venerdì 31 agosto 2007

Giuliani d'Italia, il modello non basta. Maurizio Molinari

L’evocazione da parte di Giuliano Amato dell’esempio di Rudolph Giuliani nella lotta alla criminalità e il paragone tracciato da Walter Veltroni tra la nascita del partito democratico e l’inizio dei cicli politici di Ronald Reagan e Bill Clinton descrivono una crescente attenzione da parte dei leader del centrosinistra per i modelli americani, non più solo di matrice liberal ma anche di stampo conservatore.

Giuliani, sindaco di New York dal 1994 al 2001, sconfisse la criminalità applicando la dottrina «Fixing Broken Windows», formulata da James Wilson e George Kelling in un articolo del 1982 pubblicato da Atlantic Monthly, in base alla quale riparando le finestre rotte di un edificio se ne impedisce la trasformazione in un rifugio di sbandati così come mettendo in cella i responsabili di piccoli reati - dai graffiti sulla metro agli scippi di pochi dollari - si scongiura la possibilità che si macchino in futuro di crimini ben più gravi, come stupri e omicidi.

Richiamarsi alla dottrina Wilson-Kelling da parte di Amato, ministro dell’Interno, significa sottolineare un successo testimoniato dall’odierna rinascita di Harlem come dal fatto che passeggiare di notte a Manhattan espone a rischi minori rispetto a quanto avviene in altre metropoli, americane o europee. Anche l’evocazione dei cicli di Reagan e Clinton da parte di Veltroni, candidato alla guida del Partito Democratico, evoca i successi di due presidenti i cui ideali di libertà e risultati economici continuano a ispirare generazioni di americani di opposte fedi politiche.

I modelli di Giuliani, Reagan e Clinton non sono tuttavia eventi singoli o fenomeni isolati bensì il frutto di una società americana accomunata da pochi, fondamentali, valori: la tutela, il rafforzamento e lo sviluppo dei diritti di libertà, politica ed economica, di tutti i cittadini. Immaginare di ripetere in Italia, o altrove nell’Europa continentale, gli esempi di Giuliani, Reagan e Clinton rischierebbe di provocare dirompenti boomerang senza prima aver radicato un profondo rispetto per tali principi di libertà. Gli arresti a valanga della polizia di Giuliani vennero sostenuti da una cittadinanza secondo la quale è il principio «parità di diritti in cambio di assoluto rispetto della legge» a dover regolare i rapporti sociali, fra chi è nato in America come anche con gli immigrati.

Il braccio di ferro di Ronald Reagan con i controllori di volo fu vinto perché nel Paese era forte il sostegno ad una drastica riduzione del freno sindacale allo sviluppo economico. Bill Clinton fu in grado di bombardare Belgrado senza il consenso dell’Onu perché la minaccia del genocidio che pesava sugli albanesi del Kosovo fece scattare negli americani l’obbligo morale di difendere le libertà dell’uomo anche fuori dai propri confini, come avvenuto in Europa nella Seconda Guerra Mondiale contro i nazisti e durante la Guerra Fredda contro i sovietici, e come avviene oggi nello scacchiere del Grande Medio Oriente contro Al Qaeda e i suoi numerosi alleati jihadisti. Sono questi principi liberali a costituire l’humus politico che ha consentito ai repubblicani di avere Giuliani e Reagan così come ai democratici di avere Clinton. Principi sulla cui esistenza, o assenza, sarebbe opportuno interrogarsi in Italia da parte di quei leader del centrosinistra che volessero davvero accelerare la resa dei conti con gli ostacoli che rallentano l’entrata dell’Italia nel XXI Secolo: l’incertezza del diritto, la resistenza a considerare il profitto privato positivo per la collettività, il rifiuto pregiudiziale del ricorso alla forza anche se teso a difendere le libertà nostre e altrui.

Trovando risposte proprie e rocksolid, solide come la roccia, su questi tre fronti il centrosinistra potrebbe porre le basi per la genesi di un modello di governo non mutuato da altrui esperienze ma tutto italiano, capace di avere da noi lo stesso successo avuto da Giuliani, Reagan e Clinton negli Stati Uniti d’America.

giovedì 30 agosto 2007

Modifiche genetiche: ecco i Nazicomunisti. Francesco Blasilli

Sono l’ultima generazione della sinistra italiana, quelli che, per un pugno di voti, fanno cose di destra.

I maggiori rappresentanti sono Leonardo Domenici, Sergio Cofferati e Flavio Zanonato.

Sono buoni, (radical) chic e politicamente corretti. Di giorno amano parlare di integrazione, di Africa e di razzismo, mentre la notte la passano in bianco a pensare il modo migliore per prendere a calci nel sedere quelli che, a parole, vorrebbero integrare. Sono i “nazicomunisti”, oppure “fasci-chic”, chiamateli come volete: si tratta semplicemente di comunisti dell'ultima generazione, di figli di Lenin geneticamente modificati. Gli elementi di spicco, di questa nuova categoria, sono Flavio Zanonato, Sergio Cofferati, Leonardo Domenici. Rispettivamente sindaci di Padova, Firenze e Bologna. Il primo ha costruito un muro per dividere i cittadini italiani dagli spacciatori (africani), il secondo ha deciso di ripulire il suo Comune sgomberando abusivi e centri sociali, il terzo – proprio in questi giorni – ha dichiarato i lavavetri fuorilegge. Chiaramente sono tutti e tre di centrosinistra. E come loro, ce ne sono tanti. Sono il punto di riferimento di quella generazione che al mattino va a lavorare in banca e alla sera va farsi le canne al centro sociale. Di quelli che giocano in borsa, ma votano Bertinotti.

Sono, come detto, nazicomunisti. Ovvero dei comunisti “paraculi” che hanno capito l'antifona e si adeguano. In Italia il tema della sicurezza è molto sentito dalla gente, quasi come quello delle tasse, ed allora i nazicomunisti ci provano. Con spot pubblicitari come quello di Firenze, ma intanto ci provano (anche se la possibilità giuridica di prendere un provvediemnto del genere è tutta da verificare). Ci provano loro che possono farlo, perché se provvedimenti di questo tipo fossero stati presi da un esponente di centrodestra, i paragoni con Hitler si sarebbero sprecati. E le pubbliche gogne pure. Invece ci sono loro, i nazicomunisti, quelli che si fanno fotografare sorridenti con gli extracomunitari e poi, in privato, fanno i conti e imprecano perché sono troppi. Perchè se vai in un qualsiasi paese di una qualsiasi provincia ti accorgi che nei giardinetti la lingua ufficiale è il rumeno e nelle edicole ci sono le locandine di almeno cinque quotidiani di Bucarest.

Tutto questo, inevitabilmente, crea un problema di sicurezza: presunta o reale che sia, quello che conta è che gli elettori sono sensibili alla tematica. Ed allora ecco che i rossi si travestono da neri e fanno partire la caccia all'extracomunitario. Certo, nel caso di Firenze, si trascende nel ridicolo: lo sanno tutti che il problema non sono i lavavetri. Quelli poverini, al massimo ti rompono le scatole, ma se stanno lì con il secchio in mano, molto probabilmente non li trovi la sera a scavalcare il cancello di casa tua o a vendere la droga a tuo figlio. Il problema sicurezza va molto oltre il lavavetri. Ci sono i rom e i loro campi che nessuno vuole: come dare torto alla gente, quando loro rubano a più non posso e nei campi nomadi danno ospitalità pure a delinquenti di tutti i tipi proveniente dall'est. Per non parlare degli zingari minorenni, quelli ai quali la Polizia non può fare nulla, nemmeno picchiarli, tanto poi i genitori gliene danno di più e li rimandano a rubare.

Ci sono le bande di slavi che organizzano tour nelle ville (soprattutto in quelle del nord est) e dato che ci sono seviziano anche i padroni di casa, tanto per libidine personale. Poi ci sono quelli che non sanno tenere a freno i loro organi sessuali e quelli che lavorano dalla mattina alla sera, ma quando smettono iniziano a bere, dalla sera alla mattina. E diventanto pericolosi. Poi ci sono quelli integrati, che purtroppo sono una esigua minoranza. Ed infine ci sono quelli che vorrebbero integrarli tutti, almeno a parole, i nostri amici nazicomunisti, come già detto. Leader di una parte della popolazione fatta a loro immagine e somiglianza, che la domenica va al mercatino tradizionale etnico e al lunedì minaccia di scendere dalla macchina se il lavavetri non sparisce immediatamente dalla sua vista. Sì, è vero, ci sono ancora i comunisti duri e puri, ma quelli ormai sono in via d'estinzione e mangiano ancora i bambini. L'esponente di centrosinistra che va di moda adesso è di tutt'altra pasta, è quasi democristiano nelle sue decisioni. Zanonato, Cofferati, Dominici, ma anche Chiamparino e Cacciari, con un occhio all'integrazione e l'altro all'urna elettorale. No, Walter Veltroni no, nonostante qualche campo nomadi l'abbia fatto chiudere. Il nazicomunismo è una categoria che riguarda gli esseri umani, mentre lui siede già alla destra del Padre.

mercoledì 29 agosto 2007

Privilegi e segreti dei magistrati. Dimitri Buffa

Da cosa si distingue una corporazione, come quella in toga dei magistrati della penisola, rispetto ai comuni mortali? Dalla abilità nel mantenere riservati i dati sui privilegi, gli emolumenti e le mille prebende che il potere assegna loro.
Per esempio, chi sa quanto guadagna un singolo giudice Costituzionale? E con quale pensione si consola?
E' un vero segreto di Stato che dimostra come la vera casta in Italia siano loro: magistrati. Che siano ordinari o amministrativi, costituzionali o onorari cambia solo l'emolumento non certo l'omertà discreta che avvolge il tutto.

Ora un aneddoto che spiega meglio la materia del contendere: c'era una volta un avvocato,Tommaso Palermo, difensore civile di molti magistrati in pensione il quale si illudeva che un giorno o l'altro le quiescenze cosiddette di annata sarebbero state perequate.

E che per questo motivo bombardava ogni giorno che Dio mandava in terra il Ministero del Tesoro, la Ragioneria dello Stato e la Presidenza del Consiglio per sapere con quali decreti certe categorie di magistrati (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Consulta ecc.) ottengono determinati trattamenti. Non ebbe mai risposta.

E nessuno a tutt'oggi sa nulla sul trattamento previsto dalla speciale cassa di previdenza dei magnifici 15 della Consulta, istituita nel 1960 su base volontaria (unico caso nella pubblica amministrazione). Segreto di stato. Altro che Abu Omar.

L'ultima volta che, poco prima di morire, il suddetto avvocato Palermo aveva mandato un telegramma all'ufficio pensioni della Presidenza del Consiglio in via della Stamperia glielo rimandarono indietro con sopra la dicitura "destinatario sconosciuto".

C'è voluto l'ottimo lavoro di Raffele Costa per districare parzialmente il ginepraio dei privilegi della casta in toga.

Così oggi noi sappiamo che al Consiglio di Stato 419 persone costano 130 miliardi di vecchie lire l'anno: il Presidente ha un lordo annuo di 220 mila euro , l'ultimo dei consiglieri quasi 65 mila.

La Corte dei Conti ha a ruolo quasi 550 consiglieri.

L'ultimo della scala gerarchica guadagna seimila euro lordi al mese, il primo quasi 20. Poi ci sono le indennità e i fringe benefits. Spesa globale, dipendenti incusi, almeno 130 miliardi di rimpiante lire ogni anno.

L' Avvocatura dello Stato ha 780 dipendenti che costano 100 milioni di euro l'anno. Un avvocato generale può arrivare ai 200 mila euro annui, il procuratore di prima nomina a 60 mila.

C'è poi il capitolo Corte Costituzionale, una vera e propria oasi dove si fa a cazzotti per entrare anche come semplice autista visto che lo stipendio lordo iniziale raramente è inferiore ai 3 mila euro al mese a cui va aggiunta una contingenza che i giornalisti semplicemente si sognano.

Per di più lor signori hanno persino i cosiddetti "assegni Befana" ogni sei gennaio, assistenza scolastica, assistenza estiva e invernale per le vacanze dei bimbi, sussidi persino per i furti subiti in casa. I giudici, sebbene le cifre esatte siano un vero e proprio segreto di Stato, raramente scendono sotto i 250 mila euro lordi annui.

Però poi godono di una serie di privilegi che vanno dall'appartamentino con vista sul Quirinale per i fuori sede, all'automobile con autista a vita, a due assistenti di studio,un segretario particolare e un addetto di segreteria, alla bolletta telefonica a carico della collettività. Che è a vita per gli ex presidenti. Le pensioni per i giudici costituzionali superano i 15 mila euro mesili.

Tutto questo ben di Dio costa altri 80 milioni di euro l'anno allo Stato. Il costo per la collettività degli stipendi dei circa 9 mila magistrati italiani è di più di 1 miliardo di euro .

Circa il 30% superiore a quello che la francia spende per i loro omologhi di Oltralpe.

Di quella cifra, i magistrati di Cassazione, da soli, ne assorbono poco meno della metà: sono un esercito fatto di generali, circa 770 unità . A essi si aggiungono altre 2500 toghe che prendono lo stesso stipendio grazie alla scellerata legge che fa fare carriera per anzianità invece che per merito.

E che invano il ministro Guardasigilli del governo Berlusconi, Roberto Castelli, cercò di riformare e che l'attuale Guardasigilli Clemente Mastella ha invece ripristinato con tutte le garanzie, le prebende e i privilegi di casta.

In media un giudice di Cassazione guadagna più di 150 mila euro l'anno.

Cui si aggiungono diverse indennità di funzione che variano da persona a persona. Per di più le loro retribuzioni sono agganciate a quelle dei parlamentari in un continuo trascinamento reciproco: quando aumentano le une lo fanno anche le altre.

Comunque, secondo i dati ufficiali rilevati dal Csm, su 9246 magistrati italiani, meno di 350 risultano in servizio presso le dodici sezioni civili o penali che compongono la Suprema Corte. Gli altri hanno la qualifica o lo stipendio ma fanno altro. E ringraziano il '68 in toga che si concretizzò nella famosa, anzi famigerata, legge Breganza, quella che abolì il merito per la progressione in carriera. Che però fu varata dieci anni prima di quegli anni che qualcuno si ostina consideare formidabili.

E a proposito di privilegi, benchè non sia mai stata applicata, la norma sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988 varata sull'onda dell'emozione che suscitò il caso Tortora), le toghe nostrane sono riuscite anche a stipulare un accordo molto vantaggioso con le assicurazioni.

Siglato da una parte dall' ANM e dall'altra dalla BNL Broker Assicurazioni : con soli 138 euro e 60 all’anno, si sono così messi al riparo dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria l’eventuale vittima di errori giudiziari.

Eeventualità invero remota visto che la legge voluta da Vassalli e Craxi ( cui gli interessati dimenticarono di attestare eterna gratitudine) mette a carico della collettività l'eventuale errore per colpa grave del singolo. Ma nella vita non si sa mai.

Come se non bastasse la casta del partito dei giudici,
ora ci sono nuovi privilegi e nuovi privilegiati che bussano alle porte dell'assistenzialismo di stato: i giudici onorari.

E nel 2005 la spesa pubblica per i giudici di pace ha assorbito risorse per 135 milioni di euro all’anno.

Se poi venissero accolte le richieste di “stabilizzazione” della categoria per almeno 4.500 unità (sulle circa novemila in servizio), si registrerebbe un ulteriore aggravio per la collettività pari a 142 milioni di euro.


Naturalmente a simili trattamenti non corrispondono, come è sotto gli occhi di tutti, risultati di eccellenza.

Un rapporto del Consiglio d’Europa , a inizio 2005, ha assegnato le “pagelle” alle toghe dei diversi stati membri.

I dati che sono fermi al 2002, ma dopo è andata anche peggio, parlano di uno stipendio dei giudici italiani superiore del 30 per cento a quello dei colleghi francesi. La nostra spesa pubblica per il pianeta giustizia risulta fra le più elevate, benché altri Paesi europei abbiano tempi molto meno biblici per la definizione di cause e processi: Svezia, Germania e Olanda svolgono ad esempio le cause civili in meno di metà tempo di quanto necessario in Italia per procedimenti di analogo impegno.

Molti scaricano la colpa su un'altra categoria superprivilegiata di questa casta fra le caste: i magistrati fuori ruolo. Nel 2004 il loro numero era di ben 728, mentre altri 1.182 risultavano assegnati ad incarichi extragiudiziari.

E qui il privilegio si incrocia con il potere poltico che il partito dei giudici sta assumendo nel tempo: questi fuori ruolo spesso sono in uffici legislativi e scrivono quindi le leggi che poi altri colleghi applicano dopo che il Parlamento le ha supinamente approvate. Altri sono consiglieri del governo, e quindi condizionano il potere esecutivo e altri ancora, per la precisione due per ciascuno membro della Consulta, di fatto scrivono le sentenze della Corte costituzionale facendo il lavoro sporco di ricerca giurisprudenziale e orientandola secondo i desiderata degli interna corporis.

Fra l'altro i magistrati ordinari distaccati presso la Corte Costituzionale oltre ad avere lo stipendio da consiglieri di Cassazione godono di altre indennità e privilegi. Qualche anno fa destò un certo scandalo alla Consulta quando si seppe che alcuni di loro prendevano indennità altissime di fuori sede pur vivendo a Roma, ma conservando la residenza fuori dalla capitale. Nessuno li potè citare per truffa e neanche la corte dei conti potè chiedere i danni in quanto la Corte costituzionale ha una propria autonomia amministrativa nell'ambito della quale può farte quello che crede. Sempre a spese del contribuente.

Last but not least, i concorsi per diventare magistrati negli ultimi venti anni hanno registrato scandali a non finire finiti sotto la lente, in questo caso meno severa, di altri magistrati.

Il più famoso fu quello del 1991 denunciato da due esclusi, l'avvocato Pier Paolo Berardi di Asti e Teresa Calbi di Civitavecchia. A sua volta figlia di un giudice di Cassazione. Venne fuori che si correggevano elaborati in meno di tre minuti e che alcuni presentavano evidenti segni di riconoscimento mentre altri non erano neanche stati corretti benchè scartati.

Tra gli elaborati finiti sotto inchiesta anche quello di un ex giudice costituzionale e di un magistrato che divenne segretario generale del Csm.

L'intellettuale di destra non si vede ma c'è. Paolo Granzotto

Per come la penso io i dibattiti sul ruolo degli intellettuali andrebbero proibiti per legge. E quelli sul ruolo politico degli intellettuali puniti per legge (e dunque Giordano Bruno Guerri, Piero Ostellino e Piero Melograni, tutti dentro). L'intellettuale non ha infatti una peculiare funzione all'interno di un gruppo sociale, meno che mai quella di farlo migliore. L'intellettuale ha spesso dannato l'uomo, in nessun caso però lo ha redento. Dedito alla razionale pratica del dubbio, l'intellettuale è di per sé un pessimista e i pessimisti sono poco propensi a rimirare il sol dell'avvenir. Inoltre l'intellettuale detesta il luogo comune, diffida degli ideali e nutre non pochi sospetti nei riguardi dei princìpi e dei valori (massime quelli «condivisi»). Prestarlo o addirittura regalarlo alla politica, come l'amico Giordano vorrebbe, è una mala azione. Ciò che massimamente contraddistingue un intellettuale è infatti la sua assoluta, proterva volontà di non imbrancarsi o farsi imbrancare. E la politica è branco: si fa, si dice e si vota come vuole il partito, punto e basta. Inoltre, difficilmente un intellettuale scende a compromessi con la propria coscienza e la politica è l'arte del compromesso. Per cui il vero intellettuale ne sta alla larga.

Chiedersi perché ci siano più intellettuali di sinistra che di destra è una questione mal posta. Cominciamo col dire che se esiste una cultura di sinistra è irragionevole affermare che ne esista anche una di destra. La cultura di sinistra è di sinistra perché ben delimitata, ben circoscritta. La cultura di sinistra ha dogmi, canoni, regolamenti, liste di proscrizione, tabù, tutta roba che la cultura senz'altre specificazioni rifiuta. Un intellettuale che non sia di sinistra appaga comunque la sua curiosità, pascolando, se è il caso, anche nei prati di una ideologia (in questo caso di una cultura) che non è la sua. Cosa che difficilmente accade ad un intellettuale così detto impegnato. O meglio, che sceglie la via dell'impegno, della militanza. Per antica tradizione l'intellettuale italiano cerca un Principe che lo prenda a corte. E non lo fa tanto per sbarcare il lunario (è noto che i Principi sono di manica corta), ma per avere il «riconoscimento». Su suggerimento di un noto intellettuale, Antonio Gramsci, il Pci si fece Principe - e Principe di bocca buona - attirando a sé schiere di postulanti ai quali seguita a conferire la patente di intellettuale e con quella l'ambìto «riconoscimento».

L'aver pubblicato un librino da Einaudi, la recensione positiva sull'Unità (ed oggi sulla Repubblica), una citazione su Micromega, l'intervento al convegno del circolo ulivista di Passerano Marmorito sul progressismo democratico di Lula, appagano l'intellettuale impegnato assai più di una sinecura in qualche municipalizzata. E siccome la sinistra è generosa nel concedere simili regalie (costano niente), parrebbe che pulluli di intellettuali ed anzi, che tutti gli intellettuali siano accasati lì.

Ovviamente non è così. Tanti ce ne sono di là, tanti ce ne sono di qua e probabilmente ce ne sono più di qua che di là. Ma oltre a non essere disposti a tutto pur di avere una citazione sul Domenicale o il microfono ad uno dei convegni dei Circoli della Libertà, oltre a rivendicare il diritto di critica (che l'intellettuale impegnato tende a far arrugginire) non hanno il vezzo di vestirsi e atteggiarsi da intellettuali ragion per cui passano, in tempi in cui l'immagine è tutto, inosservati.

E allora, per riprendere una preoccupazione di Giordano Bruno Guerri, cosa deve fare la destra per trar vantaggio da questo imponente patrimonio intellettuale? Escludendo, per le ragioni dette, la partecipazione alla politica attiva, Berlusconi, tanto per fare un nome, promuova ogni anno il weekend della mente. Ospitando in un grande albergo (paga lui) fornito di buon ristorante e buona cantina un tot di intellettuali. Che lascerà parlare senza imporre un tema. Così che qualcuno dal palco interverrà sulla condizione atletica dell'Inter e l'altro sulla crisi della democrazia di massa. A tavola uno si intratterrà sulla foto che ritrae Montezemolo col pipino di fuori e l'altro sulla opportunità o no di incamerare la Turchia islamica nell'Europa cristiana. All'ora del tè uno parlerà di televisione e l'altro di sistemi elettorali. Nel corso della passeggiata uno discorrerà di Leopardi e l'altro di Ammanniti, uno di bioetica e l'altro di biogenetica, uno di Giovanni Giolitti e l'altro di Rino Piscitello e via così. Alla fine del weekend Berlusconi, che avrà sempre taciuto, separato il grano dal loglio potrà contare su una dozzina di considerazioni, di opinioni, di concetti, di pensieri intelligenti sui quali riflettere e magari trasformare in azione politica. E questo, che non è poco, è tutto.

Ma contro i nemici resta il vizietto. Lodovico Festa

Dell'intervista di ieri di Walter Veltroni sul Corriere della Sera, si potrebbero sottolineare i passi in avanti fatti dal sindaco-candidato segretario rispetto a D'Alema e Prodi su questioni non secondarie: così quando afferma che non farà mai il premier senza essere prima eletto o che per governare bene serve un programma chiaro. E accontentarsi di questi risultati. Ma le parole del sindaco di Roma non contengono solo queste considerazioni o l'inevitabile propaganda (tipo gli spostamenti dei campi rom) o la solita ipocrisia veltroniana, sono anche profondamente segnate dal peggiore dei vizi della nostra sinistra: la totale delegittimazione dell'avversario. Ancora più deteriore perché presentata come apertura: si «apre» a Giulio Tremonti sull'alzabandiera a scuola ma si chiede anche di studiare le lettere dei condannati a morte della Resistenza perché «la denigrazione» dell'antifascismo fatta dalla «destra» durante l'estate ha fatto «accapponare la pelle» al sindaco-candidato.

Non c'è solo il tradizionale veltroniano «voglio questo e il suo contrario», la bandiera e le lettere: che se lo si fa continuare proporrà di leggere il libro di Pansa per rimediare alle esagerazioni post 25 aprile e poi di cantare Bella ciao per emendarsi della lettura di Pansa. No, in quel «accapponare la pelle» c'è tutto il vizio oscuro della delegittimazione. Così, quando apre al dialogo sulle riforme istituzionali con il centrodestra, non può mancare di paragonare le sparate verbali antifisco di Bossi all'odio «operativo» e dunque sommamente pericoloso che il movimento rappresentato in Parlamento da Francesco Caruso promuove contro riformisti come Tiziano Treu e Marco Biagi. O quando predica una ragionevole lotta alla delinquenza giovanile, non può non rintracciare le radici degli omicidi interadolescenziali di Londra o del delitto di Garlasco nell'individualismo thatcheriano o nelle tv berlusconiane. L'incapacità di superare il lato oscuro della sinistra italiana (la totale delegittimazione dell'avversario), proprio quando si afferma «non odierò più nessuno», non è frutto solo dell'abituale baloccarsi veltroniano con tutti i luoghi comuni più comuni del politically correct, nasce innanzi tutto dal non fare i conti con la propria storia.

Lo si coglie anche nell'intervista di ieri. Veltroni dice: «Sono dieci anni che sono per il Partito democratico». Ma quattro anni fa al congresso Ds insieme a Fabio Mussi e Sergio Cofferati contestava Piero Fassino e Massimo D'Alema perché troppo moderati. Perché non spiega come si sono evolute le sue posizioni? E a proposito, a quei tempi, per non esporsi troppo con Fassino, sosteneva che un sindaco non dovesse schierarsi nelle contese di partito: che cosa è cambiato da allora?

C'è chi dice che la realtà delle cose spingerà Veltroni a superare quell'approccio delegittimante che io trovo particolarmente pericoloso. Può darsi, per il momento l'unica frase che trovo integralmente onesta nell'intervista di Veltroni, è questa: «So che talora si possono dire cose che non si pensano». La frase è emblematica di uno che negli anni Settanta si è iscritto alla Federazione giovanile «comunista» e poi ha detto di non essere mai stato comunista...

martedì 28 agosto 2007

E poi la chiamano "grande stampa"! Gianteo Bordero

Galli dalla loggia. Dall'alto del balcone di Via Solferino il buon Ernesto getta il suo sguardo sulla politica italiana e cosa vede? Vede, in sequenza: della plastica, il nulla, un harem. Uno pensa: la plastica sarà quella del Partito Democratico, il partito che non c'è a cui il Corriere dedica, ormai da mesi, pagine e pagine di tenerezze e amorose effusioni; il nulla sarà il vuoto di idee che sembra attanagliare il centrosinistra italiano, incapace di darsi una linea politica degna di tal nome; l'harem sarà quello dei dieci partiti dell'Unione, a cui Prodi, a seconda delle sue voglie e delle sue convenienze personali, rivolge di volta in volta le sue attenzioni. Niente di tutto ciò. La plastica, il nulla e l'harem rappresentano una cosa sola: Forza Italia. Nell'ordine: «Forza Italia era un partito di plastica, e di plastica è rimasto»; «non ci sono iscritti, quadri, parlamentari, consiglieri comunali o regionali, non ci sono organi, non c'è discussione, non c'è nulla che conti qualcosa. C'è solo il capo»; «nessuno dei cosiddetti dirigenti di Forza Italia è autorizzato a protestare (sul "caso" Brambilla, ndr): chiamati a suo tempo a far parte dell'harem dovrebbero conoscere come funziona il meccanismo».

Se questo è livello dell'analisi politica della cosiddetta «grande stampa» nazionale, c'è da mettersi le mani nei capelli. Della Loggia non entra nel merito dell'identità politica di Forza Italia, non si degna di considerare come fatto politicamente rilevante le sue battaglie, la sua opposizione al pensiero dominante nelle istituzioni, nel mondo della cultura e dell'informazione, i valori che ne animano l'azione. Non si sforza di prendere in esame l'oggettivo carico di novità che quello che lui definisce «partito di plastica» ha portato nel panorama politico nazionale - cosa, questa, riconosciuta anche da un insospettabile come Fausto Bertinotti. Insomma, non si confronta analiticamente col fenomeno Forza Italia, ma si limita comodamente a ripetere luoghi comuni triti e ritriti, e lo fa, per di più, in un momento in cui - basterebbe informarsi un po' meglio - il motore del partito gira a buon ritmo, rafforzandosi sul territorio con nuove sedi e nuovi organi eletti dagli aderenti.

Ma, oltre che da pigrizia mentale, l'editorialista di Via Solferino sembra essere affetto anche da altre due sindromi intellettuali che già Antonio Rosmini denunciava come esiziali per il pensiero politico: l'astrattismo e il perfettismo. In sostanza: Galli Della Loggia ha in mente solo il suo partito ideale, perfetto, e non si rende conto che esso esiste soltanto nell'Iperuranio platonico o, al limite, soltanto nella sua testa. Tutto ciò emerge chiaramente quando egli parla dei cinque anni di governo Berlusconi condannando senza appello quell'esperienza, senza minimante sforzarsi di inserire l'opera dell'esecutivo della CdL all'interno della situazione nazionale ed internazionale di allora, senza - fatto grave, questo, per un intellettuale del calibro di Della Loggia - «contestualizzare». Così GDL, nell'ultima parte del suo articolo, finisce per dire cose che nemmeno Ferrero e Giordano di Rifondazione Comunista forse direbbero a proposito del governo Berlusconi. Ma tant'è...

Del resto, così facendo, Galli Della Loggia non fa altro che seguire l'ultima moda del giornalismo italiano sedicente «indipendente» (talmente «indipendente» da essersi schierato apertamente, alla vigilia delle elezioni dello scorso anno, con l'armata Brancaleone dell'Unione): preso atto che l'esecutivo Prodi e la sua maggioranza versano in una crisi politica e di consenso che sembra ormai divenuta inarrestabile, e constatato che appare come sempre più probabile una reentree di Berlusconi a Palazzo Chigi, si spara a zero contro i partiti del centrodestra - Forza Italia in primis - e contro i cinque anni di governo Berlusconi non solo per rendere un tributo al politicamente corretto, ma anche e soprattutto per esorcizzare il funesto evento del ritorno in sella del Cavaliere. Basta leggere alcuni recenti editoriali di Luca Ricolfi su La Stampa, dello stesso Galli Della Loggia e di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera per averne conferma.

E' come se ci fosse l'obbligo morale di parlar male del centrodestra per poter avanzare qualche critica anche al centrosinistra. Con la conseguenza che sulle prime pagine dei grandi quotidiani nazionali trovano spazio editoriali francamente di bassa qualità come quello firmato da Galli Della Loggia. E', questo, non soltanto un pessimo servizio ai lettori, ma anche un oggettivo vulnus a quel ruolo istituzionale che certi giornali rivendicano per sé nel nome della «indipendenza» e della «libertà d'informazione».

Due sassi, due misure. il Giornale

Due pesi e due misure. Il ministro delle Riforme diessino Vannino Chiti, commentando le dichiarazioni di Umberto Bossi sui «fucili» contro le tasse, dice che «le parole in politica possono essere sassi» e che la Lega deve darsi una calmata. Eppure il ministro non ha problemi a governare con alleati come Francesco Caruso, che ha definito Marco Biagi e Tiziano Treu degli «assassini». Non c’è dubbio, rimandato in mineralogia.

lunedì 27 agosto 2007

La gente ha paura. Stefano Doroni

A dispetto di tutte le sinistre, in specie di quella italiana, la gente ha paura dell'Islam, non si sente tranquilla, non percepisce l'idea di una convivenza con gli immigrati islamici ma avverte preoccupazione. Lo vediamo tutti i giorni e lo dimostra su base statistica un recente sondaggio del Financial Times. Le anime belle ci parlano di multiculturalità, di integrazione, di pace da raggiungere con la bacchetta magica del dialogo ad ogni costo, sempre a senso unico e sempre a danno nostro, oltre tutto. Ma il timore della gente ha un fondamento: e non va cercato soltanto nell'incubo degli attentati e nello spettro della guerra, ma anche e in particolare nell'ostilità quotidiana, nell'incomprensione e nel disprezzo generale che molti musulmani ci riservano perché ai loro occhi noi rappresentiamo una civiltà inferiore e pericolosa, da cancellare o sottomettere. E questo la gente lo sa, lo avverte chiaramente, e non sa che farsene dei predicozzi politicamente corretti dei buonisti ad oltranza.

E' proprio nella vita di tutti i giorni che la gente avverte il pericolo sociale dell'Islam che dilaga grazie ad un'immigrazione invasiva che la sinistra favorisce indiscriminatamente per ragioni di convenienza ideologica. Dunque le persone vedono bene l'arroganza con cui molti musulmani esercitano il loro disprezzo per la nostra civiltà, le nostre tradizioni, i nostri valori, il nostro modo di vivere; e con questa arroganza dimostrano quanto non gli importi niente di integrarsi, anzi quanto sia forte la pretesa che ad integrarci siamo noi, trasformati in una specie di ospiti sgraditi in casa nostra. Una piccola ma illuminante dimostrazione di questo atteggiamento ingiustificabile è la vicenda recentissima di Casatenovo, in quel di Lecco. Un islamico del posto ha murato un'edicola con la Santa Vergine perché non sopportava più di vedersela davanti a casa. E così tentava di farla sparire, brutalmente seppellendola: è lo stesso stile talebano di chi fece saltare i giganteschi Buddha nella valle afghana di Bamiyan. Ciò che non è islamico va distrutto o fatto sparire, dimenticato. E questo tipo che ha tentato di murare la Madonna non è un terrorista di Bin Laden, è un simpatico «migrante», di quelli che la sinistra ci insegna a guardare come fratelli di latte. Questa non è solo un'ennesima prova che la Croce e la Mezzaluna non rappresentano affatto lo stesso Dio; è un inquietante segnale, uno dei tanti, che giustifica la paura della gente che sente in pericolo la propria identità, la propria libertà, oltre alla propria vita.

Il messaggio di Maometto, considerando l'Islam come la religione perfetta, riconosce ai fedeli di Allah il diritto-dovere di diffondere la religione non a vantaggio di tutti, ma a scapito degli infedeli di tutto il mondo e delle loro civiltà: da qui il rifiuto islamico dell'integrazione e dell'arroganza con cui tanti musulmani pretendono privilegi e rispetto a senso unico. L'espansione dell'Islam, anche quella che si attua con l'arma subdola dell'immigrazione, non corrisponde ad intenti ecumenici, ma ad una diffusa e radicata volontà di annessione e di supremazia sul mondo infedele, considerato malvagio ed inferiore. Questo vale per i kamikaze, per i talebani, per gli imam integralisti, ma anche per qualsiasi immigrato apparentemente pacifico che decida di murare la Madonna perché la sua vista lo disturba. E' naturale che la gente abbia paura; è naturale che si diffonda il sospetto ed il timore della Mezzaluna. Non è ignoranza, non è rozzezza, come forse diranno i buonisti di ogni sinistra dall'alto dei loro pulpiti moralistici: è frutto di una logica reazione ad un'ostilità che non proviene dal nostro popolo, ma in esso è alimentata dalla prepotenza altrui.

Balzelli e tesoretti. Tito Boeri

La storia delle tasse è, da sempre, una storia di prelievi straordinari che diventano ordinari. C’era una guerra e allora il re o il signore feudale chiedevano un contributo straordinario ai loro sudditi. Poi la guerra finiva, ma le tasse rimanevano perché il sovrano di turno convinceva l’aristocrazia che si era in guerra permanente e che bisognava mantenere un costoso esercito di professione per meglio proteggersi dai nemici. Chi non riusciva a fornire queste giustificazioni, doveva fronteggiare rivolte fiscali come quelle del 1297 e 1378 in Inghilterra. L'arte di governare è sempre stata l'arte di trasformare un'imposizione straordinaria in qualcosa di ordinario, inevitabile come il tramonto, cambiando il meno possibile le regole su cosa e come tassare per non alimentare il sospetto che si volessero introdurre nuovi balzelli. Come notano due storici economici, Edward Amnes e Richard Rapp, in un saggio che molti nostri politici dovrebbero leggere, «il potere di cambiare le tasse è il potere di distruggere i governi».

Paradossalmente in questa legislatura si sta facendo esattamente il contrario. Il governo non perde occasione per trasformare il gettito ordinario in entrate straordinarie e molti personaggi tra le sue file cercano un ruolo di primo piano paventando nuovi aggiustamenti all'insù delle aliquote, non paghi dei danni causati alla popolarità dell’esecutivo dalle modifiche apportate nell’ultima Finanziaria. Mentre all’opposizione vi è chi fomenta forme, più o meno legali, di rivolta fiscale.

Da quando è in carica, il governo ha sempre sottostimato le entrate. Nel 2006 l'errore compiuto nelle stime del governo è stato mediamente di 22,5 miliardi (14 miliardi in autunno e 31 in primavera), vale a dire un punto e mezzo di Pil. L’esecutivo, nell’ultima Finanziaria, ha stranamente previsto che le entrate fiscali nel 2007 sarebbero cresciute meno del prodotto interno lordo, per poi riportarle in linea nella Relazione Unificata di marzo. Secondo aggiustamento nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef) varato a giugno. Terzo aggiustamento venerdì scorso quando, in base ai risultati dell'autotassazione, una nota del ministero dell'Economia ha corretto il gettito previsto di altri 4 miliardi, portando l'errore rispetto alle stime della Finanziaria a 17 miliardi.

Certo, gli errori previsivi sono inevitabili. Ma la dimensione di questi errori (più di un punto di Pil sia nel 2006 sia nel 2007, 15 volte l'errore medio compiuto nelle stime nei 10 anni precedenti) e il fatto che siano tutti per difetto desta qualche sospetto. Il dubbio è che si sia voluto sottostimare il gettito per non dare munizioni al partito della spesa. Se era questo l'intento, si può dire che è clamorosamente fallito: la spesa è cresciuta del 12 per cento nei primi sei mesi del 2007, il decreto di giugno ha preso impegni per ulteriori 6 miliardi e il Dpef ha una lista di spese eventuali da finanziare superiore a 20 miliardi. L’esecutivo è invece mirabilmente riuscito nel dare l'impressione ai cittadini di uno Stato vessatorio che procede a prelievi straordinari, che portano poi all'accumulazione di tesoretti, oggetto delle brame di ministri e potentati vari. Quando una parte consistente dell’incremento del gettito è del tutto fisiologica: ad esempio, il forte incremento del gettito Ires si spiega col fatto che le tasse sui profitti sono le prime a salire quando l'economia riparte.

È così in un clima da Stato vessatorio, con minacce di scioperi fiscali e toni bellicosi, che diversi esponenti della maggioranza hanno voluto rilanciare, con invidiabile tempismo, proprio quelle proposte di riforma fiscale che prevedono di ritoccare alcune aliquote all'insù. Ora è indubbio che un sistema che tassa il lavoro ad aliquote del 60 per cento, le imprese, dunque il capitale direttamente produttivo, al 42 per cento (le aliquote più alte in Europa) e le rendite finanziarie al 12 per cento sia squilibrato. Ma il governo ha preso da tempo l'impegno di destinare i proventi della lotta all'evasione alla riduzione della pressione fiscale e la nota del ministero dell'Economia di venerdì scorso certifica che almeno 7 miliardi di gettito aggiuntivo rispetto alle stime della Finanziaria sono ascrivibili «alle misure di contrasto all'evasione introdotte dal governo a partire dal luglio 2006».

Dunque, se vuole rispettare gli impegni presi, il riequilibrio del nostro sistema fiscale non potrà che avvenire in un disegno di riduzione della pressione fiscale complessiva. Questa volta però le tasse si devono ridurre davvero, non come nella passata legislatura quando erano al governo gli attuali alfieri della rivolta fiscale. Il fatto è che per ridurre le tasse bisogna contestualmente ridurre la spesa o varare misure a costo zero che favoriscano la crescita. Il governo sembra intenzionato a partire dalle imprese. Ecco il patto che allora potrebbe loro proporre: aliquote Ires riportate al di sotto dei massimi europei, taglio dei trasferimenti alle imprese e nuove misure di liberalizzazione nei settori che macinano profitti perché ancora largamente al riparo dalla concorrenza, come energia, banche e assicurazioni.(La Stampa)

domenica 26 agosto 2007

Meno fandonie per tutti. Claudio Borghi

Caspita che notizia! Nel 2007 sono state pagate più tasse! Attendiamo con ansia altre sorprendenti novità tipo che in inverno fa freddo o che la maggioranza al Senato è risicata. Lo sanno anche i sassi che la Finanziaria di quest'anno ha aumentato le tasse anche ai defunti, ma la propaganda non dorme mai, quindi fiato alle trombe e via con una serie di dichiarazioni lesive della dignità dei cittadini.
Come può Prodi dire che le aliquote non sono aumentate? Le sue tasse sono entrate in vigore il primo gennaio e il confronto del gettito si fa 2007 contro 2006. Macché, conviene far credere agli italiani che è merito della fantomatica lotta all'evasione, magari mentre sono impegnati a svuotare la cassetta della posta, gonfia delle bollette di bentornato, ci credono anche e si arrabbiano meno. Una delle differenze tra Prodi e Berlusconi sta probabilmente qui: in una delle sue famose frasi in campagna elettorale il leader di Forza Italia disse di rifiutarsi di credere che la maggioranza degli italiani fosse così, diciamo, «ingenua» da votare Prodi, perché li stimava; il premier, invece, evidentemente di questa cosa ne è convintissimo, perché solo uno che pensa che gli italiani siano una massa di, diciamo, «ingenui» può sperare che si bevano simili panzane.
Guardiamo un po' i numeri e scopriamo che l'Irpef è cresciuta del 17%, ebbene, dato che la stragrande maggioranza di questa imposta viene pagata dai lavoratori dipendenti (circa l'80% del gettito totale) appare palese come la lotta all'evasione c'entri come i cavoli a merenda: le tasse in più sono state come sempre pagate da chi già pagava prima, dipendenti, pensionati e autonomi ligi ai loro doveri, a cui si aggiungono per contorno le imprese che hanno beneficiato nel 2006 di un anno eccellente e probabilmente non ripetibile. L'Irpef è più alta per tutti, anche per i redditi più bassi, e il fatto che siano stati aumentati gli assegni familiari è una misura compensativa, ma che viene contata come spesa, non come riduzione di imposta, che di fatto cresce, con sommo gaudio di Visco & C. Gli effetti di questa spremitura sono evidenti: il prodotto interno lordo ha smesso di crescere, e quando in un Paese fermo e spaventato aumentano tasse e spese improduttive c'è da preoccuparsi: alla prima recessione potrebbe capitare il disastro.
Speriamo per il bene di tutti che ciò non accada ma mettiamoci il cuore in pace: questo nuovo «tesoretto» è stato pagato dai soliti noti, quelli con lo yacht e la holding in Lussemburgo vivono come prima, gli autonomi che se pagassero tutto chiuderebbero continuano a lavorare e i pensionati che arrotondano lavorando in nero sono sempre quelli. Solo Valentino Rossi, nonostante la velocità è stato preso: ma vogliamo scommettere che se sarà trovato colpevole le tasse le dovrà sì pagare, ma all'Inghilterra? Nel frattempo noi ci dobbiamo accontentare di Prodi che promette meno tasse per tutti: ci accontenteremmo di meno fandonie, sarebbe un ottimo inizio.

giovedì 23 agosto 2007

Vietnam 1972 e Monaco 1938. Christian Rocca

George W. Bush ha rispiegato per l’ennesima volta che cosa c’è davvero in ballo in medio oriente, forte dei progressi militari sul campo e di una leadership europea, Italia esclusa, non più disposti a girarsi dall’altra parte come ai tempi di Chirac e Schröder.
Il punto critico è il fronte interno, quello americano, lo stesso che crollò all’inizio del 1973. In quell’occasione, malgrado i recenti successi sul campo ottenuti grazie a un cambio radicale di strategia militare e a un nuovo generale, la politica, i giornali e l’opinione pubblica americana decisero che la guerra fosse invincibile, se non già persa. Si convinsero che l’idea kennediana di intervenire militarmente per bloccare l’avanzata comunista, il famigerato “effetto domino”, era folle, malgrado poi gli sviluppi successivi confermarono ampiamente i timori. Bush ha ricordato che c’è una importante somiglianza tra la guerra del Vietnam e quella di oggi in Iraq e in Afghanistan: “Sono battaglie ideologiche” in cui gli avversari vogliono uccidere gli americani perché si oppongono al tentativo di imporre la loro brutale ideologia agli altri: “Come i nostri nemici del passato, i terroristi che combattono in Iraq e Afghanistan e in altri luoghi cercano di diffondere la loro visione politica: un rigido modello di vita che annienta la libertà, la tolleranza e il dissenso”. Bush ha ribadito che siamo soltanto “all’inizio di questa attuale battaglia ideologica, ma sappiamo anche come sono finite le altre e questa conoscenza oggi ci aiuta e ci guida”. Aver impedito che la Corea del sud venisse inglobata dai vicini comunisti ha contribuito alla nascita di una tigre asiatica, un modello per il resto del mondo, così come aver aiutato il Giappone a costruirsi un futuro democratico (mentre tutti dicevano che la cultura e la tradizione locale non l’avrebbero permesso). La lezione del passato più importante, secondo Bush, però è quella in cui l’America non è in grado di raccontare un successo: il Vietnam. Anche allora si diceva che il problema fosse l’occupazione americana e che subito dopo il ritiro delle truppe dall’Indocina tutto sarebbe tornato calmo e tranquillo. Successe, come è noto, l’opposto. Non solo in Vietnam, ma anche in Laos e in Cambogia, dove gli khmer rossi massacrarono centinaia di migliaia di connazionali. Oggi l’Iraq è come il Vietnam nel 1972.
Quell’esperienza invita a non ripetere l’errore, anche perché con un nemico come l’islamismo apocalittico il rischio è che Baghdad 2008 diventi come Monaco 1938.

Nuovi partiti. Davide Giacalone

Non credo gli italiani stiano perdendo il sonno, interrogandosi sull’eventuale nascita di un nuovo partito. Capisco l’agitazione di marescialli e pretoriani, che essendo stati tutti nominati ora temono che qualcun altro lo sia al posto loro. Se avessero impiegato gli anni passati per far politica, produrre idee,
condurre battaglie, mostrarsi fermi e non disposti al cedimento, se ne potrebbe parlare, ma se tutto si riduce a scegliere scarpe e vestito degli esecutori, bé, la faccenda non è poi così interessante.
C’è, però, il lato divertente. Riguarda le tante vergini senz’anima che si credono pensanti solo perché scriventi o parlanti. Dicono: non si fa un partito dal notaio. Osservano: il leaderismo personalistico e padronale è pericoloso. Poveri fessi, si guardino attorno. Il partito personale lo fondano anche soggetti come Di Pietro o Dini, senza che se ne avverta la scandalosa pochezza. Forza Italia ha un fondatore ed una data di nascita, ma dopo hanno visto la luce anche prodotti con genitori meno certi. La Margherita non ha fatto il Risorgimento, ed è composta anche da figli dell’Asinello (prodiani) e dei Democratici. Mastella e Casini debuttarono assieme, dopo la fine della Dc, poi litigarono ed ora ci fanno sapere che “dialogano”. Immagino parole assai cogitate. Il passato ce l’hanno quasi solo quelli che se ne vergognano: comunisti e fascisti. I primi stanno per darsi un leader che nega anche di esserlo stato, i secondi hanno sempre lo stesso, ma che almeno ne ha cambiato la fisionomia. La politica è questa perché fondata sulla bugia e la falsificazione del passato, anche recentissimo. Poggia su un fondo limaccioso e scivola perché priva di dignità e forza ideale. Battuto il culo si rialza e cambia nome.
Berlusconi ha dimostrato di non essere affatto di plastica, semmai con una tenuta politica ed elettorale personale ed eccezionale. Ma è l’intera politica italiana ad essere preda della deriva sintetica, con un governo senza maggioranza né politica né elettorale che sopravvive perché guidato da un trasformista senza scrupoli e senza freni, e composto da gente che non sa che altro fare. Il passato è stato bandito da tutte le parti, la memoria è divenuta impraticabile e pericolosa, mentre le animelle s’arruffano per non essere escluse dalla riffa elettorale.

mercoledì 22 agosto 2007

Una marcia per la legge Biagi. Davide Giacalone

Una sinistra che avesse cultura di governo difenderebbe essa la legge Biagi, ne rivendicherebbe l’origine culturale, vi riconoscerebbe l’impegno per la difesa dei diritti dei lavoratori più giovani. Una sinistra approssimativa, orecchiante, ideologica ed incattivita dall’impotenza e dall’inutilità sta passando mesi a dire corbellerie ripugnanti sulla legge, attribuendole fenomeni, come il “precariato”, che quella combatte. Non è solo il caso di chi usa il linguaggio dei terroristi, senza neanche averne la totale e conseguente deficienza, perché a quello sport partecipano anche quanti si nascondono dietro l’ipocrisia di voler “superare” la Biagi. Ha, quindi, ragione totale Giuliano Cazzola, che convoca per il 20 ottobre una manifestazione a sostegno non solo di quella legge, ma di quel modo di ragionare sui temi del lavoro.Qualcuno ha osservato che non servono contrapposizioni e piazze di colori diversi. Avrebbe dovuto accorgersene nel mentre si diffondevano concetti e dati del tutto sballati, con i quali s’avvalorava l’idea che la fine del lavoro fisso ed a vita sia una specie di scelta politica e non un prodotto della realtà. Prodotto, oltre tutto, che non è affatto negativo in sé. E’ evidente che unire basso reddito ad instabilità dell’impiego rende difficile la costruzione del futuro, ma dato che l’alternativa è la disoccupazione, quindi l’impossibilità di quella costruzione, si deve mettere mano alla modifica di quel castello di garanzie tutto incentrato su un tipo di lavoro (quindi anche di cittadino) che c’è sempre meno. L’Italia ha una spesa pubblica enorme, in questa c’è una spesa sociale fra le più alte d’Europa, ma se poi si va a vedere quanto è destinato a giovani, disoccupati e svantaggiati scendiamo agli ultimi posti. Dove finiscono i soldi? In pensioni. Abbiamo scelto di privilegiare chi ha avuto un lavoro fisso piuttosto che aiutare chi non ce l’ha. Dobbiamo invertire la rotta, per ragioni d’equità e giustizia.Una politica che ozia attorno alle parole ovviamente banali del cardinal Bertone (pagare le tasse è un dovere, ma devono essere giuste), fatica a capire che il nostro fisco e la nostra spesa pubblica ci indeboliscono. Il realismo riformista della legge Biagi è un buon metodo per adattare gli ideali alla realtà. Va difeso con determinazione.

martedì 21 agosto 2007

Al direttore - I dati di un rapporto di Human Rights Firts sul continuo aumento dei crimini provocati in Europa dall’odio razziale, sessuale e religioso sono stati presentati ieri da Repubblica con questo intrepido titolo: “L’Europa è sempre più razzista. Cresce l’odio verso gay, ebrei e musulmani”. Quale equanime equidistanza equiparatrice! Una così concisa e toccante espressione del nostro profondo bisogno di scoprire la segreta equivalenza, l’intima equipollenza, insomma l’assoluta equiparabilità di tutti i razzismi oggi imperversanti in Europa non può non indurci a incoraggiare il grande quotidiano fondato da Eugenio Scalfari a rivelare al più presto i nomi di tutti quei gay e quei giudei europei che non fanno che sgozzare musulmani.
Ruggero Guarini

lunedì 20 agosto 2007

L'Invincibile Armata del sindacato. Antonio Mambrino

http://www.loccidentale.it/node/5561

A proposito di caste, quella del sindacato in Italia non è seconda a nessuno.
Un articolo da non perdere.

Ci vuole lo Stato. il Foglio

Il professor Prodi elude il problema ’ndrangheta con la sociologia.

Pare che la specialità di Romano Prodi sia diventata quella di eludere i problemi con qualche frase evocativa che ha solo l’effetto di spostare l’attenzione dalla durezza della realtà a un mondo rarefatto di buoni sentimenti puramente retorici. L’ultimo esempio di questa attitudine è il suo commento all’inesauribile faida calabrese, segno di una preoccupante incapacità dello stato di far rispettare le sue leggi. Invece di dire che cosa intende fare, se pensa di mandare nuove forze dell’ordine, se vuole impiegare l’esercito, come si è fatto altrove con effetti significativi, se pensa a un intervento straordinario sulle amministrazioni locali a rischio di inquinamento o su quella regionale ancora lacerata dall’insoluto caso dell’assassinio Fortugno, il capo dell’esecutivo si è lanciato in una lirica esaltazione della funzione risanatrice dei giovani in quella terribile situazione. Basta pensare all’effetto che faranno queste frasi sull’opinione pubblica internazionale, e soprattutto tedesca nel caso specifico, per rendersi conto della distanza incolmabile che si dimostra tra la gravità e l’urgenza di una situazione insostenibile e i vaneggiamenti retorici e sociologici proposti in alternativa a interventi concreti. D’altra parte i giovani che vivono in Calabria risentono della condizione generale che pesa come una cappa su molti territori nei quali la presenza dello stato è aleatoria o, peggio ancora, rappresentata solo dallo sfoggio di auto blu di sfrontati esponenti politici. In queste condizioni, l’appello a giovani che non trovano lavoro a causa di un’economia che non decolla per la morsa insopportabile della criminalità che si somma ai costi del clientelismo, un’arretratezza dalla quale non ci si libera senza un forte ancoraggio a una legalità garantita da uno stato che si fa rispettare, appare addirittura beffardo. Le speranze che la protesta dei giovani calabresi dopo l’assassinio Fortugno avevano suscitato sono destinate a disperdersi e rifluire se non si potranno appoggiare su un’azione decisa e crescente dello stato. Quest’azione non c’è stata, e la faida d’esportazione dimostra questo, non la tesi consolatoria che si uccide in Germania per evitare il controllo del territorio esercitato dalle forze dell’ordine in Calabria. E’ vero il contrario: la logica della vendetta, che è l’opposto della giustizia, cresce a dismisura a causa dell’impotenza di uno stato ridotto al ruolo di sociologo.

Ho querelato Bonini, D'Avanzo e Travaglio per diffamazione. Paolo Guzzanti

Quando ho promosso un’azione giudiziaria civile di danni per diffamazione da parte dei signori Travaglio, Bonini e D’Avanzo per alcuni loro articoli, qualcuno - specialmente sui blog nemici - ha avuto da ridire sostenendo che io avrei avuto paura a citare in giudizio i predetti signori affinché possano rispndere penalmente del loro operato.
Avendo trovato l’obiezione fondata ho dato mandato allo Studio Giordano di presentare querela per diffamazione contro i sunnominati giornalisti e ho appena ricevuto comunicazione che la querela è stata assegnata ad un pubblico ministero per le indagini preliminari.
Adesso posso dire soltanto che mi affido alla magistratura in cui dichiaro di avere piena fiducia.
Sono convinto che non tanto io, quanto il popolo italiano abbia bisogno di verità. Ricordo anche che quando io mi presentai il 1 dicembre 2005 alla televisione privata (dalemiana) “Nessuno Tv” diretta dal bravo Mario Adinolfi (www.marioadinolfi.ilcannocchiale.it”) io narrai tutti i dubbi che avevo fino a quel momento documentato sul passato del professor Romano Prodi e i suoi presunti rapporti con organismi speciali della vecchia Unione Sovietica.
La mia intervista, come riferisce Adinolfi, fu ripresa dal britannico Indipendent. Il giorno stesso Romano Prodi rilasciò alle agenzie una dichiarazione in cui si diceva che “Questa volta a Guzzanti risponderanno i miei legali”. Ma i legali di Prodi non si sono mai fatti vivi, con mia grande frustrazione.
Fu così che nel mese di dicembre 2006, un anno dopo e dopo la morte di Litvinenko, dagli studi Rai di RaiNews 24 io rivolsi un pubblico appello al Presidente del Consiglio Prodi affinché mi querelasse, allo scopo di fare agli italiani, noi due insieme, io e lui, il più bel regalo di Natale e cioè una promessa di cercare e mostrare la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità.
Purtroppo la mia accorata e sincera richiesta, espressa in modo rispettoso e persino amichevole, cadde nel vuoto e non fui querelato.
Nel maggio scorso raccolsi una feroce intervista a viso aperto del grande intellettuale in esilio Vladimir Bukovsky e la pubblicai sul Giornale. Il giorno successivo un comunicato alle agenzie di stampa annunciava che l’editoriale L’Espresso, editore di Repubblica, aveva dato mandato a due importanti studi legali, di agire nei confronti di intervistato e intervistatori.
Non se ne è più saputo nulla.
Di conseguenza, ho ritenuto un mio dovere, a prescindere da quanto riguarda l’eventuale risarcimento del danno subito, proporre alla Magistratura, in cui ho fiducia, di voler esaminare almeno alcuni aspetti della grave e complessa vicenda.
Vi sarò grato se vorrete esportare questo annuncio sui blog amici e meno amici, affinché la notizia almeno nella blgosfera sia pubblica.
Avverto inoltre tutti che ho difficoltà di collegamento e che quindi riesco a regolare il blog quando posso, ma spero da lunedì di tornare alla normalità comunicatva.
Un caro saluto a tutti
Paolo Guzzanti

Il ritorno del Cavaliere al movimentismo. Mario Sechi

Mancava all’appello e puntualmente è arrivato il tormentone di fine estate: il nuovo partito di Silvio Berlusconi. I rumors messi nero su bianco dai colleghi de La Stampa hanno avuto l’effetto di surriscaldare il clima nel partito e nel centrodestra. Berlusconi ha smentito che vi sia un progetto per costituire un nuovo partito, ma al di là del tourbillon di dichiarazioni e fibrillazioni varie (dentro e fuori Forza Italia), resta una domanda fondamentale sulla quale vale la pena riflettere: il centrodestra ha bisogno di un aggiornamento delle idee, dei programmi e - perché no? - del marketing politico? Noi crediamo di sì e questa «rifondazione» si può fare in vari modi. Silvio Berlusconi è un leader che ha sempre anticipato e interpretato l’umore del cittadino medio. È stata perfino inventata una categoria, il «berlusconismo», che in fondo ha fotografato un tratto importante della complessa società italiana. Il «tocco» di Berlusconi ha un nome, si chiama «carisma», merce ormai rara nel mondo della politica italiana. È per questo che Forza Italia secondo i politologi è un «partito carismatico». A sinistra - e vista la loro storia è un paradosso - si tende a dare una lettura negativa di questo fenomeno, ma in quasi tutte le democrazie occidentali si è assistito all’alleggerimento del peso dei partiti da una parte e alla crescita del potere e delle funzioni del leader dall’altra (pensate a Sarkozy in Francia e Zapatero in Spagna). Forza Italia in questo senso è certamente il partito più moderno sul mercato della politica e Berlusconi ne è consapevole. Forza Italia è un movimento che si è istituzionalizzato, ha governato e fatto opposizione a livello nazionale e locale, è un partito che ha radici più solide di quanto si creda: raccoglie il 33 per cento dei consensi, ha un gruppo di vertice che non è affatto al di sotto della media degli altri partiti, conta 500mila iscritti, 70mila eletti nelle istituzioni e alla fine dell'anno avrà celebrato 4mila congressi locali. Non ci pare un «partito di plastica».

È indubbio che Forza Italia dipenda dal suo leader, ma questo vale anche per gli altri partiti del centrodestra: cosa ne sarebbe di An senza Gianfranco Fini o dell’Udc senza Pier Ferdinando Casini? La «diversità» di Berlusconi è nel suo ruolo trainante sull’elettorato moderato, nella sua capacità di catturare voti (e questi in politica si contano, non si pesano) e nella sua immagine di «outsider», uomo «dentro» la politica e nello stesso tempo «fuori» dal Palazzo. Queste qualità sono appunto quel «carisma» con il quale si possono fare molte cose - basta leggere un po’ di storia - tranne che però è fondamentale: trasferirlo agli altri. Forza Italia e i suoi alleati non devono preoccuparsi della «successione», è un tema che non esiste, è l’isola che non c’è, nel momento in cui Berlusconi continua a fare Berlusconi, un mix di fantasia e improvvisazione che ha evitato a Forza Italia e al suo leader di diventare un prodotto «fuori moda» nel mercato della politica. Ci sarà da preoccuparsi, semmai, nel momento in cui Berlusconi dovesse usare - nella comunicazione e nel modo di fare - i metodi del classico uomo politico italiano.
Fin qui, abbiamo fotografato una situazione che non è statica, ma in rapido movimento e agganciata agli eventi in corso nel centrosinistra. Berlusconi ha in mente un possibile scenario di elezioni anticipate e - da grande organizzatore qual è - si muove di conseguenza. Ha perso le elezioni per 24mila voti e stavolta cerca di allargare il più possibile il consenso intorno al centrodestra. Non si ripetono gli stessi errori, ecco perché dialoga con le «nuove Dc» - senza pensare affatto che siano un’alternativa all’alleato Udc - e perché ha rimesso in moto uno schema già collaudato nel 1993 con la nascita di Forza Italia: i circoli. Nel momento in cui soffia il vento dell’antipolitica, il Cavaliere ritorna al movimentismo. E qui entra in gioco la figura di Michela Vittoria Brambilla. Fino ad oggi è stata un’invenzione di Berlusconi, ciò non toglie che possa diventare anche altro, ma per il momento dovrebbe pesare meglio la sua effettiva forza e crescere in autonomia. Il suo ruolo è quello di organizzare i circoli, portare un pezzo importante di società civile vicino alla politica, dalla quale si sente esclusa o addirittura respinta. È uno schema usato anche da altre formazioni, in vario modo: i Ds usano le associazioni e le feste dell’Unità, a destra esistono da anni circoli e fondazioni di varia ispirazione, i Verdi si rivolgono alle associazioni ambientaliste, i neocomunisti fanno riferimento ai centri sociali e al mondo noglobal, i post-democristiani dialogano con una rete di associazioni cattoliche. Forza Italia ha bisogno di una sua rete non-politica, non può dialogare in modo intermittente con la società.

Tutto questo significa - come qualcuno paventa - la fine di Forza Italia? Noi crediamo di no, per il semplice motivo che il partito azzurro «esiste» e cancellarlo sarebbe un’impresa titanica e politicamente dispendiosa. Detto questo, la struttura dirigente del partito dovrebbe essere abbastanza matura da sapersi rimettere in gioco e in discussione, accettando la competizione interna.
Ci si chiede: è possibile cambiare nome a Forza Italia? Certo che si può fare, ma è assai rischioso. Berlusconi è un uomo che conosce il marketing e sa valutare il valore del «brand», del marchio. Forza Italia, per intenderci, è conosciuta da tutti gli italiani di qualsiasi età ed estrazione sociale, persino all’estero ha avuto dei tentativi di imitazione. Il cambiamento del nome (e della ragione sociale), a nostro modesto avviso, potrebbe avvenire solo in alcune circostanze ben precise: una è endogena, cioè la fusione di più partiti del centrodestra (e presto si porrà sul tavolo dell’alleanza il tema della cooperazione e del programma); l’altra è esogena, perché se il Partito Democratico riuscisse miracolosamente a ridurre la polverizzazione a sinistra, arrivando a presentarsi come un partito da schema bipolare quasi-perfetto, allora a destra non potrebbero restare a guardare. Questo scenario, per ora, non è alle viste, ma poiché la politica è fatta soprattutto di fantasia e immaginazione, un leader di partito - Berlusconi più di tutti - non sbaglierebbe a rifletterci e valutare le mosse con largo anticipo.

L'ora dei nervi saldi. Tito Boeri

Non è bello scoprire di avere subito perdite in conto capitale. Sarà questo, tuttavia, il sentimento di molti piccoli risparmiatori italiani al rientro dalle ferie. Si sentiranno come traditi dai mercati, proprio mentre avevano staccato la spina. Il crollo dei listini scatenato dalla crisi dei mutui ipotecari statunitensi ha praticamente azzerato i guadagni di borsa degli ultimi 12 mesi, riportando gli indici di Piazza Affari sei punti al di sotto dei valori a inizio anno. Inevitabili, anche se in genere molto più contenute, le ripercussioni sul risparmio gestito. Anche chi non ha né direttamente né indirettamente sottoscritto obbligazioni strutturate o acquistato altri strumenti finanziari che contengono i debiti a rischio contratti sul mercato dei mutui ipotecari statunitensi si trova così a subire delle perdite. Il mercato tende in questo momento a drammatizzare ogni notizia negativa proveniente da ogni parte del mondo. Quindi non sono affatto da escludere nuove pesanti sedute di Borsa, non appena emergeranno sui mercati finanziari internazionali nuove istituzioni coinvolte nella crisi. E queste sorprese negative sono tuttora possibili perché le innovazioni finanziare degli ultimi 10 anni - a partire dalle cartolarizzazioni ben note al pubblico italiano per l'ampio ricorso fattovi dal governo italiano nella passata legislatura - fanno sì che sia molto difficile ricostruire chi esattamente detiene i debiti a rischio e in quale misura.

Eppure è bene tenere i nervi saldi, evitando di realizzare le perdite, soprattutto se si tratta di investimenti che hanno orizzonti lunghi. La crisi attuale è stata eccessivamente drammatizzata da molti giornali italiani (non dalla Stampa!).

Alcuni hanno addirittura voluto evocare la crisi del 1929! Niente di più diverso dalla crisi attuale. La Grande Depressione del secolo scorso era partita da un tracollo della produzione, da una crisi dell'economia reale, accentuata dalla reazione delle banche centrali, che avevano chiuso i rubinetti del credito alle imprese in difficoltà. Oggi veniamo da anni di forte crescita dell'economia mondiale e i banchieri centrali hanno bene imparato la lezione, come testimoniato dalle massicce iniezioni di liquidità di questi giorni. Non stupisce perché Ben Bernanke, oggi alla guida della Federal Reserve, è stato proprio uno dei maggiori studiosi della Grande Depressione del 1929. No, la crisi attuale ricorda semmai quella del 1998 di cui molti italiani hanno perso memoria, a riprova del fatto che queste crisi appaiono nell'immediato dirompenti, ma vengono anche rapidamente superate. A differenza del 1998 oggi molte attività, a partire dai titoli di Stato, sono rimaste fortemente liquide. L'uso dei titoli di Stato come bene rifugio contribuirà tra l'altro a ridurre, almeno transitoriamente, gli oneri sul nostro debito pubblico. Quindi non tutte le notizie sono negative, soprattutto per chi aveva titoli di Stato in portafoglio.

I nervi saldi li dovrà tenere anche il governo, spinto in queste ore in tutte le direzioni. Il sindacato, per bocca di Bonanni, chiede imprecisate «garanzie» che nessuno, neanche la Fed, può dare e si sentono da più parti richieste di accentuare ulteriormente il grado di regolamentazione del nostro sistema bancario. Non bisogna invece dimenticare che proprio la forte regolamentazione del nostro sistema bancario, la sua arretratezza di fronte alle innovazioni finanziarie, non ci hanno posti al riparo dalla crisi. E che una reazione alla crisi che dovesse oggi ulteriormente scoraggiare le banche italiane dal prendersi rischi avrebbe effetti pesanti e, questo sì, duraturi sull'economia reale. Se c'è una cosa che difetta al nostro Paese è proprio la presenza di banche disposte a rischiare capitali in progetti innovativi, business angels e venture capitalists che consentano a idee nuove di essere finanziate e sviluppate.

Sbagliato anche chiudere le porte alla diffusione di quegli strumenti finanziari oggi messi alla gogna, perché consentono una migliore e più ampia ripartizione del rischio di insolvenza. Il vero problema legato alla diffusione di questi prodotti è che possono indebolire ulteriormente la capacità dei nostri intermediari finanziari di selezionare il rischio, di fatto deresponsabilizzando molti gestori. Il modo giusto di uscire dalla crisi consiste allora nel rafforzare il rating non solo degli strumenti finanziari, ma anche delle banche e dei gestori, mettendo al contempo in luce i conflitti di interesse che caratterizzano i responsabili del collocamento di molti prodotti finanziari. Bene anche rafforzare la capacità di informare tutti i cittadini su prodotti finanziari oggi incomprensibili ai più come molte obbligazioni strutturate. È questo un compito che dovrebbe essere proprio delle stesse autorità di controllo dei mercati, come avviene in altri Paesi.

giovedì 16 agosto 2007

Hamas fa di Gaza un ghetto. il Foglio

Il gruppo islamico opprime la popolazione palestinese tenendola in ostaggio.

E’ in corso una campagna di opinione falsamente venata di spirito umanitario sulla condizione dei palestinesi di Gaza. La condizione di queste persone è tragica, e lo è da molti decenni, a cominciare dal periodo nel quale, sotto il governo egiziano, non si fece nulla per dare qualche soluzione ai problemi dei profughi che si erano riversati lì. Oggi, dopo il ritiro unilaterale delle truppe israeliane e la guerra intestina tra i palestinesi che ne è conseguita, Gaza è sotto il controllo della fazione terroristica di Hamas, che non accontentandosi di gestire il governo ha voluto prendere tutto il potere, com’è naturale che facciano i partiti armati. E’ di questa dittatura faziosa che soffre la popolazione, alla quale è vietato anche protestare per decisione del partito teocratico che la tiene in ostaggio. Eppure due giorni fa, al grido di “vogliamo la libertà”, ci sono stati manifestanti a Gaza pronti a sfidare i divieti di Hamas pur di farsi sentire anche dal presidente del Consiglio italiano Romano Prodi. Se a Gaza c’è un ghetto i suoi carcerieri sono i miliziani islamisti, non Israele, non l’Autorità palestinese che di lì è stata cacciata da un colpo di stato. L’idea che bisognerebbe finanziare gli aguzzini della popolazione di Gaza per ragioni umanitarie, concedendo ai terroristi dopo il golpe quello che fu negato loro quando rispettavano, almeno formalmente, le regole del gioco, è del tutto irragionevole, con buona pace di Massimo D’Alema e di Prodi, che hanno scelto la causa più sbagliata per segnare il loro distacco dall’Europa, dall’America e da Israele e, in sostanza, dal legittimo governo e dal popolo palestinese.

Una crisi annunciata. Emanuela Melchiorre

Come avevamo da tempo previsto, scrivendo per le pagine di questo periodico della crisi del mercato immobiliare statunitense prima e della crisi finanziaria asiatica poi, la crisi finanziaria odierna, che fa discutere i giornali specializzati e gli esperti di tutto il mondo, si è già diffusa a livello planetario ed è iniziata dal mercato dei titoli derivati dai mutui, in maggior misura da quelli relativi ai subprime, ossia i mutui «di seconda scelta». È notizia di questi giorni che la Banca centrale europea e la Federal riserve hanno immesso, a più riprese, liquidità nei rispettivi mercati creditizi, per tentare di arginare la crisi dell'insolvibilità dei mutui subprime.

La reazione a catena, che è stata innescata dal mercato finanziario connesso al mercato immobiliare statunitense, ha seguito un percorso tortuoso, ma in parte prevedibile. Sono stati concessi con facilità e in grande quantità mutui ad una clientela a forte rischio di insolvenza. Tali mutui sono divenuti titoli venduti sul mercato mobiliare e acquistati da fondi di investimento specializzati nelle transazioni ad alto rischio, ma anche da fondi comuni di investimento, e quindi sottoscritti da comuni risparmiatori, tramite il canale delle cartolarizzazioni. Allo stesso tempo, il mercato immobiliare statunitense, in particolare, e quelli di tutti gli altri paesi industrializzati, hanno visto un forte incremento del prezzo di mercato degli immobili, in seguito ad atteggiamenti fortemente speculativi degli operatori economici. Si è creata e sviluppata una grande bolla speculativa, che come tutte le bolle prima o poi doveva scoppiare. C'è stata una dissociazione mai vista prima tra il valore reale delle abitazioni e il loro prezzo di mercato, che in molti casi si è triplicato senza alcuna giustificazione.

La rivendita a prezzi speculativi degli immobili acquistati con mutui ha fatto sì che venissero liberate risorse e, quindi, che la liquidità generale aumentasse e con essa anche il consumo e la produzione, ma anche il rifinanziamento del mercato creditizio. Il circolo vizioso si è spezzato nel momento in cui i tassi sui mutui sono cresciuti e il prezzo delle case ha cominciato a scendere. Molti debitori subprime hanno cominciato a fallire in seguito alla perdita di valore delle case usate a garanzia dei propri debiti. L'insolvenza di tali debiti, data la loro diffusione, ha comportato una crisi di liquidità dell'intero sistema creditizio.

È presumibile pensare che gli effetti delle crisi di liquidità avranno ripercussioni anche nei «fondamentali», ossia nell'economia reale e della produzione. Infatti, il mercato immobiliare ha una natura di forte correlazione con gli altri mercati della produzione e dei servizi. Il cosiddetto «moltiplicatore> del settore delle costruzioni è molto elevato. Come si diceva una volta «quando la casa va, tutto va». L'indotto sia a monte che a valle è di grandi dimensioni. Il crollo della produzione di immobili potrebbe avere forti ripercussioni su tutta l'economia reale. La sensazione che si ha, inoltre, è che i mercati finanziari siano divenuti molto volatili e progressivamente più correlati tra loro, in seguito alla sempre più frequente pratica dell'investire in borsa, al «fare finanza» da parte degli imprenditori, ma anche da parte di piccoli risparmiatori, sicuramente disinformati e inesperti.

In una situazione di allarme, come quella attuale, due fatti salienti di cronaca monetaria ci fanno trasalire per la loro irresponsabilità e per gli effetti perversi che potrebbero generare. Il primo riguarda l'intenzione del nostro Governo di vendere le riserve auree della Banca d'Italia per fare fronte al debito pubblico. Inutile sottolineare quanto tale mossa abbia fatto perdere la faccia all'Italia di fronte all'intera Europa. Una simile pratica è, infatti, contraria al Trattato di Maastricht, che per quanto quest'ultimo sia d'ostacolo alla crescita dell'economia italiana, come più volte sottolineato, costituisce comunque un trattato sottoscritto e accettato dal nostro Paese e che, nel bene o nel male, va rispettato o altrimenti, come ci auguriamo presto, cambiato, ma comunque mai infranto. Dobbiamo, quindi, registrare un'altra bocciatura in sede comunitaria, che ironicamente è causata dalle illogiche scelte di politica monetaria ed economica proprio di colui il quale ricoprì la carica di presidente della Commissione europea. Sullo stesso piano deve essere posto il ministro dell'Economia, ex vicedirettore generale del nostro istituto di emissione ed ex membro del consiglio della Banca centrale europea. Non molto tempo fa fu definito il peggiore ministro dell'economia nell'ambito dell'eurozona.

Il debito pubblico italiano non può, inoltre, essere colmato dalla vendita delle riserve auree della Banca d'Italia poiché, oltre al vincolo di Maastricht (art. 105 del Trattato europeo), l'Italia è vincolata anche dal Central Bank Gold Agreement (Cbga), firmato nel settembre 2004 dalla Bce e da 14 delle Banche Centrali europee (Italia inclusa), che permette di cedere un massimo di 500 tonnellate di oro all'anno. La vendita di parte delle riserve auree effettuata dalle banche centrali aderenti alla Bce si inquadra nel contesto dell'euro, moneta più stabile delle singole ex monete nazionali, e che quindi non richiede le ingenti riserve accumulate nel passato dalle suddette banche centrali a difesa della propria moneta.

Dalle ultime statistiche risulta che nel 2007 siano state già vendute 294 tonnellate, altre 206 sono cedibili fino al prossimo settembre, quantità quest'ultima del tutto insufficiente per colmare il debito pubblico, come erroneamente sostenuto dal Governo. Inoltre, le vendite di oro seguono una prassi che ha confini ben precisi: i proventi delle vendite, che possono essere effettuate solo in piena autonomia dalla Banca centrale, entro i limiti del Gold Agreement del 2004, debbono essere reinvestiti in titoli di Stato, una voce che comporta un reddito in termini d'interesse. Questo reddito sarebbe l'unica parte iscritta al conto profitti e perdite della Banca centrale nazionale e, a fine esercizio, trasferita al Tesoro. In sostanza la vendita di riserve auree non farebbe altro che aumentare il debito pubblico e il carico degli interessi. Per ridurre il debito pubblico non c'è che una via, ridurre le spese correnti che al contrario, con l'attuale Governo, sono lievitate sensibilmente, sia a livello centrale che a livello locale.

Ma la chiave di volta per ridurre il peso relativo del debito pubblico rimane sempre la crescita del sistema economico italiano almeno del 3 per cento in media l'anno e il recupero della produttività del lavoro e della produttività totale. Per la cronaca, giova ricordare che la spirale del debito pubblico italiano fu innescata dal divorzio fra la Banca d'Italia e il Tesoro nel 1981 e successivamente con l'internazionalizzazione di detto debito con l'emissione di titoli della Repubblica italiana piazzati a Londra al tasso del 9 per cento per la durata di trent'anni. Gli autori di questi misfatti economici non sono stati mai puniti e nemmeno rimproverati, protetti dai cosiddetti «poteri forti».

Grazie all'agire tempestivo della Bce, che ha posto il veto alla vendita delle riserve auree, si è risolto questo angoscioso problema e la Banca d'Italia potrà ancora disporre dello strumento che garantisce l'immissione di liquidità nel mercato creditizio tramite il meccanismo del moltiplicatore monetario keynesiano. La stessa Banca centrale europea ha però minacciato, ancora una volta, di alzare i tassi di interesse a settembre, per tutelare l'economia europea dal rischio di inflazione. Vale la pena sottolineare che la situazione attuale di crisi finanziarie a catena, che stanno tormentando le borse di tutto il mondo, è stata innescata proprio dall'aumento del tasso di interesse sui mutui immobiliari, pertanto una scelta tanto intempestiva di aumentare ulteriormente i tassi di interesse equivarrebbe a gettare benzina sul fuoco dell'esplosione della bolla speculativa. Ma va anche detto che le bolle speculative debbono scoppiare e bene sarebbe non farle sorgere o almeno farle abortire appena si manifestano.

Sono, invece, confortanti le scelte e le parole di Bernanke, il governatore della Federal Riserve, il quale ha scelto di non aumentare i tassi di interesse e sostiene che, nonostante le avversità finanziarie, i fondamentali dell'economia statunitense «tengono», nel senso che l'economia statunitense non mostra segni evidenti di cedimento e che continua a crescere anche se non più a tassi elevati. Siamo di fronte a un rallentamento dell'economia internazionale e l'Italia non riuscirà a conseguire l'incremento del Pil contrabbandato dal governo. Non ci resta che augurarci che le previsioni del governatore della Fed siano corrette e che le aspettative degli operatori economici non siano realmente invertite, ossia che quelli che Keynes chiamava gli animal spirits continuino a credere nella crescita mondiale.

martedì 14 agosto 2007

Le code ai consolati ora ci fanno paura. il Giornale

Se qualcuno nutre ancora dei dubbi sugli effetti che l’azione del nostro governo sta provocando nelle comunità musulmane e nel Paese, ecco i dati di una nuova ricerca condotta dal giornale «Almaghrebiya». È stato chiesto a un campione di immigrati - uomini e donne, su tutto il territorio nazionale - se a loro avviso si stesse facendo abbastanza per contrastare l’estremismo islamico. Ha risposto di «no» il 65 % di loro e una percentuale ancora maggiore (oltre il 70 %) ha specificato che al contrario l’islam più radicale sta ampliando in Italia la sua presenza e la sua influenza. Una percentuale ridotta ma significativa (35%) ritiene anche che si stia diffondendo tra la popolazione musulmana un sentimento di «ostilità» superiore al sentimento di «fiducia» in una vera integrazione. Risposte impietose che trovano la loro prima motivazione, secondo l’80% degli intervistati, nel proliferare indisturbato di moschee e scuole islamiche che hanno ampliato l’area di intervento dell’islam più radicale e il suo peso nella vita delle comunità.
E, in secondo luogo, nell’avanzata dei «ghetti islamici» nelle periferie di molte città, terreno ideale per la propaganda e la cultura della «jihad». A proposito dei centri islamici, il 43% degli intervistati sottolinea come stia aumentando il numero di chi li frequenta e come questo incremento rappresenti un fattore di isolamento che aumenta il rischio di contrapposizione tra il mondo islamico e la società italiana. Alle donne del campione è stato poi chiesto se ritenevano che l’attuale governo si stesse adoperando efficacemente per la tutela dei loro diritti. Il fronte del «no» ha raccolto una percentuale che supera l’80%. In cima alle motivazioni la mancata tutela dalle violenze, l’assenza di un vero programma di istruzione e la sistematica mortificazione del ruolo delle immigrate nei luoghi dove si discute della loro situazione. L’ultima domanda riguarda le leggi sull’immigrazione. Di certo a sorpresa per chi si prepara a cancellare i provvedimenti della Bossi-Fini, una larga maggioranza degli intervistati (il 63%) si è pronunciata a favore di leggi rigorose che prevedano filtri, controlli e regolamentazione dei flussi. Uno dei promotori della ricerca di «Almaghrebiya» è appena tornato dal Marocco. Gli amici di laggiù gli hanno consigliato di fare una visita a Casablanca, in avenue Hassan Souktani: «Vedrai qualcosa che neanche riesci a immaginare».
Ha accolto l’invito e si è trovato davanti a una folla sterminata che prendeva d’assalto gli uffici del Consolato italiano. È così da tre settimane, da quando si è diffusa la notizia dell’ultima circolare emanata dal ministero dell’Interno, quella che di fatto spalanca le porte a un’immigrazione senza barriere. Al Consolato lavorano quattro impiegati che non sanno più come fare ad arginare quella marea umana, pronta a riversarsi nel nostro Paese. «Arrivano in massa», dicono: «Uomini barbuti che non spiccicano una parola in italiano e non hanno il minimo titolo di studio, donne avvolte nei loro veli, c’è anche chi si presenta con un paio di mogli al seguito». Fanno quello che possono ma ormai hanno le mani legate: «Con la nuova circolare non c’è più l’obbligo del permesso di soggiorno, basta la richiesta di un visto turistico e quello possiamo rifiutarlo solo nei casi più estremi. Ieri - raccontano - si è presentato un uomo con una moglie che avrà avuto sì e no quattordici anni, l’abbiamo pregato di ripassare quando sarà maggiorenne». A qualche centinaio di metri di distanza, in rue National, si affaccia il consolato olandese. Era quella, una volta, la porta girevole dei marocchini in cerca di un approdo in Europa: niente filtri e niente controlli. Ora la strada e quasi deserta: per immigrare in Olanda oggi devi dimostrare di conoscerne la lingua e di condividerne lo stile di vita.
L’Olanda sta ancora cercando di limitare i danni provocati dalla politica di un tempo. La nave del governo italiano ha imboccato la rotta opposta. E la conta dei danni, per noi, è appena all’inizio.

Quello squilibrio di pesi e misure. Paolo Guzzanti

Il magistrato è un garantista e voleva la pistola fumante. La videocassetta del primo omicidio non era conclusiva e le garanzie sono le garanzie: mica puoi sbattere in galera un cittadino senza avere una prova conclusiva. In fondo la custodia cautelare serve per arrestare qualcuno che potrebbe ripetere il crimine per cui è indagato (nel caso di Sanremo uccidere una donna) o inquinare le prove.
Il magistrato genovese, in tutta onestà, non se l’era sentita di ammanettare colui che poi si dimostrerà essere un serial killer psicotico e l’ha lasciato libero. Su un piatto della bilancia il rischio che si trattasse davvero dell’assassino del primo delitto e che ne potesse quindi commettere un secondo; sull’altro, il rischio di arrestare un innocente e farlo marcire in prigione per mesi. Il magistrato ha scelto il secondo piatto della bilancia: non ha arrestato e così l’assassino ha avuto modo di far morire un altro essere umano. Se il magistrato avesse messo in prigione l’uomo avrebbe evitato il secondo omicidio, ma avrebbe rischiato di rinchiudere in prigione un innocente. E adesso si trova di fronte ad uno spaventoso risultato e forse (non vorremmo essere nei suoi panni) a qualche problema di coscienza.
Sicuramente, ora egli è convinto d’aver agito bene, dal punto di vista dei principi giuridici generali (ci vuole l’habeas corpus per privare un cittadino del bene supremo della libertà), ma noi siamo invece convinti che abbia agito come se si trovasse nel Regno Unito, ovvero in Inghilterra, anziché in Italia.
In Italia, lo abbiamo visto l’anno scorso la sera di Natale, il consulente parlamentare Mario Scaramella fu arrestato a Napoli sotto la scaletta dell’aereo che lo riportava da Londra (dove aveva collaborato con Scotland Yard per l’omicidio Litvinenko magistralmente organizzato in modo da esporre proprio lui, Scaramella, al massacro mondiale come primo sospettato dell’avvelenamento del profugo russo) con l’accusa di aver calunniato qualcuno. Chi avrebbe calunniato Scaramella? Prodi, risponderanno molti lettori (stiamo parafrasando l’incipit del Pinocchio di Collodi) eh no, cari ragazzi, vi siete sbagliati: Scaramella fu arrestato e poi tenuto in galera per sei mesi con l’accusa di aver calunniato un signore che viveva a Napoli in clandestinità, un certo Oleksander Talik, il quale era un ex capitano ucraino del Nono Direttorato del Kgb, cioè della stessa sezione di cui faceva parte anche il signor Andrei Lugovoy, che secondo la Procura della Corona britannica sarebbe l’assassino materiale di Litvinenko. Una storia troppo intricata? Lo so, è estremamente complicata e ancora molto oscura.
Ma a noi oggi fa impressione lo squilibrio di pesi e di misure fra l’arresto di un uomo accusato di aver dato del terrorista ad un ex agente di una polizia segreta straniera, clandestino in Italia, e il mancato arresto di un altro uomo che molti elementi significativi indicavano come un assassino e che poi si è rivelato realmente un pazzo sanguinario che ha spento una vita che poteva essere salvata.

lunedì 13 agosto 2007

Il silenzio è d'oro quindi parlo. il Giornale

A Castiglione della Pescaia sabato pomeriggio Romano Prodi aveva paragonato il silenzio al digiuno. E ai giornalisti aveva promesso che la sua astinenza dalle parole sarebbe durata a lungo. Non sono passate 12 ore e domenica mattina il premier si è messo a parlare di tutto: dal Medioriente, alla Cina, ai rom. A proposito dei quali ha sentenziato: «Sono un problema».
E abbiamo capito perché gli avevano consigliato di stare zitto.

Garanzie e forche. Davide Giacalone

Dove la giustizia non funziona si diffonde il giustizialismo, una malattia mortale per il diritto. Il Parlamento s’occupa solo di come i magistrati fanno carriera. La politica pretende di darci lezioni e considera alla stregua di provocazioni i fatti e le cifre che ho usato per documentare la Malagiustizia.
Poi capita che un Tizio sgozzi per strada l’attuale fidanzata e si scopre che è indagato per avere accoltellato e sbudellato la precedente. Si scopre che non basta essere trovati ad incendiare boschi per garantirsi un’immediata pena. E dopo averlo scoperto s’invocano severità e pugni di ferro. Se li dia sulla testa, il governo. Se li diano dove sanno gli schieramenti politici che attorno alla giustizia animano una gran canizza senza mai occuparsi di quel che conta: renderla efficiente.
Le nostre galere sono stracolme di presunti innocenti, mentre a spasso c’è un esercito di probabili colpevoli. Grazie all’indulto dal carcere sono usciti solo i pochi sicuri colpevoli e più del novanta per cento dei processi in corso avrà esito inutile. L’Italia resta il Paese più condannato per violazione dei diritti umani, i nostri processi sono i più lenti del mondo civile, ma spendiamo quanto e più degli altri e abbiamo più magistrati e avvocati che altrove. Sono tutti indizi che gridano l’evidenza: la nostra giustizia è allo stato terminale, sempre di più il paradiso dei colpevoli e l’inferno delle persone per bene. Ma che importa? Quel che conta e riformare la carriera dei magistrati senza litigare con loro, senza provocare scioperi.
Se la politica esistesse, se gli intellettuali facessero il loro mestiere di coscienze ed informatori, se la realtà fosse chiara a tutti, non sarebbe difficile trovare la forza per cambiare quest’andazzo incivile, per fare riforme vere, per conciliare severità e diritti. Ma qui siamo alla faziosità senza contenuti, all’uso politico delle inchieste giudiziarie, ai forcaioli che diventano garantisti quando finiscono sotto inchiesta ed ai grantisti che si scoprono forcaioli quando tocca agli avversari mettere la testa nel cappio. Capita, così, che si chieda giustizia senza far funzionare i tribunali, che il ministro si dica stupito (tanto di giustizia non sa nulla, come lui stesso dice), e che si reclamino pene più severe. Tutta roba inutile.

venerdì 10 agosto 2007

Il risparmiatore paga la paura del contagio. Nicola Porro

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=198423

Un articolo chiaro, comprensibile e scorrevole per capire cosa succede in questi giorni nei mercati internazionali.

giovedì 9 agosto 2007

Come liberarsi del lungo Sessantotto. Gaetano Quagliariello

http://www.loccidentale.it/node/5252

Del Sessantotto ci si libera solo se saranno gli studenti ad aprire la porta a tutto ciò che esso ha negato: autorità, merito, eguaglianza di opportunità e non di risultati.

IBL: solidarietà a Valentino Rossi.

L’Istituto Bruno Leoni ritiene che gli accertamenti fiscali nei confronti di Valentino Rossi siano “paradigmatici del rapporto fra contribuente e Stato nell’Italia di oggi”.

Secondo Carlo Lottieri, direttore “Teoria politica” dell’IBL, “Rossi si è semplicemente avvalso delle possibilità che la concorrenza istituzionale offre oggi ai contribuenti abbienti, per dichiarare i propri redditi in nazioni che siano meno vessatorie nei loro confronti, rispetto al Paese di appartenenza.”. Dice Lottieri: “Quello che è grave è che la pressione tributaria in Italia è talmente alta, che è pressoché automatico il nostro Paese perda contribuenti ‘importanti’, per il carico fiscale che potrebbero sostenere, come Rossi. Se un topo scappa dalla trappola, la colpa è del topo o del formaggio?”.

In conclusione, Lottieri e l’IBL esprimono “solidarietà a Valentino Rossi. È assurdo che uno dei più grandi talenti sportivi del nostro Paese venga trattato dal fisco come una pecora da tosare”.

La favola del risparmio energetico: uno spot dettato dal Governo. Franco Battaglia

A leggere le paginate pubblicitarie di alcune aziende coinvolte nella produzione e distribuzione dell’energia, ci si chiede spontaneamente che relazione ci sia tra queste e il governo. Come ben sappiamo, questo governo non ha alcuna politica energetica, il che è come dire che non ha quasi alcuna politica, se è vero, com’è vero, che è la disponibilità d'energia abbondante, a buon mercato, e rispettosa dell'ambiente ciò che accresce il nostro benessere. Ma, sia chiaro, tutti i settori sono paralizzati, non sono solo quello dell'economia: tanto per dirne uno, banale, lo è anche la sicurezza, visto che sono pressoché soppresse le ronde notturne delle forze dell'ordine, prive anche della benzina per le loro auto.
Dire che questo governo non ha alcuna politica energetica, però, è una litote che non rende giustizia alla realtà delle cose: in tema d'energia, siamo in piena antipolitica, visto che il governo esplicitamente promuove una disponibilità d'energia che sia il contrario di ciò che dovrebbe essere, promuovendola razionata, costosissima, e irrispettosa dell'ambiente. Le aziende coinvolte nel settore energetico si sono subito adeguate, e nei loro messaggi promozionali la compiacenza ai capricci del governo è tanto palese da far quasi tenerezza. Fino all'avvento di questo governo nessuna azienda sentiva il bisogno di esaltare il proprio impegno nella produzione d'energia elettrica, ad esempio, dalle orripilanti turbine eoliche, anche perché quella produzione è stata pressoché inesistente: continua ad essere inesistente anche oggi e così sarà nel futuro, ma da alcuni mesi sembra, a leggere i messaggi promozionali, che sia il vento a muovere il mondo. Leggiamo anche di messaggi di esortazione a risparmiare energia e, ancora una volta, l'ispirazione del governo ci sembra più che una semplice congettura. Ecco qua cosa ci tocca leggere: «Se ti abitui a spegnere gli elettrodomestici non lasciandoli in stand-by, puoi risparmiare oltre 50 euro l'anno». Messaggio con la pretesa della pubblicità-progresso, essendo arricchito dal monito: «Non lasciare gli elettrodomestici in stand-by è un bel segno di civiltà».
E invece è una cretinata, altro che storie. In casa godiamo di un bel mucchio di elettrodomestici, dal phon al frullatore, dalla lavatrice e lavastoviglie alla caldaia, dal rasoio elettrico alla sveglia elettronica. Se provate ad enumerare tutti quelli che avete in casa, ma proprio tutti, avrete una lista di alcune decine di oggetti che usano corrente elettrica, compresa la caldaia a gas. La maggior parte, però, quando non sono utilizzati sono completamente spenti. Altri (frigorifero, sveglia elettronica) devono rimanere sempre accesi. Pochissimi rimangono in stand-by, e, tra questi, molti non si possono spegnere senza fastidi. Pensate al telefono con segreteria telefonica incorporata o al lettore di dvd o di vhs: spegnerli significherebbe perdere ogni dato memorizzato nel loro orologio interno. Quanto al telefono cellulare, di notte possiamo anche spegnerlo, e di solito lo facciamo, ma anche lo allacciamo alla rete per caricarlo. Alla fine, gli unici elettrodomestici di cui possiamo sopportare il fastidio di accendere ogni volta che decidiamo di usarli sono il televisore e la caldaia a gas (che ci toccherebbe quindi accendere ogni volta che apriamo un rubinetto dell'acqua calda; ma dovremmo ogni volta anche chiudere e aprire il rubinetto del gas, sennò, in assenza di alimentazione elettrica non funzionano i dispositivi di sicurezza contro le fughe di gas).
Insomma, l'unico elettrodomestico che lasciamo in stand-by e che potremmo veramente spegnere è il televisore, il quale, quando in stand-by, assorbe sì e no 2 watt. Supponiamo ora che delle 8700 ore di un anno guardiate la Tv per 1700 ore e la lasciate spenta per 7000 ore: alla fine dell'anno avrete risparmiato 14 kWh d'energia elettrica che, a 18 centesimi al kWh fanno 2 euro e 50 centesimi e non gli «oltre 50 euro» vagheggiati dalle pubblicità di certe aziende troppo compiacenti alle cretinate di questo governo.

Avanti così verso la bancarotta. Claudio Borghi

Il governo sarà in vacanza, ma quando si tratta di escogitare idee dannose non riposa proprio mai. L'ultima trovata riguarda la possibilità di vendere le riserve d'oro della Banca d'Italia con il pretesto di ridurre il debito pubblico. Sotto l'ombrellone di Castiglion della Pescaia ieri Prodi ha detto che «è positivo che se ne parli» mettendo il suo sigillo sulla proposta buttata lì nelle ultime mozioni agostane di una svogliata Camera dei Deputati. Per una volta accogliamo la proposta e parliamone: è un'ipotesi giusta o sbagliata?
Semplice, è sbagliatissima: innanzitutto bisogna mettere in chiaro una cosa fondamentale, la ricchezza non si crea e non si distrugge, se si diminuisse il debito usando l'oro, l'Italia rimarrebbe tale e quale, avrebbe solo sostituito una ricchezza difficile da spendere con una facilissima. Da un punto di vista strettamente finanziario la scelta di mantenere buone riserve auree negli ultimi anni è stata ottima: nel 2001 l'oro quotava attorno ai 250 dollari per oncia contro i quasi 700 dollari attuali. Per intendersi, se il Governo Berlusconi, appena entrato in carica, avesse attuato questa idea malsana che sta ora solleticando Prodi, l'Italia avrebbe perso 25 miliardi di euro, un'enormità in confronto ai pochi interessi passivi che si sarebbero risparmiati sul debito.Il governatore Draghi pare sia in fase di allarme rosso, e anche nell'Ue le prime sirene di emergenza sembra abbiano cominciato a suonare. In teoria l'oro è al sicuro: il governo non può dare ordini alla Banca d'Italia, la cui indipendenza è tutelata da numerose leggi e trattati, fra cui il chiarissimo articolo 108 del Trattato Europeo, ma con Prodi, Visco e compagnia la fiducia è quella che è. Anche i più sprovveduti infatti capiscono che lo scambio oro/debito sarebbe solo un modo in più per consentire ad un esecutivo disperato quello di cui ha più bisogno per sopravvivere: vale a dire spendere.
E il Paese si sta avvitando in una spirale di spese certe a fronte di entrate quantomeno dubbie: se per un caso disgraziato l'economia mondiale dovesse rallentare (e la recente crisi dei mutui subprime americani, è stata un sufficiente campanello d'allarme) per le nostre finanze sarebbe un dramma di impossibile soluzione, avente come unico responsabile un governo che poteva mettere fieno in cascina, e che invece sta dilapidando tutto. Sarebbe (forse) ammissibile pensare di toccare le riserve in condizioni di assoluta emergenza: dilapidarle al massimo del ciclo economico, dietro la foglia di fico di ridurre minimamente un debito che, c'è da scommetterci, verrebbe immediatamente ricostituito per coprire i mille buchi che i provvedimenti senza vera copertura, come la controriforma delle pensioni, di sicuro apriranno, è criminale. Il solo fatto che un'idea del genere sia accolta da Prodi e persino da un ex banchiere centrale come Padoa-Schioppa dà la misura della mancanza assoluta di scrupoli e ritegno del premier e della sua maggioranza.

mercoledì 8 agosto 2007

Giù le mani da quella lista. Ma quella lista, dove sta? il Riformista

Ebbene sì, lo ammettiamo. A noi del Riformista la storia degli elenchi dei votanti alle primarie unioniste del 16 ottobre 2005 è sempre piaciuta. E non poco. Che bello - abbiamo detto e pensato più volte - sarebbe sapere la cifra esatta, precisa fino all’ultima unità, di coloro che due anni fa si misero in fila per quella competizione italiana studiata anche all’estero (pare addirittura che un giorno, tra gli appunti degli allievi di Science Po sia finito anche il nome di Vannino Chiti). Che la cifra desti una certa curiosità, in giro, è cosa normale. Le file ai gazebo c’erano, eccome se c’erano, e i tg dell’epoca le documentarono bene. Ma quella cifra, quei quattro milioni e passa, si è sempre portata dietro un codazzo di sospetti. Il sito Dagospia scrive di avere appreso da fonti ben informate che «quelle liste pro-Prodi, sulle quali Enrico Letta aveva chiesto lumi, non si possono scodellare perché furono gonfiate come soufflè». Le liste - ha aggiunto il sito - «le ha, chiuse nel cassetto, il ministro Vannini Chiti…» (ma non saranno troppi i nomi che le compongono per star chiusi in un cassetto solo?).
Fatta questa premessa, però, anche noi curiosi non possiamo che dare ragione a Ugo Sposetti. «Gli elenchi - ha detto ieri l’altro il tesoriere ds - sono dell’associazione dell’Unione e a disposizione del centrosinistra, non di questo o di quel candidato. Non sono dei candidati e non sono dei due partiti Ds e Margherita, ma sono di tutti i partiti dell’Unione». Il ragionamento di Sposetti, il primo a fare riferimento al misterioso armadio segreto, non fa una grinza. Non si misero in fila soltanto gli elettori dell’Ulivo, quel giorno di ottobre 2005. Ma anche quelli di Rifondazione che sostennero Bertinotti, i fan del Campanile che votarono Mastella, gli italiani di valore che si misero in fila per Di Pietro, i verdi di Percoraro, i no global della Panzino e i ggiovani con due g di Scalfarotto. Se vale questo ragionamento, allora nessuno del Pd dovrà mai più intestarsi quel sussulto del popolo di centrosinistra. L’Ulivo non deve più rivendicare come sua quella data. Altrimenti, anche noi - che per giunta siamo già curiosi - chiederemo il nome del custode (o dei custodi) e l’indirizzo in cui si trova l’armadio con le liste.

Non sparate sulla Cina. Enzo Bettiza

Da oggi inizia il conto alla rovescia dei 365 giorni. Porteranno la Cina non solo alle Olimpiadi dell’8 agosto 2008 ma addirittura, così scrivono pessimisti e supponenti tanti giornali, a una specie di sorda guerriglia civile con i ventimila giornalisti che per la grande occasione saranno presenti a Pechino. Più delle competizioni sportive, saranno in gioco, allora, i capisaldi della democrazia globalizzata: la libertà di informazione, la tutela dei diritti civili, l’abolizione della pena di morte, la scarcerazione di un’ottantina di dissidenti colpevoli di aver scritto di soprusi e perfino di calamità naturali.

Ritengo che qualunque persona di sane e buone opinioni liberali, magari gli stessi organizzatori indigeni dello storico evento, non possa sottrarsi all’idea che la bonifica democratica di un continente debba coinvolgere, assieme al mercato e al prodotto lordo, anche la vita quotidiana di molte centinaia di milioni di cittadini cinesi. Ma, per l’appunto, quando parliamo della Cina, non dovremmo mai dimenticare che non stiamo parlando dell’Olanda o della Svizzera; dovremmo sempre ricordarci che la Cina è un continente asiatico di oltre un miliardo di persone, presto un miliardo e mezzo.

Queste persone stanno emergendo a una nuova vita, spesso caotica e imperfetta, dagli abissi del peggiore inferno totalitario che il mondo novecentesco abbia mai conosciuto.

Quindi un minimo di relativismo non dico filosofico o culturale, ma almeno storico o semplicemente cronologico andrebbe preso in debita considerazione ogni volta che ci si abbandona a criticare l’esplosiva Cina di oggi dimenticando la Cina da incubo dell’altroieri. I quattro simpatici colleghi senza frontiere che in altri tempi, chissà, avrebbero magari inneggiato alla democrazia totale della rivoluzione maoista, hanno in fondo ottenuto quello che con la loro eccessiva provocazione volevano ottenere. Esibendosi in maglietta nera, con il disegno sul petto di cinque manette al posto dei cinque cerchi olimpici, hanno richiamato su di sé l’attenzione della platea mondiale, del Comitato internazionale dei Giochi e ovviamente, come desideravano, della polizia locale.

Sono andati così a rafforzare la frontiera dei khomeinisti dei diritti civili che, spesso, a cominciare da certi censori schematici di Amnesty International o di Greenpeace, danno l’impressione di badare più all’incasso pubblicitario che alla liberazione di dissidenti o alla pulizia dell’ambiente.

Da qualche tempo è di moda descrivere a tinte fosche la Cina che, sia pure disordinatamente, sta salendo al rango di grande potenza globale. La si racconta come una sentina di industrie sporche e fumiganti, spacciatrici di merci avariate e dentifrici tossici, irrispettosa della vita umana, produttrice di miseria e perfino di schiavitù nella tenebra delle campagne remote. Insomma: il capitalismo selvaggio degli impianti olimpici da una parte, le iniquità del vecchio comunismo dall’altra. Ho letto addirittura che la Cina resta tuttora «dov’era trenta, quaranta, cinquant’anni fa».

A questo punto sarà bene ricordare gli osanna che quarant’anni orsono, ai tempi del libretto rosso e del maoismo ruggente, si levavano dagli stessi ambienti progressisti che oggi denigrano la Cina solo perché non è più la Cina povera e terrorizzata delle «formiche blu» di allora. La Cina dei grandi balzi nella morte, quella che imitava in termini esponenziali asiatici le collettivizzazioni sovietiche, che falcidiava nelle carestie programmate decine di milioni di contadini espropriati, che incitava le guardie rosse imberbi a calpestare Confucio e trascinare nel fango i maestri anziani, non mi pare avesse mai suscitato in Europa lo stesso furor critico che invece attualmente suscitano Pechino e Shanghai inquinate dal capitalismo e dallo smog. I due pesi e le due misure appaiono, nel confronto, davvero stravolti.

La Cina che non offre più il modello di un’utopia alternativa, che va avanti e cresce per conto suo, che si democratizza a rilento senza badare troppo alle differenze tra capitalismo e comunismo, ha finito con l’attirare su di sé una sorta di astio ideologico vendicativo. Io ricordo lo squallore uniforme, da 1984 orwelliano, di Shanghai tutta vestita di blu, o la Macao Anni Settanta cui affluivano per i corsi d’acqua dal continente mucchi di cadaveri incatenati. Ritengo perciò che l’ondivaga emancipazione cinese, pur meritando qualche giusta e anche severa critica democratica, non meriti tuttavia l’affronto di provocazioni esibizionistiche che sembrano ignorare il rapporto tra l’inferno di ieri e il purgatorio di oggi.