mondo adottassimo lo ius soli metteremmo in moto una tragedia inumana, con barconi colmi di gravide. Partorendo qui il nuovo cittadino lo si farebbe diventare titolare di un diritto di ricongiungimento, con i propri genitori e con i propri fratelli. Così, in un sol colpo, importiamo dai tre ai dieci disoccupati che hanno diritto a tutto, ma a spese degli altri. Non è questione che sia giusto o sbagliato, è semplicemente impossibile. Difatti, ripeto, non c’è un solo angolo d’Europa dove s’adotti tale dissennatezza.

Diverso, invece, è il caso di bambini nati da genitori non cittadini, ma regolarmente residenti in Italia. In questo caso, se in Italia rimangono, se il loro non è un felice evento di passaggio, è naturale che quel bimbo sia da considerarsi italiano. Cancellerei anche l’attesa della maggiore età e il giuramento, che può andar bene per chi diventa cittadino da adulto, non per chi lo è stato da lattante.

Quei bambini frequentano le stesse scuole dei nostri figli e parlano il loro stesso slang. Sono a tutti gli effetti uguali, nei diritti e nei doveri (ad esempio: se non vanno a scuola i loro genitori devono essere puniti). Un pargolo romano dai tratti orientali non puoi neanche immaginare di spedirlo, un giorno, nella provincia cinese da cui originano i suoi avi, perché di quel mondo non saprebbe nulla. Forse neanche la lingua. E’ romano. E’ italiano. Al diciottesimo anno, semmai, avrà la maturità e la consapevolezza per rifiutare, se lo desidera, tale opportunità: no, grazie, me ne torno in Moldavia, dove sono cittadino per diritto di sangue. Noi gli diciamo ciao e gli auguriamo buona fortuna.

Quando Cécile Kyenge è stata nominata ministro responsabile di immigrazione e integrazione ho storto la bocca: un immigrato-integrato a occuparsi degli altri nella stessa condizione, o aspiranti a quella, ha un che di razzistico. O corporativo. Le sue prime parole mi hanno indotto a grande simpatia: non sono “di colore”, sono “nera”, ha detto. Brava. Bravissima. In “Indovina chi viene a cena” la cuoca sbotta: “questa casa è piena di negri”. Fausto Leali cantava: pittore, dipingi un angelo negro. Un film e una canzone contro il razzismo. Poi quel vocabolo ha assunto significato opposto, ma sono malate certe idee, non le parole.

Di parole, però, ne ha poi dette tante, scontando l’inesperienza (cosa che la accomuna ad altri suoi colleghi). Quelle sullo ius soli erano fuori posto, ma alla fine utili. Adesso è chiaro il vero problema: regolare l’immigrazione, agevolare l’integrazione, favorire l’accesso di chi ci è utile (si deve anche scegliere), contrastare il mercato immondo dei barconi, rimpatriare chi viola la legge che regola l’ingresso, considerandolo reato, come anche la riduzione in schiavitù.

Pubblicato da Il Tempo

martedì 7 maggio 2013

L'immortale distrutto dai pm e ucciso dall'Italia dell'odio. Vittorio Sgarbi

L'inchiesta di Palermo per collusioni mafiose fu un processo politico mascherato. E i forcaioli non lo lasciano riposare in pace neppure nel giorno della scomparsa


Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente ieri, 6 maggio 2013; l'altra, moralmente e politicamente, vent'anni fa il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell'Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni.
 
Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l'Algeria.

Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l'ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell'Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell'occupazione francese.
La matrice della violenza era chiara. Dopo l'indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall'Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l'assassinio di Aldo Moro (ma già allora l'obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2.

Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l'interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall'accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante.
L'inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un'ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti.
Così, con perfetto coordinamento, l'azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell'Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent'anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell'odio.
Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale.

Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all'università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poterlo processare veramente, da magistrato.
La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Il processo allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare. Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni.
Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l'attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l'omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso. Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero.
Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall'80 al '92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata. Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia. ( il Giornale)


lunedì 6 maggio 2013

Spazzatura civile. Davide Giacalone

Mentre l’Italia, con Roma capitale anche in questo, affonda nella spazzatura e nelle discariche, in Svezia e Norvegia si trovano a fare i conti con un’emergenza rifiuti che da noi sarebbe considerata paradisiaca: ne hanno troppo pochi. Hanno commesso un errore, che se qualcuno lo avesse fatto anche dalle nostre parti meriterebbe un monumento: sono stati costruiti troppi impianti di termovalorizzazione. Il che crea loro un guaio serio, visto che da quegli impianti deriva l’energia elettrica e il riscaldamento per gran parte della popolazione. La drammatica e ridicola arretratezza italiana è il frutto sì di una classe dirigente e politica pietosa, ma anche di una popolazione con scarso senso della realtà, di un sistema dell’informazione drogato dall’idea che denunciare e maledire serva a vendere ed essere ascoltati, di una collettività (di cui, ovviamente, faccio parte) tendenzialmente idiota.

Dunque, si diceva della Norvegia e della Svezia, che ogni anno buttano nelle loro discariche il 2% dei rifiuti. Da noi si considera un gran successo se il 30-40% dei rifiuti riesce ad essere trasformato in combustibile. E la percentuale non si riferisce mica alla totalità dei rifiuti, come nei due paesi nordici, ma a quelli trattati.

Bruciando rifiuti, ricavandone calore e energia, i loro impianti salvaguardano l’ambiente, immettendo nell’atmosfera gas serra in misura largamente inferiore da quelli sprigionati da una discarica. A volere tacere di tutti gli altri avvelenamenti che da quelle derivano. Da noi, invece, se proponi di aprire impianti per il trattamento e la valorizzazione dei rifiuti ti trovi subito a fare i conti con qualche decina di comitati civici che gridano contro i veleni. E l’inquinamento, invece, non solo lo difendono, ma lo promuovono: la diossina derivante da discariche è infinitamente superiore a quella da combustione. I veleni delle discariche li mangi e li respiri, quelli della combustione li imprigioni nei filtri e li porti sotto il livello prodotto dalle nostre caldaie. Noi stiamo utilizzando il sistema più dispendioso, puzzolente e inquinante, ma lo facciamo in nome del non inquinamento e del blocco di ogni iniziativa economicamente sensata. Loro, in nome del buon guadagno, stanno vivendo con il sistema più redditizio, più profumato e meno inquinante. Vogliamo parlarne, ai tanti forsennati prezzolati dell’ecologismo medioevalistico e affaristico?

La Norvegia è un Paese produttore di petrolio, ma lo esporta, arricchendosi. Alla produzione d’energia provvede in parte significativa la spazzatura (oltre che l’idroelettrico). Nel rifornirsi di spazzatura, questi paesi non affrontano una spesa, ma un guadagno: 100-150 euro a tonnellata. Chi paga? I fessi che sanno solo buttarla nelle discariche e che se le ritrovano piene, fetenti e avvelenanti. Noi. Paga il contribuente italiano, che così riesce a diventare più povero e vivere in un ambiente più sporco. Ma è lo stesso contribuente poi pronto a opporsi agli impianti, anche perché sospinto da informazioni distorte (brava, invece, Elena Dusi, su Repubblica). E’ il contribuente che vuole l’acqua “bene pubblico” pensando così di opporsi ai profittatori privati, invece consegnandosi nelle mani delle municipalizzate politicizzate, inefficienti e tassatorie. E’ il contribuente pronto a credere a tutte le balle che gli raccontano, ma non disposto a vedere le balle di spazzatura che paghiamo per chiedere agli altri (anche tedeschi e olandesi) di sfruttarle e arricchirsene, dato che noi non ne siamo capaci.

Passiamo alle proposte: telecamere, giornalisti non anticipatamente deviati, gruppi politici e scolaresche vanno portati in gita a Oslo o a Roskild (Danimarca). Nel programma è prevista la colazione al sacco, nei prati antistanti quegli impianti. Poi si replica lo stesso viaggetto a Malagrotta, o da qualche altra parte deve noi buttiamo la nostra incapacità nelle buche. Quindi li si porta in televisione e si fa raccontare loro come stanno le cose. A quel punto s’istituisce una forza speciale per la protezione degli ecologisti difensori dell’inquinamento e della povertà, in modo da evitare ogni incivile degenerazione. Si crea l’autorità unica nazionale per la gestione rifiuti, si smette di credere e far credere che problemi grandi possano essere affrontati da politici piccoli, e si fanno partire gli investimenti per la nascita di un ciclo nazionale integrato per lo sfruttamento dei rifiuti. In cinque anni avremo trasformato un problema in un’opportunità e in dieci avremo ripulito lo stivale. Gli esperti in ecomofie, nel frattempo, si saranno dovuti trovare un altro settore nel quale specializzarsi. Ci vuole meno di quel che si crede, ma ci vuole il coraggio di farla finita con le cretinate.

Pubblicato da Il Tempo

sabato 4 maggio 2013

L'acchito europeo. Davide Giacalone

Le tre tappe europee di Enrico Letta hanno segnato un successo politico e anche una correzione programmatica. Si tratta solo dell’acchito, della prima palla sul biliardo, con la partita ancora tutta da giocarsi. Ma non va sottovalutato. Dalle dichiarazioni programmatiche Letta era partito con un richiamo alla maggiore integrazione europea, condita con la consueta retorica sul continente delle due guerre mondiali, e con un menù di provvedimenti di spesa. La prima cosa troppo generica e la seconda troppo costosa. All’ultima conferenza stampa, quella con Barroso, ha detto che ci si deve concentrare su poche cosa da farsi. Ma veramente. La posizione dell’Italia, inoltre, è ribaltata rispetto a quella impostata dal governo Monti. Ed è migliore.

La prima tappa, in Germania, è stata rituale e inconcludente. Il cancelliere federale ha ripetuto che l’Italia è sulla buona strada, facendo crescere la voglia di farle osservare che lei, invece, no. La stampa e la classe politica di Germania guardano all’Italia come a un Paese chiassoso e inaffidabile, che si presenta sempre con facce diverse. Sta di fatto, però, che il nostro deficit è sotto controllo da tre anni, mentre il loro no. Che il nostro debito pubblico è alto ma non ha poste occulte, mentre il loro contiene occultamenti. Che la disciplina bancaria imposta dalla Banca d’Italia è superiore a quella praticata dalla Bundesbank. Che noi prestiamo i soldi ai greci rimettendoci, mentre loro ci guadagnano e fanno credere d’essere generosi. Che noi abbiamo sacrificato molto all’integrazione dei mercati europei, mentre loro vogliono usare l’insufficiente integrazione monetaria per indebolire il nostro sistema industriale. Quando la finiremo con la sudditanza culturale e politica saranno i tedeschi a dovere dare dimostrazione d’affidabilità.

La seconda tappa, a Parigi, ha creato una sponda proprio per questo lavoro. I francesi sono nazionalisti e (legittimamente) pensano ai propri interessi, ma si rendono conto che non sono affatto tutelati in un’Europa germanocentrica. Si deve lavorare per portarli a sostenere la nascita di un vero sistema bancario europeo, che riconosca la centralità, anche vigilante, della Bce. Le dichiarazioni ufficiali, dopo gli incontri, non dicono nulla d’impressionante, ma il clima è quello buono. Francia e Italia possono essere utili l’una a l’altra.

La terza tappa, a Bruxelles, s’è anche questa conclusa con dichiarazioni rituali. Parzialmente equivoche: sì all’elasticità, ma con rigore dei conti. Che non vuol dire nulla. Ma è servita, spero, per chiarire che il problema non è solo la rigidità dei tedeschi, bensì anche l’errore politico ed economico di quel che esiste del cuore istituzionale Ue. Andando avanti così l’Unione si sfascia, perché non resisterebbe all’uscita di uno o l’altro dall’euro. E andando avanti così a quello s’arriva. Poi, certo, dalle parole ai fatti c’è ancora molto vuoto da colmare, ma forse è iniziata una pagina diversa. Consentita pure dal fatto che, finalmente, la lunga e straziante campagna elettorale tedesca volge al culmine (a proposito di classi dirigenti miopi ed egoiste, di politicanti attenti solo alla propria sorte).

Il fronte va ora allargato. L’Italia non deve essere la capofila dei disgraziati e degli indisciplinati, ma di quanti hanno già pagato più di altri. Non è il somaro inadempiente dei compiti a casa, ma il protagonista parigrado che ha sperimentato sulla propria pelle gli errori della politica europea. Ciò, naturalmente, non toglie che moltissimo deve essere fatto in casa nostra, recuperando immobilismi di lustri. In quanto al documento Ocse, è ovvio che a spesa pubblica immodificata non c’è spazio per i necessari sgravi fiscali. Ma, appunto, è proprio la ristrutturazione della spesa corrente che reclamiamo. Da questo, come dai passati governi.

E’ presto per dire che la missione di Letta è stata coronata da successo, ma non attardiamoci nel non vedere dove si gioca la partita vera. La partita è in corso, l’acchito è buono. E’ anche importante che fuori d’Italia si capisca che le nostre forze politiche e la nostra classe dirigente hanno capito.

giovedì 2 maggio 2013

Due illusioni. Davide Giacalone

In tanti si chiedono dove Enrico Letta troverà i soldi per dare quel che ha promesso. La risposta è: nella minore spesa per il debito pubblico, data dal calo dei tassi; nelle obbligazioni legate a un fondo pubblico patrimoniale; e nei maggiori margini rosicabili in sede europea. Il punto delicato è un altro: se non si taglia e ristruttura radicalmente la spesa pubblica corrente quei soldi (ammesso che ci siano) saranno buttati via. E di tagli non ha parlato. Questo fa paura, anche in considerazione del quadro europeo.

Sarà bene stamparsi nella testa la scena del Parlamento greco che vota un taglio di 15 mila posti nel pubblico impiego. Serva da monito per quanti alimentano due terribili equivoci, o l’idea che si possa tirare il fiato, magari assumere i precari, e attendere che la marea dei mercati rialzi le nostre barche. Nulla di più sbagliato: la marea ha continuato a crescere, se i nostri vascelli non galleggiano al livello più alto è perché nessuno ha riparato le falle e abbiamo imbarcato tanta acqua.

I due equivoci sono legati, paradossalmente, a due elementi positivi: a. gli spread (tutti, non solo il nostro) sono scesi; b. si allarga la consapevolezza che le politiche di austerity bilancistica non risolvono i problemi, e in qualche caso li aggravano. Vedo il pericolo che da questi elementi reali si deducano conseguenze irreali, costruendoci politiche inutili.

La discesa degli spread deriva dal successo degli strumenti messi in campo dalla Banca centrale europea. Che sono ancora messi in dubbio dai tedeschi. A parte ciò, pure rilevante, resta che non hanno alcuna utilità sul mercato reale. Pagare meno per il mantenimento del debito pubblico è una gran bella cosa, ma se persiste la differenza nella speranza e nel costo dell’accesso al credito il nostro sistema produttivo è comunque condannato a indebolirsi ulteriormente, fino a soccombere. Ho scritto che dopo le elezioni tedesche si aprirà una finestra positiva, ma ciò non significa che basta attendere, perché rischiamo d’arrivarci con le ginocchia piegate.

Noi continuiamo a non avere alcuna politica di abbattimento del debito e, come osservano quelli di Moody’s, che vedono nero nel nostro futuro, finché ce lo teniamo al 130%, per giunta crescente, anche a causa della discesa del prodotto interno lordo, non ci sono margini per serie politiche espansive. Siamo come il naufrago che ha trovato il salvagente Bce cui attaccarsi, ma che continua a essere mozzicato dagli squali. Difficile dire che si possa andare avanti così. Quindi ci servono due cose: 1. dismissioni di patrimonio per abbattere il debito e trovare risorse da destinare a investimenti pubblici e sgravi fiscali; 2. forza per aprire la strada a un vero sistema bancario europeo, che cancelli il nostro indebito svantaggio, come anche l’indebito vantaggio tedesco (a proposito, Deutche Bank ha varato un aumento di capitale pari a 2,8 miliardi, il che, pur essendo ancora poco, conferma quel che scrivevamo: ci son magagne, da quelle parti). La seconda cosa possiamo costruirla in un rapporto con i francesi, che hanno finalmente capito quanto li porti alla rovina legarsi al carro della Merkel.

Il governo socialista s’è rimangiato la politica di aggravi fiscali sulle imprese, mentre quella sui “ricchi” è solo fuffa propagandistica. Inoltre da quel partito fioccano quotidianamente prese di posizione contro la politica del governo tedesco e, su questa base, si preparano alla grande coalizione. I francesi, insomma, hanno sbagliato molto e a lungo, ma ora sono pronti a cambiare rotta. Approfittiamone.

Veniamo all’austerity: tagliando e tassando si accresce la recessione. Il fatto che se ne diffonda la consapevolezza è positivo. Ma se oggi l’Unione europea abbracciasse la dottrina opposta noi rischieremmo di vedere crescere lo svantaggio relativo (nel senso che ne avremmo conseguenze positive, ma meno di altri), perché la nostra spesa pubblica è per la quasi totalità corrente e improduttiva. Ciò significa che lo spazio da qui all’apertura della finestra non deve essere intestato all’attesa, ma all’operosa rimozione degli ostacoli interni, in gran parte legati alla difesa di rendite e protezioni. Solo rimuovendo questi macigni ci si mette nelle condizioni per approfittare delle opportunità.

Il centro destra danza attorno al totem dell’Imu (cantando frettolosamente vittoria). E’ una bandiera, ed è giusto che la casa degli italiani non sia la manna del fiscalismo satanico. Ma guai a credere che la faccenda si limiti all’Imu, che, sull’insieme del gettito, è robetta. E, del resto, esentando (ammesso che lo si faccia) la prima casa si lasciano soldi nelle tasche dei consumatori, ma continuando a tassare capannoni e impianti aziendali li si toglie dalle tasche dei produttori. Gli stessi che non trovano credito e i cui crediti nei confronti della pubblica amministrazione continuano a non essere onorati. Il sistema produttivo ha bisogno di ben altro. E ne ha bisogno in fretta.

Sarebbe sciocco chiedere subito tutto al governo appena insediato. Il problema, però, non è la pazienza del commentatore, bensì il tempo corto del sistema produttivo.

Pubblicato da Libero

mercoledì 1 maggio 2013

Se non è zuppa è pan bagnato. Aldo Reggiani

Riassunto delle puntate precedenti. Nel 2009 quando da poco erano partite le bordate di Repubblica al Cav sulla faccenda Noemi, Libero riportò una breve ma clamorosa dichiarazione del leghista Mario Borghezio, rilasciata durante il raduno di Pontida di quell’anno, che recitava: «Un mese prima della campagna elettorale si è riunita a porte chiuse la Trilateral Commission, una sorta di sinedrio internazionale di alto livello finanziario e di molta influenza, presenti, come ha segnalato la stampa francese, Romano Prodi e Mario Draghi. E’ un dato che questo governo non sia servo dei poteri forti. Mi domando se la regia di questa ben orchestrata campagna contro Berlusconi non sia di un livello ben più alto della redazione romana di Repubblica. Per queste persone, organizzare un attacco del genere è facile come per me organizzare una ronda».
 
Il 16 giugno 2009 Oscar Giannino, al quale avevo chiesto notizie su questa “Spectre” finanziaria della quale mai avevo prima sentito parlare, gentilmente mi rispose:
 
“Carissimo, è un forum globalista nato nel 1973. Fu Rockfeller insieme a Kissinger a farsene promotore, accomuna “classe dirigente” Usa, Ue e Giappone, soprattutto manager, accademici, banchieri, membri di autorità di regolazione, ex politici di nome internazionale. Le sue riunioni si attengono alla regola di Chatham House, dunque nessuno sa niente e zero stampa, di conseguenza la cosa alimenta miti e misteri di ogni genere. Ha avuto una grande importanza per far uscire gli Usa dal Vietnam tramite triangolazioni riservate fortemente volute dal grande capitale bancario che temeva una crisi di sostenibilità del debito Usa – infatti avemmo l’esplosione dell’inflazione prima e del petrolio poi – poi è stato un canale aperto tra est e Ovest negli anni di Reagan e Thatcher, quando il grande potere economico preferiva, come Andreotti, che non si disturbasse troppo l’Impero Rosso. Da allora, ha perso parecchio del suo smalto. Oggi, è uno dei luoghi in cui i grandi banchieri ai quali dobbiamo il bel capolavoro di questa crisi si leccano le ferite, dando la colpa ai politici che vogliono frenare la globalizzazione.
 
Sono circa 350 membri, da quel che so, e per l’Italia c’è gente come Enrico Letta, Alessandro Profumo, Mario Monti e un paio di altri prof della Bocconi… inutile che le dica che non c’è uno solo di centrodestra…. europeisti tecnocratici, il milieu di sempre di ipotesi terzaforziste elitarie sostenute da Paolo Mieli per 15 anni sino a ieri, da D’Alema oggi… il sogno di chi considera il suffragio universale un lusso di cui in Italia fare volentieri a meno, sostituendolo con il CSM e la benedizione di due direttori di giornale di centrosinistra: Repubblica e Corriere in questo sono assai più simili che diversi”.
 
Nel settembre 2011 Daniela Coli in Il vero conflitto d’interessi in Italia va cercato nei giornali, confermando la faccenda, informava dettagliatamente sulle gesta della sezione italiana della suddetta Lobby, documentando: “È comprensibile che Berlusconi sia stato visto dalla Lobby che decideva i destini dell’Italia come un contropotere e sia stato combattuto fin dall’inizio, incastrandolo col conflitto di interesse e col famoso avviso di garanzia pubblicato da Mieli sul Corriere, mentre il Cavaliere presiedeva il G8 a Napoli nel novembre ’94. Berlusconi tornò al governo nel 2001, perse nel 2006, rivinse le elezioni nel 2008, ma la Lobby di Repubblica, il Corriere e la Stampa si ostina a parlare di ventennio berlusconiano. È comprensibile che si sia tentato di fare fuori Berlusconi: per la prima volta in Italia è nato un contropotere deciso a fare funzionare la democrazia rappresentativa e a governare cinque anni, come in tutte le democrazie occidentali.
 
Per eliminare Berlusconi si è creato un nuovo ariete: i magistrati. Erano serviti per fare fuori con una campagna giudiziaria-mediatica i partiti della prima repubblica e i magistrati sono rimasti gli alleati più fedeli della Lobby, mai scalfita da un’indagine e alla quale sono sempre stati serviti su un vassoio di argento avvisi di garanzia e intercettazioni, quando fa comodo agli interessi della Ditta. (…) Per questo, non solo Berlusconi, ma anche il centrodestra va abbattuto, la sinistra basta un tozzo di pane per tenerla al guinzaglio.”
 
Stiamo oggi soffrendo per i disastrosi misfatti operati da un Governo impostoci da un’Europa dei Banchieri - Il passo indietro di Berlusconi? Costretto da un ricatto - con un Mario Monti, un mondialista alla guida dell’Italia .
 
Un Monti peraltro invocato fin dalla primavera-estate del 2011 come “l’uomo della Provvidenza” dalla cattocomunista Bindi, dal post comunista D’Alema (quello indicato da Giannino come Quinta Colonna della Lobby; quello che pur voleva vedere il Berlusca chieder l’elemosina; quello peraltro dimostratosi un vivace imprenditore nel campo del gioco d’azzardo, come puntualmente documentato da Francesco Agnoli in La privatizzazione dellIri negli anni Novanta e le sale bingo di D’Alema ) e da tutta l’Armata Brancaleone del Pd.
 
Tant’è che il povero smacchiatore di giaguari fallito, che fino a pochi giorni fa dichiarava davanti ad una folla oceanica di trecento persone a Corviale, che a lui e agli elettori del Pd, il Berlusca e “la” PdL ”zi fanno schifo”, all’inizio della scorsa campagna elettorale, ad un cronista televisivo che gli chiedeva se in caso di pareggio avrebbe fatto un governo di coalizione col Cav, rispondeva irridendo che mai sarebbe accaduto, visto che il Pd aveva fatto di tutto per cacciare il Berlusca a far arrivare il Monti.
 
(Bisogna dire, a suo onore, che ha fatto di tutto, pur paralizzando l’Italia, per mantenere la promessa)
 
Ragion per cui chi oggi si ritrova con quel tenero buchetto che sta in mezzo alle chiappe molto dolorante, causa il Monti, è pregato di andare dalla Bindi, dal Gargamella, dal Baffino e dagli altri della direzione del Pd, Francechini compreso, a farsi somministrare gli opportuni impacchi curativi a suon di fresche mazzette di euro.
 
Partito Democratico, Sede nazionale – Via Sant’Andrea delle Fratte, 16 – 00187 Roma.
 
Mi raccomando, però: prima di calarsi i pantaloni per la bisogna, per sicurezza prendano in mano il portafoglio, come fanno quelli che vanno a puttane. Con certa gente non si sa mai.
 
Ma la favola metropolitana ancora in auge, è che le cure del Monti erano necessarie per “sanare i conti”.
 
Si, ma i conti delle Banche, soprattutto estere.
 
Questa vergognosa verità l’ha svelata senza perifrasi Magdi Cristiano Allam in L’ombra della dittatura informatica, pubblicato dal Giornale il 4 marzo 2013, in cui rivela: “Così come il comunismo ideologico faceva paura non perché difendesse i diritti dei lavoratori ma perché prospettava la dittatura del proletariato e la morte del capitalismo, il mondo contemporaneo deve fronteggiare due nuove minacce che attentano alla nostra civiltà: la dittatura finanziaria e la dittatura informatica che, in Italia, s’incarnano rispettivamente in Mario Monti e in Beppe Grillo (espressione mediatica e politica del pensiero di Gianroberto Casaleggio, co-fondatore del Movimento 5 Stelle).
 
La presenza di Monti ai vertici di Goldman Sachs, Moody’s, Gruppo Bilderberg, Commissione Trilaterale e Centro studi Bruegel attesta senza ombra di dubbio la sua identità di uomo dei poteri finanziari forti che hanno creato il cancro dei titoli tossici e che controllano i governi e le banche. Monti, nonostante la più alta imposizione fiscale al mondo ha fatto salire il debito pubblico e fatto calare il Pil, sta condannando a morte le imprese, sta riducendo gli italiani in povertà e sta negando ai giovani certezza nel presente e speranza nel futuro.
 
Non accade perché Monti è un incompetente ma perché sta attuando rigorosamente la missione: salvare le banche e riciclare i titoli tossici, in una dittatura finanziaria in cui la persona viene ridotta a semplice strumento di produzione e consumo della materialità.”
 
Confermando, ce ne fosse bisogno, ciò che nel novembre del 2011 anticipava Giuliano Ferrara in Fondamentali buoni, il resto merda , laddove inizia: “Giusto ieri un banchiere mi raccontava per filo e per segno come hanno fatto francesi e tedeschi a trasferire sul groppone del sistema bancario italiano il peso, insostenibile per le loro banche, del debito greco insolvente. Il G20 ha seguito. Con quella specie di amministrazione controllata che non ferisce l’orgoglio, peraltro scarseggiante, ma dà una indicazione che il paese si appresta a seguire con una probabile mascherata, malgrado un capo dello Stato indisponibile alle manovre di Palazzo troppo spinte. Giochi di alta finanza, un gioco da ragazzi. Siamo un paese solidissimo, ma ci siamo privati di un dettaglio: la guida politica.”
 
Abbiamo tirato un respiro di sollievo quando è stato silurato un altro bel tomo, indicato per la Presidenza della Repubblica, anche lui iscritto a Trilateral, Bilderberg e Senior Partner di Goldman Sachs – sono tutte diverse sezioni dello stesso Club – che ha pur svenduto mezza Italia, come documentavo in CDB for President , che l’incarico di formare un Governo è stato in questi giorni affidato ad un altro adepto delle stesse “Cupole”, quelle in cui, come svelava Giannino, prendono il the delle cinque coloro che questa terrificante crisi hanno provocato: Enrico Letta.
 
Parafrasando il convulso Grillo “siamo circondati”.
 
Se non è zuppa, è pan bagnato.
 
Chapeau, comunque, alle serpigne strategie dei servi della Lobby.
 
L’unica speranza sta nel fatto che questa volta c’è di mezzo il Cav, quello che la Lobby anche italiana di Trilateral, Bilderberg e Sinistra vorrebbe, come informa la Coli, se non vedere morto, almeno al gabbio.
 
Vediamo che cosa riuscirà ad ottenere e/o quali ulteriori misfatti riuscirà ad evitare.
 
Speriamo tenga duro.
 
Nel frattempo Mario Draghi, storico compagno di merende del Prodi, del Monti, del Letta, eccetera eccetera, quello, per intenderci, de Lo strano caso di Mister Drake , a conferma che in questa Europa Carolingia vi sono figli di un Dio maggiore e figli di un Dio minore, ha praticamente concesso alla Francia di stampar moneta per coprire le enormi voragini delle sue Banche.
 
 
E ora non ditemi che non siete felici. ( the Front Page)