giovedì 31 luglio 2008

Inferiorità della donna nella famiglia musulmana. Ida Magli

Gli episodi come quelli della bambina portata via dal padre marocchino di cui si occupa la cronaca, sono molto più numerosi di quanto non si creda a causa dell'intensificarsi di presenze straniere nel nostro Paese, presenze che portano spesso le italiane a sposarsi con uomini appartenenti a culture incompatibili con la nostra. Nei matrimoni con africani e orientali, in grande maggioranza di religione islamica, le donne italiane si trovano in condizione di assoluta inferiorità, una inferiorità di cui nella fase dell’innamoramento di solito non sono in grado di rendersi conto, spinte anche dall'atmosfera di tolleranza e di negazione delle differenze che si respira ovunque in abbondanza. È necessario guardare in faccia la realtà. È necessario mettersi «dal punto di vista dell'indigeno», come ha ripetuto Franz Boas, uno dei più grandi padri dell’antropologia, se si vuole capire e rispettare l'altro, cosa che non significa né tradire i propri valori né rinunciare a giudicare e a tentare di farci capire dall'altro.
L'atteggiamento assunto oggi di facile negazione dell’abisso che separa il cristianesimo dall'islamismo non è utile a nessuno e soprattutto porta a dei conflitti sia interpersonali sia collettivi.
La figura e il ruolo delle donne è al centro di questo abisso. Non per nulla il cristianesimo si è dovuto spostare in occidente, nel mondo del diritto romano, per potersi espandere e fiorire. È stato Gesù a concentrare il suo sguardo sulla condizione delle donne, a parlare con loro. Per quante incomprensioni, errori, eresie, si siano accumulati col tempo sul suo messaggio, la parità delle donne è rimasta sempre limpidamente la novità che nessuno ha osato negare. E il battesimo così come il rito matrimoniale ne ha fatto fede fin dall'inizio. In nessuna società, in nessuna religione, il rito d'iniziazione è identico sia per il maschio sia per la femmina come nel cristianesimo. In nessuna società, in nessuna religione il rito matrimoniale è identico sia per il maschio che per la femmina come nel cristianesimo. La parità di diritti nella famiglia, sui figli, ne è logicamente la prima conseguenza. Maometto ha centrato il Corano sui primi cinque libri dell'Antico Testamento ed è sufficiente questo fatto a far comprendere che le donne musulmane si trovano oggi nelle stesse condizioni di inferiorità, di tabuizzazione, di dipendenza dal potere del maschio, dalle quali le ha tolte Gesù.
I significati e i valori che discendono dalle religioni permeano la personalità dei popoli in modo talmente profondo che nessuna normativa di legge può riuscire a cambiarla se non forse con un lungo passare del tempo. Per ora, perciò, sarebbe bene che i matrimoni non avvenissero affatto, neanche di fronte all'accettazione delle leggi vigenti in Italia. Non dimentichiamoci che in molti Paesi africani, come quelli della costa mediterranea, vige la lapidazione per la donna adultera, la clitoridectomia e l'infibulazione e comunque l'unico a possedere il potere è ovunque il maschio capo di casa. (il Giornale)

martedì 29 luglio 2008

Sicurezza, Maroni: "Clamorose falsità su violenze della polizia". Adnkronos/Ign

Nessun sopruso o violenza delle forze dell'ordine è stato commesso nei confronti degli immigrati all'interno dei campi nomadi in Italia. Lo ha puntualizzato il ministro dell'Interno, Roberto Maroni (nella foto), replicando alla Camera nel corso delle comunicazioni del governo sull'emergenza immigrazione, al commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, che ha diffuso oggi i risultati del rapporto sulla visita compiuta in Italia il 19 e 20 giugno scorsi.

"Respingo con indignazione - ha sostenuto il ministro dell'Interno - l'affermazione del commissario Thomas Hammarberg, secondo cui gli atti di violenza avvenuti in Italia, ai danni dei campi nomadi, sono avvenuti senza che vi fosse un'effettiva protezione delle forze dell'ordine e che, a loro volta, hanno condotto raid violenti contro gli insediamenti. E' una falsità clamorosa, la polizia - ha detto Maroni - non ha mai fatto simili azioni. Dica il commissario Hammemberg quali siano questi atti". Sono accuse ''tutte totalmente infondate'', ha aggiunto.

Poi, spiegando la decisione del governo di estendere lo stato di emergenza per gli sbarchi di clandestini a tutto il territorio nazionale, ha precisato: ''Se il trend dovesse permanere alla fine dell'anno avremo arrivi per circa trentamila persone''. Un flusso che non può essere assorbito nei centri di accoglienza presenti sui luoghi di sbarco dei clandestini. Nel primo semestre di quest'anno, ha detto, sono sbarcati oltre 10 mila immigrati.

''L'eccezionale pressione migratoria ha reso necessario espandere nuovamente la dichiarazione dello stato di emergenza'', passando dalle tre regioni (Calabria, Sicilia e Puglia) a tutto il territorio nazionale. Il titolare del Viminale ricorda anche che in passato era già stata dichiarata e più volte reiterata l'emergenza in tutta Italia. La limitazione alle tre regioni risale invece all'ultima proroga, del ministro Amato nel febbraio del 2008. Questa limitazione, rimarca ancora Maroni, si è rivelata ''non adeguata a fronteggiare il fenomeno''. I centri di accoglienza in Sicilia, Calabria e Puglia sono ''ormai insufficienti a contenere l'alto numero d'arrivi'' e la misura del governo ''mira a consentire l'adozione delle ordinanze di protezione civile, sarà possibile alloggiare gli extracomunitari su tutto il territorio migliorando l'accoglienza''.

''Con la riespansione della dichiarazione dello stato di emergenza - insiste il titolare del Viminale - il governo ha deciso di proseguire quello che si fa da sette anni a questa parte'' con l'obiettivo di dare ''più civili e dignitose condizioni di accoglienza per gli immigrati''.

Maroni ha replicato anche alle critiche dell'opposizione. ''Il governo è stato accusato di essere composto da mascalzoni - ha sottolineato - così facendo, si è detto, i prefetti potranno avere poteri speciali, il governo alimenta la paura dei cittadini. Si è parlato di misura razzista, di provvedimento senza precedenti né giustificazione - ha continuato -. Affermazioni gravi e infondate, che sono anche molto singolari perché provengono da esponenti politici che hanno avuto un ruolo nel governo Prodi, che ha votato in cdm queste misure''. ''La verità - conclude Maroni - è che i sacri principi sono sempre piegati alle esigenze del momento''.

domenica 27 luglio 2008

La doppia morale. Angelo Panebianco

Ma perché la cifra stilistica della sinistra italiana deve essere per forza il doppio standard, la doppia morale? Prendiamo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il governo utilizza una norma vigente per dichiarare lo stato d'emergenza di fronte all'afflusso dei clandestini. Dalla sinistra partono bordate: razzismo, xenofobia, autoritarismo, intollerabile clima emergenziale. Quella norma però è stata in passato utilizzata anche dal governo Prodi.

Come mai all'epoca nessuno fiatò? Come mai nessuno di quelli che oggi strillano accusò quel governo di razzismo e xenofobia? Perché i «sacri principi», quali che essi siano, devono sempre essere piegati alle esigenze politiche del momento? Non è forse un modo per dimostrare che in quei principii, utili solo come armi da brandire contro l'avversario, in realtà, non si crede affatto? La spiegazione più ovvia, più a portata di mano, quella che rinvia l'esistenza della doppia morale, del doppio standard, alle persistenti scorie lasciate in eredità al Paese dalla vecchia tradizione comunista, è insoddisfacente: spiega troppo o troppo poco. Certo, è vero, nella tradizione comunista il doppio standard era la regola. Per i comunisti esisteva un fine superiore, una nobile causa al cui raggiungimento tutto doveva essere subordinato e piegato. Il ricorso continuo alla menzogna, ad esempio, era giustificato dal fine superiore. Così come il doppio standard.

Si pensi alla sorte di certi leader democristiani: Fanfani, Andreotti, Cossiga. Su di essi il Pci riversò a più riprese ogni genere di accuse, spesso anche quella infamante di essere registi di trame paragolpiste. Però, se il vento cambiava , quei registi occulti delle peggiori trame si trasformavano in amici e «compagni di strada»: il giudizio politico-morale su di loro dipendeva dall'utile politico del momento. E la capacità di intimidazione culturale del Pci e delle forze che lo fiancheggiavano era tale da non rendere necessario rispondere a una domanda che, del resto, solo pochi osavano porre: ma come è possibile che oggi strizziate l'occhio a un tale che fino a pochi mesi fa accusavate dei più infami misfatti?

Qualcosa del genere, d'altra parte, accade ancora. Si pensi al caso di Umberto Bossi del quale non si è ancora capito se si tratta di un leader xenofobo e parafascista, praticamente un delinquente, una minaccia per la democrazia, oppure di una costola della sinistra, uno con cui, magari, si può essere disposti a fare un po' di strada «federalista» insieme. O meglio, abbiamo capito benissimo: Bossi continuerà ad essere, alternativamente, l'una o l'altra cosa a seconda di come evolveranno nei prossimi anni i suoi rapporti con Berlusconi. Dicevo che non ce la possiamo cavare tirando in ballo solo la tradizione comunista. Sarebbe sbagliato e anche ingiusto verso molti ex comunisti.
Tra i comunisti c'erano molte persone serie, rigorose, di qualità. Queste persone, quando presero atto che la superiore causa era un vicolo cieco, o un'impostura, cambiarono registro. Misero da parte quella doppia morale che, ormai, ai loro stessi occhi, non aveva più alcuna giustificazione morale e politica. Spesso, questi ex comunisti, rimasti all'interno dello schieramento di sinistra, sono tra le persone migliori in cui ci si può imbattere, quelle con cui anche liberali come chi scrive possono trovare punti di incontro e affinità, con le quali, comunque, non capita mai di provare quel fastidio che si può invece provare quando si incontrano certi esponenti, politici o intellettuali, della sinistra mai-stata-comunista. I quali, spesso, continuano, imperterriti, a usare il doppio standard e la doppia morale.

La sinistra attuale è un amalgama informe che mescola brandelli della vecchia tradizione comunista con tic e cliché culturali di derivazione azionista e del cattolicesimo di sinistra. Queste ultime due componenti sono, forse, ancor più responsabili della prima nell'alimentare oggi quel mito della superiorità antropologico- morale della sinistra che continua a giustificare il ricorso al doppio standard e alla doppia morale. Tutto ciò è bene esemplificato dagli atteggiamenti dominanti a sinistra sulle questioni di giustizia. Il «pieno rispetto» per la magistratura e la regola secondo cui «ci si deve difendere nei processi e non dai processi» sono nobili principi che vengono sempre invocati quando nei guai ci sono gli avversari di destra. Ma se in graticola finiscono esponenti della sinistra (a patto, naturalmente, che non siano «ex socialisti») la musica improvvisamente cambia. Diventa legittimo attaccare i magistrati e persino difendersi «dai processi».

Personalmente, ho forti perplessità sui comportamenti tenuti, nell'esercizio delle loro funzioni, da magistrati come la Forleo e, soprattutto, De Magistris, ma non sono affatto sicuro che ad essi si possano attribuire più scorrettezze di quelle imputabili a certi magistrati che in passato si occuparono di Berlusconi e di altri nemici della sinistra. Si guardi a come opera il doppio standard nelle valutazioni di processi e procedimenti giudiziari a seconda che vi siano coinvolti amici o nemici. Se, poniamo, viene scagionato un imprenditore «amico» si plaude all'impeccabile comportamento dei magistrati e non ci si impegna certo in «analisi» minuziose con lo scopo di fare le bucce ai risultati delle inchieste. Altrimenti, come ha giustamente osservato Pierluigi Battista sul Corriere due giorni fa, lo spartito cambia, il doppio standard impera. Questi signori, sempre impegnati a stilare pagelle e ad assegnare brutti voti a quelli che definiscono «sedicenti» liberali, non hanno mai capito che indice di liberalismo è usare un solo criterio, un solo metro di giudizio, sempre lo stesso, per gli amici e per gli avversari, e che fare un uso così platealmente strumentale dei principi significa non avere alcun principio. Quando qualcuno di loro finalmente lo capirà, avremo, e sarà un bene per il Paese, qualche esponente in meno della genia dei «moralmente superiori» e qualche liberale in più. (Corriere della Sera)

martedì 22 luglio 2008

Salvate il poliziotto Contrada

Bruno Contrada è in fin di vita: le condizioni in cui versa determinate dalle numerose patologie, dagli anni e dalla ingiusta detenzione, lo stanno portando alla consunzione.
Non conosco personalmente Contrada né ho mai parlato con lui, ma sono certissimo della sua innocenza. Non ha importanza come e perché ho maturato questa convinzione, vi prego solo di credermi.
Siamo di fronte ad un caso Tortora, ma con una sentenza oramai passata in giudicato: non resta che la grazia o la revisione del processo qualora emergessero prove o fatti non presi in considerazione.
Contrada si accontenterebbe di poter morire nel suo letto agli arresti domiciliari.
Contrada è stato un grande persecutore di mafiosi e un integerrimo funzionario di polizia che ha servito lo Stato per tutta la vita: non merita di morire in carcere e nemmeno meriterebbe la condanna emessa solo su testimonianze di pentiti.
Questo Governo, che abbiamo votato con entusiasmo e convinzione, deve avere il coraggio di tirare fuori dalla galera Contrada.
Sono certo che gli innocentisti sono molti e che solo chi è in malafede e giustizialista a oltranza non capirebbe il gesto.
Coraggio Silvio, coraggio Angelino! Fate vedere che avete le palle e siete capaci di un gesto apparentemente impopolare, ma profondamente sentito dal popolo della libertà.
La sfida a quella parte della Magistratura politicizzata comincia da un gesto di profonda umanità, alla faccia dei "professionisti dell'antimafia".
Un atto di umana pietà non si nega a nessuno, tanto meno ad un fedele servitore dello Stato in punto di morte.

giovedì 17 luglio 2008

Stralcio del discorso del ministro Giulio Tremonti il 17 luglio 2008 alla Camera dei Deputati

(...) Mi limito ad alcune considerazioni, che correggono quanto si è detto comunemente in questi giorni a proposito dei cosiddetti tagli.
In primo luogo (e mi soffermerò, comunque, su tale aspetto in seguito), per noi era ed è essenziale e fondamentale mettere in sicurezza il bilancio pubblico della Repubblica italiana. Credo che questo sia il bene pubblico fondamentale che tali interventi tutelano. Tuttavia, in ogni caso, dovendo ridurre il deficit e non potendo aumentare le tasse, le alternative che ci si aprivano non erano numerose: si trattava di una politica di serio contenimento delle dinamiche incrementali della spesa pubblica. Faccio riferimento alla dichiarazione fatta dal presidente Gasparri sulle norme di finanziamento alle forzedell’ordine: 200 milioni di euro riguardanti le assunzioni, 100 milioni di euro per la sicurezza urbana, ulteriori 100 milioni di euro, al comma successivo. In totale, più di 400 milioni di euro di interventi: l’opposto dei tagli.
Una novità che è comunque fondamentale - sulla quale speriamo di avere anche il vostro consenso - è finalmente l’utilizzo, per il finanziamento delle forze dell’ordine, dei fondi che sono stati oggetto di confisca e di sequestro alla malavita .Crediamo che su questo punto vi debba e vi possa essere un concorso ed un consenso civile. È la prima volta che quei fondi non sono congelati in conti dormienti, ma utilizzati al servizio delle forze dell’ordine. (...)

martedì 15 luglio 2008

Giudici, la svolta che serve ai democratici. Angelo Panebianco

L’arresto del presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e di altri dirigenti politici e amministrativi e l'incriminazione di molte altre persone nell’ambito di una inchiesta su presunte tangenti nella sanità ha scompaginato le file del Partito democratico di quella regione ricordando a tutti che i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi. Come sempre accade in questi casi vengono poste pubblicamente domande destinate a restare senza risposta. Una per tutte: a parte l’esigenza di ottenere il massimo impatto mediatico, c’è stata anche qualche altra ragione dietro la decisione (ovviamente molto grave per le sue conseguenze) di procedere all’arresto della massima autorità politico- amministrativa della Regione? Ancorché indubbiamente meno spettacolare, una semplice incriminazione a piede libero non sarebbe ugualmente servita agli scopi dell’inchiesta? Una cosa è certa. Se mai Del Turco, alla fine, dovesse uscire pulito da questo affare giudiziario non ci sarà comunque mai alcuna sede disciplinare nella quale le suddette domande potranno essere poste a quei magistrati.

L’imbarazzo del Partito democratico è evidente. Il silenzio dei suoi vertici sulla vicenda abruzzese, durato per buona parte della giornata di ieri, è stato rotto solo a metà pomeriggio da una dichiarazione di Walter Veltroni che, mentre manifestava stupore e amarezza per l’arresto di Del Turco, riconfermava, un po’ ritualmente, la sua fiducia nella magistratura.

Ma forse, oggi, dal Partito democratico è lecito attendersi anche qualcosa d’altro. Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica.

È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati?

Almeno da Mani pulite in poi la sinistra ha nel complesso finto (e comunque questo è il racconto che, per lo più, ha «venduto » all’elettorato e ai militanti o ha permesso che venisse venduto dai propri giornali di riferimento) che non ci fossero veri problemi nel rapporto fra giustizia e politica. Ha negato l’esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l’idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi).

In mezzo a tanti convegni inutili, l’unico convegno davvero prezioso che purtroppo manca ancora all’appello è quello in cui il Partito democratico, pubblicamente e solennemente, sceglie la strada della discontinuità, di una svolta decisa nella sua politica della giustizia.

Solo dopo l’incresciosa manifestazione di Piazza Navona, il Pd ha preso le distanze dal partito di Di Pietro. Ma perché quella decisione non si riduca solo a furbizia tattica occorrono ora cambiamenti nelle concezioni e nelle scelte in materia di giustizia.

Non esistono dubbi che, senza una collaborazione fra maggioranza e opposizione una riforma dell'ordinamento della giustizia (separazione delle carriere, responsabilizzazione dei pubblici ministeri, eccetera) che lo renda coerente con lo spirito e i principi di una democrazia liberale e che riequilibri i rapporti (squilibrati ormai da quasi un ventennio) fra magistratura e politica, non potrà mai passare. È lecito dunque attendersi dalla massima forza di opposizione non solo qualche battuta utile per ottenere un titolo sui giornali ma un ripensamento serio delle proprie posizioni.

Luciano Violante, un esponente politico la cui influenza passata sulla politica della giustizia della sinistra sarebbe impossibile sottovalutare, sembra oggi uno dei pochi consapevoli della necessità di cambiamenti. In un intervento ieri sulla Stampa Violante ha criticato in termini che a me paiono ineccepibili la nuova versione della cosiddetta norma blocca-processi decisa dal governo. L'argomento che ha usato dovrebbe fare storcere il naso ai giustizialisti. Ha sostenuto che, se pure la nuova versione è meglio della precedente, produce anch'essa danni, lasciando in questo caso troppa discrezionalità ai magistrati. Violante, mi pare di capire, dichiara il suo favore per un sistema nel quale, come avviene in tanti Paesi occidentali (in passato si è tentato di farlo anche in Italia ma senza grandi risultati), Guardasigilli e Parlamento dettino annualmente alla magistratura le priorità. A me pare, però, che senza una riforma che, tra le altre cose, separi le carriere e tolga di mezzo l'obbligatorietà dell'azione penale, non sarà mai possibile ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia. Forse proprio Violante, con la sua autorevolezza, potrebbe oggi essere, insieme ad altri (come i radicali, oggi accasati nel Partito democratico, con il loro patrimonio di battaglie e proposte garantiste) uno degli uomini in grado di fare da battistrada a un nuovo corso, aiutare il Partito democratico a cambiare registro. (Corriere della Sera)

lunedì 14 luglio 2008

Il calvario di Contrada, piantonato in ospedale. Dimitri Buffa

Gli esami per Bruno Contrada sembrano non dover finire mai. Quelli clinici si intende. Una sorta di ping pong burocratico infinito per cui lui da una parte “si ostina” a chiedere tramite i propri avvocati il differimento della pena per motivi di salute e il tribunale di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, dall’altra, ne ordina automaticamente il ricovero coatto al Policlinico di Napoli per ulteriori accertamenti clinici. In attesa di una sentenza di rigetto che finora è arrivata puntualmente per almeno cinque volte. La prossima è prevista per il 23 luglio. Qualcuno potrebbe pensare a una vessazione, a una tortura psicologica. Magari si liberano i pentiti omicidi del caso Tortora, che poi continuano a uccidere la gente come se niente fosse o i massacratori del Circeo. Ma per “lo sbirro” Contrada non c’è proprio niente da fare. Il simbolo della lotta alla mafia che si faceva una volta, non quella dei pentiti e delle intercettazioni che si fa adesso, deve morire insieme alla persona. Con il marchio dell’infamia e del tradimento. Con il sospetto di essere stato il basista della strage di via D’Amelio (anche se le prove non si troveranno mai) e soprattutto in galera. Come se in Italia l’unica pena certa debba essere la sua.

Ovviamente Contrada si è opposto, con una lettera scritta di proprio pugno e con un’istanza del proprio difensore Giuseppe Lipera, al ricovero coatto presso il Policlinico di Napoli stare lì due settimane in una specie di regime di 41 bis lo deprime. Qualcuno crede che l’ostinazione dei magistrati di sorveglianza del collegio di Santa Maria Capua Vetere, la nota presidente Angelica Di Giovanni e la sua vice Daniela Della Pietra, nel volere negare a Contrada il differimento della pena in carcere, cosa che nessuno ha negato ad esempio all’assassino di Moro Prospero Gallinari a suo tempo, non sia legata a fattori politici ma a concretissimi timori di carriera. Contrada a suo modo è un detenuto politico, anzi un ostaggio, dell’antimafia militante. Chi se la prende la responsabilità di mandarlo a casa se dieci minuti dopo ti va in televisione un Leoluca Orlando, un Di Pietro o una Rita Borsellino a strapparsi i capelli dicendo che lo stato “ha abbassato la guardia nella lotta alla mafia”? Nessuno.

Se liberano un balordo dell’est europeo che poi violenta una ragazza nella periferia di Roma o di Milano, poco male. Se liberano Izzo e quello poi fa un duplice omicidio si potrà sempre dire che le relazioni mediche e quelle dello psicologo del carcere erano positive e comunque sia, questa è la prassi, in Italia i magistrati non pagano mai per gli errori fatti. Senza neanche il bisogno di una legge ad personam o uno straccio di “lodo”. Se però qualcuno si mette di traverso alle vendette dei professionisti dell’Antimafia.. allora il discorso cambia. Per questo Contrada non solo non lo vogliono fare uscire dal carcere ma anche quando si tratta di fargli degli esami per la salute i giudici osano negargli il ricovero giornaliero nel day hospital e lo mandano sotto scorta in un ospedale, nel settore del 41 bis, come se fosse Totò Riina. (l'Opinione)

giovedì 10 luglio 2008

Ecco la verità sul caso Mills. Filippo Facci

Il «Berlusconi-Mills» è in assoluto il processo più inconsistente e ridicolo tra tutti quelli che il presidente del Consiglio ha subito da una quindicina d’anni a questa parte: gli imputati dovrebbero augurarsi di poter andare a sentenza quanto prima per incassare un’assoluzione che sarebbe inevitabile anche per il giudice più prevenuto di questa terra. Questo al netto di qualsiasi lodo, ricusazione o probabile prescrizione.
Si tratta di un processo che due pubblici ministeri che hanno la fama che hanno, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, hanno frettolosamente imbastito per interrompere i termini di prescrizione e soprattutto nella speranza che in corso d’opera, a mezzo di mille approfondimenti e soprattutto costose rogatorie, potesse spuntare un appiglio per sostenere la seguente e a tutt’oggi insostenibile tesi: l’avvocato David Mills sarebbe stato ricompensato da Silvio Berlusconi come ringraziamento per due deposizioni testimoniali a lui favorevoli; lo si sarebbe scoperto per via del fatto che questo avvocato inglese, per non pagare le tasse su una determinata cifra che aveva guadagnato, a un certo punto raccontò ai suoi commercialisti che questa cifra corrispondesse a un regalo che aveva ricevuto da Berlusconi appunto come ringraziamento. I suoi commercialisti denunciarono le cosa che giunse all’orecchio di alcuni magistrati italiani oltreché del Fisco inglese: la differenza è che il Fisco inglese ha giudicato la cosa poco credibile e ha intimato a Mills di pagare ugualmente le tasse, i magistrati italiani invece l’hanno rinviato a giudizio con Berlusconi. Nota: lo stesso Mills ha infine già smentito il racconto del regalo di Berlusconi. Altra nota: sin dalle indagini preliminari è documentalmente noto che la cifra oggetto della presunta corruzione ha seguito un percorso che non riconduce a Berlusconi ma proviene dal un terzo soggetto, un armatore napoletano che vedremo poi. Terza nota: il processo sarebbe prescritto da un paio d’anni ma l’accusa ha creativamente sostenuto che il presunto reato non decorrerebbe da quanto Mills ha ricevuto materialmente il denaro (come spiega la giurisprudenza corrente) bensì da quando ha cominciato a movimentarlo e a spenderlo: difficile che il tribunale, una volta in camera di consiglio, accolga questa tesi e non dichiari comunque la prescrizione. Ultima nota: la pubblica accusa, in pratica, ha ottenuto un rinvio a giudizio per un reato compiuto genericamente «in Milano, Londra, Ginevra, Gibilterra e altrove» ma a oggi non è in grado di precisare di quali e quanti soldi si parli, dati da chi e quando, e soprattutto perché: almeno una testimonianza di Mills, infatti, non avvantaggiò Berlusconi bensì contribuì a farlo condannare in primo grado.
Da capo, dunque. David Donald Mackenzie Mills era il creatore della galassia di società che gestiva il comparto estero di Fininvest: dunque l’amministratore, per esempio, della processatissima società All Iberian. Nel dibattimento in questione fu teste d’accusa: in aula, infatti, disse che la società apparteneva anche a Berlusconi e l’attuale presidente del Consiglio fu condannato anche per questo. Ed è il primo salto illogico: Berlusconi, cioè, avrebbe ordinato a un suo collaboratore di versare quei soldi a Mills affinché fosse reticente in due processi (Guardia di Finanza 1997 e All Iberian 1998) dove reticente non risulta esser stato. Secondo l’accusa, il collaboratore di Berlusconi che avrebbe passato i soldi a Mills è Carlo Bernasconi, cugino del presidente del Consiglio. Ma è morto. Come si è arrivati a tutto questo? Tutto deriva da un incredibile pasticcio di Mills: comunque sia andata.
L’avvocato, nel 2000, usò i proventi di alcuni suoi investimenti (l’accusa sostiene che erano soldi di Berlusconi) per estinguere dei mutui anche a nome della moglie, il ministro della Cultura Tessa Jowell: una grana per cui lei rischierà le dimissioni forzate. Il problema, infatti, è che nel gennaio 2004 da Mills aveva bussato il fisco. Ed ecco la follia, o il reato: l’avvocato volle sostenere che erano soldi esentasse, e per rafforzare la tesi chiese consulenza a uno dei suoi commercialisti, Bob Drennan, e gli lasciò una lettera che riassumeva il problema sostanziale ma ne inventava gli attori: questo sostiene la difesa ma oggi anche i documenti. Nella missiva, infatti, scrisse che la cifra in questione corrispondeva al regalo di un certo Bernasconi a seguito delle testimonianze rese in due processi. Brennan, come Mills certo non aveva previsto, fece però leggere la lettera al suo socio David Barker e insieme decisero di passarla al Seriuos Fraud Office (l’antiriciclaggio inglese) che a sua volta chiese spiegazioni a Mills. Panico. Ma il peggio doveva venire: la lettera giunse alla Procura di Milano e i magistrati s’ingolosirono, come di primo acchito pareva giusto.
Il 18 luglio 2004 Mills venne interrogato per dieci ore sinché «crollò» e fece il nome di Berlusconi. Non spiegò, però, come gli erano arrivati quei soldi. Mills, al Daily Telegraph, racconterà che i magistrati lo inquisirono a notte fonda, con cattiveria, sino a fargli dire «scrivete qualcosa e io lo firmerò». Successivamente smentirà.
Come andò veramente? Una prima opinione la diede la vertenza col fisco inglese: quei soldi furono effettivamente dei proventi di investimenti e basta, sancì. Non un regalo. Mills infatti ha dovuto pagarci le tasse. Chiusa la vertenza, e con essa forse la necessità di parlare di regali, Mills cercò di parlare coi magistrati che però non l’ascoltarono. Era il novembre 2004. Preparò allora una memoria dove ecco, raccontò una verità che a oggi appare insuperabile: quei soldi provenivano non da Berlusconi, ma da una serie di operazioni condotte sin dal 1992 per conto dell’armatore italiano Diego Attanasio, un tizio che peraltro era stato inquisito a Salerno per corruzione ed era interessato a salvare un po’ di soldi con un gioco di compravendite di due navi. La ricostruzione della partita di giro, che parte dalle Bahamas e che è complicatissima, figura nelle carte del processo da almeno due anni: ma nei giorni scorsi è stata spiegata in aula dal consulente contabile Andrea Perini, docente di diritto penale commerciale e Torino. Quei soldi si originano dalla compravendita quinquennale della motonave Ocean Installer: e da nessun’altra direzione.
Non fosse chiaro: il capo d’imputazione non si regge più su nulla. La consulente Claudia Tavernari, nell’udienza di lunedì prossimo, dovrebbe inoltre demolire la tesi di ripiego dell’accusa: ossia che soldi passati da Berlusconi a Mills possano essere rintracciabili nei circuiti del paradiso fiscale di Gibilterra. Ma l’esito, in termini cartacei, è già noto. Non c’è nulla neanche lì. Ai magistrati, in pratica, rimane solo la lettera di Mills (smentita da Mills) dove Mills raccontava che una certa cifra corrispondeva a un regalo di Berlusconi (come smentito dalle carte e dal disco inglese) effettuato tramite un morto. Ergo: il processo è finito. La temuta requisitoria dell’accusa, di cui si temeva l’eco politica, non risulta in calendario neppure per settembre. (il Giornale)

mercoledì 9 luglio 2008

Emergenza ingiustizia. Filippo Facci

Chiedetelo ai beoti di Piazza Navona, chiedetelo ai centinaia di sottovuoto-spinto che ieri erano indecisi se ascoltare Beppe Grillo o fare lo struscio in corso Vittorio: di quale giustizia dovremmo parlare? Di quella evocata dal pitecantropo molisano che associa un governo democratico a «magnaccia» e «stile mafioso» e «stuprare i bambini»? O quella di un pluriomicida, Michelangelo D'Agostino, che i bambini intanto li sorvegliava in un parco giochi? Dopo che aveva già ammazzato quindici persone? Dopo che aveva già preso un bambino in ostaggio?
Qual è il problema della giustizia in Italia? Il Lodo Alfano? Quel pateracchio inesistente che è il processo Mills, che finirà in niente come sanno tutti? La Carfagna? La moglie di Willer Bordon? Sono gli scatti professionali dei magistrati, il problema? Loro sfilano, giocano con le bandierine, si trincerano nel nulla internettiano come alternativa alla Playstation, incassano grano da libri e dvd: chissà quanti di loro parleranno di Michelangelo D'Agostino, oggi. Chissà quanti chiederanno conto all'intoccabile terzo potere italiano di un signore di 53 anni che è stato libero di ammazzare un'altra volta dopo averne spazzati via 15. Bella la vita del pirlacchione che manifesta a piazza Navona. E bella la vita dei Michelangelo D'Agostino, una vita al massimo.
Non è lui il problema. È già un camorrista, nell'aprile 1983, e in un conflitto a fuoco coi carabinieri viene beccato: finisce dentro. Non è un problema. Era già un killer, faceva parte della Nuova Camorra Organizzata e nel 1985 si accodò alla messe di pentiti che dal nulla accusarono Enzo Tortora di essere uno di loro, un infame: disse che il giornalista faceva parte del clan di Cutolo e contribuì sensibilmente a farlo condannare in primo grado: «Ho firmato i verbali senza leggerli, speravo in qualche beneficio», dirà anni dopo. Torna in galera, ma nel 1997 ecco la semilibertà. In fondo era uno che aveva semplicemente detto ai magistrati che «uccidere è quasi un gioco, ho cominciato per caso, poi ci ho preso gusto e ho continuato. Prendevo a calci i cadaveri; baciavo la pistola sporca di sangue». In libertà.
Esce e subito due rapine, «spatascia» un'auto contro un semaforo, sequestra una madre col figlioletto in carrozzina; cede alle forze dell'ordine solo dopo essersi preso due proiettili in corpo. Passa un po' di tempo ed eccoti un'altra licenza premio (premio di che?) che lui utilizza immediatamente per rapinare un bar e fottersi 4.000 euro: per quel che sappiamo. Poi, essendo palesemente una persona seria e affidabile, nell'aprile scorso ottiene una bella licenza lavorativa e lascia il carcere Calstelfranco Emilia, vicino a Modena, e se ne va a Pescara improvvisandosi guardiano del parco giochi Villa De Riseis, dove pure dorme e fa lavoretti vari. Era un lavoro regolare? No. Aveva un contratto? No: la cooperativa che gestisce il parco lo lasciava fare al pari dei Servizi sociali cittadini. È passato anche dalla Caritas: «Ma dalla magistratura», ha detto il direttore don Marco Pagnillo al Corriere della Sera, «non ho mai ricevuto nessuna disposizione». Non lo controllava nessuno. E nessuno, invero, aveva ricevuto mai nessuna comunicazione da nessuno. Si sono limitati ad allontanarlo anche dalla Caritas, perché non stava alle regole.
Tra due settimane avrebbe dovuto tornare in carcere, ma probabilmente non ci pensava nemmeno. Ed ecco dunque che lui, un uomo che aveva compiuto oltretutto quindici omicidi in tre mesi, domenica scorsa decide di emanciparsi dalla sua «licenza trattamentale» e, dopo una lite da niente, spara in testa e all'addome di Mario Pagliaro, 64 anni, moglie e figli, trucidato tra le mamme e i bambini. Avevano litigato, sapete. È rimasto libero fino a ieri pomeriggio e ha vagato tranquillo per il nostro Paese, armato. E non una parola: silenzio da un mondo politico e giornalistico tutto concentrato su una banda di cialtroni intenti a spiegare come il problema, tra questo porco assassino e Silvio Berlusconi, sia il secondo. Perché è ancora libero. (il Giornale)

lunedì 7 luglio 2008

Qualcuno abbia pietà di Contrada. Milton

Stanno uccidendo un essere umano. Nel Paese dove i cortei arcobaleno sfilano contro Guantanamo e le anime belle radical-chic, con l’aperativo in mano, firmano appelli per “Nessuno tocchi Caino”, un essere umano, sfibrato dalla malattia e dalla privazione, sta morendo in carcere.

Non ci sono ex di Lotta Continua a perorare la sua causa, non ci sono ex compagni, ora direttori di giornali che ne prendono le difese, non tiene conferenze o scrive libri da filosofo del riflusso; è un uomo solo, che tra le quattro mura anguste della cella, vede ogni sera il buio della morte.

Perché questo uomo sta morendo in cella? Per un reato che neppure esiste nel codice penale, il concorso esterno in associazione mafiosa: un obrobrio giuridico, un’impalpabile accusa, fatta di si dice, si mormora, nella terra dell’omertà. Se non fosse tragico, ci sarebbe da ridere. Ma potrebbe toccare anche a voi, cari lettori, se per caso passeggiando per le vie di Palermo incrociaste gli sguardi di qualche piccolo pesce appartenente a Cosa Nostra, a voi totalmente sconosciuto (non è necessario baciarlo, come dissero successe ad Andreotti qualche anno fa), ebbene, state pur certi, potrebbe non mancare qualche giudice zelante, che ve ne chiederà conto.

Perché questo uomo sta morendo in cella? I “si dice” di cui sopra provengno dai mafiosi che ha arrestato e combattuto per tutta la vita, una vita al servizio dello Stato, con umiltà e senso del dovere.

Perché questo uomo sta morendo in cella? C’è un tribunale di sorveglianza che ha così sentenziato in relazione alla richiesta di differimento della pena: “Non è sufficiente che l’infermità fisica menomi in misura rilevante la salute del soggetto in espiazione della pena, ma è necessario che la stessa raggiunga un livello tale da rendere incompatibile il senso di umanità”.

La menomazione fisica deve “superare il limite della umana tollerabilità”. Cosi sentenzia un tribunale della Repubblica Italiana, della nostra tanto sbandierata democrazia, in un mondo dove anche i diritti degli scimpanze sono ormai tutelati per legge, in questo nostro mondo d’Occidente, ci sono giudici che si arrogano il diritto di stabilire il limite dell’umana tollerabiltà e di ciarlare a proposito del senso di umanità. Ho terrore di questi rappresentanti dello Stato, che si credono, e purtroppo sono, nel caso di quest’uomo morente in cella, onnipotenti. Ho terrore perché un giorno uno di questi tribuni, nel nome della Repubblica Italiana, potrebbe rubarmi per esserne padrone, il mio proprio senso di umanità, quel confine intimo che divide ciascuno di noi uomini, dagli animali.

Liberate Bruno Contrada, liberatelo, ha 77 anni e sta morendo in carcere. (l'Occidentale)

Aiuto ho perso il 41bis!

Allora però ci dobbiamo mettere d’accordo. Perché non è possibile che se il governo vara una norma per chiedere ai magistrati di occuparsi con precedenza sui reati più gravi quello è un vile attacco alla Costituzione e alla sacrosanta autonomia della Magistratura e se invece i giudici mollano il freno sul 41 bis, l’articolo che prevede il carcere duro per i reati di mafia, allora la colpa è del governo che “abbassa la guardia”.

Perché è questo che ci sta raccontando la Repubblica. Prima chi hanno spiegato in tutte le salse che la norma blocca-processi è un insulto sanguinoso ai giudici. Poi negli ultimi giorni ecco una sfilza di preoccupatissimi articoli in cui ci si spiega che il 41bis non funziona come dovrebbe, che viene troppo facilmente revocato, che è sempre più difficile da infliggere, che i capicosca se ne tornano quatti quatti al regime normale e che i parenti delle vittime sono in rivolta.

Ma spiegateci una cosa: questo 41 bis chi lo prescrive? E chi lo revoca? Chi lo fa rispettare? Non sono forse i tribunali di sorveglianza e i presidenti di corte di assise? Perché in questo caso si pretende dal governo che intervenga su magistrati per altri versi intoccabili?. Eppure la complessa sceneggiatura degli articoli di Repubblica fa capire proprio questo: che la colpa è dello Stato – come dicono i parenti delle vittime pronti a scendere in piazza – e quindi del governo, e per dirla in breve di Berlusconi, che pensa ai casi suoi e lascia i mafiosi a spasso.

Come mai in questo caso non si chiede un parere al Csm, che di pareri è di solito così generoso? O perché non si ascolta l’opinione dell’Associazione Nazionale Magistrati, tenuta in conto di oracolo quando si tratta di farla pagare al governo. Eppure è di magistrati che stiamo parlando, delle loro scelte, del modo in cui – con piena discrezionalità – applicano o non applicano leggi e disposizioni.

Certo i mafiosi non hanno le tette e non vanno a ballare in tivvù. (l'Occidentale)

mercoledì 2 luglio 2008

L'impronta del bambino. Davide Giacalone

Vogliamo ragionare sul prendere le impronte digitali ai minorenni, ai bambini? Ai miei le hanno prese, come le mie, alla frontiera aeroportuale degli Stati Uniti. Siamo stati fotografati ed abbiamo compilato un modulo nel quale abbiamo dovuto dire dove stavamo andando, dove avremmo soggiornato e cosa avevamo intenzione di fare. Non ci siamo sentiti umiliati o indagati, benché sia stata una schedatura, piuttosto abbiamo sperato di fare in fretta, perché già il viaggio era stato lungo. Alla fine ci hanno detto: benvenuti negli Stati Uniti. Andando via abbiamo salutato: arrivederci, e ci torneremo.
A me non piace che si prendano le impronte digitali ai bambini rom, ma solo perché si è specificato che il provvedimento è relativo a loro. Prendiamole a tutti, così da farne anche uno strumento per rendere più difficile lo scambio di minori. Nemmeno mi piace che i bambini rom, gli zingarelli, che posso chiamare così perché così li abbiamo sempre chiamati, senza alcun accento non dico razzista, ma anche solo di fastidio, non mi piace, dicevo, che siano lasciati del tutto liberi. Molti di loro lo sono, ma come bestie. Li trovo sotto casa, inebetiti fra le braccia di madri accattone, o scorrazzanti luridi sul marciapiede. Li trovo dove la folla s’accalca, nelle stazioni o dove i turisti si distraggono, intenti al borseggio. Schiavizzati da adulti che non definirei nomadi, e men che meno “figli del vento”, semmai delinquenti. Allora vorrei sapere quante volte un determinato bambino è stato trovato in quelle condizioni, e vorrei fosse certa l’identità dei genitori, dopo di che vorrei istradare lui verso la scuola e loro verso la galera.
Sono, dunque, diventato fascista, razzista e senza cuore? E’ che mi si spezza, il cuore, a vederli così come sono, mi pare sia ignobilmente razzista che si consideri scontato il loro futuro ai margini della legalità, se non oltre, e trovo che l’ideologia c’entri come i cavoli a merenda. Gli zingari erano perseguitati ed internati nei gulag comunisti, ma non darei del “comunista” a chi affermi l’inderogabilità dell’obbligo scolastico, anche perché, in certi casi, c’è il rischio che lo prenda come un complimento.
Chi sta al governo, però, si renda conto che non basta una cosa sia giusta, occorre anche comunicarla senza un di più provocatorio.

martedì 1 luglio 2008

Se stai col Cav. o sei matto o sei corrotto. l'Occidentale

Ho condotto per una settimana la trasmissione “prima Pagina”, la rassegna stampa in onda su Radio3 e condotta a rotazione da giornalisti di diverse testate. Dopo la lettura dei giornali la trasmissione prevede un “filo diretto” con gli ascoltatori durante il quale il conduttore risponde alle loro domande.

E’ stata una esperienza interessante che mi ha fatto molto riflettere sulla qualità del dibattito pubblico nel paese e sulla mia capacità di incassare insulti. I temi caldi di quella settimana appena trascorsa erano gli stessi di questa appena cominciata: la giustizia, con tutto il suo accompagnamento di provvedimenti “salva-premier” e le impronte per i bambini rom. Chi legge l’Occidentale un po’ conosce le mie opinioni in proposito, ma non è di questo che voglio parlare: mi interessa invece la meccanica del dialogo con gli ascoltatori perché essa riflette – in piccolo – la generale dinamica della discussione politica.

La maggior parte delle telefonate che ho ricevuto erano fortemente polemiche nei miei confronti, soprattutto quando mi permettevo di argomentare in difesa delle misure del governo sulle questioni già citate. Le reazioni negative degli ascoltatori (ce n’era qualcuna anche positiva per mia fortuna) si dividevano in due grandi gruppi: i primi mi accusavano di essere incompetente, di non sapere quello che dicevo e in sostanza di essere un po’ “fuori di testa”; i secondi erano invece convinti che io fossi un venduto, un prezzolato del Caimano, uno che tradiva le sue vere idee per qualche inconfessabile motivo. A parte il fatto che non sapevo chi preferire, ne sono uscito con le ossa rotte ma ne ho anche tratto qualche lezione.

La maggior parte di coloro che votano a sinistra, leggono Repubblica o l’Unità e si ritengono di diritto dalla parte del Bene e del Vero, ragionano allo stesso modo. E così fanno i loro rappresentati in politica o in Parlamento. Le opinioni che non si condividono sono 1) frutto di annebbiamento o di colpevole incompetenza; 2) dovute al “prolasso morale” di chi ha tradito se stesso e le sue vere idee in cambio di qualche vantaggio.

E’ un modo molto comodo e auto-consolatorio di ragionare perché risparmia la fatica di mettere alla prova le proprie idee con quelle altrui. L'ipotesi che anche sono in parte si possa aver torto non è mai presa in considerazione. Chi non la pensa come noi, infatti, non ha opinioni: o è mezzo matto o è mezzo corrotto. O rinsavisce o va in galera, non resta che attendere.

Quando Eugenio Scalfari, senza neppure nominarlo, accusa il direttore del Riformista, Antonio Polito, di aver mantenuto il suo talento ma perduto la sua fibra morale, corrisponde esattamente a questo schema, anzi lo alimenta e lo rafforza. Allo stesso modo i giornali che accusano Roberto Maroni di essere un epigono di Hitler per il fatto di voler prendere le impronte ai bimbi rom, dicono che il ministro dell’Interno è impazzito, ha tragicamente tralignato verso il male assoluto. Con costoro non si discute, ci si limita a metterli all’indice.

Tutto il dibattito sulla giustizia di questi giorni è corrotto da questo modo di pensare: Berlusconi è pazzo, ossessionato dalla sindrome dell’imputato e tutti coloro che lo seguono, parlamentari, giuristi, giornalisti, e persino elettori, sono suoi manutengoli prezzolati.

Se lo schema del centro sinistra resta questo: interdittivo, contro gli “interessi” e le “follie” della maggioranza quando è all’opposizione; e punitivo contro gli stessi “interessi” e “follie” quando è al governo, questo paese non farà mai un passo avanti. Veltroni l’ha capito e prepara le valigie.