venerdì 29 novembre 2013

"La politica si pentirà di essersi arresa alla magistratura"
Marina Berlusconi

Non è democrazia, bellezza! Fabio Raja


Se dovessi scegliere una immagine simbolo della sciagurata giornata in cui è stata decisa la decadenza di Silvio Berlusconi opterei senz’altro per quella di quei Senatori a vita, di fresca nomina e avarissima o nulla partecipazione ai lavori di Palazzo Madama, che si sono presentati in forze ed in pompa magna per dare il loro nobile contributo e assistere, sospettiamo con un certo compiacimento, alla sua espulsione dal Parlamento della Repubblica.

Scienziati ed artisti di chiari meriti nei rispettivi campi professionali ma che siedono sugli scranni del Senato, e vi siederanno per molti anni ancora sinché avranno vita, senza aver mai ricevuto un solo voto dagli elettori hanno scelto di cacciare dalle Istituzioni l’uomo designato dagli elettori per due decenni alla guida dell’Esecutivo o dell’opposizione Parlamentare.

Ora che il Cavaliere è fuori dalle istituzioni coloro che lo hanno ferocemente avversato per quattro lustri potrebbero avere tutte le ragioni per rallegrarsene e festeggiare l’evento. Invece, tranne qualche sparuto gruppo di minus habens, si constata un certo imbarazzato silenzio dalle parti della sinistra.

Escluso che sia per pudore, sospetto che ne siano geneticamente sprovvisti, non resta che supporre che, seppur senza averne ancora piena consapevolezza, comincino a comprendere che quel voto non è stato per niente un successo, ma al contrario ha messo il definitivo sigillo sull’incapacità della sinistra a guadagnarsi per via democratica il governo del paese.

Ormai è documentato, e l’attestato lo ha rilasciato il Senato con il voto di ieri, la sinistra per piegare Berlusconi è dovuta ricorrere a mezzi che con la conquista del consenso popolare niente hanno a che vedere.

Certo, potrebbe apparire strano che io faccia questa affermazione nel momento in cui la sinistra ha praticamente tutte le cariche più importanti delle istituzioni, dalla Presidenza della Repubblica a quella delle due Camere e del Consiglio dei Ministri.

Ma proprio questa occupazione, “manu militari”, dimostra inequivocabilmente la mia tesi giacché nelle elezioni politiche svolte negli ultimi cinque anni, in quelle del 2008 il centrodestra ottenne una schiacciante vittoria e nelle più recenti la coalizione PD-SEL ha prevalso per soli 14.000 voti.

Da ieri nessuno potrà più battere politicamente Berlusconi perché già sconfitto, ma con armi aliene alla politica e alla regolare competizione democratica.

Non escludo che qualcuno tra i più intelligenti esponenti del PD avesse capito il disastro verso cui il partito si stava avviando. E aveva provato anche a lanciare qualche timido avvertimento subito zittito e perfino aggredito fisicamente.

Così il Partito di Epifani, cioè di nessuno, invece di attendere signorilmente l’interdizione che ineluttabilmente scatterà tra pochi giorni producendo più o meno gli stessi effetti della decadenza, ma lasciando la sinistra con le mani pulite, ha preferito diversamente.

E se lo ha fatto è per due motivi: il primo per non lasciarsi superare quanto a giustizialismo dal M5S, il secondo perché qualcuno dei tre contendenti alla segreteria del PD avrebbe potuto usare l’argomento dell’applicazione della legge Severino per lucrare qualche vantaggio sugli altri.

Un partito culturalmente succube al Grillismo e ormai prossimo alla spaccatura. Peggio di così...

(LSBlog)

 

(S)Banca d'Italia. Davide Giacalone


Si voleva la fantasia, ma al potere è arrivata la follia. E’ impressionante il modo in cui è passata l’idea, enunciata dal ministro dell’economia, di far della Banca d’Italia una public company. Sia chiaro a tutti: questo non è un tema economico, un trastullo per cultori, questa è la carne viva di quel che resta della sovranità nazionale. A dar retta a Saccomanni, che va fermato, a star dietro a quel che il Consiglio dei ministri ha deciso (nel mentre giornali e italiani si distraevano con i ludi della decadenza), potremmo presto essere il solo Paese al mondo la cui banca centrale è posseduta da stranieri. Procediamo per gradi e cerchiamo di capirci.

L’autonomia delle banche centrali era già nel costume delle economie di mercato. Per gli europei tale principio è scolpito del trattato istitutivo e nello statuto del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc). La condizione di quasi tutte le banche centrali è d’essere possedute, direttamente o indirettamente, dallo Stato. Il solo proprietario che può garantire totale indipendenza. Ci sono, in Europa, due eccezioni: la banca centrale belga, quotata in Borsa, ma posseduta al 50% dallo Stato, e quella greca. Sulla seconda non vale spendere parole. Fuori d’Europa è quotata solo la banca centrale giapponese, ma posseduta dallo Stato al 55%. Era dello Stato anche la Banca d’Italia, le cui quote erano allocate presso banche a loro volta di proprietà o sotto il controllo pubblico. Il guaio, come osservò Enrico Cuccia, si creò quando si privatizzò il sistema bancario, talché il proprietario (divenuto privato) era controllato dal posseduto. Guaio che crebbe con le fusioni e le acquisizioni, al punto che, oggi, Intesa Sanpaolo possiede il 42,2% e Unicredit il 22,1 di Bd’I. Possesso teorico, però, perché leggi e statuto tutelano l’autonomia della banca centrale. Fermiamoci qui per gli assetti e guardiamo la sostanza economica, in modo da capire l’enormità della follia di Saccomanni.

Fu Camillo Benso, conte di Cavour, a volere una banca emittente sabauda, allora posseduta da privati. Nel 1936, con la legge bancaria, quelle quote furono assegnate alle banche pubbliche, per un valore di 300 milioni di lire (156mila euro). Da allora il valore nominale non è mai cambiato, dato anche che quelle quote non potevano essere negoziate. Perché si parla di rivalutazione, e perché governo e banche concordano nel farla? Perché aumentando il valore di quelle quote si aumenta il patrimonio delle banche che le possiedono, rendendole più solide e, al tempo stesso, si assegna un dividendo fiscale allo Stato. Pari a circa un miliardo. Qualcuno ha già rivalutato le quote per i fatti propri, come ha bene ricordato il prof. Tito Boeri, tanto che Banca Carige le ha fatte crescere del 180.000%. Si aggiunga che, per coprire il mancato gettito della seconda rata Imu il governo chiede alle banche un anticipo del 130% su Ires e Irap, alzando anche l’aliquota sugli utili, dal 27,5 al 36%. Hanno pensato: diamo qualche cosa in cambio. Ora, a parte il fatto che le banche stramazzano prima del cambio, l’oggetto consegnato, le quote Bd’I, è da matti. Torniamo all’assetto proprietario.

Dunque: facciamo della banca centrale una public company. Ma lo sanno, cosa vuol dire? Sono società quotate ad azionariato diffuso, talché non dipendano dalla proprietà, ma dal mercato. Uno dei difetti di tali società, amministrate da gente che, per conservare il posto, devono portare valore agli azionisti, è di avere la vista corta e concentrarsi sul breve periodo. Ha senso, inoltre, solo se le azioni sono negoziabili, il che comporta un valore mobile. Tutto all’esatto contrario di una banca centrale. E non basta: il governo ha fissato al 5% il limite massimo di azioni che ciascuno può possedere, con il prode ministro dell’economia che aggiunge di lasciare “la porta aperta a investitori europei”. Le quote, difatti, il cielo solo sa come distribuite, potranno essere acquistate da banche e compagnie d’assicurazione Ue. Vuol dire che dieci banche e compagnie tedesche possono comprarsi la Banca d’Italia! Si dirà: ma non possono governarla. Ricoverateli, perché gli azionisti avranno un dividendo derivante dal signoraggio (previsto dall’articolo 32.1 dello statuto Sebc), nonché dai guadagni fatti con il mercato dei cambi. Il tutto senza contare che l’oro nei forzieri diventa proprietà degli azionisti e non più bene collettivo. Ma a chi cavolo sono venute in mente queste cose?

Per porre rimedio, un giorno, presto, si dovrà procedere al riacquisto delle quote, con il risultato che per 1 miliardo di gettito fiscale oggi si dovrà domani spenderne 50 per riprendersi quel che si rivalutò. In un casotto fra bisogni di cassa e operazioni patrimoniali. Fatemi vedere anche questa e sarò pronto a credere non che gli asini volano, ma che governano.

Pubblicato da Libero

giovedì 28 novembre 2013

Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei. Riccardo Pelliccetti


Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato martedì a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona.
I
l 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime.

Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino.

La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: “no”», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro.

«C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia.

«Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti.

«Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti». Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani.

(il Giornale)

Svantaggio istituzionale. Davide Giacalone


Lo svantaggio competitivo dell’Italia è politico e istituzionale. E’ lì che l’altra Italia, produttiva e meritocratica, viene colpita alle ginocchia. Per rendersene conto basta ripercorrere la giornata di ieri (27 novembre), osservando quel che è successo in Germania e quel che s’è visto da noi. I tedeschi riprendono la rincorsa, dando vita a un governo di coalizione il cui programma è stato negoziato per due mesi, fino a prendere forma in 185 pagine d’impegni precisi. Governo che non nasce subito, perché prima è necessario che i socialdemocratici (Spd) consultino i loro 475mila iscritti (non i passanti, non i cammellati, ma gli iscritti, perché in Germania esistono quei cosi che noi abbiamo distrutto: i partiti). Entro il 14 dicembre si saprà se la base approva quel che hanno deciso i vertici. Dopo quel giorno non si apriranno crisi per isteria o mal di pancia, ma solo nel caso gli alleati vengano meno agli impegni presi. I leader dei due partiti fanno a gara nel magnificare la bellezza e la positività del programma concordato. Nasce, quindi, un governo forte.

Per conoscere i veri contenuti egli accordi c’è bisogno di tempo, anche perché le pagine non sono poche e scritte in tedesco. Ma quel che è stato comunicato e riassunto è già significativo. Prendete il caso del salario minimo, fissato a 8,5 euro per ora lavorata: era previsto che fosse fra i punti irrinunciabili, per i socialdemocratici, e anche i cristianodemocratici (Cdu e Csu) concordavano, ma ora sappiamo che quel limite minimo sarà valido solo dal 2015, rimanendo derogabile, caso per caso, fabbrica per fabbrica, ove concordino le parti sociali, fino al 2017. Traduzione: nel 2014 la Germania non rinuncerà a un capello della propria competitività e non farà crescere di un tallero la domanda interna. Se fossimo tedeschi argomenteremmo sul perché siamo favorevoli o contrari, non avendo quella cittadinanza osserviamo che questa è politica di potenza.

Nello stesso giorno, anzi, per la precisione, nella stessa notte passa, in Italia, passa un maxiemendamento alla legge di stabilità, sul quale si sfarina la maggioranza, che cambia natura politica, e nel quale è contenuto quello che viene chiamata “salario minimo”, ma che altro non è se non il rifinanziamento della “social card”, naturalmente con effetto immediato. Traduzione: presa in giro, giochino nominalistico e soldi spesi per fare la carità, senza alcuna finalità produttiva.

In Germania la Spd aveva messo nel proprio programma elettorale la creazione degli eurobond, in modo da fermare la visibile crisi del mercato interno europeo e la preoccupante divaricazione fra i paesi che compongono l’Unione. Negli annunci relativi al prossimo governo non ve n’è traccia. Ma c’è una cosa significativa, sebbene piccola: pensano di far pagare le autostrade agli stranieri, ma non ai tedeschi. Dicono che tale misura sarà effettiva solo se ci sarà il consenso dell’Ue, ma già di per sé la dice lunga su quanto si sentano (e ci sentano) cittadini d’Europa. E, del resto, nessuno ha voluto minimamente mitigare la ruvidezza con cui Angela Merkel aveva mandato a spigolare i timidissimi (e ipotetici) rilievi della Commissione.

Da noi si fa la legge di bilancio per obbedire all’Ue. Senza che il governo sia capace di far valere i nostri (molti) punti di forza. Ed è esattamente questo il centro del problema: non è affatto vero che la Germania sia esemplare in positivo e noi in negativo; non è vero che loro sono solo virtuosi e noi solo viziosi; le nostre banche sono patrimonialmente più solide delle loro e i nostri esportatori più tenaci e capaci dei loro; ma, per la miseria, loro esprimono un governo forte, capace di anteporre a tutto gli interessi nazionali, fin troppo, mentre noi diamo forma a governini cincischianti, vocati a subordinare tutto al desiderio di permanenza di quanti lo compongono. Da loro lo scontro elettorale è stato durissimo e il negoziato condotto con il coltello fra i denti, ma ora che tutto è finito nasce un governo in grado di governare. Da noi gli scontri sono pirotecnici, non poche bestioline giungono anche alle mani, poi ci si accorda fra ex avversari, si cambiano casacche, si fondano partiti che non sono mai stati sulle schede elettorali, si saltabecca da un fronte all’altro e il gioco non finisce mai, sicché si formano governi che governano a malapena sé stessi. No sta scritto in nessun destino che noi si debba scivolare indietro, ma guardate la giornata di ieri e avrete chiaro il perché sta avvenendo. La nostra debolezza è tutta politica e istituzionale.

Pubblicato da Libero

Il miglior perdono è la vendetta, i conti si faranno alle elezioni. Vittorio Feltri

 Votata la decadenza, ma non finisce qui. I cittadini sono arcistufi di questo linciaggio. Al momento del voto non dimenticheranno quanto di sporco è accaduto


Ero convinto di conoscere a fondo Silvio Berlusconi, essendomi occupato di lui fin dal 1973, quando stava per ultimare Milano 2. Invece mi accorgo, con grande sorpresa, di non conoscerlo neanche superficialmente. Lo osservo da lontano e ogni giorno egli mi stupisce per come vive l'epilogo della sua avventura (meglio dire disavventura) parlamentare.
Non so dove trovi la forza per sopportare ciò che non è esagerato definire martirio, se si considera il modo in cui i suoi avversari, tra i quali numerosi ex amici (cortigiani, beneficiati), lavorano per eliminarlo: sembra che godano a stringere lentamente - molto lentamente - la vite della garrota.

Non si accontentano di farlo fuori; pretendono di trasformare - e ci riescono - l'esecuzione in uno spettacolo dell'orrore. Altro che macchina del fango. Quello che usano contro di lui è un imponente strumento di tortura affidato a un esercito di sadici, ciascuno dei quali svolge il suo compitino per rendere più macabro il linciaggio-show: comici, satirici, editorialisti di pronto intervento, politici di risulta, tifosi di alcune Procure, toghe svolazzanti, pidocchi, conduttori televisivi a scartamento ridotto con codazzo di ospiti a gettone.

Mentre il Cavaliere si batte e si dibatte per non soccombere gratis, si odono nell'arena risate, insulti da trivio, frasi d'incitamento dirette ai picadores affinché sfianchino la vittima sanguinante. Già. Vittima. Come si potrebbe diversamente definire un uomo che da venti-anni-venti viene scazzottato nei tribunali, poi condannato, poi costretto ad ascoltare il tintinnio delle manette, a leggere articoli che raccontano di magistrati intenti a predisporre il suo arresto, obbligato a schivare una pioggia di sputi? Nonostante tutto, il vecchio imprenditore e leader politico ha ancora parecchi aficionados decisi a sostenerlo a ogni costo, ma il loro sostegno (benché appassionato) e i loro applausi non possono soffocare il frastuono provocato dai detrattori animati da odio feroce.

In effetti si è sempre notato che mille esagitati progressisti fanno più baccano di diecimila borghesucci casa e chiesa, buoni tutt'al più a sfilare in processione e a salmodiare: gridare, ribaltare automobili, fracassare vetrine non è la loro specialità. Tutte cose ben note a Berlusconi che periodicamente medita di puntare sulla piazza per dimostrare quanto sia vitale il proprio popolo, ma quasi sempre vi rinuncia. L'ultima manifestazione degna di questo nome avvenne nel 2009 a Milano in piazza Duomo e chiunque ricorda quell'oggetto scagliato in faccia all'allora premier, subito ricoverato all'ospedale San Raffaele mentre l'orda antiberlusconiana scuoteva la testa delusa dal suo mancato decesso.

Questo è il clima che ha accompagnato Silvio dalla sua «discesa in campo» (espressione logora e addirittura fastidiosa) a ieri sera: nessuno sarebbe stato in grado di non cedere alla tentazione di mollare tutto e ritirarsi in luoghi più ospitali del cosiddetto Bel Paese. Lui, viceversa, è rimasto lì imperterrito a ricevere schiaffoni su schiaffoni, aiutato dalla propria presunzione (sconfinata quanto l'intraprendenza di cui occorre dargli atto). C'è da chiedersi chi gliel'abbia fatto fare. È la domanda che mi rivolgono ossessivamente lettori, passanti, avventori di bar, commensali, amici. Difficile dare una risposta soddisfacente.

Un signore straricco e famoso, protagonista dell'imprenditoria, proprietario di ville e palazzi, presidente di una società di calcio che a livello internazionale s'è aggiudicata qualsiasi trofeo, non ha bisogno della politica per sentirsi qualcuno e dare un senso all'esistenza. Non vi è un solo italiano, nemmeno quelli che lo detestano e si augurano di vederlo inchiodato alla croce, che non nutra almeno una puntina d'invidia nei suoi confronti. Un sentimento, questo, tra i più stupidi in assoluto (è solo causa di sofferenza) e che però sembra essere il motore del mondo.

Per negare a Berlusconi ogni virtù, si esaltano i suoi difetti, di cui non è certo sprovvisto. Infastidiscono il suo eccessivo ottimismo, l'inclinazione a scherzare, la propensione a sfoggiare un repertorio inesauribile di barzellette, l'ostentazione della ricchezza e delle capacità di seduttore (non solamente di donne). Ingigantendo questi aspetti negativi, fatalmente si trascurano quelli positivi che sono sovrastanti: talento speciale per gli affari, fiuto commerciale straordinario, temperamento d'acciaio, intuito sopraffino, abilità organizzativa.

Il Cavaliere è stato un fenomeno nell'edilizia, s'è inventato la tivù privata sbaragliando la Rai e altri concorrenti senza risparmiare loro badilate sui denti. In politica ha compiuto un capolavoro: in tre mesi ha messo in piedi un partito che ha stritolato i comunisti quando ancora erano comunistissimi. E di ciò non gli saremo mai abbastanza grati. I suoi denigratori affermano che egli sia portato a contornarsi di servi e di imbecilli. Fosse vero non sarebbe arrivato tanto in alto, posto che una persona da sola non può scalare l'Everest; fosse falso, tuttavia, non si spiegherebbe il ruzzolone che lo ha fatto precipitare dove adesso sta, nei paraggi della galera. Un bel dilemma. Forse la verità è nel mezzo: anche lui, per quanto dotato d'intelligenza manovriera, ha commesso degli errori che offuscano le mirabili opere realizzate in anni e anni di duro lavoro.

Ora paga un dazio sproporzionato alle sue eventuali colpe, tutte da dimostrare. L'unica certezza è la seguente: il Cavaliere ha rotto le uova nel paniere ai partiti superstiti della Prima Repubblica, impedendo loro di conquistare stabilmente il potere. Questo non glielo hanno mai perdonato. La guerra contro l'intruso scoppiò subito dopo il successo elettorale di Forza Italia, nel marzo 1994. La sinistra cercò immediatamente di delegittimarlo col conflitto di interessi (ancora irrisolto), poi lo irrise, quindi lo trasformò in bersaglio fisso. Quello che egli ha subìto è stato un bombardamento cui non si può dire non abbiano partecipato vari Pm. È stata la ricerca disperata di un motivo per eliminare il politico improvvisato, e baciato dal successo, che prima o poi non poteva portare ad altro risultato se non a quello di ieri: l'espulsione del Nemico al termine di un rito disgustosamente ammantato di legalità formale.

Anche chi ha ragione, ha sempre qualche torto nel sacco: ecco, si è tenuto conto soltanto del torto, sorvolando sulle esigenze della giustizia sostanziale. Siamo allo scempio. Alla vergogna di un Paese che, unico nell'Occidente, fa secco il capo dell'opposizione azionando la leva giudiziaria - in puro stile sovietico - anziché tentare di superarlo nelle urne. Ma la partita non finisce qui. Ci avviamo verso i tempi supplementari che garantiscono nuove polemiche e altri colpi di scena. Dal male e dalle iniquità nasceranno altro male e altre iniquità.

Berlusconi non è un fantasma, ma un uomo in carne e ossa, non ancora domo, e la sua presenza peserà nei prossimi mesi sui destini italiani. I cittadini sono arcistufi di questo osceno tormentone; quando si tratterà di votare, non dimenticheranno quanto di sporco è accaduto e metteranno in pratica un proverbio riveduto e corretto: il miglior perdono è la vendetta. Un Berlusconi martire e liquidato come un criminale minaccia di diventare assai pericoloso per la sinistra, fornendo a Forza Italia il carburante di consensi per trionfare alle elezioni.

Non s'illudano gli aguzzini - e i loro mandanti - di farla franca. Uccidere un nemico che ha tanti amici significa rischiare il peggio: di inasprire la battaglia e magari perderla.

PS: Questo articolo non è un coccodrillo, ma il preambolo di una nuova vicenda che avrà quale protagonista ancora Berlusconi. Il quale, se lo chiudessero in prigione, farebbe la campagna elettorale più travolgente della sua carriera.

(il Giornale)

 

mercoledì 27 novembre 2013

Non facciamo i distratti di fronte alla Storia. Marcello Veneziani


La Storia si poserà come uno sparviero oggi sul Parlamento e sul nostro Paese. Fisserà col fermo immagine la scena e la porterà via con sé, insieme al protagonista. Una minaccia a lungo aleggiante sui cieli della politica, della giustizia e del nostro Paese, oggi planerà in aula e diventerà realtà. Un'epoca, un ciclo, una saga si concluderà dopo un prolisso, feroce, grottesco preambolo. Resterà negli annali questo mercoledì 27 novembre come il giorno in cui si chiuse in senso carcerario un'epoca: per la prima volta nella storia della nostra Repubblica un leader politico e un ex premier assai popolare sarà dichiarato decaduto e finirà in carcere o succedanei più o meno pietosi.

La Storia oggi si posa sulle spalle d'Italia, ma il Paese non se ne accorge, è distratto, e non felicemente distratto ma angosciato da una brutta crisi senza sbocchi. Un Paese estenuato, stanco di questo interminabile teatro, una commedia che vira al noir e forse al dramma, dopo lunghi e tempestosi preliminari. Vent'anni fa il popolo italiano vedeva finire una Repubblica, decadere un ceto politico, ma nutriva qualche fiducia che saremmo passati da una storia all'altra, ci sarebbe stato un futuro. Stavolta no, non intravede forze nuove e protagonisti futuri, nemmeno tra i magistrati, come invece accadde al tempo di Mani Pulite. Finisce l'esame di storia, ci resta solo quello di economia. La Storia ci passa sopra e accanto; e noi, spompati e sfiduciati, voltiamo la testa altrove. A casa ci aspettano le partite, la cena e la Iuc, ossia feste, farina e forca.

Forse neanche lui, Silvio Berlusconi, è del tutto consapevole della portata storica di questa giornata, è ancora troppo preso nella guerra, combatte, si difende, si appella, reagisce, si agita. È ancora troppo nella parte per riuscire a osservare la scena fuori dall'affanno del momento. Dal canto suo il Parlamento esegue con sordido fatalismo un percorso coatto, lo espleta come una pratica d'ufficio, doverosa e grigia, perché così è scritto nei cieli delle procure. Qualunque sia il giudizio su Berlusconi - giudizio politico, storico e umano - un fatto è certo: lui, che è l'unico a uscire di scena questa sera, sarà pure l'unico a restare tra i presenti nella Storia. Dico Storia a prescindere se sia poi considerata gloriosa o infame, tragedia o farsa, evento politico o giudiziario. Ma Storia.

Agli altri, alleati e nemici, sostenitori, mediatori e antagonisti, si addice l'oblio. Poco o nulla resterà di tutti gli altri, dal Capo dello Stato al Capo del governo, ai capi dei partiti e ai magistrati. Si ricorderà a stento qual era il governo in carica quando decadeva Berlusconi. L'unico sopravvissuto di questa fase infelice della storia politica e civile italiana sarà proprio l'unico condannato a uscirne, per decreto giudiziario. L'unico personaggio storico che reggeva il passo controverso della Storia è morto in maggio e si chiamava Andreotti.

Continuo a credere che non sarà l'ultimo atto del ventennio berlusconiano. Continuo a pensare che non finirà così, in modo indolore. Da tempo ho il presentimento che non sarà un happy end, ma qualcosa di tragico accompagnerà la conclusione di un'epoca pur così sfacciatamente votata all'ottimismo. Non credo alle guerre civili, ma non penso che finirà come una soap opera coi titoli di coda e la sigla di chiusura.

Se ci fosse qualcuno all'altezza della Storia, avrebbe la forza, il carisma, il coraggio e l'inventiva di cambiare il finale. Qualcuno capace di capovolgere il fatalismo e rimettere in moto l'Italia e la sua Storia. Ma, interrogato, il morto non rispose. Cosa davvero non perdonano a Berlusconi a tal punto da rendere necessaria, ineluttabile, la sua decadenza? Cos'è che un Parlamento, abituato da due Repubbliche a ogni abuso, corruzione ed estremismo, non sopporta di lui, a parte le convenienze politiche? Pensate davvero che un Parlamento malfamato in modo proverbiale, perfino agli occhi dei Simpson, sia spaventato per le accuse di corruzione, concussione e collusione o sia indignato per i giri sexy, i deputati di ventura e le cattive compagnie? Ma no, questo ceto politico ha storie alle spalle piene di queste cose, per non dire di altre ben più gravi: dalla svendita del nostro Paese all'asservimento a potenze straniere, anche avverse, dall'incapacità di governare alle tangenti, al voto di scambio, agli intrecci con la malavita e con l'estremismo... Figuratevi se con quel curriculum la politica si può spaventare del carnet di accuse a Berlusconi.

In realtà quel che la partitocrazia non sopporta di Berlusconi è il suo presentarsi sin dalle origini come il Corpo Estraneo, quello che non viene dalla politica, anzi la schifa, salvo restarne irretito e votato. E pure i grillini si accodano e si riducono a truppe cammellate della stessa partitocrazia che avversano. Proviamo a metterci nei panni dei suoi avversari. Se tra loro ci fosse un leader lungimirante inchioderebbe Berlusconi a una sua frase: sono costretto alla politica, preferirei occuparmi del Milan. Gli direbbe: se fai politica solo per difenderti noi ti solleviamo dall'obbligo e ti tuteliamo noi, a patto che tu poi sia conseguente, lasci la così disprezzata politica e ti dedichi al Milan. E poi direbbe agli italiani: eccolo, Berlusconi salvato dalla politica che detesta e rimandato come egli desidera negli spogliatoi... In quel modo, sì, lo neutralizzerebbero e ne uscirebbero alla grande. Non lo faranno. Sono nani, scartine e quaquaraquà. Alla Storia, nel bene e nel male, passerà solo lui, l'Imputato.

(il Giornale)

martedì 26 novembre 2013

I giochetti di Lord D'Alema, protettore dei comunisti Pd. Giancarlo Perna


Visibilmente sotto schiaf­fo per la spavalda offensi­va lanciata da Matteo Renzi,Massimo D’Alema si è au­toproclamato Lord protettore dell’anima antica e comunista dei Democratici.
Max non fa vita di partito. In Largo del Nazareno, sede del Pd, neanche si affaccia.

Corruc­ciato per come va il mondo, il sessantaquattrenne ex premier - oggi neanche più deputato ­trascorre la giornata in sdegno­sa solitudine nello studio della sua Fondazione Italianieuro­pei , con lo sguardo su Piazza Far­nese. Si è fatto e gli hanno fatto il vuoto attorno. Con l’ex segreta­rio, Pier Luigi Bersani,ha sostan­zial­mente chiuso dopo l’affron­to di non rican­didarlo in par­lamento e l’in­cap­acità dimo­strata in prima­vera di fare il governo. Sulla sua cerchia, meglio stende­re un velo: Ve­lardi, Rondoli­no, Latorre, - i D’Alema boys dai crani rasati - lo hanno mol­lato per Renzi. Resterebbe Gianni Cuper­lo sul quale conta molto per arginare Matteo l’8 di­cembre, ma il condizionale è d’obbligo.Da un lato, Cuperlo marcia ormai da solo, dall’altro, per quanto sal­damente comunista, è troppo fi­losofo per dare davvero batta­glia a Renzi come intende darla lui.

Come tutti gli uomini soli, Max colloquia tra sé. Come inve­ce lui solo può, è tanto compia­ciuto di ciò che dice a se stesso, che in segno di ossequio, si dà del lei. Sicché, quando esce dal­la sbornia solinga per andare in tv, ha una così enorme opinione di sé da sprigionare quella sac­centeria al cubo - detta, in psi­chiatria, dalemiana - di chi fa la grazia di rivelare, a noi del volgo che non capiamo un tubo, la so­la verità che esista: la sua.
Dunque, terrorizzato da ciò che il Renzi vittorioso potrà com­binare con il partito, D’Alema ha deciso di affrontarlo a brutto muso. Giorni fa, a freddo, gli ha ingiunto di non darsi l’aria del «Giamburrasca»poiché,in real­tà, è l’uomo dei poteri forti ai quali in futuro dovrà obbedien­za. Tutta invi­dia, ovvia­mente, essen­do scontato che i soliti marpioni con i soldi appog­gino chi è in auge come fe­cero peraltro con Max quando in sel­la ci stava lui. Lo ha trattato poi da «igno­rante superfi­ciale » soste­nendo che sotto la sua guida il Pd as­somiglierà al­la «peggiore Democrazia cristiana».

Qui, siamo al nocciolo. Max te­me, come un incubo infernale, che la renzizzazione del Pd ne cancelli ciò che resta del Pci gramscian-togliattiano. Un cre­do, maciullato dalla Storia, ma che D’Alema porta caparbia­mente nel cuore e di cui si sente la Pizia. Se anche è trascorso mezzo secolo, il Nostro si consi­de­ra ancora il ragazzino in calzo­ni corti che, in divisa di Pioniere d’Italia (gli scout del Pci), tenne il discorsetto di benvenuto del IX Congresso comunista, pre­sente Togliatti, terminandolo con uno stentoreo: «Compagni, all’opera! E buon lavoro». Al che, il Migliore, colpito dall’im­medesimazione adulta del dale­mino, esclamò: «Non è un bam­bino: è un nano». Max è fermo lì, a difendere il passato remoto co­munista in nome «di qualche vi­vo e molti morti», secondo una definizione che devo a un giova­ne quadro del Pd che, come di­versi tra loro, considera il marxi­smo una curiosità numismati­ca.

I ferri corti con Renzi sono re­centi. Agli esordi, D’Alema ave­va cercato di mettere il cappello sull’ascesa del brioso fiorenti­no. Non gli ha fatto mancare lo­di e appoggi. Nel 2009, andò a Fi­renze per sostenerne la candida­tura a sindaco. Accolto dal can­didato con un: «Massimo, tu sei un punto di riferimento»,l’ospi­te replicò che Matteo era, rispet­to agli avversari, «il ciclista che distacca il gruppo di un’ora» con la sola incognita, aggiunse quasi untuoso, «di sapere se bat­terà il record della pista». Mesi fa andò ancora a Firenze per sen­tire se Matteo si sarebbe candi­dato alla segreteria, pronto ad accordarsi con lui. Lo scaltro gio­vanotto restò nel vago e promi­sero di risentirsi. Poi Renzi, per non impegnarsi,si candidò sen­za a­vvertire D’Alema che se lo le­gò al dito. Da allora, gli dà del fric­chettone e ora è preoccupato di ciò che può accadere.

La diffidenza verso Renzi non è sola legata alla ragione «idea­le » della sopravvivenza delle scorie comuniste nel Pd. Ce n’è un’altra più terra terra. Anche il nostro Max è, infatti, di carne. Dando per chiusi i suoi giochi in Italia, D’Alema punta infatti a candidarsi l’anno prossimo alle Europee. Il suo timore è che Ren­zi, una volta segretario, possa ne­gargli il posto di capolista della circoscrizione Sud che gli assi­curerebbe automaticamente l’elezione.
Perché questa voglia di Euro­pa dell’ex deputato di Gallipoli?

In Max c’è un trauma irrisolto:la trombatura nel 2009 come Alto Rappresentante per gli Affari esteri­vulgo : ministro degli este­ri Ue- , ruolo cui aspirava inten­samente. Il Cav, allora premier, si era battuto per lui, ma preval­se a sorpresa Lady Ashton, sco­nosciuta comparsa del Labour Party. D’Alema, che era stato presidente del Consiglio, battu­to da una terza fila! Max se ne adontò, senza più riprendersi. Così, ha attribuito la sconfitta al­la circostanza di non essere sta­to abbastanza presente in Euro­pa, occupato com’era nelle co­se italiane. Ora vuole colmare la lacuna andando Strasburgo, da­re prova del proprio genio e, nel giro di un biennio, puntare a una carica di prestigio, tipo pre­sidente del parlamento Ue. Va­sto programma che Max sente però alla sua portata purché l’impiastro fiorentino non si metta tra i piedi con la sua fissa di rottamare vecchi arnesi. Soli­dale con D’Alema per ragioni anagrafiche, vorrei però ricor­dargli che se quattro anni fa gli fu preferita Ashton è perché il Pse (socialisti europei) rifiutò di candidarlo ufficialmente.Pesa­va il­suo passato di altezzoso co­munista e il niet dei Paesi dell’ex cortina di ferro, Polonia in testa. Non mi sembra che qualcosa sia mutato da allora, né che D’Alema abbia pronunciato sul comunismo quelle parole di ve­rità che avrebbero soddisfatto chi ne conobbe il giogo.

Nemmeno depone a favore la sua pregressa esperienza a Stra­sburgo. Max fu deputato Ue dal 2004 al 2006. Due soli anni per­ché, neanche a metà strada, si precipitò a Roma per entrare nel secondo governo Prodi (2006-2008). Questo abbando­no repentino, tipico degli italia­ni che pensano all’Italia come ombelico del mondo, è stato mal sopportato a Bruxelles e pe­serà nel caso D’Alema torni las­sù. Concludo con l’unica impre­sa che si ricordi di quel suo di­stratto soggiorno strasburghe­se: il riuscito tentativo di sfuggi­re alla giustizia italiana grazie al­l’immunità europea che vietò l’utilizzo della famosa intercet­tazione «facci sognare, vai» nel procedimento Bnl-Unipol. Il tutto, assai poco commendevo­le. Comunque, i nostri auguri.

(il Giornale)

 

domenica 24 novembre 2013

Una farsa chiamata giustizia. Giuliano Ferrara

Sono piuttosto un realista che un apocalittico. Ma ora bisogna dirla tutta. Una mostruosa macchinazione giudiziaria espropria la democrazia italiana e lo Stato di diritto del suo significato.
Nessuno può tirarsi fuori dal giudizio. Nessuno può rifugiarsi, come fossero uno schermo neutrale, tecnico, dietro le surreali condanne nei processi Ruby1 e Ruby2 o al riparo delle procedure dell'accusa nell'imminente Ruby3 ovvero la devastante pretesa dei pm di Milano di estendere all'imputato e alla sua intera difesa, testimoni e avvocati, le accuse di ostruzione della giustizia e falsa testimonianza. Se c'è ancora un'Italia autentica e sensibile alla verità nell'opinione pubblica, nelle istituzioni, nella politica anche la più faziosa, è il momento che si levi una protesta forte e chiara contro una delle più infami vergogne della storia nazionale.

Berlusconi ha dato delle feste in casa sua, ha invitato delle ragazze e degli amici, gli amici lo hanno aiutato a comporre il suo harem burlesque, il suo privato divertimento, condividendolo. Berlusconi è notoriamente ricco e generoso, fa regali da sempre a destra e a manca, senza distinzione di rango, e con il circuito delle sue feste è stato come spesso gli succede regale e sciupone senza remore o rimorsi. Ha fatto una telefonata in questura, inopportuna sotto il profilo protocollare ma non concussiva, gentile e in prima persona, allo scopo di evitare a una delle sue ospiti la consegna a una comunità. Anche per disinnescare lo scandalo dovuto alla esibizione forzata del suo privato, ha inventato balle giocose, come quella della nipote di Mubarak. Bene. Queste sono tutte cose che rientrano nella dimensione privata, criticabile quanto a comportamento politico e civile di un uomo di governo e di Stato, ma non criminalizzabile.

Invece quel che ne è seguito, con mezzi d'indagine e una vocazione guardona e origliatrice da Stato di polizia, è precisamente la trasformazione di peccadillos da scapolo abbiente e da re di Arcore in reati infamanti che comportano anni e anni di galera. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. A dimostrare che al di là di ogni ragionevole dubbio siamo invece in presenza di reati penali da punire con la massima severità: regali alle ragazze e agli amici e una raccomandazione a un gentile funzionario di Questura da scambiare con anni di galera. A dimostrare che abbia un qualche senso una condanna per atti sessuali prostitutivi quando di questi atti non esiste prova alcuna, mentre nelle stesse motivazioni della condanna si dice bellamente che non è quello il problema, palpeggiamento in più o in meno. Sfido chiunque a dimostrare che sia parte di uno Stato di diritto e delle sue garanzie un tribunale che condanna su queste basi effimere e ambigue e poi trasforma gli atti difensivi, rinviandoli ai pm perché istruiscano nuovi processi, in un nuovo capo d'accusa a raggiera, una retata potenziale di testimoni che si trovano così in una pesante situazione di condizionamento e di pressione: o ammetti di essere stato un falso testimone e di aver collaborato con un'azione di inquinamento del processo oppure ti becchi la galera anche tu.

Una gigantesca gogna ha devastato l'immagine pubblica di un capo democratico, di un uomo della democrazia rappresentativa, un leader che ha vinto tre volte le elezioni e ha governato il Paese secondo le regole, altro che storie, ritirandosi in buon ordine anche quando avrebbe avuto diritto al suo appello al popolo che lo aveva stravotato nelle urne del 2008 (novembre 2011). Questo non è un caso personale, da tenere distinto dal resto, cioè dalla stabilità di governo (che palle che ci raccontano sul semestre europeo) o da qualunque altra circostanza. Se la democrazia sanguina, se si insinua un dubbio di fondo sul suo funzionamento imparziale, perché gli atti di giustizia si trasformano in una persecuzione personale, qualunque sia il giudizio sul perseguitato, sui suoi errori, e anche sulle sue colpe o sui suoi peccati, non si può dormire tranquilli.

Non tutti in questo Paese hanno bevuto la leggenda nera di Andreotti mafioso, di Craxi spolpatore delle finanze pubbliche per avidità, del doppio Stato reo di stragi infinite e di trattative collusive con i poteri criminali. Molti tra coloro che pure hanno combattuto per le loro idee e contro le classi dirigenti della vecchia Repubblica, e hanno mantenuto la loro autonomia di giudizio nella situazione che seguì alla sua caduta, hanno cercato di esercitare il giudizio critico sull'unico potere che da almeno vent'anni si considera al di sopra delle parti mentre agisce come parte in causa in una lunga guerra ideologica, quello dell'accusa penale. Questi italiani che non hanno portato il cervello all'ammasso dello spirito forcaiolo si facciano sentire. E anche i capi delle istituzioni, prima di tutti il garante della Costituzione e capo della magistratura, il presidente della Repubblica, non possono tirarsi fuori dal dovere di intervento e di correzione della grave stortura che si è prodotta.

Esprime il peggio della cosiddetta ideologia italiana, viltà maramaldesca, chi oggi si volta dall'altra parte, chi mette la propria antipatia e inimicizia politica verso Berlusconi, o anche soltanto la voglia di quieto vivere, davanti al dovere di giudicare una ignobile messinscena chiamata giustizia.

(il Giornale)

sabato 23 novembre 2013

Contro il motivazionismo. Davide Giacalone


Bisogna fermare la letteratura giudiziaria. Non è il primo problema della giustizia italiana, la peggiore del mondo civilizzato, la più lenta, la più arrogante, la più capace di tenere in galera innocenti e di togliere diritti anziché tutelarli. Eppure la letteratura delle motivazioni, il socioluogocomunsimo delle sentenze, il moralismo delle argomentazioni, addirittura i viaggi nell’animo umano, sono il segno di un terrificante imbastardimento culturale. Chi scrive certe cose pensa d’essere il giudice supremo, non la toga che applica il diritto. E se i tanti magistrati che fanno con correttezza il loro lavoro riescono, in qualche modo, a evitare che il treno giudiziario deragli del tutto, nessuno di loro è in grado di fermare l’effetto devastante di un degenere filone letterario: il motivazionismo.

Leggete quel che si trova scritto in un atto, destinato all’applicazione degli arresti domiciliari, nel mentre il cittadino (costituzionalmente innocente) si trova ancora in galera: “ha iniziato a prendere coscienza dei danni causati e, nonostante l’inizio di tale percorso di ripensamento della propria condotta non sia ancora approdato ad una conclamata resipiscenza …”. Ma chi crede di essere, l’estensore di queste righe? Forse avrebbero potuto prenderlo alla santa inquisizione, benché lì la selezione fosse più severa e si richiedeva anche maggiore proprietà di linguaggio. Nessuna sentenza, mai, può porsi il tema della “conclamata resipiscienza”. Questo caso (molto noto, ma è del tutto ininfluente il cittadino cui si riferisce) non è affatto isolato, dilagando l’abitudine di mettere nelle motivazioni degli atti considerazioni del tutto estranee al mondo della legge e del diritto.

Conosco l’obiezione polemica: allora aboliamo le motivazioni, previste dalla Costituzione. L’idea che non solo le sentenze, ma tutti gli atti giudiziari e tutti i provvedimenti limitativi di quale che sia libertà personale, debbano essere “motivati” ha un senso preciso: non possono essere arbitrari. Motivare significa esplicitare in base a quale legge si ritiene di procedere in quel modo. Tanto che, nella Costituzione, lo si prevede quale premessa del possibile ricorso avverso il provvedimento: tu mi dici in base a quel circostanza e legge mi sequestri dei beni, o mi apri la posta e io ricorro spiegando perché ti sei sbagliato e sto subendo un’ingiustizia. La Costituzione (articolo 111) prevede anche che siano motivate le sentenze. In altri sistemi questo non è necessario. Negli Usa, ad esempio, è escluso: colpevole o innocente. Punto. E’ la logica conseguenza dell’accusatorio puro (il nostro è bastardo assai). Anche in questo caso, però, l’obbligo di motivare si lega al diritto di ricorrere. Della serie: ti abbiamo considerato colpevole di omicidio perché il morto è stato ammazzato a coltellate e sul coltello c’erano le impronte della tua mano destra. Ricorso: i giudici hanno preso un granchio, perché sono monco della mano destra. Serve a questo e così devono essere scritte.

Invece si scorrazza, per centinaia di pagine, nel sociologismo per nullatenenti culturali, nel psicologismo per freudiani affetti da turbe della personalità, nell’intimismo sentimentale per anoressici che mai divorerebbero un codice. E queste pagine di ridicola drammaturgia finiscono poi nelle mani di un’altra categoria ove l’analfabetismo è preludio di compitazione: i giornalisti. Da qui parte il rimbalzo del copia e incolla, non a caso due attività manuali. E gli stessi cui mai un editore avrebbe pubblicato le stucchevoli poesie (se non a spese del poeta togato), si ritrovano sulle prime pagine, in un lirico delirio d’onnipotenza. Da qui svolgono il più diseducativo dei ruoli: fulgido esempio per i colleghi.

Questa roba va stroncata. Le motivazioni sono funzionali all’atto giudiziario e alle sentenze, servendo a tutela del cittadino che ne è colpito, talché possa ricorrere e vederli annullati. Non sono un modo per portare al rogo la sua presunta personalità, i suoi pensieri, i suoi desideri. Il rimedio sarebbe dovuta essere la cassazione. Basta leggerne molti atti per rendersi conto che i presunti medici sono portatori del medesimo morbo. Alla fine è proprio la Costituzione a uscirne massacrata: gli atti non sono solo arbitrari, ma già che ci sono divengono anche offensivi. Questa roba va stroncata.

Pubblicato da Libero

venerdì 22 novembre 2013

Vendere non dopare. Davide Giacalone


Vengono annunciate le dismissioni di patrimonio pubblico e, pur facendo la tara per l’ennesimo annuncio, dovremmo gioirne. Avendole chieste con insistenza e lunga perseveranza. Invece mi fanno paura. Nella coppia Letta&Saccomanni non so chi sia il pilota e chi il navigatore, so che il primo ha messo il casco alla roverscia e il secondo ha la mappa capovolta. Fanno i disinvolti, ma vanno alla cieca. E questo fa paura.

L’Italia è una gran bella bicicletta. Perché proceda occorre che si pesti sui pedali. Un pedale è quello dei tagli alla spesa pubblica improduttiva, capaci di generare riduzioni della pressione fiscale e reperimento di risorse per impieghi che puntino all’equità. L’altro pedale è quello della vendita di patrimonio pubblico, con il quale raccogliere i soldi necessari ad abbattere il debito pubblico, in questo modo facendo scendere la spesa per interessi e la connessa pressione fiscale, ma anche i soldi con cui fare investimenti produttivi. La bicicletta va alla grande se si pesta con equilibrio e continuità, mettendoci tutta la forza possibile. Non è quel che accade.

A ottobre siamo stati i soli ad avvertire immediatamente di un abominio: la vendita di beni pubblici per coprire la spesa corrente. Era contenuta in un decreto legge, detto “manovrina”, e aveva portata limitata (500 milioni). Ora vediamo che non si riesce a chiudere la piaga dell’Imu, comunque destinata a produrre altre infezioni fiscali, perché si attende il via libera della Commissione sulla rivalutazione di Banca d’Italia. Ma si tratta di un’operazione patrimoniale, con la quale si copre un ammanco di cassa. E’ vero che il governo fa i conti sul gettito che quella ricapitalizzazione porta con sé, ma si tratta pur sempre di un’operazione sul patrimonio (di tutti).

Ora ci dicono che venderanno quote di società pubbliche, per un valore immediato di 10-12 miliardi, destinandone i proventi metà all’abbattimento del debito e metà alla ricapitalizzazione di Cassa depositi e prestiti. Tre osservazioni. 1. Vendendo solo partecipazioni, cioè quel che è più facilmente vendibile, si rende più difficile la valorizzazione del patrimonio immobiliare, mentre mettere tutto dentro una società veicolo consentirebbe di compensare i tempi e le modalità diverse. 2. Vendere si vende una volta sola, quindi agli errori non si rimedia, i proventi devono andare assai più che per il 50% ad abbattere il debito, perché è diritto degli italiani vederne subito gli effetti, con minori interessi e minori tasse. Se si va alla metà si raddoppia il tempo necessario. 3. Ricapitalizzare Cdp significa prepararsi a rifare l’Iri, ma senza la genialità di Beneduce e già pronti a comprare ciofeche, come la rete di Telecom Italia. Questo non è un modo per favorire lo sviluppo, ma per usare i soldi degli italiani al fine di salvare i responsabili da errori imprenditoriali e bancari.

Poi, magari, con una Cdp ricapitalizzata s’immagina anche di fare le dismissioni immobiliari, intestando diversamente beni che resterebbero pubblici. Forse Letta&Saccomanni credono d’essere furbi, ma non si sono accorti che il mondo che sa far di conto li ha già sbugiardati sia sul deficit, sia sul debito, sia sulle previsioni di crescita del pil, nel 2014. In altre parole: non ne hanno indovinata una. Mentre si sono accorti dell’umiliante schiaffo ricevuto dall’Italia, i cui conti sono stati bocciati in sede europea, ma pensano che si possa fare come con le crisucce di casa nostra: si sorride, si mente, si minaccia blandamente, poi si corre al Quirinale. O, forse, non credono d’essere furbi, sono solo effettivamente incapaci e ripetono a pappagallo le cose preparate dai consiglieri (buoni, quelli).

L’Italia è una gran bici, ma quei due non sono né Coppi né Bartali. Fanno doping ai conti. Vendendo in questo modo operano per mettere i traguardi al termine delle discese, incuranti di quel che accadrà in futuro. Interessa loro la fotografia a braccia alzate e l’intervista, non la sostanza. Per questo fanno paura assai più di quanto non facciano tenerezza.

Pubblicato da Libero

giovedì 21 novembre 2013

Un Paere di analfabeti, servi e pigiabottoni. Antonio Serena

Molti amici mi contestano quando dico che sono contrario alla riduzione del numero di parlamentari. La mia obiezione è semplice e netta: noi abbiamo oggi lo stesso numero di parlamentari che la nostra nazione esprimeva ai tempi di Giolitti, quando la popolazione italiana era grossomodo la metà. Mi irrita pensare che il grado culturale della stragrande maggioranza dei cittadini di questo Paese li porti a concludere che con questo tipo di operazioni si arrivi a ridurre il nostro debito pubblico e quindi a far ripartire la macchina dello Stato.
 
Mi irrita, ma non mi sorprende. Questo è pur sempre un Paese dove, come comprovato da qualificati studi recenti, 7 cittadini su 10 non sanno associare un numero ad un grafico; un Paese (qualcuno lo definì un “espressione geografica”) dove l’analfabetismo è diminuito solo perché viene accertato tramite autocertificazione.1
 
Sarò forse ingeneroso con la mia gente ma questa terra di disoccupati rassegnati, per difendere l’indipendenza della quale mio padre partì volontario nella Grande Guerra pur potendosene stare a casa, mi irrita, mi delude sempre più, mi ferisce profondamente.
 
Sì, è vero, il Parlamento è ridotto ad una mela marcia, piena zeppa di indagati, ladri, truffatori, disonesti e servi al servizio dei partiti. Lo affermo perché l’ho constatato di persona negli anni di una non brevissima esperienza. E’ un ricettacolo di falliti costretti ad obbedire ai partiti i cui capataz di turno, al momento delle votazioni più importanti, passano per i banchi a ricordare ai “rappresentanti del popolo” che se non voti come devi potresti non essere più candidato alle elezioni successive.
 
Tutto vero, ma il problema non è lì, non è nel numero di deputati e senatori, ma nel come adempiono al loro mandato; come non sta nei 5 o 10 mila euro percepiti da un parlamentare: pochi se fa il suo lavoro come dovrebbe; tantissimi se va a prostituirsi o a scaldare lo scranno. Il problema è che i partiti delle cosiddette destra e sinistra che fanno eleggere i loro uomini in parlamento con elezioni truffa sono guidati da personaggi incolori, senza idee, senza programmi, al servizio dei padroni del Bilderberg, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale.
 
Sono loro i nostri veri padroni, gli affamatori usurai della grande finanza internazionale che ci hanno ridotti in questo stato. E sono figli o figliastri di quei signori che si sono spartiti il mondo a Yalta nel 1945 e che vogliono che questo statu quo si perpetui in eterno. O accetti questo stato di cose, o finisci come Enrico Mattei, come Bettino Craxi, come Silvio Berlusconi. Gente di princìpi e idee diverse, tutti abbattuti, piaccia o non piaccia, quando si sono permessi di ribellarsi alle regole imposte dai vincitori alla fine della seconda guerra mondiale.2

Quando aprirà mai gli occhi questo popolo addormentato dalla potenza dei media?

1)Piero Angela, A cosa serve la politica, Mondadori, 2011.
2) Enrico Mattei, ex partigiano bianco, fautore della liberazione dell’Italia dalla schiavitù imposta dalle “7 sorelle” petrolifere, venne assassinato nel 1961 con una bomba piazzata nel suo areo; Bettino Craxi finì in esilio dopo la famosa polemica di Sigonella, quando volle affermare il diritto della nostra nazione alla sua sovranità; Berlusconi iniziò la sua discesa politica dopo il tentativo di accordo Eni-Libia-Gazprom che danneggiava gravemente gli interessi americani.

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Una non difesa del ministro Cancellieri. Federico Punzi


Mai e poi mai associarsi alle campagne giustizialiste di Repubblica e il Fatto quotidiano. Dunque non chiedo, né auspico le dimissioni del ministro Cancellieri per le sue "inopportune" telefonate con la famiglia Ligresti e per il suo intervento "umanitario" a favore di Giulia. Tra l'altro, il caso sembra confezionato appositamente per offrire a tutti i candidati alla segreteria del Pd, Renzi in primis, l'occasione di conseguire il diploma di moralità pubblica rilasciato dalle varie gazzette delle procure e indispensabile, pare, per essere legittimati a guidare la sinistra italiana. E non se la sono lasciata sfuggire: è una gara a chi si mostra più intransigente nel chiedere le dimissioni del ministro, a prescindere dal danno che si rischia di provocare ad un governo pur sempre a guida Pd, e dallo sgarbo al presidente Napolitano. Pare che se non offrano sacrifici umani al dio del giustizialismo ogni volta se ne presenti l'occasione, sotto lo sguardo accigliato dei sacerdoti e della sacerdotesse di Repubblica e Fatto quotidiano, i vecchi e nuovi leader del Pd si sentano come smarriti, senz'anima. Così si sono ridotti: non hanno un giornale di riferimento, è il Pd ad essere il partito di riferimento di Repubblica.

Detto questo, avendo ben presenti le ragioni che ci tengono a distanza di sicurezza da qualsiasi richiesta di dimissioni, dovremmo però avere ben presenti anche le ragioni per le quali reputare la Cancellieri un cattivo ministro. Né più né meno dei suoi colleghi politici di professione. L'ennesima prova, cioè, che il "caso Italia", quell'intricato insieme di tutte le anomalie italiane, chiama in causa non solo la classe politica ma anche quella dei cosiddetti "servitori dello Stato".

Il comportamento del ministro Cancellieri nel preoccuparsi della detenuta Giulia Ligresti, ma anche di un centinaio di casi di comuni cittadini che avrebbe personalmente segnalato al Dap, è emblematico di una realtà non da Stato di diritto. Avrà anche dimostrato grande umanità con i suoi interventi, non lo mettiamo in dubbio, ma ha soprattutto mostrato come in Italia l'unico rapporto possibile con il potere, con l'Autorità, sia da sudditi e non da cittadini, attraverso canali informali più che formali. E' un caso di scuola di come in Italia si possa sperare di veder riconosciuti i propri diritti costituzionali solo come privilegi, per "grazia ricevuta" dal potente di turno. In ogni ambito, dalla giustizia al fisco, passando per tutti gli uffici della pubblica amministrazione, niente ci è dovuto, ma tutto può esserci concesso in ragione della grazia o dell'amicizia del sovrano.

Per quanto a fin di bene non dovremmo accontentarci di una segnalazione privata, o di una nota a margine quasi casuale, confidando nella sua generosità e nella buona sorte. Da un ministro dovremmo pretendere interventi pubblici, alla luce del sole, e soprattutto erga omnes, cioè che valgano per tutti. Se i diritti dei detenuti sono calpestati, se molti di loro non dovrebbero nemmeno starci in carcere in ragione delle loro precarie condizioni di salute, o per l'insussistenza dei presupposti di legge per la carcerazione preventiva, allora, oltre a telefonare e "segnalare", il ministro Cancellieri avrebbe dovuto mandare i suoi ispettori a verificare il corretto operato di procure e magistrati di sorveglianza, interpellare il Csm e le altre istituzioni di garanzia della Repubbblica, coinvolgere il Parlamento. Ha mai posto politicamente e pubblicamente tali questioni, o ha piuttosto cercato di limitare i danni muovendosi "all'italiana"?

Non una parola ci risulta pervenuta dal ministro e dai suoi autorevoli difensori d'ufficio, non un atto politico degno di nota, nemmeno di denuncia dell'abuso della custodia cautelare e delle intercettazioni, e contro certe campagne giustizialiste, quando ad esserne colpiti sono stati ministri e leader di diversa estrazione politica e culturale. Ecco perché ci appare davvero poco difendibile il comportamento del ministro, e insopportabile il doppio standard in cui si esercitano molti di coloro che la difendono.

UPDATE ore 12:20
Su un punto la difesa del ministro Cancellieri, oggi (ieri, ndr) in aula alla Camera, non regge. Se nel caso di Giulia Ligresti, e negli altri 100 casi che dichiara di aver "segnalato" per motivi umanitari, non c'è stato alcun "favoritismo", se quindi Giulia e altre 100 persone erano detenute "ingiustamente" rispetto alle loro condizioni, allora avrebbe dovuto chiamare in causa i magistrati responsabili e porre la questione pubblicamente. Invece oggi si difende rivendicando come un merito proprio il non avere "mai delegittimato l'operato dei magistrati". Già, il punto è che avrebbe dovuto farlo. Se Giulia era detenuta ingiustamente, allora qualche magistrato ha sbagliato. Un "favoritismo" dunque c'è stato: o nei confronti di Giulia o nei confronti di quel magistrato.

JimMomo

Centrodestra: perché i fusionisti servono ancora. Andrea Mancia e Simone Bressan

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Siccome ci siamo a lungo occupati di cavalli, ci pare brutto rinnegare le nostre origini e metterci a disquisire di ornitologia. Il mondo dei volatili è per noi di poco interesse e l’unica cosa che possiamo affermare con quasi granitica certezza è che per il centrodestra, se il vento non cambia, saranno uccelli per diabetici. Almeno nel breve termine.

Detto questo ci corre l’obbligo di ribadire l’ovvio: l’Italia è un paese molto strano. L’unico in cui soggetti che in tutto il mondo civile starebbero nello stesso partito litigano sui giornali ormai da mesi, costringendoci a discutere del nulla mentre davanti abbiamo un deserto che potrebbe essere trasformato in prateria, solo ad averne un po’ di voglia. Il nostro è anche uno dei pochi schieramenti conservatori e liberali al mondo in cui la maggioranza della sua classe dirigente (sia su “classe” che su “dirigente” nutriamo molti dubbi) fa il tifo per Barack Obama e per i democratici americani, condannando molti elettori a diventare di sinistra di fatto, magari inconsapevolmente. È un tema che considererete marginale, ma siamo convinti che le basi culturali per vincere e governare si costruiscano soprattutto cercando di capire chi siamo e cosa vogliamo.

La scissione di questi giorni ci consegna una situazione paradossale: le lancette del tempo sono ritornate molto indietro, ai tempi per noi tutt’altro che memorabili del pentapartito. Una cinquina che oggi si compone di Fratelli d’Italia, Alleanza Nazionale, Forza Italia, Nuovo Centrodestra e Lega Nord. Con possibili, future, aggiunte di movimenti popolari in libera uscita da Scelta Civica e dall’universo che fu montiano.

Bene, dicono i sondaggisti, perché la somma algebrica di questo casino è comunque positiva. Male, diciamo noi. Perché questo spezzatino di movimenti, partiti, aggregazioni basate su singole persone, su ricordi del passato che fu, su distinzioni personali e poco politiche finisce per garantire al centrodestra italiano una cosa soltanto: l’irrilevanza politica e la subalternità culturale. Una subalternità che non è per forza nei confronti di certa sinistra ma che assume i contorni delle geometrie variabili, così come variabile – a seconda dei rapporti di forza – diventerà il profilo di questo rassemblement. Direte: ma anche il partito conservatore e quello repubblicano abbracciano sensibilità molto diverse e che in larga parte sono simili a quelle di cui parliamo qui. Vero: ma lì ci sono partiti che durano da decenni, che si sono dati regole di discussione interna e che, anzi, sulla dinamiche delle discussioni interne e del vaglio delle primarie hanno costruito coalizioni che avevano un profilo o l’altro, a seconda dei fattori che ne determinavano la formazione.

Qui è l’esatto contrario: invece di discutere per convergere, ci si separa per discutere. Perché stando insieme era impossibile, a meno di non volersi dividere nelle molto interessanti cateogrie di “ribelli”, “scissonisti”, “lealisti” o “traditori”. Così, mentre il partito repubblicano americano discute di Tea Party che fanno il tifo per la chiusura del governo federale e di deputati più moderati che propongono, numeri alla mano, soluzioni diverse e mentre il movimento conservatore inglese si interroga sul concetto di “modernisation” e su quanto “green” è opportuno diventare, qui da noi – ecologisti di frontiera – il vero tema è se sei falco, colomba o pitone.

Complimenti vivissimi, cari amici. Alle elezioni (perse di poco) del 2006 , il centrodestra “valeva” 19 milioni di voti. Nel 2008, senza Casini, 17 milioni e mezzo. Nel 2013 poco più di 10 milioni. Se un partito, una coalizione, un movimento, perdono in 7 anni la fiducia di 9 milioni di persone e vedono crollare il loro consenso del 47% qualche domanda in più su quello che sta accadendo sarebbe giusto porsela. Sarebbe giusto, logico, salutare, interrogarsi sulle modalità di selezione di leader e classe dirigente, di candidati e rappresentanti sul territorio. Invece niente, tutto procede liscio come l’olio, nessuno discute di nulla. Fino alle scissioni e alle rifondazioni (di Forza Italia, di An, ecc) con i temi giusti affrontati a divisioni già consumate. E quando ormai tra ex colleghi di partito vola di tutto.

Che fare, quindi? Ripartire da dove eravamo rimasti, perché persone perbene che si interessano di politica ce ne sono ancora. Nonostante in questi anni il centrodestra abbia fatto qualsiasi cosa per allontanarle, marginalizzarle, umiliarle. Alcuni hanno fatto passi indietro più o meno rumorosi, altri non si sono abbattuti e hanno proseguito in una lunga e spesso sfiancante battaglia contro un modello politico che stava creando le condizioni per la sua stessa distruzione e le vendeva all’esterno come scintillanti vittorie. È morto il centrodestra, secondo alcuni. Proprio per niente: viva il centrodestra. E lunga vita a quelli che lavorano per unire, per ricucire, per dibattere. Per far diventare l’ambito culturale e politico che si definisce conservatore e liberale un luogo di incontro, di sintesi, di elaborazione. Non una ridotta in mano al leader di turno (turno che magari dura da qualche decennio), ma una base solida su cui costruire la nostra casa comune. Una casa sufficientemente grande per ospitare la maggioranza silenziosa degli italiani.

(notapolitica.it)

 

mercoledì 20 novembre 2013

Il "decennio" berlusconiano. Alessandro Corneli


Silvio Berlusconi ha governato per 3341 giorni, guidando quattro diversi governi. Iniziò il 10 maggio 1994 e terminò il 16 novembre 2011. Gli altri governi, fino a questa ultima data, hanno retto l’Italia per 3587 giorni. Quindi, nel cosiddetto “ventennio berlusconiano”, Berlusconi ha governato meno degli altri messi insieme, incluso il governo Dini, considerato formalmente un governo tecnico, ma avendo il partito di Berlusconi all’opposizione per cui è logico considerarlo insieme ai governi di centrosinistra.

Aggiungiamo i 529 giorni del governo Monti e i 204 giorni del governo Letta (alla data del 18 novembre 2013) che, pure avendo avuto la fiducia del Pdl, e il primo con connotazioni di governo tecnico, il realtà appartengono alla serie dei governi non berlusconiani. Arriviamo allora a 4320 giorni.

Non basta. La fine della Prima Repubblica, o l’inizio della Seconda, prese avvio il 28 giugno 1992 con il primo governo Amato (304 giorni), seguito dal governo Ciampi (377), entrambi di sinistra. Per cui si può affermare che, dalla fine del pentapartito, l’Italia è stata governata da Berlusconi per 3341 giorni e dalla sinistra per 5001 giorni, cioè per 1660 giorni in più.

Se in questi 21 anni e mezzo l’Italia è complessivamente regredita, o ha avuto uno sviluppo minimo, o non è riuscita a superare di diversi handicap, la responsabilità deve essere quanto meno ripartita, e nemmeno in parti uguali.

Più correttamente bisognerebbe parlare del “decennio berlusconiano”, cioè il periodo compreso tra l’11 giugno 2001 e il 16 novembre 2011, durante il quale si sono concentrati 3098 giorni di governo su 3341.

Ciò vuol dire che dal 28 giugno 1992 all’11 giugno 2001, i governi di sinistra sono stati al potere 3018 giorni, ovvero hanno dominato il decennio successivo alla fine della Prima Repubblica, durante il quale avrebbero dovuto fare le riforme profonde di cui l’Italia aveva un forte bisogno. Ne segue che il “decennio perduto” non è l’ultimo, Monti e Letta a parte, dominato da Berlusconi, ma il primo, con le successive leadership di “grandi” leader come Amato, Ciampi, Prodi, Dini e D’Alema, i quali avrebbe dovuto mostrare competenza e visione, che invece non hanno dimostrato. Hanno invece lasciato incancrenire una situazione che era già compromessa.

Innegabilmente i dati sono peggiorati nel “decennio berlusconiano” 2001-2011. Ma consideriamo i tre seguenti fattori negativi e anomali per la loro novità: 1) attentati dell’11 settembre 2001, che hanno inferto un primo duro colpo all’economia internazionale e hanno innescato nuove tensioni anche militari, cioè appena tre mesi dopo l’insediamento di Berlusconi a Palazzo Chigi; 2) 1° marzo 2002, sostituzione della lira con l’euro che, grazie anche alla tradizionale inefficienza della pubblica amministrazione italiana, ha sconvolto prezzi, consumi e redditi, imponendo ai più un duro adattamento alla nuova moneta e ai meno concedendo facoltà di speculare; 3) scoppio, a partire dal luglio 2007, della peggiore crisi finanziaria del dopoguerra che, ovviamente, coma una tempesta, ha fatto più male ai più deboli. Accusare Berlusconi di avere “negato” la crisi o di averla sottovalutata, non cambia nulla: a parole, nessuno è riuscito a esorcizzare questa crisi; nei fatti, essa è stata gestita a livello europeo e il governo ha avuto sempre meno margini per decidere in modo autonomo.

Nessun decennio è stato perseguitato dalla sorte avversa come il decennio berlusconiano tra il 2001 e il 2011. Ci fu una breve finestra di ripresa, nel 2006 e 2007: giusto il tempo perché ne approfittasse il secondo ed effimero governo Prodi. La fortuna è cieca. Non si può dire altro.

Ora, se nel primo decennio, dal 1992 al 2001, i grossi calibri della politica e della tecnica, alternatisi al governo sia prima (Amato I e Ciampi) sia dopo la discesa in campo di Berlusconi (e cioè Dini, Prodi I, D’Alema I, D’Alema II e Amato II) avessero fatto – poiché possedevano scienza e conoscenza – ciò che si sarebbe dovuto fare, a partire da privatizzazioni intelligenti e vere liberalizzazioni, l’Italia avrebbe affrontato il secondo decennio in condizioni migliori. Non l’hanno fatto e hanno consegnato a Berlusconi la guida di una nave piena di falle. Inoltre Berlusconi ha avuto a disposizione uno stato maggiore particolarmente modesto. Così ha tenuto la nave a galla finché ha potuto. Demonizzare oltre misura il suo governo ed enfatizzare le sue responsabilità è scorretto. Le vere responsabilità sono parecchio a monte. Lo dimostra il fatto che né il governo Monti né il governo Letta riescono a fare poco di più del galleggiamento. Se le risorse sono scarse, lo sono ancora di più le idee e i progetti. Questo è il vero dramma.

GR&RG

Santanchè, dopo la richiesta di condanna, arriva la fatwa dell'imam di Segrate. Alessandra Boga


L’altro ieri, lunedì 18 novembre, sono stati chiesti dal tribunale milanese una condanna a un mese di reclusione e 100 euro di multa per Daniela Santanchè con l’accusa di “manifestazione non autorizzata” in merito alla protesta contro l’uso del velo integrale da lei promossa il 20 settembre 2009 durante le celebrazioni di fine Ramadan alla Fabbrica del Vapore di Milano. In quell’occasione la parlamentare è stata aggredita da un cittadino egiziano, Ahmed El - Badry, il quale è stato condannato soltanto a sborsare 2.000 euro di risarcimento. Niente carcere per lui.

Una presunta “manifestazione non autorizzata” di chi ha cercato di difendere le donne musulmane da quella gabbia di stoffa che è il velo integrale e, insieme, la legalità nel nostro Paese (in cui è vietato girare viso coperto), è stata giudicata più grave di un’aggressione da parte di chi se ne frega di tali principi, un’aggressione costata alla Santanchè 20 giorni di prognosi.

Tra l’altro lei si difende dicendo di aver personalmente avvisato la Questura delle proprie intenzioni, mentre si stava avviando sul luogo della preghiera islamica, e di aver soltanto voluto controllare se si rispettasse la legge italiana che impone di non occultare il viso. Il giudice ha replicato che non era la procedura da seguire.

Per Daniela Santanchè, già sotto scorta per le minacce di morte ricevute per due libri a favore delle donne musulmane, è arrivata anche la fatwa di una sua vecchia conoscenza: Abu Shwaima, “l’imam di Segrate”.

L’uomo ha dichiarato che la deputata “Merita il fuoco dell’Inferno”, che equivale ad una condanna a morte.

Lei esorta a non sottovalutare la minaccia e annuncia che denuncerà il predicatore islamico. Finalmente verrà fatto qualcosa questa volta, o a pagare dovrà essere sempre e solo chi, anche in un Paese come l’Italia che dovrebbe essere libero, cerca di difendere le donne musulmane?

(LsBlog)

 

martedì 19 novembre 2013

Vera e farsa. Davide Giacalone


Nel cinema i cazzotti sono finti. Nell’opera dei pupi le mazzate sono vere, ma su pezzi di legno e latta. La scissione del centro destra è vera, o si tratta di una messa in scena? E’ vera, ma sa tanto di messa in scena. Basta incontrare i fanti delle due fazioni, in pubblico o in privato, per misurare l’astio e il disprezzo che riversano su quelli che ieri chiamavano “amici”. Ma poi ragioni di politica, guardi la scena italiana e t’accorgi che di vero c’è solo lo sconforto delle persone serie.

Partiamo dai partitanti, per arrivare a chi (s)governa. Se si andasse a votare domani mattina, quindi con questa legge elettorale, il centro destra sarebbe messo male assai, perché diviso. Ma dal Quirinale in giù si ripete che mai e poi mai si andrà a votare con questa legge. Quindi non si vota né domani né dopodomani. Perché, allora, l’inventore della formula che anima e regge la seconda Repubblica, ovvero il Berlusconi Silvio che s’incamminò verso il “tutti assieme pur di vincere, e poi si vede”, ora pone il suo sigillo sull’esatto opposto? Mettiamo in fila alcuni fatti: a. se un pezzo del centro destra esce dal governo, senza farlo cadere, mette nei guai il centro sinistra e segnatamente Matteo Renzi, il cui consenso diventa determinante per reggere in piedi una baracca detestata; b. tanto è vero che non hanno fatto a tempo a spaccarsi che il ministro Cancellieri s’è ritrovata sola, abbandonata anche da Mario Monti (che la sostenne nella corsa al Quirinale, contribuendo in modo determinante ad annullare la gara e consegnare la coppa a chi già lo abitava); c. il governo diventa, così, l’espressione di due minoranze; d. se al Senato viene meno la maggioranza finisce nei guai anche Beppe Grillo, perché gli si spacca il gruppo e taluni scoprono la vocazione per la stabilità; e. le prossime elezioni, europee, sono con sistema proporzionale e se ci si presenta divisi si prende una somma di voti superiore al presentarsi uniti (complice anche lo scalfarismo, che pur di mostrarsi combattente accredita la destra vera, seria, europea, etc. favorendole qualche votarello); f. se poi ti ritrovi con i voti del padre, dei figli e dei figli di madre ignota che sommati superano quelli della sinistra, cominci a misurare l’utilità della scissione.

Ergo: la scissione è fessa per la parte vera, ma furba per la falsa. Alla fine, se non si vota subito, l’agnello sacrificale ha un forte accento fiorentino. Oibò, ma tutto questo minaccia la stabilità di cui l’Italia ha tanto bisogno? Facciamola finita: il governo Letta ha fallito. I rilievi mossi dalla Commissione europea, circa la legge di stabilità, sono fondati. Lo abbiamo detto in tutti i modi che quella legge era inadeguata. Siamo gli ultimi a poterci meravigliare per il severo giudizio. Ma resto basito, eccome, per l’umiliante schiaffo assestato all’Italia. L’idea che la nostra legge di bilancio sia restituita al mittente, accomunandoci a Spagna, Malta, Lussemburgo e Finlandia quali bocciati, è intollerabile. L’Italia è la seconda potenza industriale europea, la terza potenza economica. Siamo i fondatori della Comunità europea. Abbiamo interesse a essere e rimanere parte dell’integrazione europea, ma deve essere chiaro a tutti che senza l’Italia l’Unione neanche esiste. Solo l’irrilevanza politica di un governo incapace può avere consentito quel degradante giudizio.

L’unica vera missione di Letta e Saccomanni consisteva nel mettere a punto non tanto e non solo una legge di bilancio, ma prima di tutto le relazioni politiche e istituzionali necessarie per concordare e vedere approvare le scelte (dolorose) che si andavano compiendo. In questo c’è una radicale differenza, rispetto al governo di Monti: anche lui si piegò ai diktat altrui, ma almeno non fu sconfessato dagli stessi che lo avevano indirizzato. L’unica missione loro affidata, la ragione per cui restava in piedi un governo che faceva riferimento solo al Quirinale, è fallita. La conseguenza, ora, consiste in una ulteriore perdita di sovranità del nostro Parlamento. In questa condizione la stabilità neanche c’è più. C’è solo il desiderio di trascinare avanti quello che è un conclamato fallimento (condito con le parole patetiche di un ministro dell’economia traumatizzato).

Il tutto in un’Italia che ha numeri importanti da far valere, forza da far pesare e storia da non cancellare. Ma è nelle mani di chi non sa usare i numeri, non ha orgoglio della forza e sconosce la storia. Ci hanno lessato l’anima per mesi, raccontandoci che la ripresa sarebbe iniziata prima della fine dell’anno, e manco si sono accorti che è finito. Ci hanno massacrato le pupille con la luce in fondo al tunnel. Io resto un ottimista, perché credo di conoscere i punti forti dell’Italia, ma siamo saturi di questo melassoso ottimismo dell’incompetenza, generato da una sola cosa: loro si sono sistemati.

Pubblicato da Libero

Alluvione in Sardegna, 17 morti

Ma non era Berlusconi che portava sfiga?

lunedì 18 novembre 2013

Perché tra sinistra e popolo sembra tutto finito. Ritanna Armeni

Da leggere!                    














Diciamo una verità scomoda: il popolo non ama la sinistra. Anzi, gli sta abbastanza antipatica. Del resto neppure la sinistra ama così tanto il popolo e i poveri. Sia chiaro: per poveri non si intendono i mendicanti, i disperati e col termine di popolo non ci si riferisce agli operai o ai lavoratori sindacalizzati. Quando parliamo di popolo pensiamo a quella famiglia che all’Autogrill si ingozza di panini, parla con un tono di voce insopportabile e non risparmia qualche scappellotto ai bambini. A quei giovinastri che tengono l’autoradio a tutto volume e se ne sbattono del fracasso che provocano. Alle donne con la busta della spesa che sgomitano e smoccolano in autobus. A tutti quelli che vanno al cinema solo a Natale, forse neppure, e non sanno fare alcuna distinzione fra il gusto dell’aspirina e quello del tartufo.

Ai tanti che bevono il vino meno costoso del supermercato e non lo trovano così diverso dal Barolo più raffinato. Che leggono meno di un libro all’anno – o che non leggono affatto – e si fanno prestare il giornale dal vicino solo per sfogliare le pagine sportive. “Popolo” sono le donne che tengono la televisione accesa tutto il giorno, le ragazze che aspirano al top leopardato, i ragazzi che passano la notte con il telefonino acceso e due birre, la casalinga che strilla al mercato perché l’hanno fregata sul peso della verdura. Lo incontriamo questo popolo e ci pare cafone, maleducato, aggressivo, malvestito. Sgomita e strilla, rubacchia allo stato quando può, non rispetta le file, si arrangia in tutti i modi, anche non sempre legittimi, e tira avanti. I poveri poi – si sa – spesso non sono buoni e qualche volta appaiono anche poco intelligenti.
Per questo la sinistra non li sopporta e cerca di dimenticarli. O meglio, li dimentica fino alle elezioni quando si accorge che “il popolo” non vota più per lei. Che si è rotto qualcosa, e questo ha ripercussioni anche sui consensi.

La straordinaria affermazione nei sondaggi di Marine Le Pen, leader del Front national, a spese dei socialisti francesi e nei luoghi dove erano più forti, ha fatto gridare all’allarme, com’era prevedibile. Ma è solo l’ultimo caso dei tanti che si sono susseguiti in questi anni di spostamento, quasi repentino, dei voti. In Italia la sinistra ha cominciato ad accusare il colpo negli anni Novanta, quando scoprì all’improvviso che gli operai del nord, addirittura anche quelli iscritti alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, votavano Lega. C’era da riflettere e molto, ma non mi pare che in questi venti anni sia stato fatto. E infatti, alle ultime elezioni politiche, nuovo sbigottimento. Si predicava il cambiamento ma il primo partito del voto operaio non è stato il Pd, bensì il Movimento cinque stelle, seguito dal Pdl (primo fra le casalinghe: anche loro popolo, eccome) mentre al Pd è andato solo il terzo posto.

I voti fuggiti via sono però solo la conseguenza, una delle conseguenze, di questa reciproca antipatia, ciò che la rende evidente. E’ difficile pensare di essere rappresentato da chi ti sta antipatico e che – lo senti – nutre per te un malcelato disprezzo.
I motivi, quelli veri e profondi, sono altri. In un famoso libro del 2004, più volte aggiornato e tradotto in francese con il titolo “Perché i poveri votano a destra” (in originale “What’s the Matter with Kansas?”), ne ha parlato l’americano Thomas Frank, analista e collaboratore del Monde Diplomatique e di Harper’s Magazine. La sua idea è che negli ultimi decenni il populismo di sinistra rooseveltiano, egualitario, capace di conquistare gli animi, si è trasformato in un populismo di destra fondato sulla paura di tanti di perdere anche quei pochi vantaggi che avevano conquistato e che appaiono insidiati da altri più poveri di loro. Frank fa un’analisi del fenomeno negli Stati Uniti dove la distinzione e l’antipatia fra liberal e popolo sembra netta e la spaccatura è chiara come il sole. L’America da un pezzo è divisa in due, c’è addirittura chi parla di due Americhe: da una parte quella “normale” detta anche “profonda”, che ama la famiglia, crede nei valori della tradizione, omaggia la bandiera a stelle e strisce, dipende dalla tv e dallo junk food; dall’altra ci sono i progressisti, gli intellettuali che abitano sulla costa e che con i primi non hanno nulla a che fare perché trovano che hanno gusti volgari, non leggono, non vanno al cinema e non conoscono buoni ristoranti. Le due parti si riconoscono anche da lontano e si evitano. Thomas Frank ha scritto il suo libro dopo aver scoperto che nella contea più povera degli Stati Uniti Bush aveva ricevuto l’ottanta per cento dei voti. “Come si fa a votare per un repubblicano quando almeno una volta nella vita si è lavorato per un padrone?”, gli ha chiesto un amico, ovviamente di sinistra. E lo scrittore, come molti politici, sociologi, osservatori della sinistra europea ha spiegato il fenomeno a partire dalla “struttura”: la scomparsa delle grandi fabbriche, la crisi verticale dei sindacati, la fine delle sicurezze che derivavano dal lavoro. A tutto questo vanno affiancate le nuove proposte di sicurezza che la destra ha riproposto con nuovo vigore: quelle fondate sulla tradizione, sulla difesa di valori ampiamente riconosciuti e sulla lotta contro coloro che vogliono mettere in crisi l’identità che su questi valori si fonda, che sostengono, per esempio, l’aborto o il matrimonio gay.

Le analisi sulle modifiche della struttura e le conseguenti modifiche sociali sono sicuramente importanti, e si potrebbero aggiungere le considerazioni su quello che ha rappresentato contemporaneamente la fine del comunismo e della identità fra partiti comunisti e popolo. Ma rispondono solo in parte alla domanda di fondo sul perché la sinistra è antipatica ai poveri e perché i poveri la guardano con sospetto e disprezzo. Si può anche perdere la propria base sociale tradizionale per molti importanti motivi, economici e legati agli inevitabili cambiamenti della modernità, e si possono perfino perdere voti ed essere una minoranza. Ma si può rimanere interessanti, stimabili, stimolanti, attraenti. E invece questo non è accaduto.

Con una differenza fra i due atteggiamenti antipatizzanti, quello del popolo verso la sinistra e quello reciproco. Mentre nei poveri l’antipatia provoca distacco e disprezzo, i progressisti per difendere la loro identità e la loro stessa ragione sociale, pretendono di aiutarli e di rappresentarli, di fornire loro le basi di una emancipazione sociale. Devono, quindi, almeno fingere di amarli. E infatti ci provano, ma non ci riescono. E non solo in un’America che, si sa, ama dividere con qualche semplificazione e giudicare rozzamente, ma anche nella più raffinata Europa e persino in quei paesi culturalmente lontani dall’una e dagli altri. Possiamo dire, insomma, che la sinistra con le sue élite intellettuali e i suoi gruppi dirigenti in questi anni è riuscita ad apparire veramente antipatica.

Ci è riuscita perché l’immagine che ha costruito di sé, quella con la quale viene identificata, è ritenuta imbrogliona, bugiarda, ipocrita. Forse l’immagine non corrisponde del tutto alla realtà, ma su quella realtà vince. I progressisti – così si pensa – parlano dei poveri ma vivono da ricchi. Propongono di abolire il privilegio, ma sono privilegiati. Vogliono essere vicini al popolo, ma non lo conoscono. Nella società occupano la parte “alta”, che guarda al “basso” ma non vi entra in contatto. In gran parte, insomma, offrono di sé un’immagine radical chic. Questo termine e questa accusa riassumono bene i motivi dell’antipatia per la sinistra. Per radical chic – dice la Treccani – si intende “ironicamente” il “borghese che, per moda o convenienza, professa tendenze politiche radicali di sinistra, con atteggiamento fortemente snobistico e contrario al proprio ceto di appartenenza”.

Definizione giusta, ma non esaustiva, perché su questa figura si possono dire molte altre cose. Il radical chic finge di disprezzare il denaro e il modo in cui la maggior parte della gente se lo procaccia, ma lo guadagna nello stesso modo. E’ convinto della propria superiorità culturale e morale, è noiosamente ricercato nei gusti e volutamente provocatorio nelle affermazioni, ha atteggiamenti fintamente modesti. Un tipo così non può essere simpatico. Ne parlava lo scrittore Tom Wolfe nel famoso articolo, poi divenuto libro, apparso nel giugno del 1970 sul New York Magazine. Si intitolava appunto “Radical chic” e parlava della moda dilagante fra gli intellettuali newyorchesi, ricchi, ricchissimi e importanti, di ospitare nei loro salotti i rivoluzionari dell’epoca, dalle Pantere Nere ai pacifisti, agli hippie di tutti i generi, per mostrare in questo modo il proprio anticonformismo e la propria non adesione al sistema. Wolfe descrive con eccezionale vivacità e veridicità i salotti, le cene, gli inviti all’insegna di “Invita-una-Pantera-Nera-al-Cocktail”. Lo scandalo fu grande: mai prima di allora il progressismo dei ricchi e dei famosi era stato preso in giro con tanta ferocia.

Dal libro di Wolfe sono passati oltre quarant’anni e il fenomeno, in parte modificato, si è esteso.
Non ci sono più i rivoluzionari da invitare a cena nelle grandi case della Milano bene e neppure chi, come Giangiacomo Feltrinelli, prese tutto così sul serio da morire su un traliccio dell’alta tensione. Oggi altri sono i tratti distintivi del radicalismo chic, altri i contenuti che convivono con l’agio sociale e l’osmosi con il potere. Ma suscitano la stessa antipatia e si identificano, ahimè sempre di più, con la sinistra. I radical chic sono diventati antipatici a livello planetario. Non sono certo amati in Francia, dove sono la cosiddetta “gauche caviar”, né in Germania dove, con disprezzo teutonico vengono definiti “Toskanafraktion” (pare che i progressisti di quelle parti amino la Toscana). L’Irlanda benevolmente li addita come “smoked salmon socialist”, mentre in Svezia sono la “rödvinsvänster”, sinistra del vino rosso, in quel paese raro e raffinato.

L’elenco potrebbe continuare, ma quel che stupisce è l’esistenza di una definizione per questa sinistra anche in Brasile che ha la sua “esquerda festiva”, o in Cile dove i nostri radical chic li additano come “red set”, e addirittura in Grecia. La quale, fra tutti i guai di cui soffre, può annoverare la sua canonica “aristerà tu saloniù”, sinistra da salotto.
Per amore di giustizia dobbiamo dire a questo punto che la sinistra non è formata solo da radical chic. E che la destra, accusando la sinistra, tutta la sinistra, di radicalismo chic, dà spesso dimostrazione di volgarità e strumentalismo. Per averne un esempio, basta ricordare il precursore di questo atteggiamento che oggi è stato ereditato da parte consistente del centrodestra. Negli anni Settanta, Indro Montanelli scriveva a Camilla Cederna, che allora indagava sulla strage di piazza Fontana, parole a dir poco volgari, cavalcando l’accusa che poi gran parte della destra avrebbe rivolto alla sinistra: “Ti sei innamorata – le scrisse – dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola ‘amore’ si dia il suo significato cristiano di fratellanza… Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga”.

Ma torniamo all’oggi. Non è dell’antipatia della destra nei confronti della sinistra di cui ci vogliamo occupare, né della immagine che da Montanelli a Brunetta (che, ben conoscendo il popolo, pensa di sputtanare in diretta i giornalisti televisivi che sono di sinistra con l’accusa di guadagnare troppo) si tende a dare di questa. Ognuno nella battaglia politica usa gli strumenti, anche intellettuali, che possiede. Quello di cui la sinistra dovrebbe preoccuparsi è che questa immagine è diffusamente penetrata nel popolo. E la penalizza non poco.

Sono proprio tutti antipatici? Pare di sì, ma in modo diverso. La “gauche caviar” francese, per esempio, ha una sua antipatia che deriva da una laïcité irrispettosa sia del velo che della croce. Oggi possiamo dire che gli italiani aggiungono due caratteristiche specifiche: sono piagnoni e manettari. Fra i nostri radical chic lamentarsi va di moda, anzi è l’ultima moda. Non che motivi di lagnanza in questo disastrato paese non ce ne siano, ma questi antipatici – proprio loro – non hanno quasi nessun motivo di compiangersi. In gran parte occupano posti di lavoro di prestigio, hanno redditi medio alti, sono egemoni nei luoghi della cultura, continuano a permettersi quelli che oggi sono i veri privilegi, perfino maggiori del denaro: una vita che può non essere contaminata dalla volgarità, dalla grossolanità, dallo stress a cui è sottoposta la gente cosiddetta normale, cioè il popolo e i poveri. I ristoranti dove il cibo è ricercato, il cinema, le buone letture, le conoscenze interessanti, le scuole d’élite per i figli, le vacanze, la grande forza che deriva dalla consapevolezza di vivere al centro e non alla periferia del mondo.

Ma si sa, oggi i poveri stanno male. La crisi li ha colpiti duramente. E se nell’America degli anni Settanta, per essere di sinistra, si doveva invitare a cena un rappresentante dei Black Panter, oggi per dimostrare solidarietà e unità con il popolo ci si lamenta con lui e più di lui. Si aggiungono lagnanze del tutto ingiustificate a quelle di chi se la passa male davvero. In questo modo gli “champagne socialist” (questo è il nome inglese) si mettono a posto la coscienza: nella crisi tutti soffriamo insieme. Ma non è così. E il popolo non la beve. Se sentissero i commenti ai loro piagnistei ne uscirebbero tramortiti. Se osservassero bene gli sguardi di coloro a cui vorrebbero mostrare solidarietà, tacerebbero immediatamente e cambierebbero strada. Lamentarsi perché è aumentata l’Imu sulle seconde e sulle terze case, o sono saliti i prezzi dei ristoranti, di fronte a chi non si permette neppure una pizza suona irrispettoso, oltre che, naturalmente, ipocrita e antipatico.

E poi il “radikal elegance” (definizione norvegese) nostrano è tendenzialmente “manettaro”, tende a pensare che tutti i problemi si possano risolvere con un po’ più di severità e di carcere. Pensa che la moralità possa essere ristabilita con atti forti di distinzione, alzando alte le bandiere del giusto, del legittimo, impugnando la lotta per le regole con veemenza attraverso la continua affermazione delle manette. Il carcere per i nostri radical chic è una panacea che può curare tutti i mali, compresi quelli che derivano da culture radicate e purtroppo assai dure da estirpare. Anche questo è un tentativo goffo e disperato di riconquistare un rapporto col popolo. Si pensa che questa sia la via più facile: i poveri, si sa, sono rozzi e anche esasperati, quindi non possono non seguire chi propone punizioni esemplari, chi addita colpevoli sicuri, chi si mostra deciso nella condanna della pubblica immoralità.
Naturalmente anche questa è un’illusione. Forse il popolo segue, forse si mostra veemente e arrabbiato, ma continua a non amarli. Perché non c’è nulla di peggio ai suoi occhi dei moralisti e dei paladini della legge che poi sono i primi a preferire le vie del compromesso, della raccomandazione, del sotterfugio.

In questi anni, in quanti scandali si sono trovati politici della sinistra? In quante cronache di carriere universitarie abbiamo letto di moglie e figli di baroni rossi che hanno fatto carriera? Il popolo evidentemente – è desolante ma è così – preferisce i malfattori sinceri, i ricchi che ostentano la loro ricchezza, gli evasori di grandi fortune che li fanno sentire meno colpevoli della loro piccola evasione, gli imbroglioni dichiarati. Ma se è così quando e con quali gesti la sinistra si porrà il problema di spezzare una sua immagine tanto radicalmente odiata?
di Ritanna Armeni