venerdì 26 febbraio 2010

Ma D'Avanzo non va in prescrizione? Lodovico Festa

“David Mills è stato corrotto”.
Dice Giuseppe D’Avanzo sulla Repubblica (26 febbraio).
Chissà se D’Avanzo andrà mai in prescrizione. (l'Occidentale)

Ora la riforma. Davide Giacalone

La partita conclusa ieri, in Cassazione, porta il nome apparente di David Mills, ma diversa era la posta reale: Silvio Berlusconi. La sentenza delude quelli che speravano di condannare il secondo, per il tramite del primo, lascia aperto un procedimento penale destinato ad autodistruggersi e impone una nuova agenda politica, in tema di giustizia. L’avvocato Mills la sfanga, salvo dover risarcire la parte civile, che, per ironia della storia, è quella presidenza del Consiglio oggi abitata dal suo cliente di un tempo. Ma chiusa una partita se ne apre un’altra, tocca al governo dare le carte, e c’è da sperare che giochi con la testa, senza il solito appellarsi alla fortuna o all’isteria.

Oggi in molti scriveranno che la Cassazione ha considerato Mills copevole, ma prescritto il reato, sicché deve ritenersi colpevole anche Berlusconi, che, però, non era parte in causa. La situazione è ancora più grottesca di quel che sembra: per effetto (perverso) del lodo Alfano, ovvero della sospensione del procedimento contro Berlusconi, e quale conseguenza della successiva sentenza d’incostituzionalità, il presunto corrotto e il presunto corruttore hanno avuto due processi diversi, di cui uno, quello a Mills, appena concluso, e l’altro, quello a Berlusconi, appena iniziato. Non occorre essere giuristi per rendersi conto che è una situazione da manicomio, che si sarebbe potuta evitare se la legge fosse stata fatta in modo meno superficiale, talché, oltre a renderla costituzionale, si fosse provveduto a sospendere anche i procedimenti a carico dei coimputati. E non occorre essere studiosi, bastando il buon senso, per aver chiaro che non è ragionevole vedersi condannare in un processo nel quale neanche si è imputati, quindi non ci si è difesi. Questo, però, è quel che stava succedendo.

La Cassazione fischia la scadenza del tempo: datando il reato al novembre del 1999 si constata l’intervenuta prescrizione. Se è vero per il corrotto, lo è anche per il corruttore. Anziché condannato, Berlusconi è prescritto per interposto Mills. E’ vero, non c’è, per Mills, l’assoluzione nel merito. Ma così come non si può essere un po’ incinte, neanche si può essere un po’ colpevoli. O lo si è, o non lo si è: senza sentenza di condanna, vale l’innocenza. (Si tenga a mente questo principio, lo tenga a mente il governo, cui oggi fa comodo, perché torneremo a parlare di mafia, e vedremo che le cose non sono poi così chiare).

Adesso, però, non c’è più bisogno di correre per evitare che il presidente del Consiglio sia condannato con una sentenza copia e incolla. L’anno in più che rimane (dato dalla sospensione ottenuta) non basta certo a chiudere tre gradi di giudizio. Le vie delle procure sono infinite, ma l’immediatezza del pericolo è venuta meno. Non ci sono alibi, non ci sono scuse: ora la riforma della giustizia. Ora, subito, perché dovrà essere discussa, perché coinvolge profili costituzionali e, quindi, quel che manca alla fine della legislatura è poco più del tempo necessario.

Le direzioni di marcia le abbiamo tante volte indicate e dettagliate: separazione delle carriere e avanzamento per merito, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, certezza dei tempi, sveltimento delle procedure (con la digitalizzazione si possono fare miracoli), pene da non elevare ma da far divenire certe, depenalizzazione e decarcerazione delle pene. Questa è la partita vera, che va giocata nell’interesse di tutti, dei cittadini come del mercato, senza piegarsi davanti alle pressioni corporative, senza avere tremori politici. Queste sono riforme serie, sulle quali chiamare alla collaborazione la sinistra in grado di starci, vale a dire capace di rendersi indipendente dal giustizialismo fascistoide che l’affligge.

Guai, invece, a giocare ancora tante piccole partite di cortile, che hanno incenerito troppe energie, massacrando la giustizia e rendendola quel colabrodo che ogni anno si offre al pubblico ludibrio. Le polemiche sulla sentenza di ieri evaporeranno entro la fine di marzo, ma la malagiustizia non svanisce e la lasciamo in eredità ai posteri. Questo è il tempo d’agire, prima che la giostra ricominci.

martedì 23 febbraio 2010

La domenica a piedi della "rieducazione" ecologista. Carlo Lottieri

La prossima sarà una domenica inutile: anzi, peggio che inutile. Costretti a lasciare l’automobile in garage per l’intera giornata a seguito di un’iniziativa demagogica assunta dai sindaci delle maggiori città del Nord, milioni di concittadini subiranno in silenzio questo ennesimo sopruso, che per varie ragioni appare insensato.

Il sindaco milanese Letizia Moratti e quello torinese Sergio Chiamparino, promotori di questa giornata ambientalista, hanno provato a giustificare la decisione sostenendo che fermare gli automezzi sarebbe importante per salvaguardare l’aria e rispondere a una situazione intollerabile (sia a Milano che a Torino i limiti di legge riguardanti il PM 10 sono stati superati più di trenta volte dall’inizio dell’anno). Ma lo stesso primo cittadino del capoluogo piemontese ha poi dichiarato, senza giri di parole: “Il blocco del traffico non è una misura che strutturalmente può contrastare l’inquinamento, ma è importante farlo in modo coordinato su una vasta area”.
Non serve, ma va bene lo stesso.
Stupisce tanta leggerezza, anche se il comportamento degli amministratori è in parte comprensibile alla luce del fatto che essi sono “sotto ricatto”: da anni l’Italia ha adottato limiti rigidissimi, che è impossibile rispettare, e in questa situazione i sindaci rischiano ogni giorno di finire sul registro degli indagati. Come infatti è accaduto poche settimane fa e come potrebbe succedere di nuovo. Oggi si bloccano le automobili, insomma, nella speranza che questo serva, domani, a bloccare le inchieste.

È triste però che di queste cose non si discuta e che nessuno si domandi se i limiti (ben più ampi) adottati da altre legislazioni europee mettano a rischio la salute o, più semplicemente, non rappresentino una soluzione più equilibrata a un problema – quello dell’inquinamento – che in realtà è in via di risoluzione grazie allo sviluppo di tecnologie meno inquinamenti e alla trasformazione della nostra economia da prevalentemente industriale a largamente terziarizzata.

Negli ultimi cinquant’anni a Parigi la concentrazione di “fumo nero” nei mesi più freddi, ad esempio, si è ridotta dell’80%: oggi, insomma, è solo un quinto di quanto non fosse negli anni Sessanta. Una stessa trasformazione si è avuta da noi e chi ricorda lo smog milanese dei decenni scorsi lo sa bene. Come ha sottolineato un paio di anni fa Francesco Ramella, “nel corso degli ultimi quindici anni la concentrazione nell’aria di tutti i maggiori inquinanti nel capoluogo lombardo si è drasticamente ridotta: il biossido di zolfo è passato da 38 a 5 μg/m3 (-87%); il biossido di azoto è diminuito da 115 a 60 μg/m3 (-48%); l’ossido di carbonio è stato abbattuto da 3,9 a 1,3 μg/m3 (-67%) le polveri totali sospese sono state ridotte da 140 a 59 μg/m3 (-58%)”.
C’è un’altra considerazione da farsi. Il blocco del traffico è una grave lesione a un diritto fondamentale, quello di muoversi. Sorprende leggere che, di fronte alla diffusa consapevolezza dell’inutilità dello stop che avrà luogo domenica prossima, molti già sostengano che la cosa vada ripetuta nei giorni feriali. La sensazione, ma non si tratta solo di una sensazione, è che agli occhi dei politici le nostre libertà non siano nulla e che di noi si possa fare quello che si vuole.
Solo stupidità? Non è così.

Da un certo punto di vista, è facile riconoscere quale sia il vero significato di una decisione altrimenti ingiustificata. Per cogliere dove voglia davvero condurre tale iniziativa basta leggere la conclusione del documento con cui Legambiente ha dato il proprio sostegno all’iniziativa di Moratti e Chiamparino: “sappiamo che non basta fermare le auto un solo giorno all’anno, ma l’adesione alla giornata di decine di sindaci di città importanti, affiancati dai sindaci di città più piccole che prendono contemporaneamente simili decisioni, ha certamente una grande importanza, simbolica ed educativa”.

Ecco, l’ultimo aggettivo è fondamentale: lorsignori ci vogliono “educare”. Sindaci, ambientalisti, presidenti di Regione e funzionari delle varie agenzie pubbliche preposte a vigilare sull’aria non intendono limitarsi a svolgere il loro lavoro, ma puntano a dirci cosa si deve fare, e cosa non si deve fare. E in qualche caso vogliono che noi si sia partecipi di quella medesima angoscia che avvertono di fronte alla notizia che in Kenya va calando il numero degli elefanti o che la temperatura globale – anche se soltanto nei dati truffaldini dell’Ipcc – va crescendo.Non dobbiamo sorprenderci di questo, poiché da anni quanti frequentano i primi anni della scuola dell’obbligo sono educati al culto della Madre Terra, condotti nei giardini pubblici a piantare alberelli, stimolati in tutti i modi a buttare il vetro nelle campane della raccolta differenziata. La fabbrica del buon cittadino ecologista lavora a pieno regime.

D’altra parte, nessun potere vive senza un’ideologia che lo sorregga, perché è difficile dominare l’uomo usando sempre e solo la forza. Ma è assai più agevole governare se lo si fa in nome di qualche “divinità” (più o meno dichiaratamente tale) e, per giunta, avendo a cuore il benessere di tutti: panda inclusi. Se non si parte da qui è difficile comprendere questa insulsa domenica senza macchine, in cui il ceto politico cerca di trovare una qualche ragione di autolegittimazione appellandosi a un confuso intruglio ideologico in stile New Age.
Alla fine, come spesso capita, tutto si risolverà comunque in una rapina. In fondo, anche gli incentivi con cui finanziamo la grande industria vengono solitamente giustificati con argomenti “ecologici”. E così oggi il movimento dei sindaci padani vuole che – finiti gli scherzi di un carnevale tardivo rispetto al calendario – dalle chiacchiere si passi ai fatti: e già si annunciano richieste di ulteriori imposte che penalizzino l’automobile. I molti miliardi di euro che ogni anno sono sottratti ai titolari di autovetture, evidentemente, non bastano.
Ma lamentarsi sarebbe ingiusto: in fondo, tutto questo è fatto per il nostro bene. (IBL)

lunedì 22 febbraio 2010

Amnesia collettiva: il Pd parte da 11-2 (e perderà). Daniele Capezzone

Le cose semplici ed evidenti sono spesso quelle meno osservate, che tendono a sfuggire. È il meccanismo reso immortale da Edgar Allan Poe ne “La lettera rubata”: il modo migliore di nascondere una cosa compromettente è non nasconderla affatto, lasciarla in assoluta evidenza. E, nella maggioranza dei casi, si può contare sulla disattenzione dei più, che tenderanno a non vedere, a non accorgersi di ciò che è già sotto i loro occhi.

Sembra proprio questa la situazione che precede le prossime elezioni regionali di fine marzo. Si parla di tutto, di cose vere o presunte, della discussione interna al Pdl, della consueta dose di inchieste pre-elettorali, e via polemizzando e telebattibeccando. Ma l’unica cosa di cui non si parla è lo “score” di partenza, cioè il dato elettorale di cinque anni fa che gli elettori saranno chiamati a confermare, a smentire o a correggere. Ecco, il piccolo “dettaglio” che qualcuno vuole occultare (finora, riuscendoci), e che il centrodestra ha il torto di non aver ancora evidenziato abbastanza, è che il centrosinistra governa in undici delle tredici regioni chiamate al voto: da Nord a Sud, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria. Mancano all’appello solo Lombardia e Veneto, tra le regioni per cui si votò nel 2005.

Morale? Sembra assolutamente improbabile che il Pd e i suoi alleati confermino quel risultato. A meno di rivolgimenti impensabili, la sinistra perderà non poche regioni tra le tredici oggetto della consultazione: esattamente come ha già subito secche sconfitte in tutte e quattro le regioni andate al voto negli ultimi ventiquattro mesi (Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Sardegna, Sicilia). È da qui che dovrebbero partire sia i ragionamenti pre-elettorali delle prossime cinque settimane (“cari elettori, volete confermare le amministrazioni della sinistra?”) sia le analisi post-elettorali (con tanto di cartine geografiche e relative “bandierine”). (il Velino)

domenica 21 febbraio 2010

Anemone sapeva di essere intercettato?

Sono convinto che Guido Bertolaso, per il massaggio eseguito di notte dalla fisioterapista brasiliana, non solo sia stato vittima di una trappola ordita da Diego Anemone, ma che Anemone, Rossetti (gestore del centro relax) e Stefano (factotum) abbiano messo in piedi una sceneggiata ad uso esclusivo dei magistrati.

A mio avviso l'imprenditore, sicuro di essere intercettato, ha fatto in modo che il massaggio di Bertolaso sembrasse un incontro a luci rosse, riservando il trattamento a tarda sera, dopo la chiusura del centro e procurandosi una massaggiatrice brasiliana.
Le telefonate sono ravvicinate, dettagliate, circostanziate, esplicite e prive di quel minimo di precauzione che si dovrebbe avere al telefono con i tempi che corrono.
Il bikini non esiste, né lo champagne, né i preservativi.
La “bonifica” della stanza del massaggio è inventata.
E’ tutta una messa in scena e lo spettacolo è allestito per chi leggerà e interpreterà le intercettazioni.
Non voglio trarre delle conclusioni, ma, se le cose stanno così, siamo in presenza di un vero e proprio complotto.

Andate a leggervi le trascrizioni delle telefonate: sembra una radiocronaca...

mercoledì 17 febbraio 2010

Lettera aperta alle donne e agli uomini della Protezione Civile. Guido Bertolaso

Da oltre una settimana, sono diventato oggetto di due diverse iniziative giudiziarie.

La prima, dei giudici del Tribunale di Firenze, che stanno indagando su di me per capire se sono corrotto, corruttore, amico di corrotti e corruttori ed anche se, grazie al mio ruolo, in questa veste di amico, conoscente, sodale con persone disoneste io ne abbia favorite alcune in cambio di denari, servizi e prestazioni sessuali.

Fin qui la magistratura. Nulla da eccepire a che la magistratura indaghi su tutti e chiunque, me compreso, perchè è il suo lavoro, perchè il controllo della magistratura è importante in un sistema democratico, perchè è giusto che chi commette reati venga indagato, poi se del caso imputato, giudicato e condannato o assolto. Discuto, invece, come tutti coloro che si sono trovati nella situazione nella quale ora mi trovo, sul sostanziale silenzio che sembra generale consenso che copre la diffusione di carte, registrazioni, documentazione raccolta dai magistrati a fini processuali, ancora ovviamente tutta da verificare, che arriva alla stampa e ai media.

Su questo fronte si apre la seconda iniziativa giudiziaria di cui sono oggetto. Da giorni i giornali titolano non sospetti su di me, ma certezze, pubblicano intercettazioni usandole non come elementi indiziari ma come prove di colpe commesse, di fatto dando una immagine complessiva della rete dei corrotti e corruttori, di cui sarei parte, magari non proprio protagonista, ma sicuramente parte.

Così a pagina 1 campeggia una mia fotografia e a fianco si racconta di tizi che ridono tra loro al telefono sulla sciagura in Abruzzo che darà per certo a loro occasioni di affari. In altra pagina un’altra mia fotografia accompagna articoli in cui si parla di Tizio e di Caio, delle loro telefonate, dei loro affari, dei loro comportamenti che li dipingono come l’ennesimo giro di furbetti malavitosi.

Tutto ciò avviene mentre la magistratura sta ancora, semplicemente, indagando, per capire se ci siano elementi per trasformare i sospetti in prove.

Il secondo procedimento giudiziario si chiama giustizia sommaria, si chiama fango gettato nelle pale del ventilatore, si chiama diffondere illazioni, interpretazioni, accuse, pseudocertezze, precondanne e stigmate di malavitoso addosso a chi non ha altro strumento per difendersi che la propria storia, la propria pretesa innocenza, l’inservibile appello alla verità. Nei processi mediatici la verità è l’ultima cosa che interessa, si cercano emozioni, pruderie, notizie sfiziose sui difetti, le debolezze, le leggerezze, ma soprattutto si cerca e si riesce, gettando fango, di sfigurare il profilo di ogni persona investita da questa tempesta provocata ad arte. L’innocente e il colpevole diventano irriconoscibili, sotto la maschera inzaccherata, e l’accusa trionfante diventa il verdetto: “Sono tutti sporchi uguale!”.

Ho provato, in questi giorni, l’angoscia, il senso di ingiustizia, di devastazione, di perdita totale e senza eccezione delle tante persone che abbiamo soccorso dopo che le loro case erano state invase da fiumi di fango. Ti guardi intorno e vedi che ogni cosa della tua vita è sommersa, ricoperta da una patina untuosa e maleodorante. Se ti sposti, da lì, incontri lo sguardo tra la compassione per il disastro, il disappunto per la tua presenza sporca, un brivido di distinguo, di diversità soddisfatta che separa chi guarda da chi è stato colpito.

So, per averlo convissuto troppe volte, che chi è vittima di una catastrofe – in altri tempi avrei detto “naturale o “antropica”, e sapete bene la distinzione; oggi dico azione con intenti distruttivi premeditata e voluta – ha come primo bisogno di esser tolto dal fango, poi di essere aiutato a smaltirlo, poi aiutato a pulire ciò che si può pulire e a gettare ciò che si è rovinato in modo
irrecuperabile. Dopo comincerà il percorso verso il “rientro alla normalità”, che come ho sempre detto non è mai un ritorno, perchè al prima non si torna mai, ma un viaggio difficile e incerto verso una normalità diversa e nuova, che bisogna volere e cercare evitando la trappola di immaginare che il tempo, andando avanti, possa fare il miracolo di tornare indietro.

Il processo della magistratura comincerà quando i magistrati vorranno e avranno elementi per decidere. Nei loro confronti, in attesa delle loro domande e delle loro conclusioni, non ho problemi a passare il tempo per raccogliere i tanti elementi che possono facilmente dimostrare la mia estraneità ai fatti.

Il processo mediatico, gestito al di fuori di ogni regola del diritto, se non quello preteso e finora ottenuto dai giornalisti di essere liberi di pronunciare sentenze – se non di colpevolezza, di indegnità morale, cosa ancora più grave – non si può affrontare illudendosi che bastino elementi di verità a fermare il fango. Il danno c’è stato perchè sono stato oggetto di voci, dicerie, illazioni, sospetti non dimostrati e non dimostrabili. “La calunnia è un venticello...”: se è arrivata ad essere aria d’opera lirica questa verità sulla maldicenza e sul giudizio sommario emesso sulla moralità e dignità di una persona ha storia troppo lunga per trovarmi impreparato.

Come un alluvionato, mi trovo a patire sofferenza, rimpianti, strazianti ricordi e a misurare con la mente l’abisso che un semplice fatto ha scavato tra la mia vita normale e questi giorni di pubblico ludibrio, di autorizzazione data a chiunque di sentenziare su di me e sul mio operato.

In più, il fango nel ventilatore e coloro che a secchi alimentano questa operazione, colpiscono senza alcuno scrupolo non solo la vittima designata, ma anche tutte le persone che costituiscono la rete dei rapporti di vita di ciascuno, la moglie, i figli, i parenti, gli amici.

Nel mio caso, anche le migliaia di persone che lavorano nella Protezione Civile italiana, specie coloro che vi si impegnano da volontari, che inevitabilmente si accorgono che qualche schizzo di questa tempesta puzzolente arriva anche sulle loro uniformi.

Allo stato delle cose, non posso che dirvi la mia rabbia, il mio dolore, la mia sofferenza per questo modo di travolgere tutto in nome di un preteso diritto a veder chiaro, a scovare i colpevoli e linciarli, sputtanandoli per toglierli di mezzo.

Questo è il senso dell’operazione contro di me, questa la causa del malessere e della pena che anche voi vivete.

“Bertolaso, il nostro Capo, un pezzo di merda così? Come abbiamo fatto a non accorgercene, come abbiamo fatto a impegnarci con tutte le nostre energie senza sapere di essere solo figuranti in una commedia dove ben altri, protetti e coccolati, erano i veri protagonisti di un sistema distorto, costruito apposta per dare benefici a chi proprio non li meritava”. Sono questi pensieri che considero possibili ed anche legittimi, da parte di chi ancora crede che sia verità ciò che viene raccontato in televisione.

Se fossi accusato di un reato preciso, circostanziato, tutto sarebbe più facile. In questa vaghezza, in questo accostare la mia faccia a chiunque abbia potenzialmente compiuto reati o ci abbia provato, in questo pretendere che un pezzo di telefonata registrata dimostri e sia prova di cose mai avvenute, come le mie avventure di sesso con una fisioterapista che semplicemente dava sollievo alla mia cervicale con una grande professionalità o i miei focosi incontri ravvicinati con una signora brasiliana che non ho mai avuto l’occasione di avere tra le braccia, non sai come fare ad evitare che la tempesta si chiuda, almeno, solo su chi è sospettato di esserne parte, senza arrivare ad un intero sistema che ha, come unica colpa, quello di essere efficiente, capace, pronto, disponibile e generoso come nessun altro al mondo.

Sento la responsabilità di avervi trascinato in una vicenda di incredibile squallore e tristezza.

Questa la situazione. Come andare avanti?

Con un ritorno alla normalità, per me e tutti noi, che sia migliore di quella di prima.

Posso accettare di tutto, ma non di essere linciato dando ragione a chi si diverte a gettare fango. Se il Governo mi chiede di lasciare i miei incarichi, la mia valigia è pronta come al solito. Ma se non me lo chiede il Governo, io resto al mio posto, lavorando per primo a ripulire dal fango la mia persona, la mia casa, i miei amici e il mio mondo, che non ho mai infangato e non ho mai tradito.

Ho scommesso la mia vita sul servizio al mio Paese, ho scommesso i miei anni a capo del Servizio Nazionale come un patto di fiducia tra noi e i cittadini, che ho sempre onorato.

Mi batterò per la verità, anche se non interessa a nessuno, tranne che a me, alla mia famiglia e a molti di voi.

Errori, mancanze di controlli, gente che ha lavorato con noi in modo disonesto: mi considero parte lesa, non coimputato o colpevole, come mi considero fin d’ora responsabile di qualche possibile errore ed omissione. Errori ed omissioni che, se ci sono stati, rappresentano errori e omissioni di uno che non è mai stato e non ha mai voluto essere Superman, rappresentano errori e, fino a prova contraria, non reati, congiure, atti intenzionali e voluti.

Resto al mio posto, con la speranza di avere presto, prestissimo, ieri, la possibilità di ricominciare dalle priorità vere del mio e vostro lavoro. Oggi dovrei essere in Calabria, sul fronte della frane, non in Parlamento a discutere di un falso, come la privatizzazione della Protezione Civile, che non ho mai voluto e proposto. Il Governo ha deciso lo stralcio della norma che ci autorizzava a creare una società di servizi, per intervenire in modo assolutamente sicuro e garantista nella gestione di grandi commesse, per evitare una volta per tutte di dover mettere insieme squadre non del tutto verificate nella attendibilità dei loro componenti, dotando la Protezione Civile di uno strumento operativo in più, come già avviene in molte Regioni italiane. Nessuno si è stracciato le vesti in difesa della democrazia quando l’Emilia Romagna si è dotata di uno strumento del tutto analogo a quello che avevo proposto di creare.

Niente da fare e spiegare, sono stato accusato di vendere ai privati la Protezione Civile. Vergogna a chi ha dato per buona questa balla, sentendosi per di più onorato e fiero per essere protagonista di una “battaglia democratica” del tutto inventata. Ben altri sono i problemi della democrazia, a cominciare dalla mancata assunzione di responsabilità dei tanti che adesso tuonano contro di me per i grandi eventi e fino a ieri erano fuori dalla mia porta a chiedere il mio sostegno per dichiarare grande evento questa o quella iniziativa.

Basta fango. Ho una qualche esperienza nella gestione delle emergenze, so bene che dopo una scossa ce ne saranno altre, so bene che dopo una colata di fango, se il meteo non cambia, non è detto che sia finita. Ma so cosa significa mettere in sicurezza, so il valore di ciò che ho fatto insieme a voi, so benissimo cosa significa una tempesta mediatica, so cos’è un’operazione politica condotta mirando a Caio per colpire Sempronio. Sono decenni, non mesi, che assumo incarichi pubblici di responsabilità. Non sono un amichetto di nessuno – forse questa è la mia colpa principale -, né scelgo i miei “intimi amici” con i criteri dei pretesi maestri di giornalismo, che ieri riconoscevano almeno in parte le mie ragioni senza rinunciare a condannarmi per le mie frequentazioni, delle quali nulla sanno e nulla gli interessa sapere. Oggi dalla stessa fonte dovrei apprendere le competenze della Presidenza della Repubblica, a me evidentemente sino ad oggi ignote, aggiungendosi al coro stonato di chi pretende le mie dimissioni.

Le dimissioni le ho date, sono state respinte. Ho detto chiaro e tondo chi considero autorizzato a richiedermele in ogni momento, dichiarandomi a priori disponibile a ripresentarle immediatamente. Con questo nego a chiunque altro il piacere di essere preso in considerazione da me su questo argomento, che non mi riguarda perchè trasformato in questione di rapporti tra partiti in campagna elettorale. Non mi occupo di queste questioni, finché dura la colata di fango debbo occuparmi di questo, non appena potrò avere il respiro necessario tornerò all’agenda dei miei impegni, che non sono mai stati e non sono nelle alcove di chi ha scelto una vita facile ma in giro per l’Italia al fianco di chi la Protezione Civile sa cos’è e la pratica tutti i giorni.

Se hanno voluto togliermi onore e dignità, sappiano che queste sono risorse personali che ciascuno di noi si è costruito con scelte di vita compiute da lunga data e riconfermate ogni giorno. La mia dignità, il mio onore non sono di carta, non sono immagini, non sono dicerie. Il fango le sporca, le deturpa, non le cancella e non le corrode.

Mi auguro che quanti di voi mi hanno incontrato capiscano bene ciò che sto dicendo, ne sentano la verità nel profondo, perchè bisogna essere come il mare, in questi casi, sconvolto dalla tempesta in superficie e ancora calmo, come sempre, qualche metro più sotto.

Se, nel tornare alla normalità, quella migliore di ieri che dobbiamo avere come obiettivo, mi verrà consentito di fare passi indietro e dar corso, finalmente, al mio progetto di fine anno di lasciare in altre mani il timone della Protezione Civile per andare in pensione, lo farò volentieri. Ma a condizione che vi siano tempi di pace e non una emergenza, anche solo mediatica, che coinvolge il buon nome dell’intera Protezione Civile. Ho la pretesa di lasciare stringendo la mano a ciascuno, guardandolo negli occhi. Nessuno mi chieda di fuggire, non lo farò.

Faccio mia la sofferenza di tutti coloro che si sentono colpiti ingiustamente per questo attacco forsennato e squallido che mi riguarda e, da questo patibolo che non ho scelto né meritato, vi saluto con tutto il mio affetto e la mia fedeltà al patto di rispetto e di onore che ci ha permesso di realizzare qualcosa di buono, molto buono, troppo buono per non suscitare tempeste di fango.

Buon lavoro a tutti.

Guido Bertolaso

lunedì 15 febbraio 2010

La paura di andare per strada. Michele Brambilla

Pierluigi Bersani ha ragione quando dice che la destra non può e non deve cavalcare gli incidenti di via Padova perché è da anni al governo del Paese, della Lombardia e di Milano, e quindi più che cavalcare dovrebbe fare mea culpa.

Ma il punto debole del suo ragionamento sta nella vaghezza con cui conclude le sue dichiarazioni, quando dice che la politica della destra sull’immigrazione è fallita senza però indicarne una alternativa. Non basta dire che è ora di affrontare il problema seriamente, che ci vuole altro eccetera. D’accordo che bisogna parlarne seriamente: ma per dire che? D’accordo che ci vuole altro: ma cosa?

La verità è che finora nessuno è riuscito a trovare la soluzione a problemi che non possono essere risolti dai sindaci e dalla polizia, e neppure dal solo governo italiano. Siamo di fronte a un fenomeno mondiale, che comincia nei Paesi d’origine dei disperati che scappano e finisce in quelli in cui quei disperati vanno a cercare un’esistenza meno grama. La verità – ripetiamo – è che nessuno, a cominciare da noi che scriviamo, ha una formula magica. La Moratti è ben salda alla guida di Milano, è vero. Ma forse può tutto? Quando il Comune di Milano deliberò – peraltro applicando una legge nazionale – che i figli dei clandestini non possono iscriversi all’asilo, la sinistra insorse, così come insorse la Curia, e così come intervenne la magistratura. Certo a ciascuno di noi fa orrore pensare che un bambino non possa frequentare l’asilo perché è figlio di clandestini: ma l’altra faccia della medaglia, politicamente scorrettissima ma reale, è che un clandestino accettato all’asilo toglie il posto a un bambino figlio di immigrati regolari. Che fare allora? E’ un dilemma simile, anche se meno tragico, a quello che ci si pone di fronte ai cosiddetti «respingimenti»: un minimo senso di coscienza ci induce ad accogliere tutti, perché l’amore per il prossimo non può essere sottoposto al controllo dei documenti. Ma poi? Come garantire loro che non finiscano in una via Padova?

E’ un problema mondiale, dicevamo, e questo vale ancor più per grandi città come Milano, naturali rifugi di tanta umanità in fuga. Milano è cambiata, tanto cambiata. Quartieri che prima della guerra erano piccole roccaforti della «mala» (una «mala» che fa quasi tenerezza, se confrontata con quella di oggi) sono oggi zone d’élite: è il caso dell’Isola. Altri quartieri che erano pacifiche periferie dove si parlava in dialetto, oggi sono dei Bronx: è il caso di via Padova.
Milano aveva fama di accogliere tutti, con il mitico cuore in mano, e ha prodotto forme di integrazione più che riuscite. Ma l’«integrazione», questa parolona con cui tutti noi ci riempiamo la bocca senza sapere bene che cosa sia, richiede tempi lunghi e anche alcuni paletti. In via Sarpi, ad esempio, i cinesi ci sono dai primi del Novecento, e avevano formato una comunità che conviveva perfettamente con i milanesi. Oggi però di quell’area i cinesi sono o si sentono (fa poca differenza) i padroni, e la pretesa di una sorta di zona franca ha provocato i primi veri scontri etnici di Milano: è successo nel 2007, con la rivolta contro i vigili che si permettevano di multare per sosta vietata.

Milano non viveva più la paura nelle strade dagli Anni Settanta, quelli del film di Lizzani sul delitto inutile di San Babila. Allora il problema erano opposti estremismi politici. Oggi è anche la presenza di nuovi opposti estremismi: quello di chi, in nome di una visione antistorica, vorrebbe evitare un’immigrazione che peraltro porta pure tanti valori; e quello di chi, demagogicamente, vorrebbe porte aperte per tutti. Gli incidenti di via Padova diventeranno un’ennesima occasione di scontro elettorale, mentre dovrebbero esserla per un patto trasversale tra una destra e una sinistra finalmente unite per il bene di un’Italia così tanto esposta (per motivi geografici) e così tanto lasciata sola dall’Europa. Utopie? Può darsi. Ma in Spagna qualcosa del genere l’hanno fatto, e in Spagna all’opposizione c’è la destra, e al governo Zapatero. (la Stampa)

domenica 14 febbraio 2010

Guido sei tutti noi

Sono dalla parte di Guido Bertolaso senza riserve, perché sono fermamente convinto che sia estraneo alle vicende di cui è accusato.
In questo nostro Paese massacrato da sessant'anni di ideologia di sinistra e da politici in mala fede, non c'è rispetto per i servitori dello Stato e manca la cultura della presunzione di innocenza.

Sono certissimo che Bertolaso uscirà pulito da questa inchiesta, mentre è più che mai necessario prendere le distanze da tutti i sepolcri imbiancati di destra e di sinistra che vorrebbero che si dimettesse.
C'è qualcuno che usa gli avvisi di garanzia come arma di lotta politica: è ora di finirla. Come è indispensabile mettere mano ad una legge che, per lo meno, proibisca la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche.

L'avviso di garanzia al capo della protezione civile è la goccia che farà traboccare il vaso della malagiustizia italiana: forza Silvio e forza Angelino.

E' ora!

P.S. Certi giornali e certi pennivendoli mentono sapendo di mentire e forzano i verbali delle intercettazioni per interesse o per spregio.
"Ripasseremo" in rassegna articoli e servizi televisivi quando tutto sarà chiarito.

sabato 13 febbraio 2010

Non è Francesca, ma un pasticcio. Giancarlo Perna

Riepilogando, vediamo in che consiste l’attività di «puttaniere» - scusate il termine - di Guido Bertolaso secondo procura e gip di Firenze.

Il sottosegretario è iscritto al Salaria Sport Village, periferia nord di Roma. In un anno, si è chiuso dodici volte per un’ora con tale Francesca nella stanza massaggi del circolo. La magistratura, in base a intercettazioni, pensa che Francesca gli abbia concesso le sue grazie essendo al soldo di un imprenditore, Diego Anemone, che voleva compensare Bertolaso per ingiusti appalti. Per riassumere: il sottosegretario sarebbe un verro corrotto; la fantomatica Francesca una geisha mercenaria.

Se però si approfondisce c’è da mettersi le mani nei capelli. Il sessuomane Bertolaso si incontra con Francesca una volta al mese. Una regolarità da metronomo che fa a pugni con la tempestosità degli impulsi sessuali. In secondo luogo, il sottosegretario passa ogni volta alla cassa e paga di tasca sua la prestazione. Ad affermarlo è la stessa ordinanza del gip senza che però il magistrato ne tragga le conseguenze. Una su tutte: se il sottosegretario sborsa il danaro, l’incontro con Francesca non è un «dono» di Anemone. Ergo, non c’è corruzione sessuale.
Ecco allora, come ha detto lo stesso Bertolaso dopo la batosta giudiziaria, che si può leggere la cosa in tutt’altro modo. Francesca è una valente fisioterapista e il sottosegretario, tra uno stress e l’altro, ricorre a lei per farsi togliere gli acciacchi. Poi, come qualsiasi paziente, paga la cura a fine seduta. Punto. Per quale paturnia i magistrati trasformano questa normalissima quotidianità nel grave reato di corruzione con contorno di sesso? Mistero. Nessuna informazione agli atti autorizza le pruriginose illazioni dei giudici. Allo stato, tutto appare come pura maldicenza, «infamante e drammatica» per dirla con Bertolaso.

Cerchiamo lumi nelle intercettazioni. Il 18 febbraio 2009, il nostro Guido, che ha già fissato un incontro con Francesca, telefona ad Anemone (proprietario del circolo) e dice: «Ho appuntamento all’una e mezza ma prima delle tre non ce la faccio». Ossia lo prega di avvertire la signora. Difficile si parli così di un lupanare. Poi aggiunge: «Fammi trovare la documentazione per pagare l’abbonamento al circolo di quest’anno. Sono in ritardo». È il classico discorso, forse anche imbarazzato, di un socio moroso. Chi di noi avrebbe usato nella circostanza parole diverse e più incolpevoli di queste?
Protagonista di un’altra intercettazione è Anemone. Telefona al direttore del circolo e gli chiede di essere avvisato dieci minuti prima che Bertolaso finisca il massaggio perché vuole parlargli. Il direttore, a sua volta, chiama il beauty center e dice a una segretaria: «C’è un signore che adesso fa un messaggio. Mi chiamate dieci minuti prima che finisca?». L’altra risponde: «Consideri che ha iniziato adesso, quindi tra una cinquantina di minuti». Trascorso il tempo, la segretaria ritelefona al direttore: «È uscito ora con l’accappatoio dalla cabina». Insomma, come piffero fai a pensare che dietro ci sia una tresca? Guido entra un po’ in ritardo, sta un’ora esatta - non dieci minuti o tre ore secondo l’estro dell’assatanato - ed esce con l’accappatoio come un normalissimo utente di piscine, beauty center, ecc., per farsi una doccia e togliersi l’olio della fisioterapia di dosso. Ma in che mondo vivono al Tribunale di Firenze?

Se guardiamo con occhi non depravati, si spiega benissimo anche la terza e più «compromettente» intercettazione. Bertolaso telefona dall’aeroporto al rientro da una missione e dice: «Se oggi pomeriggio Francesca potesse... verrei volentieri... una ripassata». Ecco la parola chiave che ha fatto drizzare le orecchie giudiziarie: «ripassata». Tra i pornografi può anche spalancare uno scenario orgiastico ma, tra sani, tanti più se romani, evoca perfettamente l’idea del messaggio distensivo, l’abile stiratura dei tendini contratti e consimili amenità da Asl.

Personalmente mi chiedo perché dei magistrati seri e motivati finiscano per arrampicarsi sugli specchi in modo così artificioso e scomposto. Quelli di Firenze non hanno convinto nessuno. Anche il Fatto, che è il Fatto, ossia il quotidiano dipietrista che esalta le procure a prescindere, stavolta non si pronuncia. Anzi, si mostra scettico. Sottolinea che Bertolaso pagava di tasca sua il massaggio e che perciò - sottinteso - è dura vederci lo zampino corruttivo dell’imprenditore. Di Francesca dice, a conferma delle affermazioni di Bertolaso, che è una signora di 45 anni. Non, dunque, una lolita da ripassarsi per favorire appalti. Aggiunge poi un particolare taciuto dagli altri giornali: Guido ha cessato di farsi massaggiare dal 6 aprile 2009, giorno del terremoto dell’Aquila. Come dire che, da quel momento, non ha avuto un attimo di tempo per badare a se stesso. Si può osservare, conoscendo la natura umana, che se si fosse trattato di sesso e non di cervicale l’attimo lo avrebbe comunque trovato.

Allora che dire della tempesta in un probabile bicchiere d’acqua che si è abbattuta su wonderful Bertolaso, san Guido per le folle? Diciamo che le inchieste hanno bisogno di attenzione. Arrestare un imprenditore, un paio di funzionari e uno stimato presidente del Consiglio superiore del Lavori pubblici come Angelo Balducci, avrebbe avuto un’eco relativa. In fondo chisseneimporta, l’istruttoria farà il suo corso, poi si vedrà. Se invece metto nel ventilatore una spruzzata di sesso e un tipo stranoto l’effetto è garantito. La politica è costretta a interrogarsi su se stessa, la morale pubblica è richiamata all’ordine. Una variante della solita funzione etica che la magistratura crede, a torto, di dovere assolvere.

Se fosse invece rimasta sul suo terreno, quello del diritto e della responsabilità dei singoli, come avrebbe dovuto comportarsi anziché sparacchiare pubblicamente intercettazioni ambigue? Vi dico, da profano, cosa averi fatto io. Anziché colpire a freddo il sottosegretario - o un altro qualsiasi su cui si allunga un’ombra -, lo avrei chiamato nel mio ufficio per chiarire le cose prima di ogni iniziativa. Delle due l’una: o mi dava una spiegazione e la cosa finiva lì; o non ci riusciva e l’avrei incriminato con fondamento. Così invece, lui resta sulla graticola prima che possa dire la sua e sulla giustizia si addensa il sospetto di partigianeria. Tutto per mostrare i muscoli anziché buon senso. Col rischio che Bertolaso oggi soffra ingiustamente. Ma che domani, e per l’ennesima volta, i giudici perdano la faccia. (il Giornale)

mercoledì 10 febbraio 2010

"Cave" D'Avanzo

...Leggendo Repubblica di ieri ci siamo imbattuti in una tesi di Giuseppe D’Avanzo che è la seguente. Testualmente: «Se le accuse a Berlusconi di Ciancimino sono “fondate”, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia... Se menzognere e maligne indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale». Faceva prima a dire così: se non è zuppa, è pan bagnato. Cioè: io dico una menzogna su di te, però la dico perché penso che tu abbia delle zone oscure nella tua vita, e siccome lo penso io, la menzogna diventa verità. Che casino. Ma uno non farebbe prima a dire: secondo me Berlusconi è mafioso e non mi chiedete il perché, perché è certamente così? Sarebbe tutto più chiaro e ci sarebbero meno contorcimenti. Come si fa a dire che se delle accuse sono fondate è un disastro, se sono menzognere e maligne lo sono perché è oscura la vita di chi viene accusato? La menzogna è proprio lì: nell'affermare che ci sono vicende oscure.Siamo arrivati a un punto tale di intorcinamento che su Berlusconi, ormai, non conta più la fondatezza dell'accusa, basta che sia un'accusa e, in quanto tale, va bene per il giudice, va bene per la stampa, va bene per tutti...

Il pezzo sopra riportato è parte di un articolo di Paolo Del Debbio sul "Giornale" di oggi.
C'è da rabbrividire a leggere quello che Giuseppe D'Avanzo, che dovrebbe essere un giornalista, pensa e scrive di Berlusconi.
Odio allo stato puro trasuda da ogni parola di questo personaggio che, come tantissimi, ha fatto fortuna attaccando il Presidente del Consiglio senza posa e senza ritegno.
Non mi consola il fatto che il disprezzo profuso da questo individuo nei confronti del centrodestra sia largamente ricambiato e sono certo che il non apparire in televisione oltre alla quasi totale mancanza di sue fotografie, gli risparmi qualche guaio.

martedì 9 febbraio 2010

Fiat, facciamola finita e togliamoci questo peso prima e meglio possibile. Milton

“La Fiat non ha mai preso un soldo dallo Stato nel corso degli ultimi anni di gestione” Se non ci fossero in gioco i destini di qualche migliaio di famiglie ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate. Tra paradosso e comicità il Presidente di Fiat Montezemolo, la scorsa settimana, ha scambiato l’aula magna della Luiss per il palcoscenico di Zelig e con una performance degna di Checco Zalone, ha discettato di semantica facendo una dotta distinzione tra aiuti di Stato ed incentivi ai consumatori. Tecnicamente una castroneria senza fine, per non parlare della faccia tosta.

Ecoincentivi, rottamazioni, mobilità lunghe, compensazioni crediti/debiti d’imposta, utilizzo della cassa integrazione come buffer operativo per i diversi picchi di produzione, e chi più ne ha, più ne metta. Ma anche se dimenticassimo questi “aiutini”, solo negli ultimi tre anni, ben 290 milioni di euro sono andati a Fiat come contributi per produzioni in aree depresse e per ricerca ed innovazione. Insomma, Montezemolo è un simpatico burlone, un burlone che però ha guidato con maggioranza bulgara gli industriali italiani, è attualmente Presidente di Fiat e di mille altre cose e vorrebbe, secondo alcuni, essere, prima o poi, a capo del Governo. In poco parole, la classe dirigente italiana… siamo proprio un Paese senza speranza!

Detto ciò, vediamo cosa sta succedendo. Da anni Fiat produce in Italia meno autovetture di quanto ne venda e da anni, al contrario di Spagna, Francia e Germania, il saldo import/esport di auto nel nostro Paese è negativo. Fiat ha lasciato l’Italia ormai da tempo e forse è il caso di prenderne atto e la famosa frase di Giovanni Agnelli “quello che è bene per la Fiat è bene per l’Italia” non ha certamente più valore, sempre ammesso che ne abbia mai avuto.

La strategia di Marchionne è chiara: mendicare aiuti di stato più possibile in ogni angolo del mondo e approffitare della crisi per tagliare i costi, scaricandoli sulle comunità locali e i rispettivi stati. E’ entrato in Chrysler senza pagare una lira, ha incassato gli aiuti (pardon incentivi!) miliardari di Obama e nel frattempo sta mandando a casa quasi metà della forza lavoro della casa americana, in attesa che la cinquecento sfrecci veloce per le strade dell’Arizona (!), … sarebbe, più o meno, come vedere un mollusco svolazzare da un albero all’altro. Avrebbe voluto fare lo stesso con Opel, prenderla quasi gratis e intascare gli aiuti (pardon incentivi!) del governo tedesco, ma è andata male. Insomma, una sorta di mega questua planetaria sulle spalle dei contribuenti di mezzo mondo.

L’Italia in questa strategia non può che avere un ruolo marginale. Raccogliere più “aiutini” possibile e piano piano chiudere. Le vendite Fiat in Italia hanno margini bassi, sia perché compete in un segmento non particolarmente remunerativo, sia perché il costo del lavoro e dei servizi, hanno raggiunto livelli proibitivi. Non ha senso avere qui una presenza produttiva significativa, sarebbe irrimediabilmente diseconomica.

Quindi che fare? E’ inutile forzare Fiat a rimanere. Che l’Italia si liberi progressivamente di Fiat, di questo annoso fardello, si sospendano per sempre tutti, ma prorio tutti gli “aiutini”, e si concentrino risorse e sforzi per favorire riqualificazioni industriali credibili e sostenibili per i siti coinvolti.

Ma attenzione Fiat non pretenda di scaricare interamente ancora una volta la propria responsabilità sociale sulle tasche dei cittadini, favorisca le riqualificazioni industriali e le relative opportunità di occupazione. Per una volta restituisca al territorio parte di ciò che ha preso e poi, ognuno per la sua strada. (l'Occidentale)

lunedì 8 febbraio 2010

Quel ciarlatano di Ciancimino e le falsità su Forza Italia. l'Occidentale

La farsa Ciancimino continua. Massimo, figlio dell'ex sindaco di Palermo, è tornato nell'aula bunker dell'Ucciardone e, nell'ambito del processo che vede imputato il generale Mario Mori per aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, ha dichiarato: «Forza Italia è il frutto della trattativa tra lo Stato e Cosa nostra dopo le stragi del '92». A riferirglielo sarebbe stato il padre Vito.

L'argomento è stato affrontato dal Ciancimino jr. nel corso della spiegazione di un pizzino, depositato agli atti del processo, che a suo dire sarebbe stato indirizzato dal boss Bernardo Provenzano a Silvio Belusconi e Marcello Dell'Utri. Nel foglietto Provenzano avrebbe parlato di un presunto progetto intimidatorio ai danni del figlio del Cav. «Intendo portare il mio contributo - si legge nel pizzino - che non sarà di poco conto perché questo triste evento non si verifichi. Sono convinto che Berlusconi potrà mettere a disposizione le sue reti televisive». «Mio padre - ha spiegato Ciancimino - mi disse che questo documento, insieme all'immunità di cui aveva goduto Provenzano e alla mancata perquisizione del covo di Riina, era il frutto di un'unica trattativa che andava avanti da anni. Con quel messaggio Provenzano voleva richiamare il partito di Forza Italia, nato grazie alla trattativa, a tornare sui suoi passi e a non scordarsi che lo stesso Berlusconi era frutto dell'accordo».

Evidentemente il figlio di don Vito, al pari di Gaspare Spatuzza, deve avere davvero una scarsa considerazione per le capacità strategiche della Cosa nostra dei primi anni Novanta, o in alternativa una grande fiducia nella doti divinatorie della mafia. Resta altrimenti difficile comprendere in base a quali convenienze all'indomani delle stragi, mentre i partiti anticomunisti della Prima Repubblica crollavano sotto i colpi di Tangentopoli, mentre la 'gioiosa macchina da guerra' dell'ex Pci si apprestava a prendere incontrastata il potere in Italia, mentre Leoluca Orlando Cascio trionfava a Palermo e addirittura a Catania andava in scena il ballottaggio interno fra Enzo Bianco e Claudio Fava, mentre la sinistra tentava con successo di impedire a Giovanni Falcone di diventare procuratore nazionale antimafia, mentre l'imprenditore Berlusconi chiedeva a Segni e Martinazzoli di guidare il fronte moderato per arginare la marea comunista, quella stessa che pochi anni prima si era opposta al prolungamento della carcerazione preventiva per i boss prevista dal decreto Andreotti-Vassalli, alla vigilia di una lunga stagione di scarcerazioni di migliaia di mafiosi grazie ai programmi di protezione dei pentiti, Cosa nostra si sarebbe avventurata in una non meglio precisata trattativa con un partito che allora non esisteva e con uomo che allora non era altri - per dirla con Spatuzza - che 'quello di Canale 5'.

E se l'evidenza dei fatti non basta, il signor Ciancimino dovrebbe iniziare a chiedersi per quale motivo in quegli stessi anni suo padre, alla ricerca di un interlocutore, avrebbe tentato senza riuscirci di incontrare un esponente dell'ex Pci e non un politico del fronte opposto o un manager di Publitalia.

La lotta alla mafia e un corretto uso dei pentiti sono questioni troppo serie per consentire che in nome di esse - anzi, contro di esse - simili ciarlatani continuino a essere accreditati al solo fine di riscrivere la storia d'Italia in funzione dell'interesse di una parte politica.

Frittatone giudiziario. Davide Giacalone

Adesso s’accorgono che combattere la mafia aumentando le pene è una sciocchezza. Peggio, un boomerang. Noi lo avevamo scritto, chiaro e tondo. Ora, per rimediare allo sconquasso generato da una sentenza della Corte di cassazione, reclamano tutti, da Pierluigi Bersani al procuratore Pietro Grasso un decreto legge. Ma non sostenevano che mai e poi mai si può correggere una sentenza con una legge, figuriamoci poi con un decreto? E c’è di più: di giustizia parlano e straparlano tutti, ma in cinque anni non s’erano accorti, ‘sti scienziati di politiconi e supertoghe, che la casa stava loro crollando addosso, nel mentre litigavano sulla carta da parati. Osservate la scena, patetica, e traetene qualche lezione per il futuro.

Nel 2005 si discute e approva la così detta “legge Cirielli”, avversata, con impareggiabile monotonia, quale strumento cucito su misura di un imputato. La legge accorciava i termini della prescrizione, ma, per evitare che l’operazione favorisse anche chi è accusato di mafia, aumentava le pene per questi reati. Scrissi, mentre il Parlamento discuteva (si fa per dire): a. non sarà utile a salvare il supposto beneficiario; b. l’aumento delle pene è demagogico e controproducente, perché quel che serve è far funzionare un sistema processuale incriccato. La prima cosa s’è dimostrata esatta, sulla seconda eccedevo in prudenza.

Ciascuno di noi, se imputato, sarà giudicato dal suo “giudice naturale”, vale a dire un soggetto preordinato per legge, non scelto in quel momento. Per quasi tutti i reati si finisce davanti a un tribunale. Ma per i reati più gravi, intendendosi per tali quelli la cui pena massima è assai alta, fino all’ergastolo, si va davanti ad una Corte d’assise, dove siedono due giudici togati (di carriera) e sei giudici popolari (cittadini scelti per l’occasione). Aumentando le pene e moltiplicando le possibili aggravanti, nel tempo e con il prodigio ipocrita della Cirielli, i reati d’associazione mafiosa sono usciti dalla competenza dei tribunali e sono entrati in quelli delle Corte d’assise. Solo che, piccolo e increscioso particolare, nessuno se n’era accorto.

Con il varo del “pacchetto sicurezza”, e siamo a queste ore, si sono introdotti ulteriori inasprimenti della pena. Così si può sempre dire che, per diamine, si vuol essere durissimi contro la mafia. Un avvocato catanese (probabile discendente del più grande avvocato spagnolo, Massimo De La Pena), leggendo fra i commi, s’è accorto del busillis, l’ha fatto osservare al tribunale che ha rimesso la cosa in cassazione, e i supremi giudici hanno scodellato la frittata: passa tutto alle Corti d’appello, ricominciando da capo. A questo punto, gli stessi identici soggetti che un tre per due chiedono nuovi reati, nuove aggravanti e più severe pene, si sono messi le mani nei capelli e si sono accorti che tutti i processi in corso, per tale materia, vanno in pellegrinaggio presso il santuario dell’inesistenza. Allora corrono, con le braghe in mano, e reclamano un decreto legge. Lo avranno. Ma se lavorassero pensando alla giustizia, anziché a come utilizzarla per imbambolare il popolo bue, non si troverebbero in queste, imbarazzanti, condizioni.

Già che ci siamo, guardiamo anche ad un paio di sbobbe in cottura. All’inizio della settimana avevamo assistito alla radiazione del senatore Giuseppe Valentino dall’albo dell’ammissibilità. Il ministro della giustizia e quello degli interni avevano sentenziato che di quella roba non si sarebbe dovuto neanche discutere. Guardammo dentro e scrivemmo: siete sicuri? Valentino avrebbe voluto, per dirla in una pillola, che non basti la parola di qualche pentito per condannare un cittadino. Se li trovò tutti addosso, con l’aggravante della nostra eterodossia. Leggo, ora, che il capogruppo del centro destra alla Camera, Fabrizio Cicchitto, avverte che il problema è reale e va discusso. Evviva, c’è ancora qualche abitante, sul pianeta della ragionevolezza. Però, signori, parlatevi.

Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, invece, notifica che la legge relativa al “processo breve” è su un binario morto. Non si farà, o si farà a babbo morto (o condannato). Un capolavoro, visto che il governo e la maggioranza pagano il prezzo di una legge sospettata d’essere ad uso personale, incassano un concitato via libera del Senato, ma poi si dividono e la lasciano languire nelle segrete di una commissione. Noi, però, lo avevamo scritto all’inizio, quando s’era in tempo per evitare l’errore: quella proposta era, a dir poco, mal concepita. Descrissi il perché. Non mi ripeto.

Dunque, mentre le toghe sindacalizzate portano esibizionisticamente a spasso la prima pagina della Costituzione, stampata bella grande, sperando che nel testo non abbiano messo anche le figure, in Parlamento ci si tira dietro i codici, usandoli quali oggetti contundenti. Della pretesa di starsene in Europa con una giustizia sub sahariana, non si occupa nessuno. Ma basta una Cirielli per campare di rendita e polemiche. Se noi alziamo il ditino e segnaliamo l’abbaglio, ci dicono di non scocciare e andare a giocare da un’altra parte. Ah, dimenticavo: quelli della sinistra giustizialista ci detestano perché siamo servi di Berlusconi, e quelli della destra ci avvertono che se continuiamo a rompere le scatole lo vanno a dire a Berlusconi. Più li guardo, più mi spiego come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto.

giovedì 4 febbraio 2010

Di Pietro e la Cia. Davide Giacalone

Antonio Di Pietro agente della Cia e amico di Bruno Contrada, il poliziotto poi accusato d’essere mafioso? Oh, ma siamo matti, avete deciso di rendermelo simpatico? Su quegli anni sono state raccontate tante di quelle fesserie, si sono pubblicate tante di quelle ricostruzioni mendaci, o direttamente deficienti, si sono accumulati talmente tanti detriti, che il passato non digeribile tornerà sempre a gola. L’abitudine italiana di mentire sulla propria storia, la speranza vile di superare il passato senza averlo chiarito, sono veleni a lenta cessione, che ammazzano a scoppio ritardato. Di Pietro è Di Pietro, basta e avanza.
Ora ha anche i nervi a fior di pelle, qualcosa lo disturba e lo rende inquieto. A una giornalista del TG1, che gli rivolgeva delle domande, s’è rivolto in modo ruspante: “fa domande del c… Non ce l’ho con lei ma con il suo amico Minzolini. Fuori ci sono i lavoratori dell’Alcoa che rischiano di perdere il posto e mi fate queste domande?”. Più tardi si è scusato, più che altro per il fraseggio non proprio accademico. Ma lo scatto aveva messo a nudo una certa idea della libertà di stampa, sulla quale potranno utilmente riflettere i suoi compagni di schieramento. Fuori, del resto, c’è tanta gente, e i giornalisti fanno le domande che vogliono. Si può sempre dire: non intendo rispondere. Ma Di Pietro non ci riesce, una volta, in tribunale, da imputato, pretendeva di parlare senza rispondere. Il presidente gli tolse la parola.
E’ nervoso, e forse ne ha motivo. Lo aspetta il congresso dell’Italia dei Valori, partito da lui fondato e posseduto, dove, però, è entrato anche chi pensa di poterlo sovrastare. Capita sempre così, c’è sempre qualcuno più estremista di te. I sondaggi, poi, un tempo erano oracoli solo per il fondatore di un altro partito, che per questo era considerato “di plastica”. Ora sono pane quotidiano per molti, e quello di Di Pietro risulta piuttosto duro: alle europee, nel 2009, aveva portato a casa l’8 per cento dei voti, ora Sky lo posiziona al 6.7, Ipsos al 6.6 e il Clandestino a 6. Anche a far la media, le cose non vanno bene.
Anche fra i lavoratori dell’Alcoa, oltre tutto, ci potranno pur essere cittadini interessati a sapere se effettivamente lavorava per la Cia, se s’attovagliava con agenti dei servizi. C’è tanta brava gente che si domanda se la storia cui ha assistito non è per caso diversa da come se l’è, fin qui, sentita raccontare.
L’operazione Mani Pulite fu complessa e niente affatto innocente. In nome della giustizia fu violentato il diritto. In nome dello Stato fu distrutta la politica. Ma chi cerca la “mente”, chi vuole individuare il “mandante”, non ha capito niente. Non voglio sintetizzare troppo, perché è questione maledettamente seria, ne ho scritto in libri e ad uno sto lavorando, qui, per continuare a parlare di Di Pietro e degli ultimi clamori, basterà inquadrare le linee generali: gli anni novanta iniziano con la guerra fredda alle spalle, il mondo che si apre; il capitalismo italiano è asfittico e statalizzato, ma pensa di potersi liberare dei costi della politica; il mercato italiano, però, è ricco, con alcuni preziosi gioielli, che possono essere portati via a poco; la classe politica non è all’altezza della situazione, non capisce e affonda. Mani Pulite fu lo strumento sporco. Di Pietro il suo rozzo, ma furbo, interprete.
Ebbero un ruolo, gli americani? E chi cavolo sono, gli “americani”? Anche negli Usa finiva un’epoca, con George Bush, ex direttore della Cia, che perde le elezioni, lasciando il posto ad un giovane, senza grande esperienza. Quando si schierarono gli euromissili fu il governo statunitense a volerli, giustamente, e altrettanto giustamente noi piazzammo. Quando si usarono le informazioni riservate per colpire i governi italiano, francese, tedesco, furono soggetti non governativi ad approfittarne. Nel primo caso si difendeva l’occidente dall’impero sovietico, nel secondo si puntava alla ricchezza dei bersagli. Roba diversa, e mica poco.
Leggo che Di Pietro avrebbe preso una targa della Kroll, agenzia investigativa al servizio degli affari, consegnatagli da un agente italiano che lavora per gli statunitensi. Non sono sicuro che abbia capito, ma se l’è meritata. Grazie a Mani Pulite la Kroll poteva fare affari d’oro, visto che bastava costruire dossier sulla contabilità nascosta (che avevano tutte le aziende, per finanziare tutti i partiti), venderli agli interessati e recapitarli ad una procura affamata di manette. Avete presente i colonialisti che regalavano perline agli indiani, in cambio d’oro? Gli hanno dato un fermacarte. Magari lo hanno anche ossequiato: vai avanti, buana.
In quello stesso periodo si preparava, a cura dei nostri carabinieri, un rapporto sulla commistione fra politica, affari e criminalità organizzata. Si chiamava “mafia appalti”. Costò la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La mafia si protesse, dimostrando la sua forza non solo con gli esplosivi, ma anche agevolandosi di una procura che fece a pezzi quel rapporto e, in nome della legittimità, lo depotenziò e affogò. Lo Stato non ebbe analoga forza, e si consegnò a magistrati che, in nome della presunta legalità misero sotto ai piedi la legittimità.
Di Pietro era il volto agreste e pastorale, lo sgrammaticato interprete dello squadrismo giustizialista. Il suo non è un profilo ambiguo, ma da arcitaliano che testimonia le tare genetiche della nostra storia: si laurea in legge senza conoscere l’italiano, entra in magistratura con le raccomandazioni, fa bisbocce con i potenti cittadini, prende soldi e li restituisce in contanti, accetta doni e favori, si adopera per sistemare il figlio e far lavorare la moglie (che è la seconda, come si conviene ad ogni buon raccomandato dai preti). S’è fatto da sé, e si vede. Si sente, pure. E’ l’intramontabile macchietta dello struscio con i potenti, del prendere quel che si può, dell’inciuciarsi perché non si sa mai. Quando le inchieste si mossero fu mandato in prima linea, come carne da cannone. Invece i giornali e le televisioni (in prima fila quelle di Fininvest-Mediaset) lo osannarono. Era il segnale, si poteva procedere. Divenne famoso.
Quel che si sa oggi lo si sapeva anche allora. Un tempo non riuscivi a dirlo, oggi è inutile. Vedo che taluni si lasciano tentare: non poteva non sapere. Fermatevi: usare il dipietrismo contro Di Pietro è come trasformarlo in un paradigma culturale. Anche alla turpitudine c’è un limite. L’allora pubblico ministero capì al volo. Le regole della comunicazione le aveva nel sangue, e quelli che lo circondavano (dal calcolatore e quirinalizio Borrelli al sinistro Colombo) erano troppo colti e pensosi per potere nutrirsi d’una piazza tanto bassa. La folla, aizzata da fascisti (tali erano) e leghisti, accarezzata da comunisti in cerca di complicità, cercava un proprio simile. Lo trovarono.
Si fece corteggiare da Berlusconi come da Prodi. L’Italia di Guicciardini vinse ancora su quella di Machiavelli (così, se Di Pietro mi ha letto fin qui, gli confondo le idee). Franza o Spagna. Ed è ancora lì, perché il passato non passa. Perché ha coagulato antistatalismo e voglia di approfittare. Perché c’è ancora chi lo imita, e magari pensa di fregarlo entrando nel suo partito. Perché c’è chi lo ingigantisce: il moralizzatore (ma va là), l’agente della Cia (ma mi faccia il piacere). Ricordate: lui è solo un sintomo.

mercoledì 3 febbraio 2010

No di Alfano a una legge giusta. Dimitri Buffa

E’ paradossale il dietro front del Guardasigilli sulla proposta di togliere alle dichiarazioni dei collaboratori di giustiziail valore di prova assoluta.

Oramai la sinistra considera le parole dei pentiti di mafia un proprio imprescindibile riferimento culturale. Un “valore”, come si direbbe in tv nei programmi trash. E il Pdl si adegua. Per soggezione psicologica e senso malinteso del politically correct. Solo così si può capire l’altrimenti inspiegabile ennesima marcia indietro del Guardasigilli Angelino Alfano sulla per niente scandalosa proposta del senatore Giuseppe Valentino di modificare gli articoli 192 e 195 del codice di procedura penale in maniera di togliere alle dichiarazioni di queste persone il valore di prova assoluta per condannare, ad esempio, in mancanza di altre e differenti prove convergenti servitori dello stato come Bruno Contrada. Con il quale fino a un giorno prima dell’arresto si faceva a gara a farcisi fotografare insieme nelle occasioni ufficiali e che solo dopo è divenuto così impresentabile da cercare di fare sparire le suddette fotografie. Ma questo amore per le verità dei pentiti non è difficilmente spiegabile: basta sentire le dichiarazioni di questo strano personaggio che è Massimo Ciancimino (detto “papello figlio di papollo”) il quale ormai da un anno e mezzo racconta qualunque cosa su chiunque e viene creduto come il Messia. Pur senza avere mai ancora fornito un minimo riscontro. Ma “papello” racconta cose che sono miele per le orecchie di chi odia il Cav per professione: dice che i suoi soldi sono soldi di mafia, precisamente di Provenzano, e servirono sin dall’inizio della sua fortuna imprenditoriale a costruire un impero su cui il sole ancora non tramonta. Da Milano2 a Fininvest tutto è territorio di mafia. Lo dice Spatuzza, lo dice Ciancimino junior, lo dicono un altro paio di scalzacani e killer di Cosa Nostra oggi al 41bis e tanto può bastare per condannare chicchessia, a cominciare da un premier in carica, in un processo dove la libera valutazione del singolo assurge ad arbitrio in una sorta di facsimile di stato di diritto. Vediamo allora cosa dicevano di così scandaloso gli articoli del disegno di legge presentati dal senatore Valentino e oggi rimangiati da Alfano davanti alle telecamere dei Tg. Il nuovo articolo 192 comma 3 del codice di procedura penale dovrebbe essere il seguente: “le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso assumono valore probatorio o di indizio solo in presenza di specifici riscontri esterni”.

Attualmente invece dice così: “le dichiarazioni sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”. Una differenza non da poco: nel primo caso si segue un canone certo per l’individuazione della prova, uguale per tutti. Nel secondo la “valutazione” può ovviamente variare a seconda che alla sbarra ci siano amici, nemici o semplici conoscenti. Naturalmente, come scrive “Repubblica”, i pm di Palermo, Reggio Calabria e Napoli entrano in fibrillazione. E si può capire: così gli errori giudiziari, o le cantonate, potrebbero essere scoperti in tempo reale. E non attendere che dopo dieci anni venga fuori un altro pentito come Gaspare Spatuzza a mandare all’aria un processo e una sentenza ormai passata in giudicato sulla parola di altro pentito, come è capitato proprio per l’omicidio del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Poi ci si scandalizza anche per altri due commi con cui dovrebbe venire riscritto lo stesso articolo 192 del codice di procedura penale: il comma 3 bis, “le dichiarazioni di più coimputati o imputati in procedimenti connessi assumono valore probatorio o di indizio ove sussistano le condizioni di cui al comma precedente”, e il comma 3 ter, “sono inutilizzabili le dichiarazioni anche in caso di riscontri meramente parziali”. In realtà a ben vedere sono delle conseguenze logiche del comma 3 del medesimo articolo in questione, ma in Italia è meglio specificare tutto per lasciare al libero convincimento del magistrato meno spazio possibile per fare voli pindarici. Valentino chiede anche la riforma dell’articolo 195 del codice di procedura penale. Quello che stabilisce la utilizzabilità o meno delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari dai pentiti o dai testi. Se oggi le dichiarazioni di chi ha appreso notizie fondamentali per il processo da un altro si possono sempre usare “salvo che l’esame risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità”, da domani solo “l’infermità temporanea” lascerà campo libero. E anche qui la “ratio” si capisce: continuare a fare parlare i morti e i latitanti e sulle parole di chi non potrà (o vorrà) più confermarle costruire un ergastolo è esercizio da diritto dell’Inquisizione di Isabella la Cattolica non da stato di diritto. Naturalmente adesso tutti dicono che questa “è la vera faccia della lotta alla mafia”, che Berlusconi “si fa un’altra legge ad personam anti Spatuzza”, e anti “papello figlio di papollo”. Chissà perché però negli Usa, seguendo regole procedurali dei dibattimenti analoghe, rigorosamente orali e con i pm elettivi le cui carriere nulla hanno a che vedere con quelle di chi giudica, sono riusciti a debellare la Cosa Nostra locale, mentre qui da noi siamo ancora a “caro amico”. (l'Opinione)