giovedì 30 gennaio 2014

Neanche le foto sul Sunday Times hanno placato gli zelatori del Cav. Aldo Sarullo

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Neanche le foto sul Sunday Times di Berlusconi vecchio hanno aiutato i suoi zelatori per missione a capirlo un po’ di più. Nulla da fare. Viste le critiche, egli sembra che sia ancora una volta la password del Male: le dieci lettere per l’accesso al peggio universale.

Nella vita di tutti i giorni - imparando dal lessico teatrale - l’identità degli uomini viene tripartita in vera, finta e falsa. Il teatro è sempre finto e mai falso poiché non si chiede allo spettatore di crederlo vero, gli si chiede di credere a quel modo di rappresentare la vita in quel momento e in quel contesto.

Nella realtà ciascuno di noi o è vero o è falso, cioè si mistifica o, quando si rappresenta, è finto, con trucchi più o meno vistosi, dall’acconciatura alla cravatta, dai tacchi a spillo allo smoking. Così siamo tutti fintamente più simili a come desideriamo per soddisfare il nostro onesto bisogno di relazione. Onesto fino a quando - rappresentandoci - non falsifica la nostra identità. E nella vita politica ciò ha una importanza radicale.

Quindi, la domanda: c’è qualcuno tra gli avversari del Cavaliere che possa accusarlo d’essere falso per avere mistificato le proprie caratteristiche identitarie? Che possa dire che Berlusconi-mister Hyde abbia comunicato al mondo un Berlusconi-dottor Jekill invece che - com’è accaduto - un BerlusconiBerlusconi, cioè sui generis, che comprende l’onesta finzione del suo apparire?

Invece proprio in àmbito politico è esperienza di tutti avere riconosciuto, in personaggi visibilmente ineccepibili, emeriti seppur guardinghi cialtroni. Di truccatori di identità è pieno il mondo della politicae ciò è intollerabile perché la cosa pubblica ha bisogno di forza e non di debolezze travestite.

I ladri di verità e gli asfittici di intelletto sono le due affollate categorie che, sempre presenti nell’umaneria di ogni tempo, hanno preteso d’essere la voce nobile e sapiente degli ultimi venti anni italiani. Oggi, dinanzi all’ennesimo onesto “trucco” di Berlusconi - quello di mostrarsi vecchio - hanno gridato allo scandalo. E ancora una volta gli è andata male. Prima hanno dichiarato moralmente falso l’onestamente finto, oggi non hanno visto il vero.

(l'Occidentale)

 

Mastrapasqua deve lasciare: che c'è da chiarire? Caino Mediatico

            



No, signor Primo Ministro, non c’è nulla da chiarire. Del caso del Presidente dell’INPS non si può occupare solo la magistratura e nemmeno il Parlamento. Se ne dovevano occupare tutti i governi precedenti.

Il premier Letta sa benissimo che il presidente dell’INPS non deve avere tutti gli incarichi che ha. E’ ovvio, plateale, clamoroso. Siete già in ritardo. Qualunque incarico rilevante in entità che abbiano o possano avere contenziosi o co-interessamenti con l’istituto di previdenza che Mastrapasqua amministra può dar luogo ad un gravissimo conflitto di interessi. Lei signor Primo Ministro, ha appena rilanciato l’esigenza di una legge sul conflitto di interessi. Per chi? Per che cosa? Destra e sinistra, separate e sommate sanno da tempo che numerosissimi dirigenti, manager pubblici, magistrati e quant’altro hanno doppi, tripli e multipli incarichi.

Ogni iniziativa in Parlamento per eliminarlo è stata contrastata dai lobbisti elettivi: giudici, dirigenti pubblici o altro. Essi sono in un conflitto di interessi diffuso, pericoloso e permanente. Questa si che è una lobby oscura e senza regole, che gestisce miliardi della nostra spesa pubblica. Non ci sono leggi da fare. Questa realtà che governa e detta legge ce la ritroviamo sempre in mezzo ai piedi, gonfiando il nostro deficit. Sull’Inps non dobbiamo aspettare nessun reato che solo la magistratura può accertare.

Mastrapasqua è innocente fino a prova definitiva del contrario. La politica no. La politica si deve liberare anche così’ dal carattere dirimente e sostitutivo dell’intervento giudiziario. Nunzia Di Girolamo si è dimessa per molto meno, per non parlare della Ministra Josefa Idem. La ministra Cancellieri da cui dipendono le vite di milioni di carcerati invece no. Curiosamente l’authority e la magistratura civile si sono interessati solo del conflitto d’interessi del Sindaco di Salerno che deleghe da Ministro non ha mai avuto. I tutori della legalità dei giornaloni esprimono indignazione a Renzi per la posizione di De Luca, ma non hanno mai chiesto a Mastrapasqua di dimettersi dagli incarichi in conflitto. Il Governo deve dire la sua sui suoi Ministri. I Ministri non amministravano direttamente i denari di milioni di pensionati e miliardi di fondi. De Luca, allo stato delle cose, amministra solo la città di Salerno. Nessuno di loro sedeva in consigli di amministrazione che gestiscono contenziosi o interessi conflittuali: qui è più grave. La contraddizione è in seno allo Stato che intermedia il 50% del PIL. Il conflitto di interessi nei CDA (non solo pubblici), le reti relazionali e crony nella governance di enti e imprese sono alla base di un sistema clientelare ed incestuoso, che fa assai più scandalo delle alte remunerazioni di cui spesso si parla e che si sommano. Non c’è democrazia né sostenibilità se in un sistema pubblico ognuno non fa il suo dovere in coerenza e trasparenza se un amministratore “deve” fare gli interessi dell’azienda che amministra, non può amministrarne un’altra che può essere danneggiata o favorita dalla prima, anche se rispetta la legge. Faccia dimettere il Presidente Mastrapasqua senza indugio e scelga diversamente, o la stabilità e la credibilità del Governo non saranno davvero imputabili al dibattito politico.

(the FrontPage)

mercoledì 29 gennaio 2014

Perché la destra che ha successo fa sempre schifo. Luigi Mascheroni



Matteo Renzi, che infatti non è di quelli, li ha spazzati via dicendo che i loro atteggiamenti denotano una sudditanza culturale e psicologica verso l'avversario, anzi il nemico.
Sono quelli che dicono che «siccome piace a Berlusconi, questa cosa non si deve fare...». Ecco chi sono quelli: sono i peggiori di quelli che si credono sempre migliori. La minoranza che dà lezioni di democrazia alla maggioranza.

Sono quelli come Andrea Scanzi, che scrivono sul Fatto quotidiano, e siccome tu scrivi su Panorama allora, mi spiace, non sono tuo collega, anzi ti do del «Lei» per marcare la distanza antropologica: «Non sono un Suo collega». Mi spiace dirtelo: mi fai schifo, anche se sei mio collega.

Sono quelli sempre al posto giusto, e riescono sempre bene di profilo. Sono quelli che quando Gad Lerner si fa fotografare in boxer accanto a De Benedetti, è un intellettuale hipster, e quando Toti appare in tuta con Berlusconi è un cretino. Paolo Liguori decidendo con (auto)ironia di andare in onda con una tuta bianca, ha colto nel segno: «Se la indossa Obama è un genio, se la mette Toti un indumento infamante». A proposito di stile. Viene in mente quel commentatore chic che disse: «De Gasperi non si sarebbe mai messo la bandana». La risposta migliore fu: «Neanche la tutina attillata», allegando la foto di Prodi con bicicletta da corsa.

Sono i soliti noti che schifano tutto ciò che gli è ignoto, e non vogliono conoscere. «Tu non sei come me, io sono migliore. Non ti conosco, e non ti voglio neppure incontrare». E infatti si incontrano sempre fra loro, stessa spiaggia stessi salotti, di solito sulla tratta Repubblica-Feltrinelli-La7-Raitre. Tipo: tu spaparanzato sull'Amaca del grande quotidiano scrivi un libro sugli Sdraiati, in cui da ex sessantottino ti riscopri padre conservatore, e io ti faccio accomodare nel mio talk show e ti «lancio» la serata con un account su Twitter gestito da mio marito giornalista che dirige un sito in cui posta i video del mio programma con Dario Fo... Le invasioni dogmatiche.

Sono quelli che, dogmaticamente, sugli stessi giornali e negli stessi studi tv, scrivono e dicono che Piazza pulita di Corrado Formigli, che ieri ha fatto il cinque per cento, è «una trasmissione di successo», mentre quella di Del Debbio, che ieri ha fatto il sei e mezzo, dicono che è... Anzi non dicono niente, non ne scrivono neanche, perché «Dài, è su Rete4...». E se anche è Raidue, ma sei vicedirettore del Giornale, è uguale. «Dài, parliamo di Renzi che è andato dalla Bignardi...». «Ma è stato anche a Virus!?!». «Sì, ma dài, non è la stessa cosa...».

Non è mai la stessa cosa. È sempre una questione di profilo, destro o sinistro. Anche la Mondadori è così: vista dal lato azionista del Giornale è un po' volgare, ma vista dal lato Einaudi è chic. E infatti la consacrazione mediatica, come la popolarità, non è data dagli indici di ascolto, o dalle copie vendute. Al netto della professionalità, dipende da che tuta ti metti. Da una parte gli eleganti che sfilato sul red set, quelli che fanno la cultura alta, le trasmissioni impegnate, l'informazione, i giornali obiettivi. Dall'altra gli impresentabili che fanno la cultura bassa, le quinte colonne del berlusconismo, l'intrattenimento tette-e-culi, il gossip, o la macchina del fango, a seconda. E se qualcuno - in tv o nel giornalismo o in letteratura - prova a infrangere la barriera, o a saltarla, lo guardano schifati: «Ma come ti permetti?». Ma che Italia è questa che guarda Del Debbio? O lavora a Panorama? O scrive sul Giornale? Sono le domande che si fanno quelli, in minoranza di voti e di share, che vogliono sempre dettare le regole del gioco e del buon gusto. Arbiter elegantiarum di un'Italia che li sta fischiando.

(ilGiornale)

 

martedì 28 gennaio 2014

ArchivioAndrea's Version

28 gennaio 2014

“Non fingete che sia stato un film”, come ha voluto ricordare Renzi, lo sterminio non lo fu. Abbiamo dovuto sopportare ancora le teste di maiale, e le scritte antisemitesui muri, e i deliri pazzeschi di innumerevoli blog. Ma la reazione c’è stata, del tutto scomparsa per fortuna la memoria non è. Numerosissime celebrazioni, attestazioni, il governo, la presidenza, la chiesa, le testimonianze commoventi degli ultimi sopravvissuti ascoltate dai ragazzi, gli orrori infiniti di Himmler pubblicati un’altra volta dai giornali, addirittura una legge per ricordare l’inferno, speriamo, poi nuovi libri, nuovi film pubblicizzati com’era giusto, ma quel che è meglio, il negazionismo posto definitivamente all’indice. E da domani, rinnovato l’impegno, la coscienza a posto, la mano nella mano, alé, tutti a scoreggiare su Israele.

venerdì 24 gennaio 2014

La grande retata dei pm anti Cav.


Piovono avvisi sul patto del Nazareno. Altro che atto dovuto.

Per quanto il capo della procura milanese, Edmondo Bruti Liberati, cerchi di minimizzare, l’indagine o meglio la retata della magistratura contro Silvio Berlusconi, i suoi difensori e i testimoni del suo processo per corruzione di minorenne, è di una gravità straordinaria. I giudici dei processi precedenti, per giustificare la loro scelta di condannare gli imputati senza prove e ignorando le testimonianze a discarico, in base al principio o meglio al pregiudizio secondo cui “Berlusconi è sempre colpevole, a prescindere dalle prove”, nelle sentenze hanno sostenuto che chi non corroborava le accuse lo faceva perché corrotto dalla difesa. Se si applicasse un principio di questo genere in generale, sarebbe persino inutile celebrare i processi. I testimoni sarebbero talmente intimiditi da essere costretti a collaborare con l’accusa se non vogliono incorrere in terribili guai e persino gli avvocati difensori si muoverebbero con la cautela di chi deve badare, prima che agli interessi dell’assistito, a evitare di finire nella trappola delle procure onnipotenti.

All’argomento abusato secondo cui si tratta di un “atto dovuto”, in seguito all’indicazione di un’ipotesi di reato nella motivazione delle sentenze, si potrebbe obiettare che la procura non è un flipper che risponde agli impulsi senza la possibilità di sceverare, distinguendo quelli fondati da quelli che esprimono un accanimento giudiziario piuttosto evidente. In ogni caso, anche la scelta dei tempi per annunciare le nuove indagini sembra rispondere a esigenze di tipo politico che non hanno niente a che vedere con quelle giudiziarie. Il tentativo di mettere fuori gioco definitivamente Berlusconi, prima con le sentenze e poi con l’affrettata procedura che ne ha stabilito la decadenza dal seggio parlamentare, non era riuscito appieno. Al contrario, partecipando con senso di responsabilità e inventiva al processo riformatore, Berlusconi ha confermato di esercitare un ruolo di primo piano (che peraltro gli è stato riconosciuto dal leader del partito antagonista al suo, che ha parlato di sintonia e di riconoscenza).

Questa conferma di una funzione centrale, che peraltro è stata attribuita a Berlusconi dall’elettorato, evidentemente disturba il disegno dello strapotere giudiziario, il che spiega questa specie di contrappunto che contrasta con iniziative giudiziarie di dubbia consistenza ogni passo significativo dell’evoluzione dei rapporti politici. La distruzione per via giudiziaria di una presenza politica significativa, a lungo maggioritaria e comunque competitiva, rappresenta uno scardinamento della fisiologia democratica, un fenomeno di degradazione della vita pubblica che dovrebbe essere combattuto da tutti, indipendentemente dall’immediato interesse di bottega.

Le preferenze e i Parlamenti delle mafie. Arturo Diaconale


Non sarà il ritorno alle preferenze ad assicurare il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. Chi si ostina a combattere una battaglia di questo genere o è un ingenuo che poco conosce la storia politica del nostro Paese o è un ipocrita nostalgico del passato ma a cui la fine della Prima Repubblica non ha insegnato un bel nulla. Degli ingenui è inutile parlare. Queste “belle anime” si riempiono la bocca e la testa di frasi fatte sulla necessità di strappare ai capipartito il privilegio di scegliere gli eletti. Ma evitano accuratamente di informarsi che all’epoca delle preferenze erano sempre i capipartito a formare le liste dei candidati al Parlamento.

E lo facevano nient’affatto decisi a lasciare liberi i singoli candidati di conquistare come meglio potevano il consenso popolare, ma scegliendo accuratamente i candidati su cui concentrare i voti dell’apparato di partito e quelli che sarebbero comunque stati eletti grazie ai voti delle lobby e dei gruppi di pressione. Se queste “belle anime” rinunciassero ai vuoti schematismi e approfondissero la conoscenza della storia politica dell’Italia Repubblicana si renderebbero conto che il Parlamento dei “nominati” esisteva anche al tempo delle preferenze. I Parlamenti del Pci (e poi del Pds e dei Ds) erano tutti, senza alcuna eccezione, scelti dal vertice del partito e votati disciplinatamente dai militanti. Quelli degli altri partiti o erano sostenuti dagli apparati o erano espressione di potentati locali o nazionali ben conosciuti e accettati dai capi delle singole formazioni politiche. Non erano le preferenze a dare la misura della democrazia. Era il sistema dei partiti che usava le preferenze per indirizzare a proprio piacimento la formale libertà di scelta dei cittadini.

È difficile che gli ingenui si lascino convincere da queste argomentazioni (anche perché informarsi richiede impegno e non farlo consente di continuare a dispensare impunemente sciocchezze moralistiche). Ma forse l’argomento che va speso per smascherare gli ipocriti nostalgici del tempo passato può contribuire ad incrinare anche le loro ingenuità. Si tratta della considerazione secondo cui il ritorno alle preferenze, in una fase in cui i partiti tradizionali sono in crisi, diventerebbe un ulteriore e potentissimo incentivo al malaffare. Le elezioni con preferenze impongono ai singoli candidati spese personali direttamente proporzionali alla dimensione delle circoscrizioni ed alla ambizione dell’aspirante parlamentare. Qualcuno si chiede perché mai negli ultimi anni nel mirino della magistratura siano finiti in prevalenza i consiglieri delle regioni dove si vota con il sistema delle preferenze piuttosto che i deputati ed i senatori nazionali? Ed a nessuno viene in testa la preoccupazione che con lo spappolamento dei vecchi partiti il sistema delle preferenze trasformerebbe il Parlamento nella Camera dei ricattati dalle lobby, dai potentati legittimi di ogni genere e grado e, soprattutto, dalla mafia, dalla camorra e da ogni forma di criminalità organizzata? Tutto questo, ovviamente, non significa sostenere che il Parlamento dei nominati dai capipartito sia meglio del Parlamento scelto dalle mafie. Significa, più semplicemente, ricordare che passare dalla padella alla brace produce lo stesso risultato disastroso. E che se si vuole effettivamente trovare una soluzione al problema non c’è altra strada che quella dell’introduzione per legge delle regole democratiche all’interno dei partiti. Cioè fare ciò che i più illuminati dei Padri Costituenti avevano chiesto e che i più furbi dei capi-partiti di allora non fecero mai passare nella Carta Costituzionale!

(l'Opinione)

 

Il Partito dei Magistrati distrugge e puntella. Mauro Mellini


Il fatto è semplice (se si vogliono ignorare molte sulle stranezze e complicazioni).
Il Sindaco dell’Aquila, che ha le dimissioni facili, sia perché facilmente vi ricorre, sia perché altrettanto ed ancor più facilmente le ritira, si era dimesso, dopo che un’inchiesta giudiziaria aveva sconquassato la sua Giunta, coinvolgendo vicesindaco ed assessori, mettendo in gattabuia e ai domiciliari assessori ed esponenti del partito (centrosinistra) che regge, si fa per dire, la Città.

Poi la prevista, benché inconcepibile, revoca delle dimissioni. Motivo: a puntellare il Sindaco Cialente e a rimetterlo in sella è intervenuto nientemeno che il Procuratore Capo di Pescara (ex), quello del processo Del Turco. Un esperto di demolizioni e, quindi, anche di ricostruzioni di Amministrazioni.
Con l’arresto di Del Turco fu azzerata l’Amministrazione della Regione Abruzzo. Con il puntello oggi fornito a Cialente, è salvata quella del Comune dell’Aquila. Per via giudiziaria, dunque era stata messa in crisi l’Amministrazione Comunale. Con un colpo di teatro di un esponente di spicco della “magistratura demolente” la questione morale evidenziata dall’inchiesta giudiziaria si risolve di colpo in bellezza ed onestà.
“Chi di giustizia perisce di giustizia rifiorisce”. Così sembra oggi trasformato il noto aforisma.
Con Trifuoggi vice, Cialente imbocca una nuova via: non più quella di casa ma quella della poltrona per un solo attimo abbandonata (o che così pareva). Il Partito dei Magistrati sta rilevando un nuovo volto, una nuova capacità taumaturgica, quella delle risurrezioni dei travolti dalle “questioni morali” che esso stesso con tanta facilità provoca.
Del P.d.M. si potrà dunque dire con Manzoni che è colui “che atterra e suscita che affanna e che consola”. Oggi pare che, dopo tanti affanni seminati in Abruzzo ed altrove, il P.d.M. “consoli” Cialente. Trifuoggi, magistrato oramai in pensione, ci ha tenuto a precisare che rimetterà a posto le cose all’Aquila (“si tratta di una rivoluzione!”) senza prendersi manco un euro, manco una lira. Insomma lo farà per mero diletto, cioè per trastullo. Vedremo quanto si potranno trastullare gli aquilani.

Giustizia Giusta

mercoledì 22 gennaio 2014

Titolo quinto, il raggiro ha vinto. Davide Giacalone


Meritoriamente il segretario del Partito democratico, Matteo Renzi, insiste sulla necessità di cancellare la pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ha distrutto lo Stato unitario e fatto crescere a dismisura la conflittualità innanzi alla Corte costituzionale e il mostro della spesa regionale. Bravo. Però si vorrebbe sentire una parola chiara sulla colpa di ciò. Ieri, in direzione, ha detto: “abbiamo sbagliato”. Verissimo. Ma “noi” chi? Ha sbagliato la sinistra. Perché c’è chi, come noi, puntò l’indice contro l’obbrobrio nel mentre il Parlamento lo votava, e chi, come la sinistra, non solo lo volle, ma poi lo difese, impedendo che fosse posto rimedio. La memoria è necessaria, altrimenti va a finire che con il Titolo quinto il raggiro ha vinto.

La riforma incriminata risale al 2001. Governava Giuliano Amato (oggi giudice costituzionale), con una maggioranza di sinistra. A volere la riforma fu il più grosso partito della sinistra, che allora si chiamava Ds, Democratici di sinistra. Da quelle parti, ancora oggi, si sostengono due cose: a. che la nostra è la più bella Costituzione del mondo; b. che non va mai modificata “a colpi di maggioranza”. Invece la scassarono con uno scarto infinitesimale e con una maggioranza coincidente (ma minore) con quella del governo, che era consenziente. La ragione di tale porcheria era la voglia di sembrare più federalisti della Lega, così tentando di portarle via voti (era l’era in cui Massimo D’Alema considerava i leghisti “una costola della sinistra” e partecipava al loro congresso nazionale). Le elezioni le persero ugualmente. Noi perdemmo l’unità dello Stato. Ma questo è solo il primo passo.

Il 7 ottobre del 2001 si tenne il referendum confermativo. Il centro destra ebbe la grave colpa di sottrarsi alla campagna referendaria. Il risultato fu: votò solo il 34% degli aventi diritto (ma i referendum confermativi non hanno quorum, quindi sono comunque validi), di cui il 64% a favore della riforma. Siccome questa fece subito vedere i suoi effetti devastanti, già nel 2005 (18 novembre) era stata cancellata. Molti tendono a dimenticare, ma in quell’occasione, con una maggioranza comprendente la Lega (governava Silvio Berlusconi), fu reintrodotto nella Costituzione il principio di “interesse nazionale”. Per me era ancora poco, ma rispetto al disastro del 2001 era già molto. Peccato che la sinistra scatenò l’inferno, talché i suoi parlamentari chiesero il referendum confermativo, unitamente a 5 consigli regionali e dopo avere raccolto 150.000 firme. La loro riforma, quella che oggi Renzi vuol demolire, la difesero con le unghie e con i denti. Così si arriva al giugno del 2006 (governante Romano Prodi), quando il referendum confermativo dà il seguente risultato: votò il 52% e chiese la cancellazione dell’interesse nazionale il 61%. L’anno successivo, sempre restando al governo, chiusero i battenti i Ds e nacque il Pd.

Da quando è stata approvata quella riforma-sgorbio, qui non si fa che ripeterne l’estrema negatività. Nel 2006, con Libero, pubblicammo anche un libro, nel quale era contenuto un mio pezzo le cui tesi si ritrovano, pari pari, fra le cose che oggi dice Renzi. Nessuno chiede a lui, personalmente, di fare autocritica per un erroraccio in malafede, cui non prese in nessun modo parte, ma posto che fu opera del suo partito, benché diversamente nominato (sono sempre gli stessi !), e posto che oggi sostiene quel che noi abbiamo sostenuto per anni, sarebbe onesto riconoscerlo, stabilendo che non siamo affatto tutti uguali: c’è chi ragionò dell’interesse nazionale e chi operò solo per interesse di parte e di contrapposizione politica, procurando danni enormi all’Italia.

Non è a noi, pertanto, che si deve spiegare quanto sia giusto riformare la riformaccia, ma questo non cancella un problema: per farlo occorre tempo (doppia lettura parlamentare, circa un anno) e quel tempo ci porta dritti nella zona in cui non si potrà più votare; non è che la fregola delle urne ci appassioni, ma è pur sempre meglio del tirare a crepare, nel mentre i problemi crescono per i fatti loro; quindi, giusto per non farla sembrare una scusa, quella delle riforme costituzionali (cancellazione del Senato compresa), sarà bene partire dalla riforma del sistema elettorale. E’ ordinaria e può essere discussa subito. Se la sintonia, fra gli odierni Pd e Forza Italia, regge, bene, molto bene: avanti con le riforme. Se non regge, meglio saperlo subito.

Pubblicato da Libero

lunedì 20 gennaio 2014

La giustizia è un optional. Angelo Libranti


Sarebbe ora di rinunciare alla vulgata che vuole il diritto nato in Italia. Forse era giustificato prima, quando ancora allignava il feudalesimo o, più tardi, l’inquisizione per far confessare i rei.

E’ pur vero che nell’Impero Romano le leggi erano all’avanguardia ed il suddito era protetto da un minimo di civiltà giuridica, ma sono passati troppi secoli per far riferimento a quei tempi; oggi è tutt’altra questione e, al confronto con altri Stati, siamo un paese di selvaggi dove ognuno si comporta come meglio crede e la magistratura latita, mostrando limiti di cultura giuridica impressionante, quando non si tratta di malafede.

L’ultima è l’”affare” Di Girolamo, una parlamentare intercettata in casa sua da un individuo munito di telefonino che, impunemente, ha registrato tutta la conversazione, parolacce comprese.

Il bello è che la Corte di Cassazione, con sentenze del 1999 e del 2003, ritiene legittime queste rilevazioni, durante una conversazione privata, ai fini di una vertenza legale. Se può essere accettata la registrazione in un luogo pubblico, sembra difficile la stessa procedura in casa altrui, dove le mura domestiche sono considerate inviolabili e per accedervi, occorre l’autorizzazione di un giudice, senza contare che si tratta di una parlamentare, le cui conversazioni private dovrebbero essere coperte, quanto meno, da indiscrezione.

Comunque sia, viene sancito che pur valide ai fini legali queste intercettazioni, se ne proibisce la divulgazione pubblica qualora non sia necessario alla tutela di un proprio diritto, per non incorrere nel reato di trattamento illecito di dati personali.

Qui si tratta di pubblicazione sui giornali prima ancora della procedura per una causa, al solo fine di sputtanare una persona, parlamentare in questo caso.

A questo tipo di linciaggio mediatico siamo abituati, da anni, avendo preso visione di altre intercettazioni telefoniche finalizzate per oltraggiare il nemico, con l’aggravante che vengono gestite dalle Procure che le utilizzano, a tempo e luogo, opportuno per colpire con più efficacia l’avversario politico.

Per restare all’attualità, colpisce il fatto che una sentenza del TAR arriva nel momento giusto per annullare le elezioni regionali del 2010 e mettere sulla rampa di lancio il compagno Chiamparino, appena prosciolto da accuse di abuso d’ufficio per alcune vicende quando era sindaco di Torino.

Resta inspiegabile come mai intercettazioni vecchie di anni vengano rese pubbliche in momenti delicati per un politico, o per metterlo in cattiva luce secondo le convenienze di maneggi parlamentari.

E’ successo con la Cancellieri e, in questi giorni, con Alfano accusato di telefonate con Ligresti per concordare un pranzo.

L’intercettazione autorizzata da un giudice è un atto giuridico custodito dalle Procure, che dovrebbero renderle note in fase dibattimentale. Da noi, invece, viene pubblicato sui quotidiani, anzi sul “quotidiano”, prima ancora che si costituisca una Corte giudicante e dato in pasto al pubblico, con evidente danno di immagine del soggetto colpito, specie poi se tutto viene archiviato col “non luogo a procedere”.

Molte cariche pubbliche sono state lasciate a seguito di dimissioni per accuse, dimostrate successivamente, non provate o inefficaci, intanto il Sindaco e il Presidente di Regione, accusati ingiustamente, hanno perso la nomina suffragata da elezioni democratiche in barba alla volontà dell’elettorato.

Dove sta il diritto e dove sono le garanzie giuridiche per il cittadino fiducioso di essere tutelato quando, invece, vive in una nazione illusa dal suo passato, nella quale il Diritto é un optional e dei codici se ne fa beffe attraverso discussioni elaborate in modo tale per piazzare le idee di chi li interpreta?

(the FrontPage)

Veleni in transito. Davide Giacalone


Che le armi chimiche siriane, avviate alla distruzione, sbarchino nel porto italiano di Gioia Tauro non è solo ragionevole, è anche un bene. Così come è occasione per chiarirci le idee circa l’articolazione istituzionale delle autonomie locali. Che si chiedano informazioni sulla sicurezza dell’operazione è non solo lecito, ma opportuno. Che si supponga di potere sottrarre un pezzo d’Italia alla sovranità nazionale, per consegnarla alla sovranità regionale, municipale o circoscrizionale, è inaccettabile, oltre che privo di senso.

La consegna, da parte dei siriani, delle armi chimiche (se tutte, in che tempi e con quali controlli è questione rilevante, ma diversa) è un fatto positivo. All’operazione l’Italia partecipa finanziandola con 3 milioni. Non è una gran cifra, ma è anche vero che in Siria non abbiamo gli interessi di altri e non è una bella cosa essere chiamati solo per sganciare, senza avere alcun ruolo. Per questo l’uso di un porto italiano è da valutarsi positivamente: a. oltre a pagare portiamo qui attività e lavoro, facendoci pagare; b. gestiamo un passaggio dell’operazione; c. quel porto non è evocato, nella nostra storia nazionale, solo a memoria dei soldi ben spesi e degli investimenti ben fatti, sicché torna utile dimostrare al mondo che funziona bene.

Questo terzo è un punto rilevante: siamo sicuri che a Gioa Tauro la cosa possa essere gestita con professionalità e sicurezza? Sì, perché lo fanno di mestiere e spesso. Anzi, sostanze altrettanto, se non più pericolose vengono normalmente trattate senza lo schieramento, nazionale e internazionale, di sicurezza che ci sarà in questo caso.

I comuni della zona si sono mobilitati, lamentando di non essere stati informati per tempo e minacciando di ostacolare il lavoro. Ma da quando in qua si devono informare i comuni per operazioni di politica estera e per lavori portuali che normalmente si fanno e su cui nessuno ha avuto da ridire? E se pensano di frapporre quale che sia ostacolo (spero proprio non ci abbiano mai pensato), non c’è che da affidare la pratica alle forze dell’ordine. Il presidente della Regione è stato attaccato, perché si suppone che sapesse, ma abbia taciuto. Lui risponde che no, non sapeva e, pertanto, è indignato. Purtroppo la sventurata riforma del Titolo quinto della Costituzione (voluta e realizzata dal Pd, oggi giustamente detestata dal segretario del Pd, che preme per la riforma, ma deve dirlo e rimproverarlo ai suoi), ha assegnato alle regioni materie che le portano ad avere spese tipiche della politica estera, con sedi all’estero e partecipazione diretta a eventi internazionali. Vale per il turismo come per l’internazionalizzazione. Ciò ha prodotto sprechi e disfunzioni. Sta di fatto, però, che la politica estera non è stata regionalizzata, né la sovranità nazionale abrogata. Quindi calma con l’indignazione e ciascuno si occupi di quel che gli compete.

Devono tacere e accettare? No, possono ben chiedere di sapere con quali criteri si procederà e se ci sono dei rischi per la popolazione. Questo è nei loro doveri e poteri. Nulla di più, perché sarebbe grottesco, e nulla di meno, perché sarebbe umiliante.

Una delle ragioni per cui l’Italia annaspa in una crisi infinita consiste nel fatto che ogni occasione è buona per animare polemiche tanto devastanti quanto inutili; la faziosità politica usa ogni cosa pur di scagliarsi contro l’avversario, con il risultato che, a turno, tutti si scagliano contro lo Stato; e in ogni pagina della nostra vita nazionale si vuol leggere lo scandalo e, quindi, il ruolo redimente dei moralizzatori, con il risultato che il libro di storia nazionale è sempre più scritto da magistrati, a tal ruolo da nessuna legge preposti e da nessun elettore delegati. Se sulla nave americana si potessero caricare anche questi veleni, che c’intossicano e rincitrulliscono, non sarebbe male.

Pubblicato da Libero

sabato 18 gennaio 2014

L'Angelino incapace perfino di tradire. Vittorio Feltri

Alfano ha rivelato di essere inadeguato: non gli manca soltanto il "quid", ma anche la malizia necessaria per essere un traditore costruttivo


Che cos'ha combinato Angelino Alfano? Dove pensa di arrivare? Quali carte ha in mano per tentare di non annegare nel nulla? Sono domande che ci poniamo dal giorno in cui egli abbandonò l'ovile accompagnato da un piccolo gregge di illusi, forse ingenui, sicuramente sprovveduti.
Ma oggi sono interrogativi più che mai di attualità e ai quali - visto il suo silenzio - proviamo noi a rispondere in chiave ipotetica. Cominciamo col dire che il Coniglione mannaro, nato democristiano in Sicilia, entrò giovanissimo nell'armata (un po' raccogliticcia) berlusconiana ai tempi in cui Forza Italia era considerata un Ufo. In pochi anni Angelino fece carriera: addirittura responsabile del ministero della Giustizia, dove ha lasciato una traccia indelebile, pardon, invisibile. Ospite fisso dei più importanti talk show televisivi, grazie a un eloquio sciolto e disincantato, seppe conquistare il favore del maggior intenditore di tivù-spettacolo: Silvio Berlusconi. Che lo promosse addirittura proprio delfino, che dico, controfigura, uomo di fiducia, segretario del Pdl. Però, che vertiginosa ascesa. Appena quarantenne, un virgulto, Angelino salì talmente in alto da mostrarsi per ciò che in effetti era ed è: bravino, ma senza «quid», secondo una storica e raggelante definizione del Cavaliere. Qui si capì che era già iniziata la caduta del Preferito.Che sia stata la battuta sferzante del presidente ad accendere la miccia del risentimento nell'animo di Alfano? Può darsi. È un fatto che da quel momento il desiderio di riscatto ha modificato il carattere del Coniglione. Il quale, per essere sintetici, si è allontanato lentamente da Arcore e si è avvicinato velocemente al Quirinale, a Enrico Letta e alla sinistra indomita delle larghe intese. La frequentazione di certi ambienti lo ha convinto - dopo la condanna in Cassazione del capo - che il Cavaliere fosse alla frutta, e gli è venuta l'ideona: quella di lasciarlo al suo infausto destino. Succede sempre così: se mi conviene ti seguo, se non mi conviene ti saluto. Faccio un po' di scena, verso qualche lacrimuccia e me la filo. Alfano se l'è filata, persuaso di aver realizzato un buon affare (lui e i suoi adepti). Con un pretesto: povero Silvio, è succubo dei falchi, dei Fitto e delle Santanchè, e non comprende che ascoltando questa gente andrà a sbattere.

All'ex delfino son sfuggiti alcuni dettagli della personalità complessa del Cavaliere. Questi: l'uomo è invecchiato (va per i 78), ha diverse condanne sulle spalle, è in procinto di essere affidato ai servizi sociali, è afflitto da mille grane, il Milan è meno distante dal fondo della classifica che non dalla vetta. Nonostante ciò, mentre chiunque nei suoi panni sarebbe in clinica con gli aghi delle flebo infilati nelle vene, lui, uno che non lo ammazzano neppure dieci Boccassini, è lì che lotta per ringiovanire i vertici del partito e smania per incontrare Matteo Renzi, allo scopo di trattare sulla nuova legge elettorale. Un tipo simile non è mica normale. Non può un Alfano qualunque supporre di infinocchiarlo gratis. Difatti ne è stato infinocchiato. Se al tavolo dei negoziati decisivi siedono, l'uno dinnanzi all'altro, Silvio e Matteo (e nessun altro), significa che Angelino non conta più un tubo, ammesso che abbia mai contato qualcosa. Il leaderino del Nuovo centrodestrina è riuscito nell'impresa di spaccare, non aderendovi, Forza Italia; di fondare un partitino ininfluente; di tenere in piedi un governo patetico, buono solo a pasticciare con le tasse le cui sigle sono criptiche e delle quali si ignora quanto pesino sulle nostre tasche e quando vadano pagate. Non solo. Nel giro di un paio di mesi il Coniglione mannaro è stato capace di litigare con Renzi, pregiudicandosi la permanenza nella maggioranza, non è stato in grado di preparare proprie liste alle regionali in Sardegna, e dubitiamo che a maggio superi il test europeo, accaparrandosi qualche seggio, poiché difficilmente sfonderà lo sbarramento del 4 per cento.

Alfano in questa congiuntura ha rivelato di essere inadeguato: non gli manca soltanto il «quid», come diagnosticò spietatamente il Cavaliere, ma anche la malizia necessaria per essere un traditore costruttivo. È un ragazzo impaziente e presuntuoso che, dopo avere vinto alla lotteria la cadrega di segretario del Pdl, invece di ringraziare il Signore (Silvio), lo ha rinnegato ricavandone un pugno di mosche e forse qualche pugno in faccia (nelle settimane prossime venture).
Se domani, o un attimo prima o un attimo dopo, Renzi e Berlusconi annunceranno di avere trovato l'intesa sul modello spagnolo per la nuova legge elettorale, Angelino e la sua orchestrina del piffero avranno una sola possibilità di sopravvivere: bussare alla porta del Cavaliere e chiedergli scusa. Lo faranno. E lui, accanto a quella di Dudù, aggiungerà qualche ciotola anche per loro, che agiteranno la coda felici e contenti, ma anche un po' scornati.

(il Giornale)

 

Colpevoli d'esser virtuosi. Lorenzo Tomassini


Da troppo tempo gli italiani accettano la tassazione della ricchezza, e quindi dei loro risparmi, chinando il capo come se fossero responsabili di qualcosa e, pertanto, meritevoli di essere sanzionati: Ho risparmiato, ho fatto sacrifici, ho comprato casa per la famiglia, ergo: ho sbagliato! Chiedo scusa Governo, quanto sangue ti devo dare ancora?” .

Colpevoli di aver RISPARMIATO.

Più che “leggi finanziarie, di stabilità, Imu, Iuc, Tari, Tasi (… e paga!)”, la “Letta & soci sdf” pronuncia sentenze, tutte rigorosamente senza processo e difesa, che puniscono i nostri risparmi con una puntualità ed una velocità che farebbero rabbrividire i tribunali olandesi.
Un primato “tutto” italiano, che, me lo consentirete, smentisce le “gratuite” malignità che ogni tanto si sentono sulla lentezza dei nostri “derelitti” uffici giudiziari.
In realtà, siamo al cospetto di un messaggio devastante, anticostituzionale ed antisociale, perché contrario al diritto naturale, all’etica, all’economia ed al futuro del Paese.
Ciò nonostante, da anni ci bombardano di sciocchezze per inculcarci nuovi principi. Ci parlano di nullatenenti, di società ingiusta, di furbi da combattere, di nuove povertà che si aggiungono alle vecchie, di storie compassionevoli. Fanno leva su nostri atavici sensi di colpa, per mettere sempre più le loro manacce nelle nostre tasche.
Pontificano dai pulpiti delle trasmissioni televisive, inorridiscono parlando di “sommerso”, snocciolano ricette economiche, inventano “nuove” imposte.
In realtà, ci tolgono soldi che troppo spesso sperperano.
Sono i praticoni della politica, i self made man dell’unico ambito della società in cui chiunque, dalla mattina alla sera, può diventare qualcosa o qualcuno, indipendentemente dal lavoro svolto e dal gradimento della gente.

Vuoi fare il medico? Occorre una laurea ed un’abilitazione.
Vuoi fare l’architetto o l’ingegnere? Idem.
Vuoi fare politica? Occorre un amico, meglio se potente.

E, quindi, eccoli già in TV a scandalizzarsi di quello che fan gli altri, a moralizzare il Paese, a pendersela con innominati evasori. Ciò che importa è dar la colpa a qualcuno e confondere le idee “dando numeri al lotto”: chi dice cento, chi duecento, chi si spinge fino a trecento miliardi di euro. Ma la riffa del sommerso serve solo a trovare pretesti ed a giustificare un risultato sempre uguale: i “furbi” non li acciuffa mai nessuno (o quasi) e l’ “amico ascoltatore” sta per essere nuovamente raggirato attraverso infinite circonlocuzioni, battibecchi, battute e … variazioni dei nomi delle imposte che, oltre al mal di testa, gli daranno la sensazione, almeno fino alla prova del “commercialista”, che il nuovo balzello sarà inferiore a quello che gli si doveva chiedere e, comunque, più equo e rispettoso rispetto al passato. E la fregatura è servita!
La verità, però, è altro: del maxi evasore non frega niente a nessuno perché è molto più facile colpire milioni di italiani tassando beni che non si possono nascondere.
E per il partito del “tassa e spendi” comincia la festa, perché la ricetta è bella e pronta: tassare la casa sulla scorta di un’odiosa ed illegittima presunzione: chi ce l’ha è ricco e, come tale, deve pagare (o morire).
Avete capito bene: hanno codificato una nuova equivalenza, casa=ricchezza, per proletrizzarci e controllarci ancora meglio!
Del resto, a questi signori poco interessa se accanto a queste (precarie) proprietà vi siano mutui trentennali o altri debiti da pagare. Meno ancora se siano il frutto di anni di nostri sacrifici. Loro, “i vampiri di Stato”, non si commuovono. In gioco c’è un grande potere, che vogliono mantenere intatto anche a costo di distruggere l’economia e la pace sociale. Un potere che esiste solo se ogni anno i fiumi del gettito portano più acqua di quanta il colabrodo della spesa ne faccia uscire. Più soldi = più spesa. Più spesa, più potere.
Rieccoci, quindi, al punto di partenza, ai nuovi principi che ci vogliono inculcare per uccidere il concetto di “reddito” e sostituirlo subdolamente con quello (più ampio) di “proprietà/ricchezza”. Il fine, è evidente, è quello di tassare più volte lo stesso guadagno per avere sempre denaro da spendere e, quindi, potere. Un potere che si alimenta stringendo il laccio al collo dei contribuenti/sudditi e determinando il progressivo impoverimento delle famiglie (nuovi poveri), il crollo del valore dei loro investimenti (gli immobili ora valgono la metà !), una maggiore domanda di ammortizzatori sociali (a cui corrisponde una dipendenza dal potere “salvifico” della politica).
Prima lo capiamo, prima ci liberiamo dal basto che ci hanno messo sulla schiena.

lorenzotomassini.it

giovedì 16 gennaio 2014

Ho pagato il pizzo. Davide Giacalone


Il sabba fiscale è convocato in seduta permanente. Roba che anche streghe e stregoni ne ricaverebbero un certo logorio. Lo scorso martedì 14 ricevo una lettera dal comune di Roma, anzi “Roma Capitale”. Il contenuto è simpatico, nonché rispettoso dei cittadini: lei deve pagarci due tasse, entro il giorno 16 (cioè oggi). L’avviso, dunque, arriva due giorni prima della scadenza, perché, come si conviene a tutti i cittadini per bene e a tutti i contribuenti onesti, noi teniamo le mazzette di soldi pronte per onorare i nostri debiti. Anche se non ci hanno ancora informato sui medesimi. Un buon cittadino sa che lo Stato, nelle sue varie e variopinte articolazioni, può sempre venire a chiedere quel che non sapevi di dovere, e sa che è già tanto se lo Stato usa la cortesia d’avvertirti, laddove potrebbe direttamente punirti, quindi non è il caso di sofisticare sul così corto preavviso.

Però è sbagliato, perché la scadenza non è il 16, ma il 24. La società privata, ma municipalizzata (Ama), una dette tante false Spa, costruite da un mostro demente che, a seconda dei casi, si traveste da pubblico o da privato, la società, dicevo, ha fatto partire le lettere troppo tardi, fornisce l’avviso con un anticipo ridicolo, ma non per questo è riuscita a sfuggire al cambio di scadenza, nel frattempo deciso dal governo. Ergo: troppo tardi, rispetto ai bisogni di chi deve pagare; troppo presto rispetto a norme e scadenze che cambiano in continuazione.

C’è di più: le tasse sono due, come vi dicevo, ma nella lettera trovo un bollettino per andare alle poste e un F24 da portare in banca. Saranno due sistemi alternativi? Neanche per idea, come recita il testo, redatto in burosupercazzolese e stampato in un corpo che rappresenta una sfida meritevole di denuncia presso la corte dei diritti oculistici, in realtà devo andare in banca per una cosa e alla posta per l’altra. Perché il bravo cittadino non solo tiene sempre i soldi pronti, nel caso glieli chiedessero, ma non ha mai una cippa da fare, talché può buttarsi gioioso in un paio di file, devastando una giornata di lavoro e ringraziando lo Stato per questa meravigliosa occasione di socialità che gli viene offerta.

Mentre sei in fila rileggi ancora la lettera, perché per intimarti troppo tardi di pagare in una data sbagliata ci hanno anche messo sei pagine. Con il che capisci che una delle due cose è una “maggiorazione”. Sarà dovuta? Chi può saperlo? Ci vorrebbe un esorcista. Solo che, in assenza di partiti che rappresentino i cittadini e con quelli dialoghino, in assenza di sportelli pubblici decenti, la mia mail è piena di posta che trabocca indignazione, scritta da cittadini che mi segnalano questo o quell’errore fiscale, questa o quella assurdità, nonché il calcolo sbagliato delle detrazioni che, com’è noto, si potranno avere grazie al fatto che il governo ha alzato le tasse. Come sono buoni! Ci sono italiani che non vivono seduti sul televisore e, fessi quali siamo, tendono a credere a quel che il governo dice, sicché mi scrivono: ma l’Imu non era abolita? Ma le patrimoniali sulla casa non erano scese? Com’è che nel 2014 pago, sommandole, più di quanto pagai nel 2013, che dicono essere l’anno del record? Non volendo supporre che manco al governo son riusciti ad azzeccare un solo numero, suppongono tutti che l’errore li penalizzi in esclusiva.

Allora: posto che so per certo che la data è sbagliata, il resto sarà giusto? Rimango in fila e pago. Le cifre non sono alte, piantare grane mi costerebbe di più. Lascio correre, più che altro lascio scorrere via i soldi miei, con la certezza di buttarli. Solo che alzo il bavero e calco il cappello, non vorrei essere riconosciuto nella vergognosa condizione di chi paga un pizzo senza avere il coraggio di fare una denuncia.

Pubblicato da Libero


mercoledì 15 gennaio 2014

Libertà economiche, L'Italia è 86ma.



L’Italia è 86ma nella classifica delle libertà economiche – l’Index of Economic Freedom promosso dalla Heritage Foundation, il principale think tank conservatore americano, e dal Wall Street Journal. Il rapporto, curato da Terry Miller, è giunto quest’anno alla ventesima edizione. I Paesi più economicamente liberi al mondo restano Hong Kong e Singapore, seguiti da Australia, Svizzera, Nuova Zelanda, Canada, Cile, Mauritius, Irlanda e Danimarca. Per la prima volta, gli Stati Uniti non figurano fra i primi dieci Paesi per libertà economica.

Su 178 Paesi censiti, 114 godono oggi di maggiore libertà economica rispetto allo scorso anno, 59 di inferiore libertà economica. In Europa, precedono l’Italia per libertà economica: Svizzera (punteggio 81.6/100), Irlanda (76.2), Danimarca (76.1), Estonia (75.9), Regno Unito (74.9), Paesi Bassi (74.2), Lussemburgo (74.2), Germania (73.4), Finlandia (73.4), Svezia (73.1), Lituania (73), Georgia (72.6), Islanda (72.4), Austria (72.4), Repubblica Ceca (72.2), Norvegia (70.9), Latvia (68.7), Macedonia (68.6), Cipro (67.6), Spagna (67.2), Polonia (67), Ungheria (67), Albania (66.9), Slovacchia (66.4), Malta (66.4), Bulgaria (65.7), Romania (65.5), Turchia (64.9), Montenegro (63.6), Portogallo (63.5), Francia (63.5) e Slovenia (62).

Il punteggio fatto riscontrare dal nostro Paese è 60.9, con un lievissimo miglioramento rispetto all’anno scorso, dovuto alla relativa disciplina dei conti pubblici. “Leggere l’Indice della libertà economica per un italiano è deprimente – ha dichiarato Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni – Questa classifica, nei vent’anni in cui è stata realizzata, non registra di fatto alcun miglioramento sensibile da parte del nostro Paese: il resto del mondo, nel suo complesso, ha fatto decisi passi in avanti verso una maggiore libertà economica, noi no.

Queste classifiche non registrano il benessere attuale, ma le precondizioni della creazione di ricchezza. L’Italia è un Paese che – ha concluso Mingardi – sia governato da tecnici sia governato da politici non si pone il problema di cambiare le sue istituzioni per liberare la creatività dei suoi cittadini. L’Indice della libertà economica ne dà conto impietosamente”.

(l'Opinione)

 

lunedì 13 gennaio 2014

Bray, Pajetta, Togliatti e Stella. Claudio Velardi

 



“Capo, abbiamo preso la Prefettura di Milano!”. “Bene, e ora che ve ne fate?”. La fulminante risposta di Togliatti all’entusiasta Pajetta andrebbe ricordata a Gian Antonio Stella, che sul Corriere di stamattina dedica un panegirico all’acquisto della reggia di Carditello da parte dello Stato, nella persona del ministro Bray.

Bene. E ora che lo Stato ha comprato per due soldi la reggia cadente, dopo molte aste andate deserte, che cosa ne farà? Una “fonte di ricchezza turistica”, magari “un centro di eccellenza dell’agricoltura”, dice Stella. Avrebbe potuto anche dire un museo delle tradizioni contadine o un centro di cultura multimediale o un laboratorio dell’artigianato di qualità o il luogo di accoglienza e di integrazione delle culture del Mediterraneo o del Sahel o perché no delle religioni monoteiste o delle tradizioni musicali teatrali culinarie del territorio. Che non può mai mancare, il territorio. E sempre – il tutto – con formazione anticamorra annessa. Così, a piacere. Come si è detto per decenni, buttando parole, progetti e moltissimi soldi nell’Albergo dei Poveri, nella Reggia del Quisisana, nelle ville del Miglio d’Oro, nella Reggia di Portici, nella Casina del Fusaro, e via elencando. Facciano insieme un bel tour nella Campania dei beni culturali, Stella e Bray, e vadano a vedere in che condizioni sono questi luoghi. Facciano due conti, e scopriranno che di soldi dei Fondi europei ne sono stati spesi in quantità abissali, e che ora questi luoghi sono nel migliore dei casi desertificati, molto spesso vandalizzati. Dopo ristrutturazioni costosissime, fatte senza prevedere destinazioni d’uso sensate, mai legate a progetti di marketing – mo’ ce vo’ – del territorio.

Insomma, quello che Stella e Bray non sanno, non capiscono (o forse fanno finta di non sapere) è che il tema della proprietà dell’enorme quantità di beni culturali esistenti nel Mezzogiorno e in Campania è l’ultimo dei problemi. E che quello della terribile camorra che incombe sugli appalti eccetera è solo il penultimo. Il primo, fondamentale problema è che nessuno sa cosa fare di questi beni, nessuno si sforza di capire come questi beni vanno messi a reddito. Perché tu puoi investire una valanga di soldi per ristrutturarli (e la ristrutturazione di Carditello distrutta costerà – meglio, costerebbe, perché non si farà mai – due occhi della testa), ma prima di tutto devi sapere cosa farne e perché, come gestirli, e come evitare che dopo un paio d’anni di allegra gestione pubblica, con tanto di società ad hoc, consiglieri di amministrazione, presidenti e consulenti vari, arrivi il giornalista anticasta di turno e ti dica: “Ma guarda in che condizioni versa questa meraviglia della reggia di Carditello. Lo Stato l’ha comprata e non sa che cosa farne”. Che poi – siatene certi – questo giornalista sarà sempre lui: il nostro benamato GAS.

(the FrontPage)

Troppe ipocrisie sugli immigrati. Angelo Panebianco


La richiesta di Matteo Renzi di inserire la riforma della Bossi-Fini fra i temi del contratto di governo, al di là delle motivazioni del neosegretario del Pd, potrebbe essere una occasione da cogliere per dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione. Dobbiamo solo limitarci a tamponare e contenere i flussi migratori o abbiamo bisogno di interventi più attivi e, soprattutto, più selettivi? Una domanda che diventa possibile se ci si lascia alle spalle le ambiguità e le ipocrisie che hanno fin qui dominato il campo. Le ambiguità dipendono dal fatto che sembriamo incapaci, a causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza (il dovere di accogliere i meno fortunati di noi)? Troppo spesso i due criteri vengono mescolati, l’immigrazione viene giustificata alla luce di entrambi. Se non che, si tratta di criteri fra loro in contraddizione. Ne deriva l’impossibilità di formulare proposte coerenti.

Le ragioni della convenienza sono note: abbiamo bisogno di contrastare l’invecchiamento della popolazione, abbiamo bisogno - almeno se la ripresa economica, come si spera, prima o poi arriverà - di forza lavoro aggiuntiva e di nuovi consumatori. Ma a queste ragioni, ispirate alla convenienza, ne vengono sovente aggiunte altre di diversa natura, di ordine umanitario (le ragioni dell’accoglienza). I piani si confondono rendendo impossibile fare scelte razionali. L’appello all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici (ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati. È la confusione fra il messaggio evangelico e la politica, fra l’universalismo della Chiesa, che parla a tutti gli uomini, e l’inevitabile particolarismo dello Stato che risponde a un insieme definito di contribuenti.


L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo? Quante risorse possiamo mettere a disposizione dell’accoglienza se la vogliamo decente? A chi e a quali altri compiti toglieremo queste risorse?
L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza , della nostra convenienza . Una volta adottato con franchezza ci consente di porci il problema - che altri Stati si sono già posti - di come selezionare gli immigrati. È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali caratteristiche, con quali eventuali competenze? Oggi il problema forse non si pone data l’elevata disoccupazione intellettuale giovanile (che resta grave, anche facendo la tara alle statistiche ufficiali che, fraudolentemente, imbarcano fra i disoccupati anche gli studenti).

Però, domani potremmo avere bisogno di importare mano d’opera qualificata, per esempio in settori tecnici lasciati sguarniti dai nostri giovani. In quel caso, una politica dell’immigrazione lungimirante cercherebbe di attirare quel tipo di mano d’opera a scapito di altri tipi. Considerando inoltre che un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa mano d’opera non qualificata. Oltre una certa soglia, non può assorbirla nei mercati legali, finendo così per favorire quelli illegali, gestiti dalla criminalità. Un effetto collaterale di una politica ispirata alla convenienza è che faremmo star bene anche gli immigrati che accogliamo.
E poi ci sono altre considerazioni che dovrebbero entrare nelle valutazioni di chi decide la politica dell’immigrazione. Per esempio, certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico. Quanto meno, questo dovrebbe essere un legittimo tema di discussione.


Una politica realistica, fondata sulla convenienza, si dovrebbe insomma porre problemi di scelta, di selezione (da monitorare e rivedere nel tempo, alla luce dell’esperienza). Non si tratta di inventare nulla. Altri Paesi hanno già imboccato questa strada.

(Corriere della Sera)


Il falso dei falsi. Davide Giacalone


Falso e ipocrita, lo scandalo delle firme false. Perché sono quasi tutte false. E dico “quasi” giacché possono pure esserci delle eccezioni, ma sono tutte false. Ricorsi e accertamenti di falsità ci sono stati per ogni dove, e continueranno a esserci. Senza distinzione di schieramento. Vediamo se si riesce a parlarne seriamente (cosa di cui dubito), esaminandone i tre aspetti più rilevanti e proponendo delle soluzioni.

La prima questione è relativa alla raccolta delle firme: secondo la legge devono essere apposte, da elettori, in calce alla lista dei candidati, nonché autenticate da un notaio o da un pubblico ufficiale abilitato, presente all’atto della sottoscrizione. Non avviene praticamente mai. Quando le cose vanno bene, quindi nel migliore dei casi, si tratta di firme autentiche, di persone reali e consenzienti, che firmano davanti all’autenticatore, ma su un modulo in bianco. Magari riporta l’intestazione con il nome della lista, ma non l’elenco dei candidati, che si tiene aperto fino all’ultimo minuto. Ho documentato casi di candidati che hanno sostenuto di essere stati in lista fino alla sera prima, salvo vedersi depennati al mattino. Posto che nessuno li ha smentiti, anzi, semmai si sono spiegate le ragioni dell’esclusione, la domanda è: come hanno poi fatto a raccogliere e autenticare centinaia di firme nella notte? Impossibile: le firme c’erano prima della lista. In tal caso è il pubblico ufficiale a commettere un reato. Nonostante noi lo si sia scritto, nonostante resti intonso il totem dell’obbligatorietà dell’azione penale, non è successo un bel nulla.

E questo è il caso migliore, perché poi si passa alle firme totalmente false. Di morti, di gente ignara, o di persone mai esistite. La sussistenza di tale truffa, ripetuta per ogni dove a ogni tornata elettorale, provoca un curioso fenomeno: restano fuori dalle schede le liste delle persone che provano a rispettare la legge. Grandioso. Come si rimedia? Cambiando la legge e cancellando l’ipocrisia. Un buon sistema è quello adottato in altre democrazie: al momento della presentazione delle liste, per le quali non si richiedono firme, si deposita una cauzione, soldi, poi, all’esito delle elezioni, chi ha preso almeno l’1% dei voti (anche se non ha conquistato alcun seggio) se ne va sconfitto, ma riprende i soldi, chi ha affollato la scheda senza che neanche i congiunti intendessero votarlo, ce li rimette. L’obiezione è: così solo chi ha soldi presenta la lista. Respinta: solo chi ha soldi dispone dell’organizzazione per la raccolta. Si tratta di un sistema onesto e meno oneroso, quindi si cambi la legge.

Seconda questione: quale giurisdizione è competente? Il caos regna sovrano, come dimostra il caso piemontese, dove il tribunale amministrativo si ridesta a seguito di una sentenza penale, posto che, in ogni momento, possono sollevarsi conflitti d’attribuzione. Oltre tutto, come appunto accaduto, con la sentenza di un tribunale che influisce sulla decisione dell’altro. Un caos che partorisce il mostro di annullamenti con quattro anni di ritardo. Un caos certo non limitato alle questioni elettorali, ma endemico in un Paese con troppe leggi, troppe giurisdizioni, troppi tribunali e troppi magistrati. La soluzione: l’interesse prevalente è quello della regolarità democratica, che viene prima dell’accertamento di eventuali responsabilità penali, quindi si stabilisca che i ricorsi avverso irregolarità elettorali si discutono subito, entro tre mesi, presso una Corte preposta (la Corte d’appello), quel giudizio è poi inappellabile. Non perché sia necessariemente giusto, ma perché è certamente sbagliato tenersi parlamenti e assemblee di cui non si conosce la legittimità. Se, poi, il tribunale penale accerta che il Tale ha commesso dei falsi noi tutti speriamo che sconti la giusta pena. Disincentiva più questo che altro.

Terzo e ultimo aspetto: ci rendiamo conto che mentre il Tar piemontese annulla le elezioni, dovendosi ancora pronunciare il Consiglio di Stato, l’intero nostro Parlamento è insediato sulla base di una legge elettorale incostituzionale? Né vale la scusa che gli atti della giunta deponenda sono comunque legittimi, così come quelli fin qui compiuti dal Parlamento, perché non solo non consola, ma semmai allarma. Così procedendo si demolisce la credibilità democratica, posto che i cittadini votanti erano veri. Qui la soluzione consiste nel varare una nuova legge elettorale. Tema caldo da tanto di quel tempo che ha un permanente gusto di riscaldato. Non entro nel merito, anche per noia di doversi ripetere inutilmente. Mi limito a osservare che un Parlamento in trepidante attesa delle motivazioni con cui la Corte costituzionale motiverà la bocciatura della vecchia legge, in modo da farsi dettare la direzione di marcia, è un Parlamento in tremolante attesa di perdere ogni dignità.

Confesso, infine, di attendere anch’io, con curiosità, quelle motivazioni, perché m’intriga non poco sapere in quale articolo della Costituzione hanno trovato l’obbligo che ci siano le preferenze. Ho sempre l’impressione che la copia di cui dispongo sia stata stampata solo per depistarmi.

Pubblicato da Libero

giovedì 9 gennaio 2014

Un "asse" prevedibile. Angelo Libranti




L’avevamo già scritto in tempi non sospetti; c’è un accordo sottinteso fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, circa la politica italiana.

Risale al famoso incontro avvenuto ad Arcore nel Dicembre del 2010. Da allora si sono “annusati” a distanza senza compromettersi. Ora, dopo l’exploit di Renzi ed il ridimensionamento del Cavaliere, nel contesto di impazzimento generale dei partiti, dove non si capisce più a quale ideologia fanno riferimento, tornano a contattarsi.

Sono cambiati i rapporti di forza e al Cavaliere tocca rincorrere il Sindaco di Firenze, reduce di una prestigiosa affermazione alla segreteria del PD e Presidente del Consiglio in pectore.

La loro idea era spartirsi l’elettorato per avere due schieramenti con poche differenze rivendicative, sul modello delle democrazie più avanzate. L’ingresso in politica del Movimento di Grillo però, scombussola i piani, anche se la posizione non collaborativa dei 5 Stelle li isola e rende più facile l’accordo a due.

La crisi latente del Governo Letta rende più facile l’accordo, cominciando col revisionare una legge elettorale assurda, per avere un Parlamento più idoneo ai desideri dei cittadini, che certamente non avrebbero votato un Razzi, per esempio, o lo stesso Scilipoti, semplicemente nominati da segreterie di partito interessate e manipolati da altre segreterie, secondo le necessità del momento.

Urge un chiarimento nelle posizioni dei singoli rappresentanti del popolo italiano e urge velocizzare l’approvazione delle leggi di riforma, onde concretizzare provvedimenti, spesso annunciati e mai realizzati.

La famosa modifica della Costituzione, approvata dal III Governo Berlusconi nel 2005, che prevedeva la riduzione dei parlamentari ed il ridimensionamento del Senato, finì sciaguratamente nel nulla col referendum dell’anno dopo, non più sostenuto da un Berlusconi finito, nel frattempo, all’opposizione.

Da allora solo chiacchiere e tasse in un turbinio di promesse non mantenute, cambi di casacche e volteggi carpiati di molti esponenti di partito, interessati solo ai propri interessi.

Ora, giunti all’anno zero della politica, dove c’è l’intolleranza, quasi fisica, verso molti rappresentanti di Governo e dei partiti, sta ottenendo credito l’uomo nuovo del PD, partito da lontano con discorsi e atteggiamenti più consoni ai bisogni dell’elettorato.

Un tipo così non poteva sfuggire al fiuto di Berlusconi, da anni alla ricerca di un figlio putativo da lanciare nell’agone politico. Alfano ha dimostrato abbondantemente di non avere il quid e, quando tornerà, perchè tornerà alla casa madre, sarà uno dei tanti nella nuova Forza Italia.

L’asse Berlusconi-Renzi è ancora agli inizi ma promette bene, si spera; per il Cavaliere è l’ultima chance per farsi ricordare, avendo fallito precedentemente in modo clamoroso, pur con una maggioranza schiacciante.

Le nuove elezioni politiche, pur negate da Napolitano, si faranno perchè il Governo Letta dimostra ogni giorno di più l’inconsistenza ed i limiti di una formazione di ministri avventurosi. Renzi spinge per le riforme ma difficilmente si faranno proprio per l’inconsistenza del Consiglio dei Ministri, inquinato da interessi di parte e legato a varie lobby.

L’intesa PD-FI sulla legge elettorale promette bene perchè isola il Governo, il M5S e blocca Napolitano e se avrà successo, come si spera, sarà l’inizio della fine di Letta perchè significa che le elezioni sono vicine. A quel punto il risultato potrebbe ridimensionare Grillo e i suoi e dividere i voti fra due grandi partiti, proprio quello che desiderano Renzi e Berlusconi.

Dopo si potrebbe governare con più armonia e raggiungere quella pace con il popolo italiano, attualmente scollato dalle istituzioni, non riconosciute, anzi rifiutate con disprezzo.

(the FrontPage)

martedì 7 gennaio 2014

Basta Saccomanni. Nicola Porro

L'anno scorso sono state fatte sei leggi sulla casa. E nei prossimi giorni se ne dovrà fare una nuova sull'Imu.
Nel 2014 complessivamente gli italiani pagheranno 50 miliardi sugli immobili: una vetta mai raggiunta. Ma ancora non sanno come, dove e quanto pagare. Quello che in futuro capiranno bene è invece l'importo salato delle sanzioni per ritardati pagamenti che saranno costretti a corrispondere per il maldestro casino che hanno combinato i nostri politici al governo.
In una famiglia normale (non diciamo un'impresa competitiva che deve resistere sul mercato), il bambino che fa una marachella del genere viene preso per l'orecchio e messo in punizione in camera sua (tassata). Nel nostro governo, invece, il ministro responsabile, Fabrizio Saccomanni, viene intervistato da Repubblica e ci dice che la crisi è finita, che pagheremo meno tasse e che il problema non sono i burocrati (i mandarini di Stato), ma le leggi. Tocca capire se l'ex uomo forte di Banca d'Italia si senta più mandarino (incolpevole) o legislatore (la legge di stabilità chi l'ha fatta?). E, continua il ministro, la Spagna va meglio di noi perché la sua politica gode di maggiore stabilità. Semplifichiamo: dateci fiducia e l'Italia correrà.
Caro ministro, non ci crediamo. Senza offesa, ma per motivi culturali, non vi crediamo. Lei, quando ha pagato l'ultimo bollettino della Tares? Ha provato a prendere un autobus per andare a Palazzo Koch? Qual è stata l'ultima volta che ha chiamato il centralino dell'Inps o ha fatto una prenotazione per un treno o un aereo? Ci dica al volo qual è la rendita catastale del suo appartamento, oppure come riuscire a procurarsela. E come sta messo con l'Ape? Come, non sa cos'è? Ne avete parlato in una delle sei leggi sulla casa. Ha mai provato a fare una fattura da solo? Lo sa che se non si appartiene ad un Albo professionale si pagano contributi vicini al 30 per cento a cui aggiungere le tasse? E che se le fatture non superano i 1300 euro al mese, rischia di non avere mai una pensione, pur avendo pagato il 30% in contributi? Le segnalo che l'aumento della contribuzione per i professionisti è confermato dal suo governo.
Mentre Saccomanni e, prima di lui, Mario Monti vedevano la luce alla fine del tunnel, gli spagnoli tagliavano gli stipendi pubblici e liberalizzavano il mondo del lavoro (solo per citare due riforme impopolari). Da noi la Corte costituzionale bocciava ogni taglio e il ministro Fornero si inventava una nuova tassa sui licenziamenti. Quelle poche imprese che, tra una gincana burocratico-giudiziaria, riducono il personale, sono costrette a pagare 483 euro per ogni anno di anzianità contributiva del dipendente di cui vorrebbero liberarsi.
A proposito, durante il governo Letta sono saliti a 489 euro. Ma in un'azienda, oltre che su un autobus, ci siete mai stati?

(il Giornale)

Chi tocca i pm dell'antimafia finisce rovinato. Vittorio Sgarbi


Viste le mille polemiche sulle minacce rivelate e diversamente valutate al pubblico ministero Nino Di Matteo, rifletto sulle limitazioni della parola e sulle intimidazioni di chi non voglia accettare di avere bisogno di eroi.
C'è qualcosa che ricorda terribilmente le mode.
Non molto tempo fa, «l'eroe» era Antonio Ingroia; è stato rapidamente dimenticato e messo da parte perché ha fatto l'errore di uscire dall'hortus conclusus di tutte le perfezioni - la magistratura - per entrare nell'inferno della politica, che lo ha travolto e cancellato. Per lui, allora, al di là della verità dei fatti, si sarebbe messo in piedi il «teatro degli affetti» che, immancabilmente, mette in scena il Fatto Quotidiano.
Ecco pronto, infatti, il 12 gennaio, a Palermo, al cinema teatro Golden, con il titolo suggestivo «A che punto sono la mafia e l'antimafia», il sottotitolo «Noi stiamo con il pm Nino Di Matteo e con tutti i magistrati minacciati», gli attori Antonio Padellaro e Marco Travaglio, con la partecipazione speciale di Roberto Scarpinato, un po' fuori moda, ma di cui non si può dimenticare la memorabile fotografia di Letizia Battaglia, sulla copertina di un magazine, circondato da tre uomini di scorta con le pistole spianate. Può essere letta in due modi: come la rappresentazione del pericolo o come l'esibizione del rischio, ma so che, solo ipotizzandolo, sarò oggetto di insulti (letteralmente) e insinuazioni che hanno il solo obiettivo d'impormi di tacere o di piegarmi al «pensiero unico».
Anch'io sono stato pesantemente minacciato, e sono stato sotto scorta, per avere denunciato, e questo nessuno può negarlo, gli sporchi interessi della mafia nella grottesca e criminale vicenda della falsa «energia pulita». Non conta che i fatti mi abbiano dato ragione, e non conta che mi siano arrivati teste di maiale, cani morti e lettere anonime. Io resto uno «stronzo» e non sono un magistrato. Per di più, non si sa perché, mi hanno costretto a dimettermi e hanno sciolto il Comune di cui ero sindaco senza il minimo indizio di «infiltrazioni della criminalità organizzata», sulla base di una vecchia inchiesta sulla sanità locale che riguarda una sola persona, e che meritava un processo individuale, peraltro in corso, con incerto esito. Io dovevo essere bloccato e infamato. E, per di più, non difeso. Eppure nessun sindaco in Sicilia ha fatto, ed è documentato, senza mezzi e senza solidarietà teatrali, quello che ho fatto io.
In ogni caso, le minacce valgono solo se riguardano quelli che stanno dalla parte giusta, gli altri restano, con un procedimento mentale di stampo singolarmente mafioso, «infami». Così mi viene in mente un grande e controverso giornalista, dimenticato, vituperato, umiliato. Fuori dal coro, dalla parte sbagliata: Lino Jannuzzi, più o meno coetaneo di Caselli. Penso alle loro vite parallele. Caselli è arrivato alla pensione (con una liquidazione di 400mila euro e un appannaggio mensile di 8mila), onorato, celebrato, gratificato, in una lunga carriera nella quale non ha mai pagato per i suoi errori, trovando sempre qualcuno pronto a giustificarlo. Caselli santo, con la bianca aureola. E chi lo attacca è un nemico dello Stato, un complice della mafia o di un non meglio definito «potere», stranamente sempre destinato alla sconfitta. E Jannuzzi, pluricondannato, anche arrestato, solo per aver parlato. E, oggi isolato, costretto a cambiare casa per i debiti.
Da un'altra parte gli incriticabili e intoccabili (pensiamo agli innumerevoli errori non solo di Caselli, ma di Di Pietro, Ingroia, Woodcock, De Magistris, tutte star, grazie a giornalisti compiacenti) che non hanno mai pagato per gli errori compiuti, talvolta gravissimi, come il letterale sequestro di persona, con carcerazioni ingiuste per valutazioni sbagliate. Il magistrato non paga l'errore, diretto e riconoscibile contro la persona. Il giornalista paga le critiche come per lesa maestà.
Nella manipolazione dei fatti, un collega di Caselli, Lombardini, che si suicida dopo la visita a domicilio di Caselli e di altri quattro magistrati (con volo di Stato e scorte pagate), prima di morire lo ringrazia per la «correttezza dell'interrogatorio». Non c'è speranza.
E c'è diffamazione per chi critica Caselli o Di Matteo, mentre c'è approvazione per chi, come Salvatore Borsellino, dietro il sangue del fratello morto, dichiara ripetutamente, insistentemente, che Napolitano è il garante dell'innominabile patto Stato-Mafia, anzi, della trattativa: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni».
Per Borsellino, per Travaglio e per i pm antimafia, il presidente della Repubblica non è una istituzione che va rispettata, ma può essere insultato, considerato garante dell'intesa Stato-mafia. Caselli no. Non si può nominare se non per lodarlo.
Per intanto Jannuzzi sta in una piccola casa di periferia avendo, dopo 60 anni di attività, «complice delle peggiori nefandezze compiute dal potere», appena i soldi per pagarsi l'affitto. Demonizzato, dimenticato, costretto a pagare centinaia di migliaia di euro per le sue responsabilità giornalistiche, con una sentenza definitiva di arresto, scontata tra carcere e arresti domiciliari fino all'estrema grazia del «complice» Napolitano.
Qual è la sua colpa, punita dallo Stato? Avere criticato Caselli e tentato di difendere Andreotti. Questa è la libertà giornalistica in Italia.

(il Giornale)

 

domenica 5 gennaio 2014

Caffè salato a Torvaianica. Mario Giardini

 



“Cosa ha preso al bar?”
“Niente. Ah, sì, scusi, un caffè.”
“E nient’altro?”
“No, nient’altro.”
“Mi mostri lo scontrino.”
“Non ce l’ho. Ma guardi che me l’hanno offerto.”
“Non c’è nessuno lì dentro. Solo lei, che è appena uscito.”
“Me l’ha offerto il proprietario perché…”
“Non ci interessa. Grazie, con lei abbiamo finito.”

I due finanzieri entrano nel piccolo bar di Torvaianica.

“Lei non ha fatto lo scontrino a quel signore.”
“Quale scontrino?”
“Quello per il caffè”.
“Ma gliel’ho offerto io.”
“Ma doveva batterlo, lo sa?”
“Sì ma vede… quello che è uscito è Beppe, un amico che fa l’idraulico. E che abita qui nella palazzina di fronte. Lo avevo chiamato perché il lavandino perdeva. Ma non c’era niente da riparare, solo una guarnizione lenta. L’ha stretta, non perde più. Non ha voluto niente per un lavoro di un minuto. Non beve e non fuma. Così…gli ho offerto un caffè. Ha accettato il caffè e rifiutato il cornetto. Poi è uscito…l’ho fatto…”

Uno dei due finanzieri prende appunti. Ascolta, mentre si sporge per leggere gli estremi della licenza.

“Ma che fa? Scrive? Cosa scrive? Venite a vedere, questo è il lavandino…”
“Tranquillo. Dobbiamo farlo per legge.”
“Sì. No. Vabbè … ho capito. Ma cosa scrive?”
“I fatti. Scontrino non batutto. Devo fare un verbale.”
“Un verbale?”
“Sì. C’è una multa.”
“Ho offerto un caffè ad un amico che mi ha fatto un favore. E lei mi fa la multa?”
“Sì. Purtroppo non posso fare altro.”

A questo punto il mio amico tace per qualche secondo. Poi mi dice: “ Sai… Giò m’ha raccontato che quei due avevano un sorrisetto stampato in faccia … sembravano divertirsi… gli è venuta voglia di saltare dall’altra parte del bancone e menarli… dice che non sa come ha fatto a trattenersi … pure in galera sarebbe andato …”

“Quando Giò ha chiesto di quanto era la multa, gli hanno risposto…fino a 230 €…invece, ne è arrivata una di 530 … cinquecento trenta euro capisci Mario?…cinquecento trenta euro… per uno scontrino di 80 centesimi…”

Potrei fermarmi qui. Ma conosco tutta la storia, e vale la pena raccontarla. Giò faceva il camionista nella piccola ditta di suo padre, che siede di fronte a me, esponendomi questo fatto miserabile. Ma Giò non voleva fare quel mestiere per tutta la vita, stare al volante per 2 milioni e mezzo di chilometri, come ha fatto il padre da quando compì i diciott’anni. E comunque gli affari, per i piccoli padroncini, già sette anni fa, lentamente scivolavano verso il baratro.

Così, decise di “scendere dal camion”. Padre e figlio vendettero un piccolo appartamento e due camion, piuttosto vecchiotti, per raggranellare i 280 000 euro necessari all’acquisto dell’attività. E’ un piccolo, modesto snack bar, che sta sul lungomare di Torvaianica. All’inizio, aprendo alle 6 del mattino, e chiudendo d’estate a mezzanotte, si tiravano su 3-4000 euro al mese, dopo pagato le tasse, l’affitto, e tutto il resto. Insomma Giò, con l’aiuto del padre, s’era “comprato uno stipendio”, dignitoso e faticoso, con cui campare la famiglia.

Ci lavoravano in cinque, Giò moglie e mamma o sorella saltuariamente, più due dipendenti. Adesso di dipendenti non ce n’è più. Nonostante siano rimasti in due, Giò e la moglie, ormai devono scegliere, a fine mese, se pagare l’affitto o le tasse.

“Solo di “monnezza” sono circa seimila euro all’anno … Giò è in ritardo di 8 mesi con l’affitto … ”.
Supponendo che l’utile lordo su un caffè da ottanta centesimi sia il 30% e che lo stato ne pretenda la metà sotto forma di tasse, 530 euro di multa sono 3500 volte il valore “sottratto” all’erario. Tremilacinquento volte.

E’ il primo giorno di questo 2014 … raccontando, il mio amico si è incupito.

Lo conosco da tanti anni. Gli sono sinceramente affezionato. Mi ricorda mio padre: uomini buoni, onesti, un cuore grande così.

Non c’è rabbia, o impotenza, nel suo sguardo. Solo odio. Tanto odio. Odio per questo mostro che abbiamo contribuito a creare, o che abbiamo lasciato che altri creassero. Un mostro che ha divorato il paese più bello del mondo. Uno stupido e miserabile mostro che sta uccidendo anche sé stesso, poiché non si rende conto che il banchetto è finito da un pezzo..

Mi viene da pensare che se anche uno come il mio amico è in questo stato d’animo, allora non saranno certo i forconi a tramutare quest’odio in azione. Ma i kalashnikov.

(the FrontPage)

venerdì 3 gennaio 2014

Mangiano i bambini? Marco F. Cavallotti


Ormai rischiano di rimanere in pochi coloro che sanno qual era il clima nelle case di Budapest, di Varsavia, di Bucarest e di Mosca nel glorioso periodo sovietico, con i cuscini che coprivano il telefono nella illusione che così non si potessero intercettare le conversazioni domestiche, con i vicini d'ufficio che inscenavano ogni giorno una nuova puntata della “Vita degli altri”, fra delazioni e rapporti ai superiori su ogni episodio “sospetto”. Nessuno sa più come erano le code all'alba per il litro di latte, le lunghe colonne di passanti che si creavano alla sola vista di un principio di allineamento, perché là in fondo forse c'era qualcosa di acquistabile; nessuno ricorda come tutto funzionava a rilento ed alla meno peggio, perché per un servizio vero bisognava pagare a parte un compenso vero.

Nessuno sa più che cosa fosse quella sensazione di disagio e di vuoto allo stomaco che ti prendeva quando vedevi il tuo passaporto scorrere lungo lo scassatissimo tapis roulant ricoperto di plastica opacizzata e sporca sotto la pioggia oltre la interminabile coda di auto in attesa, verso la sbarra della polizia di frontiera, presso i grandi passaggi fra Est ed Ovest, a Görlitz, appunto, o a Berlino, o agli aeroporti fatiscenti di quelle capitali. Nessuno ha nemmeno la più pallida idea della sensazione che provavi accorgendoti di essere oggetto permanente di sorveglianza e di delazione in albergo, nella caffetteria fra amici, nelle strade grige e nei negozi. Nessuno ricorda le ragazze che si regalavano per un paio di collant all'occidentale, le cose “impossibili” ottenute per un pacchetto di Kent, il cambio nero, il valore astronomico in valuta locale di un paio di jeans...

Quasi nessuno ricorda più nulla, e del resto anche allora, quando malgrado tutto un po' di turismo e un po' di viaggi di affari facevano circolare qualcuno di noi oltre il muro, ben pochi osavano parlarne con la giusta chiarezza: del resto – interveniva subito il tuo interlocutore – non era simile o peggiore la situazione di Matera, della Sicilia, e in fondo non era quella una strada dolorosa ma necessaria verso una “giustizia superiore”? Ma poi arrivavano i membri delle delegazioni ufficiali, con le valigie piene di caviale, di ambra e di icone, vezzeggiati e fatti viaggiare da un villaggio Potëmkin all'altro nel grande scenario delle realizzazioni del regime, e ci tranquillizzavano: là tutto va bene, quello che non va è solo propaganda, le rivolte che scoppiano di quando in quando sono solo rigurgiti di una borghesia ormai vinta e in via di scomparsa. Chi vuol ricordare quello che ci si diceva può rileggersi, ad esempio, il discorso di Giorgio Napolitano sulla repressione in Ungheria... ma gli esempi sono moltissimi: basterebbe mettersi a cercarli, farli conoscere superando le resistenze di media e studiosi allineati, non cedere alla pigrizia ed all'acquiescenza, non aver paura di trovarsi in una posizione scomoda di fronte ad amici e colleghi che si sono accomodati da anni nella confortevole posizione di utile idiota, di nesci per opportunità, o peggio di complice di una colossale rincorsa al silenzio.

Ma non sono tutti così, per fortuna non tutti non possono più parlare, e qualcuno ancora in grado di mettere la testa fuori da questa nuvola di confortevoli menzogne rimane.

Forse per questo, ancora oggi, mentre molti dicono con un sorriso di compatimento che il comunismo non esiste più, il vecchio lavoro – una versione “reale” e “concreta” del gramscismo – di aggiustamento con il passato per non farci i conti continua a scavarci sotto i piedi: e mentre gli archivi si aprono, e affiorano ad ogni angolo le testimonianze scomode – malgrado tutto e malgrado l'incapacità di chi potrebbe averci un ruolo determinante, come certi amici di Putin che non sanno chiedere e usare le carte giuste –, l'accorgimento più opportuno, come sempre, sta nel lavare i panni sporchi in famiglia. O meglio, nell'affrontare il problema in modo tale da non toccarne il cuore velenoso, in modo tale da non far danno al presente evitando di scoprire troppo apertamente gli errori e gli orrori del passato. È così che incontriamo spesso molti “esperti” di storia e di politica del XX secolo in Unione sovietica e nei Paesi satelliti che, magari grazie ad antiche colleganze locali, si accaparrano documenti e temi di ricerca “scomodi”, per darne una interpretazione in qualche modo funzionale alla sopravvivenza degli eredi di quei biechi e terribili protagonisti.

Da ultimo un libretto dal titolo un po' renzianamente spiritoso (“I comunisti mangiano i bambini” di Stefano Pivato) sembra scherzare coi fanti – anche letteralmente –: ma pur riconoscendo che l'antropofagia e la vendita dei bambini negli anni successivi alla rivoluzione russa fu tutt'altro che un'invenzione, fa di questa terribile accusa una sorta di ridicolo refrain, caro ai democristiani di allora, ancora fieramente anticomunisti: un refrain che finisce per essere additato come esempio della fantasiosità e sulla ingiustizia delle accuse al mondo comunista. E così un intero capitolo fondamentale della storia dei rapporti fra due opposte propagande – un tema centralissimo e essenziale – è sistemato, nel solito modo.

Anche da questo punto di vista sarebbe utile per tutti noi una rilettura dell'assai illuminante volume di Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine: un libro che, malgrado i numerosi sforzi per tacerne l'esistenza e per impedirne la traduzione in italiano, resta davvero indispensabile per comprendere un aspetto fondamentale della storia e dei miti – veri e falsi – di quel secolo. Il quale per molti aspetti, contrariamente a quanto si ripete tanto spesso, è purtroppo davvero “duro a finire”.

(LSBlog)

Diritticidio. Davide Giacalone


Il delirio legislativo si accinge all’ennesimo diritticidio, mediante l’introduzione dell’“omicidio stradale”. Annunciato da un ministro della giustizia che, pur di parlar d’altro che di sé, è costantemente all’opera. L’annuncio non riguarda una cosa fatta, ma da farsi. Non si sa ancora se per disegno di legge, nel qual caso ne riparliamo con comodo, o per decreto, nel qual caso al diritticidio potrebbe contestarsi l’aggravante dell’efferatezza. E nessuno creda che la cosa si limiti agli automobilisti assassini, perché si tratta di un processo degenerativo da tempo in corso.

La caratteristica dell’assassinio del diritto è questa: interviene sulla mancanza di giustizia non facendo funzionare la giustizia stessa, ma aggiungendo leggi per regolare cose già regolate. Prima dello stalking non è che fosse lecito martoriare le persone per via telefonica, dato che esisteva il reato di molestie. Prima del femminicidio non è che fosse lecito ammazzare le femmine. E prima dell’omicidio stradale non è che sia consentito stendere le persone. L’allarme collettivo non deriva dalla mancanza del reato, semmai della (giusta) punizione. Il che non ha a che vedere con la legge.

Se ammazzi guidando, ove tu non conosca il defunto e non lo abbia fatto apposta, esiste il delitto colposo. Contestando le aggravanti (guida in stato d’ubriachezza, contromano, a velocità eccessiva, etc.) si può arrivare a pene assai severe. E meritate. Il fatto è che il processo arriva dopo anni è l’assassino se ne va a spasso. Magari in macchina. Siccome non è che ci sia da fare chissà quali indagini, per rimediare allo sconcio sarebbe sufficiente dire alle procure che hanno un mese per chiedere il rinvio a giudizio. Poi si tratta di diminuire i tempi del processo, cosa che può farsi non cambiando, ma rispettando la procedura. Invece si fa una conferenza stampa, si annuncia il nuovo reato, si aumenta la pena e si propongono corsie preferenziali. Che sono le strade più dirette verso il diritticidio, giacché tutti i processi dovrebbero essere fatti in tempi ragionevoli. All’assassino al volante puoi farglielo in tre mesi, con tutti e tre i gradi di giudizio.

La diuresi legislativa, inoltre, confonde le acque: è ovvio che stabilire la gravità delle circostanze non spetta alla legge, ma al giudice. Qualche tempo fa un automobilista uccise uno che attraversava la strada in un punto pericoloso, transennato e in cui era invisibile. S’è fermato, ha prestato soccorso e lo hanno portato via disperato. Non va punito, ovvio. Siccome, però, poi liberano il drogato, o quello cui già avevano ritirato la patente, ecco che non ci si affida al giudice, ma al legislatore. Il quale, inoltre, scrive in maniera così prolissa e confusa che al giudice si toglie autonomia in quello che è il suo mestiere, ovvero valutare caso per caso, e gliela si regala in quello che non dovrebbe mai fare: stabilire cosa volesse dire il legislatore.

In Italia abbiamo bisogno dell’esatto contrario: testi unici, chiari, leggibili, ragionevolmente sintetici, e una giustizia che restituisca quel che costa e la pletora di toghe che impiega. Dalla sicurezza del lavoro alla tutela dell’ambiente, dal fisco ai lavori pubblici, dal codice della strada all’edilizia, abbiamo bisogno di sapere cosa è lecito e cosa no. Che per capirlo non si debba assoldare un esperto. Che il non proibito sia consentito. Che chi viola la norma paghi. E abbiamo bisogno che tali testi unici siano stabili nel tempo, non cantieri in continua trasformazione. L’esito del diritticidio è già stato descritto da Alessandro Manzoni, in modo tale da scoraggiare chiunque dall’aggiungere una sola parola.

Il fatto è che, lavorando per il diritto, non si possono fare annunci uno appresso all’altro, inseguendo la cronaca nera con il linguaggio oscuro di norme variopinte e sbrodolose, molte delle quali mai neanche esisteranno. Il micidiale paradosso è che quanti sono responsabili del non porre rimedio alla peggiore giustizia del mondo civilizzato poi ti guardano torvi e ti additano a complice di chi ammazza le donne e i passanti. Sembra incredibile, ma taluni riescono a incarnare, in un colpo solo, l’ignoranza, l’ignavia e l’arroganza.

Pubblicato da Libero

giovedì 2 gennaio 2014

ArchivioBordin Line

2 gennaio 2014

L’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Genova che nega l’affidamento ai servizi sociali a Francesco Gratteri, e stabilisce di fargli scontare la condanna, per i fatti della scuola Diaz, agli arresti domiciliari, si presta a più di una considerazione. Il giudice estensore, la dottoressa Verrina, è lo stesso magistrato del recente discutibile e sfortunato permesso, tramutatosi in evasione, per un serial killer. Lo ha già notato il Tempo e comunque non è forse la questione principale. La vicenda di Gratteri è di per sé significativa. Non era accusato di aver partecipato materialmente alle innegabili gravissime violenze commesse nella scuola genovese dalla polizia ma di averne agevolato la copertura attraverso un verbale che peraltro non porta la sua firma. Si tratta di un investigatore universalmente apprezzato per il suo lavoro contro la mafia. Fra l’altro è il poliziotto che ha arrestato Leoluca Bagarella. Ennesima conferma di un clima difficile fra investigatori di valore e magistrati. Valgano i casi del generale Mori e del capitano “Ultimo” o quello più recente del capo della squadra mobile napoletana Pisani. Seconda questione: nell’ordinanza, così come nella memoria della procura generale – rappresentata in udienza dal capo dell’ufficio, un fatto inusuale – si fa ampia citazione della giurisprudenza della Corte europea. Bene. Sarebbe auspicabile che i magistrati tenessero conto, almeno in futuro, di quella giurisprudenza anche a proposito dei tempi dei processi e delle condizioni dei detenuti. E infine, ma forse come nel “Letterman show” è “la numero uno”: i criteri con cui viene considerata la possibilità di affidamento ai servizi sociali sono espressi in linea generale e non promettono nulla di buono per un altro condannato definitivo più famoso del dottore Gratteri.
di Massimo Bordin@MassimoBordin