venerdì 29 giugno 2012

Ingroia (non) dixit. Davide Giacalone

Ma si può, mentre corriamo verso ulteriori batoste economiche, mentre si disfa quel che resta delle istituzioni, mettersi a parlare di mafia, per giunta con riferimento a roba di venti anni fa? Si può continuare a disputare su una faccenda di cui, come giustamente (e per me tristemente) ha osservato ieri Maurizio Belpietro, non si capisce più niente e quelli che le sparano più grosse sono proprio quanti se ne dicono esperti? A dispetto di tutto, credo che la risposta sia affermativa. Di più: quelle storie disonorate e lo sbandamento di un enorme debito pubblico, riflesso di uno Stato elemosiniere e disfunzionale, sono figli della stessa storia, della stessa incapacità di adeguarsi alla fine della guerra fredda. Ieri Libero ha pubblicato una succosa intervista a Antonio Ingroia. Un concentrato di prelibatezze. Ne estraggo cinque.

1. Ingroia dà per accertato che le cosche mafiose, nel 1987, “voltarono le spalle alla Dc dando indicazione di votare per il Psi”, anche in ragione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Essendo io favorevole a quella responsabilità, ed essendo convinto che ai mafiosi non gliene importasse e non gliene importi un fico secco, obietto. In quell’anno il sindaco di Palermo era Leoluca Orlando Cascio, eletto nelle file della Democrazia cristiana, vogliamo dedurne che lo elessero i mafiosi? Tesi suggestiva, considerato anche che attaccava a testa bassa Giovanni Falcone e che ancora oggi è sindaco. Ma io la vedo diversamente: il potere elettorale della mafia è una suggestione. L’elettorato siciliano sbanda da anni, senza bisogno d’assistenza con coppola. Il fatto è che più si diffonde l’economia assistita più la sua intermediazione arricchisce, di potere e influenza, la zona grigia, fra malaffare e amministrazione pubblica. Se non fossimo in Sicilia si chiamerebbe in modo più comprensibile e lineare: clientelismo. Poi c’è il lato appalti, dove si commerciano soldi, non voti.

2. Dice Ingroia che i pentiti sono un’insidia, perché ti portano fuori strada. Parole sante, non a caso Giovanni Falcone si guardava bene dal credere loro sulla parola. Aggiunge Ingroia che Vincenzo Scarantino era così abile da ingannare tutti. Parole poco pensate, queste: Scarantino era un mentecatto, che ingannò solo quelli che volevano farsi ingannare. Un presunto mafioso che era, al tempo stesso, drogato e amante della “sdillabbrata”, travestito cui il mestiere aveva allargato la mente, e non solo quella. Lino Iannuzzi cominciò subito a scrivere che era una barzelletta. Noi, nel nostro piccolo, arrivammo dopo. Comunque assai prima di Gaspare Spatuzza, il quale sbugiardò la procura e le sentenze passate in giudicato. Buona la prima, quindi: fidarsi dei pentiti è pericoloso.

3. Dice Ingroia che i magistrati hanno diritto di far politica, come tutti gli altri. Tant’è che lui la fa. Buon pro gli faccia. Vorrei ricordare al “partigiano della Costituzione” quanto stabilito dall’articolo 98, terzo comma, della suddetta, secondo cui l’esercizio dell’attività politica (nel 1947 identificata con l’iscrizione ai partiti) poteva limitarsi per magistrati, militari, funzionari e agenti di polizia, diplomatici. Una ragione c’era e c’è. E’ così evidente che non mette conto dilungarsi.

4. Occhio alla chicca: secondo Ingroia sta bene che un magistrato si faccia eleggere, ma non sta affatto bene che si faccia nominare, magari assessore. Sta parlando dei suoi colleghi che siedono nella giunta di Raffaele Lombardo, presidente della Regione siciliana. Magari non solo di loro, ma anche di loro. Un messaggio che non oso considerare gergale, ma che segnala il non sopirsi delle guerre in quella procura. Poco male, perché le guerre vere furono quelle che costarono la sconfitta di Falcone e Paolo Borsellino.

5. In ultimo, ci buttiamo sul culturale: secondo Ingroia “il rapporto organico fra pezzi della classe dirigente e le élite criminali è provato (…) la mafia è stata tollerata o usata”. Vero. Vero qui come vero ovunque, naturalmente, perché i criminali, se non sono associazioni di sbandati, possono essere potere, di cui tenere conto. Meglio tenerne conto per combatterli che per accordarsi, ma comunque fanno parte della realtà. Nel mondo chiuso e pericolante, quello della guerra fredda, un criminale poteva essere preferibile a un nemico. Alla fine di quel periodo, è la mia opinione, si scoprì che alcuni criminali avevano fatto comunella con il nemico, al punto che mafia e Kgb usavano gli stessi canali di riciclaggio (e Falcone saltò in aria mentre collaborava ad un’indagine di quel tipo, sicché ancora s’attende che Luciano Violante, parlamentare comunista, spieghi le ragioni profonde che lo portarono ad avversare quello che poi ha celebrato come eroe). Ad ogni modo: quel mondo è finito, allo Stato si chiedono solo tre cose: repressione, repressione, repressione.

Per le ricostruzioni storiche ci sono i libri, per le visioni del mondo andate al cinema.

giovedì 28 giugno 2012

Il vicino islamista. Franco Venturini

Non inganni la pesante tutela impostagli dai militari, non porti fuori strada la definizione di «faraone dimezzato» che già molti hanno creduto di potergli attribuire: il fratello musulmano Mohammed Morsi, vincendo le elezioni presidenziali, ha cambiato la storia dell'Egitto. Morsi è il primo presidente che non viene dai ranghi dell'esercito o dell'aeronautica.

 Morsi è il primo esponente islamista del mondo arabo che diventa capo di Stato per via elettorale. Morsi, soprattutto, è il primo egiziano che riceve una maggioritaria legittimazione popolare da quando la primavera di piazza Tahrir ha spazzato via l'era Mubarak. Quanto basta per comprendere perché l'istituzione militare della vittoria di Morsi abbia avuto paura, perché l'abbia annunciata in ritardo quasi esitasse sul da farsi, e perché, nel tentativo di coprirsi le spalle, al responso delle urne abbia applicato un preventivo filtro di garanzia.

Ieri al Cairo prevalevano i sorrisi, i militari si congratulavano con il nuovo presidente, Morsi elogiava i militari, tutti insieme festeggiavano il balzo in avanti della transizione democratica. Ma il tempo delle cortesie, ora che la forza e la storia si confrontano e rischiano di scontrarsi, potrebbe durare poco. Prima i generali hanno sciolto il Parlamento a maggioranza islamista. Poi hanno stabilito che ai militari spetteranno il potere legislativo fino alle prossime elezioni e quello di controllo sul bilancio, che saranno loro a nominare la commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione, che non potrà mutare la composizione del Consiglio che ha finora governato l'Egitto, e che se dovesse sorgere qualche contrasto, ma sarà meglio che non sorga, a decidere sarà l'amica Corte suprema. Chiarito questo, la parola poteva passare alle urne.

Una farsa, se la storia non fosse di solito più potente della forza come proprio piazza Tahrir ha dimostrato. E così oggi è a Mohammed Morsi che dobbiamo guardare, è da lui che dovremo capire se la Fratellanza punterà al compromesso con i militari oppure se farà ricorso alla piazza per invalidarne i diktat, è da questo ingegnere formatosi negli Usa ma in passato propenso all'estremismo che dovremo cogliere segnali di rassicurazione o di allarme in un Mediterraneo ancora scosso, e talvolta insanguinato, dalle ricadute delle «primavere».

L'Italia ha da oggi un presidente islamista sull'uscio di casa, nel più popoloso e più influente Paese del mondo arabo. E continua ad avere davanti alla porta, beninteso, anche i suoi controllori in divisa. Sarebbe tempo perso pensare al '52, al golpe soffice dei militari contro Faruk, e credere che Morsi possa fare la stessa fine. Malgrado i tanti altri problemi che ci affliggono dobbiamo invece trovare la volontà di dialogare con entrambi gli schieramenti e favorire una loro intesa. Dobbiamo dire al presidente Morsi che noi stiamo con chi viene eletto ma che i nostri interessi e i nostri valori prevedono limiti invalicabili (dalla condizione della donna alla politica di pace verso Israele). Dobbiamo dire ai nostri soci europei che questo non è l'ennesimo problema dei «meridionali» della Ue, che fornire aiuti all'Egitto per stabilizzarlo è interesse di tutta l'Europa. Se avremo successo, la storia avanzerà. E i militari, forse, un giorno torneranno nelle caserme. (Corriere della Sera)

mercoledì 27 giugno 2012

In morte di Mubarak, dittatore per caso... Carlo Panella

Un destino beffardo consegna al coma profondo due generali che nel 1973 si combatterono con vigoria sulle sabbie del Sinai: l’israeliano Ariel Sharon, in coma dal 2006 e oggi l’egiziano Hosni Mubarak. Ma quando Sharon morirà, il suo popolo, e anche i suoi non pochi avversari, lo piangeranno come un eroe. Così non sarà certo per Mubarak, che ha conosciuto la polvere del tiranno abbattuto e l’umiliazione del carcere, sì che ha palesemente cessato di voler vivere e ora, lentamente, muore. Certo è che se vi è stato nella storia un “dittatore per caso” questi è stato proprio Mubarak che si trovò letteralmente tra le mani tutto il potere sull’Egitto solo e unicamente a seguito dell’attentato del 6 ottobre 1981 in cui fu ucciso al Cairo il presidente Anwar el Sadat. Gli attentatori, infatti dimostrando di non avere buona mira, pur avendo diretto sventagliate di mitra anche contro di lui sul palco in cui assisteva ad una parata militare, fianco a fianco di Sadat, lo ferirono solo, e non gravemente. Mubarak divenne presidente e padrone dell’Egitto per caso e quasi per errore: era stato infati nominato 6 anni prima vicepresidente per una ragione sostanziale: era politicamente non debole, debolissimo, e non poteva dare la minima ombra né il minimo fastidio ad un Sadat dalla personalità di livello storico (fu lui a volare nel 1976, senza avvertire nessuno a parlare nella Knesseth di Gerusalemme e a firmare a Camp David con Menahem Begin la storica pace con Israele nel 1979). L’unico punto a suo favore era stato l’avere comandato l’Aviazione durante la guerra del Kippur del 1973. Mubarak comprese subito quello che doveva fare quando il potere gli cadde in grembo: nulla. E lo fece. Si limitò a proclamare lo stato d’emergenza (durato per 21 anni) e a continuare inerzialmente la politica di Sadat in ogni campo. Sul piano internazionale, mantenne fede agli impegni presi con Israele e continuò a garantire che l’Egitto non avrebbe mai più fatto una guerra con lo Stato Ebraico (da qui il dispiacere di Israele per la sua dipartita dal potere). Il tutto in sempre più stretto raccordo con gli Usa, che peraltro gli hanno garantito 2 miliardi di dollari l’anno di aiuti. Questo gli ha garantito all’estero una immeritata fama di “dittatore illuminato”, rafforzata dalla frenetica attività di public relations svolta sul jet set dalla moglie Suzanne (amica personale di Danielle Mitterrand e di Hillary Clinton che definì infatti Mubarak, a piazza Tharir già bagnata di sangue “un amico di famiglia”…). Quanto alla questione palestinese: unica preoccupazione sua è stata impedire il contagio di Hamas dalla striscia di Gaza all’Egitto (la chiusura del maggior numero dei valichi era operata dagli egiziani). Non per caso è così sempre fallito ogni tentativo –ad opera del suo “Jago”, Omar Suleiman, per 20 anni suo braccio destro e nel 2011 autore della congiura di Palazzo che l’ha detronizzato- persino di far fare la pace tra Abu Mazen e Hamas, prima, durante e dopo la guerra civile fratricida e sanguinaria che li ha opposti e tuttora li oppone.

Sul piano politico –questo sfugge agli analisti che definirono il suo Egitto uno Stato “laico”- in tanto continuò nella tradizione che fu di Nasser e di Sadat di perseguitare i Fratelli Musulmani, in quanto recepì sempre di più la loro agenda, le loro istanze politiche (ma non quelle sociali). Già Sadat aveva riformato nel 1980 la Costituzione stabilendo che la Sharia non era più “una” ma “l’unica” fonte di ispirazione della legislazione e Mubarak ha poi favorito una legislazione che sempre più ha modificato la legge in senso shariatico, imponendo poi alla Corte Costituzionale sentenze di interpretazione delle norme sempre più ispirate alla sharia, sì che oggi, ben poche riforme islamiste dei codici restano da fare agli islamisti, pur vinte le elezioni. La affiliazione del suo partito Pnd, alla Internazionale Socialista (spesso ribadita con orgoglio da Giuliano Amato) era dunque tanto fuori luogo, quanto grottesca. Mubarak si guardò bene soprattutto dal riformare l’economia egiziana che si basava e si basa tuttora su uno strano “condominio” tra un “capitalismo di Stato” e alcune grandi famiglie (anche di religione copta). Un “capitalismo di Stato” gestito in prima persona dai generali, che concorre per il 30-40% al Pil è prodotto da società (incluse immobiliari, agricole, telecomunicazioni, meccaniche e turistiche) di proprietà formale delle Forze Armate, dirette da generali in pensione (a 50 anni!), e in cui una grande peso hanno i proventi del Canale di Suez e il petrolio. Le grandi famiglie egiziane, formatesi dalla fine ‘800 in poi grazie al capitale sedimentato dallo sfruttamento agricolo del Delta del Nilo, (Highazi, Azzam, Tawil, Shazli, Sultan Khamis, Sawiris, Ghali ecc….), hanno continuato ad agire indisturbate, allargando semmai la loro influenza sugli spiccioli di “privatizzazioni” che, malvolentieri Mubarak ha attuato. Immobile, Mubarak, lo è stato soprattutto sul piano politico interno, là dove non ha mai permesso che si aprissero spazi di democrazia, ha sempre manipolato le elezioni –quando le convocava- e ha sempre cacciato in galera gli oppositori, laici o islamisti che fossero

Una e una sola è stata la sua mossa politica “di coraggio”, che l’ha poi consegnato alla sua triste fine: rompere platealmente l’accordo con gli Usa quando George W. Bush tentò di coinvolgerlo nella sua Freedom Agenda. Sfida frontale, che lo portò nel 2004 a disertare il G8 di Savannah in cui fu approvata la Greater Middle East Initiative, per organizzare a Alessandria un penoso convegno di “intellettuali arabi” che decretò che libertà di stampa, istruzione per tutti, diritti delle donne e democrazia politica auspicati da Bush come “estranei alla tradizione araba e islamica”. Nel 2005, per punirlo, Bush presentò al Congresso una legge per sospendere i 2 miliardi di dollari annui di aiuti Usa e Mubarak dovette allora inscenare la sua prima elezione –fasulla- per voto popolare. A seguire, nessuna riforma, inerzia, gestione autocratica del potere e intrighi per portare il figlio Gamal alla successione dinastica. Sino a quando i suoi stessi generali non l’hanno deposto e cacciato in quella galera da cui ora può fuggire solo con il coma e la morte.

martedì 26 giugno 2012

L'assurda Tobin Tax. Nicola Porro

Le cattive idee davvero non muoiono mai. E una di esse ci perseguita da più di un secolo. Si chiama tassa sulle transazioni finanziarie. Praticamente tutti la attribuiscono al Nobel per l’economia, Tobin. Questa tassa è tra le più assurde che ci si possa immaginare. Tanto per servire l’antipasto diciamo subito che il suo massimo successo equivale alla sua morte. La Tobin tax, ideona che hanno spolverato i quattro dell’Ave Maria nel vertice di Roma, è infatti un’imposta etica. Essa viene per lo più propagandata e proposta per colpire l’orribile speculazione, i banchieri che la alimentano, e i commercianti finanziari che ne godono. È una sorta di tassa sulla prostituzione finanziaria. Bene. Anzi male. Essa si applicherebbe (le formule come le fantasie erotiche sono molteplici) a tutte le transazioni finanziarie: allo 0,1 per cento su azioni e obbligazioni e allo 0,001 sui derivati, secondo alcune vecchie proposte europee. Dicevamo che è un’imposta suicida. Il suo massimo successo, debellare l’orribile speculazione, ne ucciderebbe il gettito. Trovate un’imposta simile, e vincerete un premio: mica si tassano i consumi e i redditi per farli sparire.

Oltre a questa contraddizione metodologica (è imposta finanziaria o regola morale?), essa è del tutto inutile. È da almeno cento anni che lo sappiamo. Alla fine del ’900 gli americani si inventarono una tassa sulla compravendita dell’oro, per bloccarne la speculazione: il prezzo del metallo andò alle stelle. La Francia a inizio secolo introdusse il droit de transmission: le società scapparono dal suo mercato borsistico. Gli esempi possono continuare, ma la sostanza resta. Vediamola.

Pensare di tassare la finanza in un’area geografica definita è irrazionale. Le transazioni si sposterebbero verso quelle piazze finanziarie che avrebbero tutto il vantaggio di fare concorrenza fiscale. Londra ha già detto (da quelle parti oggi si fa il 36 per cento del mercato all’ingrosso) di non pensarci un istante alla tassa. Come spesso avviene in questi casi, l’effetto paradossale di una Tobin tax continentale sarebbe quello di pizzicare solo i patrimoni più sottili, che avrebbero inizialmente maggiori costi di transazione nell’andare in piazze fiscalmente a loro più convenienti. Da tassa sui ricchi speculatori assumerebbe i contorni di imposta sul risparmio dei più poveri.

L’alternativa, oggi meno probabile per la diffusione della tecnologia, sarebbe paradossale. Lo Stato di New York nel 1905 introdusse una piccola tassa sulle transazioni azionarie. I trader nel giro di un anno decuplicarono le loro operazioni finanziarie. Il motivo era semplice: per mantenere il livello di commissioni dovettero aumentare i volumi speculati. Si ottenne il risultato opposto a quello per cui era stata pensata la tassa. Dubito che ciò avverrebbe oggi, sarebbe più semplice andare a fare affari dove costa meno.

Ma perché i politici di mezzo mondo insistono allora su questa tassa per loro miracolosa, ma concretamente assurda? Non sono pazzi, sono furbi. L’indice di popolarità della Tobin tax è direttamente proporzionale alla crisi della politica. È il modo migliore per attribuire ad altri colpe proprie. Gli altri sono sempre gli speculatori, i banchieri, i trader e baggianate del genere. Non che non abbiano le loro colpe. Ma le regole le fa la politica. E l’introduzione di una tassa che li vada a colpire è il modo più semplice per individuare un nemico, colpirlo e lavarsi così la propria cattiva coscienza. L’America di Obama ha accarezzato la Tobin tax quando i ragazzi di Occupy si presentavano, oltre che al lussuoso Bowery hotel, anche a Wall Street. E l’Europa la rispolvera quando è costretta a salvare se stessa e le banche. Un’ultima modesta obiezione. Come pensate si possano distinguere le transazioni fatte dal vostro fondo comune di investimento o dal vostro gestore da quelle di Gordon Gekko?

Semplice, non si distinguono: tassate entrambe. Quando quattro politici si mettono intorno a un tavolo e pensano che l’unica soluzione ai nostri problemi sia un po’ di spesa pubblica in più e una tassa nuova, è il momento di preoccuparsi: non hanno un’idea in croce. (il Giornale)

giovedì 21 giugno 2012

Il problema del Pdl? Mancano le idee. Vittorio Feltri

Nella presente congiun­tu­ra abbiamo l’impressione che i partiti si preoccupi­no poco o niente delle cose da fare e molto delle pol­trone, forse perché, a differenza dei problemi, sono in via d’estinzione


Da anni siamo accusati di essere servi di Silvio Berlusconi e non abbiamo modo di difenderci. I nostri argomenti non so­no presi in considerazione. Adesso che quelli di Repubblica , Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro in testa, fondano un partito (o lista civica o come lo si voglia chiamare) dichiaratamente di sinistra, desti­nato a fiancheggiare o dirigere il Pd, dipende dai pun­ti di vista, ci domandiamo: sono anche loro servi di qualcuno, magari di Pier Luigi Bersani, o questi è un servo del giornale romano? Misteri della stampa ita­liana. Comunque ci sentiamo meno soli. E andrem­mo avanti per la nostra strada, se ne avessimo una. In­vece assistiamo sbigottiti alla lotta per le primarie. Già. Le primarie. Un tempo non piacevano a nessu­no, ora piacciono a tutti, specialmente nelle maggio­ri (si fa per dire: occhio a Grillo) forze politiche. Il Pd le ha adottate subito con risultati punto entusia­smanti per i propri candidati, regolarmente battuti da gente estranea alla nomenclatura: Giuliano Pisa­pia e Marco Doria, per citare due personaggi di peso. Anche il Pdl recentemente ha deciso di regalarsi que­sto tipo di avanspettacolo elettorale, nella speranza di divertire i propri aficionados, sempre meno nume­rosi, stando almeno ai sondaggi di cui il Cavaliere è stato un anticipatore nell’utilizzo finale. Un eccesso di democrazia non disturba mai: si fac­ciano le primarie, così siamo tutti felici e contenti. Ma siamo sicuri che i candidati sia del Pd sia del Pdl abbiano ciascuno un programma idoneo a incanta­re gli elettori? Non sembra.

Nella presente congiun­tu­ra abbiamo l’impressione che i partiti si preoccupi­no poco o niente delle cose da fare e molto delle pol­trone, forse perché, a differenza dei problemi, sono in via d’estinzione. Infatti, i consensi per la destra e per la sinistra calano. Di conseguenza, in caso di con­sultazioni, caleranno anche, e di parecchio, i seggi di­sponibili per entrambi gli schieramenti. Dei quali fa­rà quindi incetta il Movimento 5 stelle, come si evin­ce dalle ricerche demoscopiche. I progressisti hanno qualche idea, pur sbagliata e in contrasto con la loro tradizione: si sono venduti ai banchieri sostenitori dell’Unione europea e dell’eu­ro, le cui finalità sono note; la principale, distruggere le peculiarità culturali delle nazioni e promuovere la finanza predatoria, affinché questa diventi il motore del mondo. D’altronde,la crisi è stata provocata dal­le banche dispensatrici di titoli tossici e di bolle. La destra, invece, annaspa nel vago. Non ha capito che se i ric­chi stanno con la sinistra, c’è qualco­sa che non va nei ricchi o nella sini­stra. Un’alleanza scellerata. I dirigen­ti del Popolo della libertà, anziché te­nere il piede in due scarpe (europei­smo e antieuropeismo), dovrebbero scegliere una linea politica antitetica rispetto a quella degli avversari, pren­dendo atto che la stragrande maggio­ranza degli italiani non ne può più del­l’euro e dei suoi stolti padrini. Un par­tito che non interpreti il comune senti­re del proprio elettorato si apparec­chia per non avere successo.

Un Pdl né carne né pesce, incerto e litigioso al proprio interno, dove trion­fano i cacciatori di poltrone di risulta, non è in grado di guadagnare punti, ma si predispone a perderne ulterior­mente. In mancanza di una scelta net­ta contro una Ue senza capo né coda, esso agevola soltanto Beppe Grillo, il quale ha davanti a sé una prateria da occupare, non avendo concorrenti. Lasciare a lui l’esclusiva dell’antieuro­peismo ( e non solo) significa per i ber­lusconiani rinunciare a essere alter­nativi al Pd e ai neoservi che lo sosten­gono. Non è una novità: in politica è competitivo un gruppo ben connota­to, distinguibile dalla massa grigia che tira a campare. E non è opponen­dosi al divorzio breve e al matrimonio fra gay che il Pdl riconquista i propri elettori o ne raccoglie di nuovi.

Figuriamoci, in un periodo come questo, quando anche la Chiesa è in disarmo a causa delle risapute vicen­de, reggere la coda ai preti non paga, forse addirittura penalizza. È comico definirsi liberali ma poi non essere in­dipendenti nell’aprire la società a ri­chieste pressanti provenienti dal bas­so e altrove accolte, guardando al Vati­cano come se fosse un faro in materia di diritti civili. Il problema, caro Ange­lino Alfano, è darsi una politica origi­nale e convincente nei suoi principi, non selezionare un candidato pre­mier che, con questi chiari di luna, e con un partito malconcio, non potreb­be mai vincere alle urne. (il Giornale)

L'assalto alla diligenza degli esodati. Federico Punzi

La vicenda dei cosiddetti "esodati" è paradigmatica del caso Italia: da una parte un governo in confusione, incapace di difendere le proprie decisioni; dall'altra, forze politiche e sociali irresponsabili, portatrici della stessa cultura che ha spinto la Grecia, e rischia di spingere anche noi, nel baratro del default. Complici i media, i sindacati sono riusciti a far passare gli esodati come vittime cui viene improvvisamente negato un diritto acquisito.

Proviamo a vedere il problema da un'altra prospettiva. In realtà, dietro la pratica dello "scivolo" si nasconde una vera e propria truffa ideologica, escogitata tra impresa, lavoratore e sindacati, ai danni dello Stato, dei contribuenti. Al lavoratore che accetta la risoluzione consensuale del rapporto viene riconosciuto dall'azienda un incentivo economico che, sommato o meno alla cassa integrazione o alla mobilità, lo accompagna alla pensione garantendogli una sostanziale continuità di reddito. Attraverso questo escamotage l'azienda può ristrutturarsi, in pratica diminuire il numero dei propri dipendenti, alleggerendo così il costo della componente lavoro, senza conflitti, anzi con la benedizione dei sindacati; i lavoratori dal canto loro ottengono di fatto un prepensionamento.

Ecco, dunque, la prima truffa: sussidi concepiti per accompagnare il lavoratore da un posto di lavoro ad un altro, o aiutarlo nel periodo che lo separa dal reinserimento nello stesso, in ogni modo per salvaguardare i livelli di occupazione, vengono invece utilizzati per incentivare l'uscita anticipata dal mondo del lavoro, cioè l'inoccupazione, uno dei mali che più affligge la nostra economia. Se l'età di pensionamento slitta in avanti, alcuni anni non sono coperti né dal cosiddetto scivolo né dalla pensione, e si crea il "dramma" degli esodati. Ma la riforma delle pensioni non cambia i termini dell'accordo tra azienda e lavoratore, bensì il contesto normativo che ha reso conveniente ad entrambi quell'accordo: la vicinanza della sospirata pensione. Nell'affrontare il problema, bisognerebbe partire dal fatto che gli esodati non sono vittime, semmai privilegiati o aspiranti tali, la cui figura tipo è quella del cinquantenne che la mattina se ne va al circolo sportivo mentre i suoi coetanei, ormai la maggior parte di essi, per non parlare dei giovani, dovranno lavorare dieci anni in più di lui.

E non si può rivendicare come diritto un'escamotage che ha prodotto intere classi di privilegiati. Il buon senso impone tuttavia di trovare una soluzione per coloro che abbiano già stipulato accordi di questo tipo con le loro aziende, che siano molto prossimi all'uscita dal lavoro concordata e alla pensione. Il governo ha fatto di più, garantendo nel decreto salva-Italia risorse per tutti coloro che avrebbero raggiunto, con le vecchie regole, i requisiti di pensionamento entro i prossimi due anni (circa 65 mila). Non contenti i sindacati - e qui c'è la seconda truffa - hanno strumentalizzato il problema, cercando di far passare per "esodati" anche tutti quelli che, lungi dall'aver sottoscritto un accordo, nutrono semplicemente l'aspettativa di andare in pensione prima degli anni previsti, magari solo perché l'azienda ha prospettato loro questa comoda modalità d'uscita. Il dato di oltre 390 mila fatto trapelare dall'Inps (bisognerebbe poi chiedersi se l'Inps abbia interesse a "gonfiare" il fenomeno, magari per ottenere maggiori trasferimenti) non riguarda solo gli esodati, ma i disoccupati cinquantenni che anziché cercarsi un altro lavoro hanno in qualche modo "scommesso" che avrebbero raggiunto l'età pensionabile nell'arco di pochi anni. Un problema di welfare, dunque, non di previdenza. Riempire questo vuoto di reddito semplicemente staccando un assegno pensionistico significherebbe continuare ad usare la pensione come ammortizzatore sociale. E allargare la "salvaguardia" ai 400 mila di cui si parla equivarrebbe, conti alla mano, a sabotare la riforma delle pensioni. Insomma, quello in corso è un vero e proprio assalto alla diligenza, cioè alle casse dello Stato.

La colpa del ministro Fornero (e del governo) è quella di mostrarsi intimidita, sulla difensiva. Invece di piagnucolare e irritarsi, dovrebbe far emergere la realtà del privilegio che si vuole perpetuare, portare a conoscenza dell'opinione pubblica i casi concreti: l'età degli esodandi, gli anni che li separano dalla pensione, le aziende che usufruiscono di questi accordi (di solito partecipate dallo Stato, le Poste, le banche, i grandi gruppi industriali). E spiegare che permettere a 400 mila cinquantenni di andarsene in pensione anticipata in deroga alla riforma appena approvata, che vale, invece, per milioni di loro concittadini - dipendenti di piccole imprese, artigiani, commercianti, precari senza lavoro o che stanno per perderlo, senza alcuno scivolo - questo sì, sarebbe scandaloso, immorale. (l'Opinione)

martedì 19 giugno 2012

Il nocchiero e i pirati. Luca Ricolfi

Su Monti e il suo governo le opinioni ma anche i sentimenti - divergono. C’è chi vede il professore come colui che ci ha finalmente liberato dal teatrino della politica (e da Berlusconi), e chi lo vede come il tecnocrate che sta imponendo un’inutile austerità a un Paese già stremato. C’è chi lo vorrebbe più socialdemocratico e chi lo vorrebbe più liberale. C’è chi plaude ad ogni atto del suo governo, e chi trova da ridire su quasi tutto.

Personalmente sono passato da un sostegno colmo di speranza (primi mesi), a un dissenso colmo di delusione (ultimi mesi). Ma qui vorrei lasciar perdere quel che rende diverso l’atteggiamento di ognuno di noi, cittadini, studiosi, osservatori, e vorrei concentrarmi sui sentimenti e i pensieri più condivisi, quelli che vanno al di là degli schieramenti e delle manie personali. C’è qualcosa che in molti, forse la maggioranza, pensiamo del governo Monti?

Sì, credo di sì, ci sono parecchie cose che pensiamo e parecchie cose che vorremmo. Una prima cosa è che al momento - non ci sono alternative migliori, più credibili, più affidabili. Specie a livello europeo, Monti è la persona che più autorevolmente può difendere, ed effettivamente difende, gli interessi dell’Italia.

Certo questo non lo pensano tutti, ma credo sia piuttosto difficile per chiunque immaginare che uno qualsiasi dei leader o degli aspiranti leader politici di questo Paese possa fare meglio e di più di Monti nel complesso negoziato in corso fra i maggiori paesi europei.

Ma oltre alle cose che in molti pensiamo, ci sono le cose che in molti vorremmo, al di là delle differenze di opinione sulla politica economica del governo. E queste sono cose per lo più critiche verso il governo, ma di un tipo di critica che va al di là delle differenze fra schieramenti e fra concezioni generali del bene pubblico. Che cosa non ci è piaciuto di questo governo? Che cosa non vorremmo più vedere nei prossimi mesi? Credo che queste cose si possano sintetizzare in due punti fondamentali.

Primo punto. Meno annunci, meno approssimazioni, meno personalismi dei ministri, meno marce indietro, in una parola: più fatti, meno parole. Fa una gran brutta impressione la promessa di fare una riforma incisiva entro pochi mesi, e poi il solito temporeggiare, indietreggiare, rimodulare, demandare, delegare. Certe riforme si possono anche non fare, ma se dici di farle entro 3 mesi poi le devi fare, devi stare nei tempi, e devi farle sul serio. Se non sei in grado, meglio non fare niente. Dice nulla il fatto che lo spread sia migliorato nei primi mesi dell’anno, quando l’immagine riformatrice del governo era ancora intatta, e sia sistematicamente peggiorato quando si è capito - l’abbiamo capito tutti, e quindi anche i mercati che il governo, come avrebbe detto il buon Berlinguer, aveva perso la sua «spinta propulsiva»?

Secondo punto. Più autonomia dai partiti che lo sostengono. Sulle nomine, sul disegno di legge anti-corruzione, sui costi della politica, sulla riforma della pubblica amministrazione, il governo ha subito costantemente il condizionamento dei partiti. Come cittadino, io mi sento profondamente offeso e preso in giro da un governo che, presumibilmente per volere del ceto politico, non trova il coraggio di varare una norma che proibisce ai condannati definitivi di candidarsi alle elezioni del 2013. E come studioso di cose elettorali mi stupisco che i sondaggi assegnino a Beppe Grillo solo il 21% dei consensi. Siamo davvero un popolo paziente se alla politica consentiamo tutto, forse distratti dal campionato europeo di calcio.

Ma personalmente non credo che Grillo sia la soluzione. Grillo è un termometro, che ancora imperfettamente ma inesorabilmente registra l’aumento della febbre anti-partitica dell’elettorato. Per questo trovo incredibile che i partiti non se ne accorgano, e continuino a regalargli consensi che difficilmente saranno in grado di risolvere i problemi dell’Italia. E ancora più incredibile trovo il fatto che questo governo, che non è composto da politici in carriera (salvo qualche ministro che ci sta facendo un pensierino), non separi chiaramente le sue responsabilità da quelle dei partiti. Non solo sulle nomine, sui costi della politica, sui privilegi della casta, ma sulle cose che davvero possono cambiare la vita degli italiani, ossia su quelle riforme radicali di cui da vent’anni si parla e di cui lo stesso Monti era un convinto sostenitore finché parlava dalle colonne del "Corriere della Sera".

Ci dica, signor presidente del Consiglio, che cosa farebbe lei, e in quali tempi lo farebbe, se i partiti che la sostengono le dessero il permesso di farlo. Separi le sue responsabilità da quelle dei partiti, se non altro per un dovere di chiarezza e di trasparenza nei confronti dei cittadini. Usi la sua forza - la forza di essere difficile da sostituire con un’alternativa migliore - per fare quel che ritiene debba essere fatto per il bene dell’Italia. Come elettori, vogliamo sapere se quel che non si fa è perché lei non lo ritiene utile al Paese, o perché il ceto politico le lega le mani, o perché a remarle contro sono la burocrazia, le banche, la Confindustria, i sindacati.

Anziché lamentarsi più o meno cripticamente dei poteri forti che l’avrebbero abbandonata, ci dica che cosa lei farebbe e chi glielo impedisce. A partire dal problema della eleggibilità dei condannati definitivi ma anche su tutto il resto (le riforme strutturali), che conta di meno sul piano morale ma conta di più sul piano pratico. Perché siamo in un periodo di grande confusione, di grande disorientamento, e proprio per questo abbiamo bisogno di sapere, di capire. La stampa può essere più o meno tenera con lei. Dentro il medesimo giornale lei troverà osservatori che la difendono ed osservatori che la criticano. Ma credo che tutti, senza distinzione, almeno un desiderio in comune ce l’abbiamo: più chiarezza. Chiarezza sulla rotta del nocchiero, notizie sui pirati che ne minacciano la navigazione. (la Stampa)

Voto europeo. Davide Giacalone

Greci e francesi hanno reso un servizio all’Europa. Il loro voto è stato saggio, ora tocca a noi. Con il prossimo 28 giugno termina la missione del governo presieduto da Mario Monti. Non è un problema di partiti o di fazioni, di simpatie o antipatie, prevale la necessità di comprendere il cambiamento dello scenario e che l’Italia, Paese fondamentale nella costruzione europea e decisivo per la sorte dell’euro, non resti l’unico commissariato, l’unico irresponsabile, l’unico malato che preferisca la corsia d’ospedale al riprendere la vita.

I greci non hanno ceduto all’ultima provocazione di Angela Merkel (cui la storia riserverà un posto d’onore, fra i nemici dell’Europa), non hanno reagito alle sue battutacce e alle sue ingerenze votando quanti promettono di mandare al diavolo lei con tutta l’Europa e l’euro. Hanno dato la maggioranza relativa ai conservatori e consegnato una quota consistente di voti ai socialisti, indicando la via per l’immediato futuro: una coalizione che ribadisca l’intenzione di restare nella moneta unica. Questo voto toglie un alibi a quanti hanno creduto possibile dividere la moneta dalla sorte politica e storica dell’Unione europea. I greci non hanno annunciato di volere uscire dall’euro, anzi, all’opposto, hanno confermato la loro opinione di ieri (e noi confermiamo la condanna per quanti impedirono il referendum popolare, che avrebbe fatto risparmiare tempo e denaro). I greci non escono, semmai si deve buttarli fuori. Ma se li si butta fuori l’Europa è finita. Dobbiamo loro un grazie, di cuore.

I francesi non hanno indebolito il presidente appena eletto, consegnandogli la maggioranza assoluta degli eletti in Parlamento. In questo modo anche loro cancellano un alibi: non vince l’indecisione o la frammentazione politica, non prevalgono i pur forti movimenti di rifiuto e di protesta, la Francia ribadisce la propria posizione europea: avanti con il processo d’integrazione, ma che non sia e non sarà un processo germanico d’annessione. Il voto socialista non parla al futuro, perché il programma di Hollande è un residuato del passato, ma mette le cose in chiaro per il presente: l’asse franco-tedesco, che ha accompagnato la storia degli ultimi decenni europei, potrà reggere se cambierà la politica tedesca.

Francesi e greci fanno da sponda alle forze politiche e ai leaders tedeschi che hanno ben visto la trappola in cui il governo del loro Paese, con arroganza e senza senso della storia, s’è andato a cacciare. Il voto di domenica scorsa apre la campagna elettorale in Germania. Il prossimo 28 giugno sapremo se la Merkel intende giocarla su una linea anti-europea, così facendo da gemella ai movimenti cui ha tirato la volata, scassando la politica di altri Paesi europei, o se residua la voglia d’incarnare un ruolo da statista, correggendo la linea e aprendo la stagione di un euro più politico, premessa di un’Unione più potente.

Il governo Monti è nato per assecondare le pretese tedesche. Che non erano e non sono infondate. Le critiche alla nostra spesa pubblica e al nostro debito pubblico sono serie e condivisibili, ma non possono essere utilizzate per accrescere il vantaggio indebito della Germania. A Monti si sono offerti due compiti: a. segnalare ai mercati che l’Italia avrebbe rispettato gli impegni presi con la Banca centrale europea; b. riformare il Paese annientando l’inconcludenza e l’incapacità dei partiti. La prima cosa è riuscita nell’immediato, ma si è indebolita subito dopo, quando è stato chiaro (e come poteva essere diversamente?) che la seconda era una pretesa impossibile, oltre che antidemocratica. Da mesi il governo non fa che parlare a vuoto, spesso dicendo anche sesquipedali castronerie. Si attenda il 28, poi basta.

E dopo? Non credo il Quirinale sia disposto a concedere il voto, da tempo preso in ostaggio da una visione assai personalistica delle istituzioni, né le forze maggiori lo reclamano, per paura. Sarebbe la via maestra, come i greci hanno dimostrato, e prima di loro gli spagnoli. La partita europea è politica, non può essere affidata a personale autoreferente e democraticamente debolissimo. Si può cambiare compagine ministeriale: resta Monti, entrano i tre partiti e, mettendoci uomini e faccia, chiudono in sei mesi le riforme che contano, lasciando quelle costituzionali alla prossima legislatura. Temono, mettendosi assieme e vincolandosi per il futuro (il patto deve essere esplicito), di perdere la forza per contrastare il voto di rifiuto, di protesta e di generale “vaffa”. Spero capiscano che è proprio tale loro viltà, tale totale mancanza di visione del futuro e di senso di responsabilità, ad alimentarlo.

venerdì 15 giugno 2012

Sono diventato di destra? FR

Queste riflessioni s’intendono rivolte a me stesso e agli amici. Chi mi considera da tempo un traditore può astenersi dal continuare la lettura. I suoi insulti li conosco già. Ed è proprio da questi insulti che voglio cominciare. [Per i fan di Mad Men: attenzione, questo post contiene uno spoiler!]

Quando entrai per la prima volta nell’ufficio di Claudio Velardi al secondo piano di Botteghe Oscure, nella stanza che era stata di Enrico Berlinguer e che sarebbe poi diventata la mia (una parabola niente male), alla parete c’era un ritratto di Tony Blair con una sua frase che diceva più o meno così: “Chi prova a cambiare è sempre accusato di tradimento”. Era il 1996, la sinistra si apprestava a vincere per la prima volta le elezioni, e Massimo D’Alema pubblicava un libro intitolato, programmaticamente, Un paese normale.

Intorno a D’Alema si raccolse un gruppetto eterogeneo e vivacemente pluralista, al cui interno però l’impronta liberale era netta: basterà ricordare il nome di Nicola Rossi, che oggi presiede il Bruno Leoni. La mission era complessa ma, anche, incredibilmente semplice: modernizzare la sinistra era la premessa per modernizzare l’Italia e battere – sul terreno dell’innovazione – l’offerta berlusconiana. Bisognava dunque essere (come Tony Blair) più liberali di Forza Italia: aprirsi alle professioni, al merito, alla creatività, all’individualismo, e insomma ad un’idea moderna e dinamica di libertà civile, politica ed economica.

Si potrà discutere a lungo sul fallimento clamoroso, totale e definitivo di quella battaglia, accusando di volta in volta il conservatorismo della sinistra o l’inciucio con Berlusconi, l’inadeguatezza di D’Alema o il cinismo dei suoi avversari, il giustizialismo o il partito di Repubblica: a me però interessa il risultato. E il risultato è che la sinistra italiana, dopo il fallimento del dalemismo e la troppo breve stagione di Veltroni, ha chiuso la sua partita con la modernità. Ha deciso di tornare al XX secolo, all’idea rassicurante del Welfare universale, alla pedagogia statalista e al dirigismo, e persino (purtroppo) al moralismo e al giustizialismo, che davvero con la sinistra non c’entrano nulla.

Insomma, abbiamo perso. Parlo per me, non voglio fare il cantore di una generazione disillusa: io ho perso. Ho creduto nella possibilità della sinistra italiana di rinnovarsi, e ho perso. Ci ho creduto nell’89, quando da entusiasta occhettiano resocontavo sull’Unità i discorsi della “svolta” che avrebbe dovuto portarci “oltre la tradizione socialdemocratica”, e ci ho creduto nel ’96, quando sono entrato nello staff. È andata in tutt’altro modo: hanno vinto gli altri. Io continuo a chiamarli “i conservatori”, ma in realtà sono semplicemente la sinistra reale, quella che c’è.

È tempo che ne prenda atto, con serenità: del resto, io e la sinistra ci siamo reciprocamente dati molto, ci siamo voluti bene, è stata la mia famiglia e la mia casa dai tempi del liceo, e non c’è motivo per provare rancore.

***

Dunque io non sono più di sinistra, ma non sono cambiato: è cambiata la sinistra. So bene che questa frase è il motto di tutti i voltagabbana, ma soggettivamente, per i motivi che ho provato a spiegare prima, io la vedo così. Ho radicalizzato qualche posizione, ho scoperto il buddhismo, John Locke e il pensiero libertario, passo più ore con gli animali che con gli umani, ma in fondo la penso sempre allo stesso modo: l’unica cosa importante è la mia libertà, perché la mia libertà è la condizione della libertà di tutti.

È vero, i comunisti (e i socialisti, e prima di loro Rousseau) hanno sempre sostenuto il contrario: che la libertà di tutti è la condizione della libertà di ciascuno. Ma qui, scavando nella memoria alla ricerca di una giustificazione, rischiamo di perderci. Dirò soltanto che per uno studente borghese di Torino entrare nel Pci, negli anni Settanta, significava attraversare lo specchio, incontrare l’altra metà del mondo: gli operai. Sebbene il Pci fosse pieno di borghesi, la centralità operaia rendeva l’ingresso nel partito un’autentica rottura di classe, una rottura di libertà. Sono diventato comunista per la libertà, non per l’ordine: l’ordine mi ha sempre dato fastidio, a me piaceva l’idea di rivoluzione (e di questo si ricorderà anche Mario Lavia, mio compagno di banco alla Fgci nazionale, che mi ha dedicato un ritratto agrodolce su Europa).

Vabbè, è andata come è andata. Fa anche un po’ ridere parlarne come se fosse così importante. Ma per andare avanti, come ci ha spiegato il finale di Lost, bisogna lasciar andare le cose che sono state.

Ora che non sono più di sinistra, dovrò essere per forza di destra. È la natura bipolare della nostra mente che ci costringe a ragionare così (se avessimo tre mani, la nostra visione del mondo sarebbe più complessa), e io non posso andare contro la natura. Potrei argomentare per ore come la posizione libertaria sia alternativa tanto alla sinistra quanto alla destra così come si sono storicamente determinate, ma sarebbe tempo sprecato. Chi lo sa già, lo sa benissimo; gli altri restano bipolari.

Se però dico “destra”, siccome sono di sinistra, mi vengono subito in mente i fascisti. La mia generazione è cresciuta con l’idea che la destra fosse sempre e comunque violenta e totalitaria, e che la cultura fosse tutta e sempre di sinistra (per leggere Nietzsche abbiamo dovuto aspettare che Vattimo ci spiegasse la sua compatibilità col marxismo, che a sua volta aveva già inghiottito Freud). Ovviamente non è così, ma una parte di me continua a pensarlo, istintivamente.

***

Per fortuna che c’è l’America. È andando spesso negli Stati Uniti che ho capito che cos’è la libertà: non la semplice libertà politica, ma la libertà come modalità costante di comportamento, di giudizio e di azione, come paradigma e come ethos pubblico condiviso. Anche qui, non voglio convincere nessuno: gli antiamericani sono tanti e agguerriti, e quasi tutti di sinistra.

Per me, invece, l’America è l’unica sinistra possibile, ed è la sinistra reale. Ogni volta che rileggo il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza mi commuovo come un cristiano di fronte alle parole del suo Dio. Ma, ripeto, non voglio convincere nessuno: per me contano le settimane e i mesi che da vent’anni ho trascorso ogni anno dall’altra parte dell’Oceano; e ogni volta che scendo dall’aereo mi sento a casa perché mi sento libero.

In America ho imparato che si può essere di destra restando progressisti e liberali, e addirittura che l’estrema “sinistra” libertaria trova casa nell’orrendo partito repubblicano. Ma erano di sinistra anche i “neocon”, con l’idea internazionalista dell’esportazione della democrazia; ed era di sinistra, naturalmente, Ronald Reagan. Non voglio andare oltre: già sento una certa impazienza, e il post è diventato lunghissimo.

E allora mettiamola così: chi vuole, può dire liberamente che sono diventato di destra; quanto a me, non sono più di sinistra. E ora che l’ho detto, mi sento come Peggy quando esce per l’ultima volta dall’ufficio di Don Draper, nella quinta stagione di Mad Men. Leggero e riconciliato. (the Front Page)

mercoledì 13 giugno 2012

L'Italia che corre. Davide Giacalone

l’Italia è un Paese ricco d’innovatori, ma capace di renderli poveri. Una terribile contraddizione. Un modo dissennato di bruciare valore. Per ragionare e costruire, dunque, dobbiamo partire dalla consapevolezza di quel che valiamo: abbiamo imprenditori coraggiosi e capaci d’adattarsi, un patrimonio prezioso che ancora ci rende forti (e ammirati, fuori da qui); abbiamo lavoratori, spesso giovani, non solo preparati, ma disposti a sentirsi parte e non controparte delle imprese, degli imprenditori con i quali collaborano; abbiamo un tessuto produttivo che consente scambi, interazioni e cooperazione nella crescita. Quando mostriamo questo volto il mondo che corre e i mercati ci riconoscono come fra i migliori. Quando puntiamo su qualità, innovazione e ideazioni siamo difficilmente battibili. Poi c’è l’altra faccia della medaglia.

Il sistema delle regole, da quelle fiscali a quelle amministrative, è concepito in modo da conservare il passato. Pretendendo di tutelare tutto finisce con tutto fiaccare. Se non si vuole portare fuori mercato chi ha i numeri per crescere, se non si vuole, come fin qui si è fatto, istigare all’evasione, occorre che la fiscalità sul mondo produttivo sia significativamente alleggerita. E’ possibile, se solo si sceglie di prendere ricchezza dal patrimonio pubblico anziché succhiarla alla produzione privata. Il governo non deve procedere cercando risorse per finanziare gli aiuti, ma lasciando libere le risorse, per non porre ostacoli.

Le regole amministrative subordinano l’impresa ad una macchina burocratica pazzotica e invasiva. Vale la pena ripetere che la digitalizzazione della pubblica amministrazione è spreco di denaro se non serve a: diminuirne i costi, diminuirne il personale e aumentarne la trasparenza. Ciò che non è indispensabile sia fatto dal pubblico deve essere restituito al mercato. E questo è il modo per tagliare vigorosamente la spesa pubblica aumentando sia il numero che la qualità dei servizi al cittadino. Non solo si può, ma facendolo si darebbe spazio proprio all’innovazione.

Un compito cui lo Stato non può venir meno è quello di amministrare la giustizia. Oggi viene meno, nel senso che non solo non funziona, ma si assiste a fenomeni negativi di privatizzazione, a tutto sfavore dei soggetti più deboli. La riforma della giustizia, civile e penale, la digitalizzazione dei procedimenti e il più che dimezzamento dei tempi non sono faccende che riguardano magistrati e avvocati, ma cittadini e imprese. Senza diritto non c’è mercato. Senza giustizia non c’è diritto.

Veniamo ai soldi. L’Europa è impegnata a salvare le proprie banche, ed è giusto che lo faccia. L’impresa italiana è impegnata a salvarsi dalle banche, ma nessuno se ne cura. Il credito è stato amministrato male, ma chi ne è responsabile è stato premiato. Il mercato, come la vita, è fatto di meriti e responsabilità, se si umiliano i primi e si nascondo le seconde si crea solo ingiustizia e povertà. Il nostro è un Paese intollerabilmente povero di soggetti in grado di fornire capitale di rischio, e lo è anche perché, a causa di quanto ricordato, il rischio è troppo alto, quindi lo si mette in capo a uno solo, l’imprenditore. Non può funzionare. Ripeto: salviamo le banche europee, ma nel salvarle cambiamole e lasciamo spazio alla competizione e a nuovi soggetti, altrimenti sarà un salvataggio inutile, oltre che costoso.

Mi colpisce sempre, a fasi ricorrenti, che i governi annuncino la decisione di pagare quel che lo Stato deve alle imprese. Il fatto che lo si ripeta, nel tempo, è segno che non lo si fa. Il fatto che lo si dica come una conquista spiega molto, perché pagare, per i privati, è un obbligo venendo meno al quale si subiscono prezzi economici e penali. Un Paese in cui lo Stato non rispetta le regole che impone è mortalmente corrotto. Vorrei che questo concetto fosse più presente, quando s’affronta la materia.

Strutture pubbliche che aiutino il mercato servono, purché non pretendano di sostituirvisi. Per molti piccoli imprenditori, nelle cui aziende si trovano anelli preziosi delle catene del valore, avere l’appoggio pubblico, per navigare il mondo, è importante. Lo Stato non deve avere sovrapposizioni e duplicazioni, che oggi ci sono. Nessuno è proprietario di quel che è pubblico, ma ciascuno deve pretendere che quel che funziona sia valorizzato e quel che non funziona chiuso.

L’Italia è forte. Purtroppo lo è anche nel farsi del male. Molliamo le briglie al merito e al mercato, vedremo che l’Italia che corre è assai più bella di quella che frena.

domenica 10 giugno 2012

Come guardarsi dai terremoti. Gianni Pardo

Lo scopo di ogni legge è chiaro. Quelli che a volte non sono chiari sono gli effetti indesiderati e collaterali. Ammettiamo che lo Stato, vedendo quanta gente muore di cancro al polmone, voglia salvare le persone in pericolo vietando la vendita di sigarette. Il consumo di questo veleno in pacchetti diminuirebbe ma aumenterebbero nel contempo il contrabbando, con i reati ad esso connessi, e il consumo di marihuana. Al riguardo, basta ricordare i guasti del proibizionismo negli Stati Uniti.

Se questa cautela si impone al legislatore, che pure fra deputati e senatori dispone di un migliaio di teste pensanti, figurarsi quanto dovrebbe essere prudente il singolo, che non dispone né di tanti pareri, né di tante competenze, né di tante consulenze: stiamo parlando del singolo magistrato, persona che pure avrebbe tanto altro da fare. E invece proprio qui si arriva ad uno dei tanti aspetti dell’anomalia italiana: quello che non oserebbe il governo, è pronto ad osarlo un singolo pm. Tanta audacia si spiega con la sua impunità. Il Consiglio Superiore della Magistratura, che dovrebbe bacchettarlo, si limita a fare gli occhiacci anche a chi commette irregolarità molto gravi.

È notizia di questi giorni che la Procura di Trani (Trani, non New York) ha “aperto un fascicolo” per processare Moody’s e Standard & Poor’s, per valutazioni che in Puglia non sono piaciute. Poi s’è ricordata che c’è anche Fitch e l’ha aggiunta alla lista dei possibili colpevoli.

Sono iniziative che lasciano a bocca aperta per il sentimento di onnipotenza che fanno intravedere nei loro autori. Le agenzie di rating esprimono valutazioni mondiali riguardanti le prospettive future, valutazioni fornite senza garanzia di funzionamento e che in tanto valgono, in quanto siano prese sul serio. Di questo passo, se si fosse inopinatamente bagnati dalla pioggia, si potrebbero processare i meteorologi che avessero previsto soltanto “variabile” invece di “temporale”. Ma a Trani avranno le loro buone ragioni e sono sicuri dell’obbedienza del sistema giudiziario americano alle decisioni italiane.

Il fenomeno non è solo italiano. Un magistrato spagnolo, Balthasar Garzón, prima di finire male, è divenuto una celebrità mondiale con la sua tendenza a giudicare chiunque nel mondo. Infine il malvezzo è divenuto istituzione con il Tribunale Penale Internazionale, specialista nel processare chi ha perso il potere. È vero, nessuno ha la forza di processare quelli che il potere l’hanno ancora: ma proprio questo dovrebbe far capire che la storia va lasciata in pace a fare il suo corso.

L’ultima novità, in materia di fantasia giudiziaria, è stata l’iniziativa della Procura dell’Aquila di mandare a processo quelli che non hanno previsto il locale terremoto. L’accusa va contro il banalissimo principio che, allo stato attuale della scienza, i terremoti non sono prevedibili, ma non c’è stato niente da fare. I magistrati avrebbero voluto che quanto meno i competenti dicessero agli aquilani: “State attenti, potrebbe succedere!”

Ora c’è un terremoto in Emilia e gli scienziati, per mettersi al sicuro da iniziative giudiziarie, hanno detto che il terremoto potrebbe durare indefinitamente a lungo, potrebbe manifestarsi con scosse ancora più grandi e potrebbe provocare disastri anche devastanti più di quelli che ha già provocato. La gente è terrorizzata. Tanto che qualche sindaco sarebbe lieto di avere sotto le mani i competenti della Commissione Grandi Rischi, per offrirgli qualche ruvido chiarimento. Ma i poverini si sono forse messi al riparo dalle possibili accuse di tutte le Procure. Perché in Italia, per qualunque cosa, si cerca un colpevole. Con un’ansia che, dopo le dimissioni di Berlusconi, è divenuta ancor più straziante.

Ora in Emilia si pone un problema. Ingenuamente abituata a credere che magistrati e scienziati siano persone serie, la gente che deve fare, deve vivere costantemente sotto le tende, cioè deve tornare al nomadismo?

Ma la legge deve fare il suo corso. I terremoti sono prevedibili (nel senso che “potrebbero sempre verificarsi”) e dunque i sismologi, su richiesta dei magistrati dell’Aquila, si affrettano a proclamarlo. “Stateve accuorti”. In Emilia? No, dovunque. Anche dove non ce ne sono mai stati. Ci potrebbero sempre essere. Chi entra in un fabbricato lo fa a suo rischio e pericolo. Oltre che a rischio e pericolo del costruttore. Quanto al mettere in sicurezza tutti gli edifici, la soluzione è giuridicamente semplice: basta abbattere tutti quelli non costruiti secondo le più recenti norme applicate a Tokyo. Solo allora si potrà tornare alla civiltà sedentaria. Naturalmente non bisognerà visitare il Duomo di Orvieto o il Battistero di Pisa (non sufficientemente antisismici), e neanche avvicinarsi alle facciate, perché in caso di crollo si potrebbe essere colpiti dalle pietre che cadono.

A proposito: è antisismico il Palazzo di Giustizia dell’Aquila? Non vorremmo che... (Legno Storto)

sabato 9 giugno 2012

Uno schianto. Davide Giacalone

La signora Merkel ha un pregio, rispetto ai suoi esangui colleghi: interpreta un’idea dell’interesse tedesco e non se ne vergogna. Alla politica rigorista del governo tedesco, resa forte da trattati europei incompiuti, s’è accompagnato o contrapposto un lungo dibattito fra economisti. Tempo perso, perché l’economista che non conosce e non valuta la storia è, nel migliore dei casi, un contabile, un magazziniere dell’inutilità.

L’Unione europea è troppo vasta e istituzionalmente debole non per un caso, ma perché quella è stata la formula con la quale si è potuto assorbire il disfacimento dell’impero sovietico e si è potuta realizzare la riunificazione tedesca. La quale si fece con il cambio uno a uno (fra marco occidentale e marco comunista) perché sorretta e finanziata dal resto dei Paesi europei. L’ingresso della Grecia nell’area dell’Euro non fu un errore ragionieristico, ma una scelta politica che accompagnava il progresso del dialogo per l’ingresso della Turchia nell’Ue. La moneta unica è uno dei pilastri del rilancio industriale tedesco, che fino a quel momento declinava. Insomma, solo un branco d’ignoranti possono consentire alla signora Merkel di far da maestrina, e solo degli incoscienti possono consentire che l’Ue prenda una piega germanica, sì che le guerre europee che i tedeschi non vinsero con una potentissima macchina da guerra le vincano con quella economica. Molti se ne rendono conto, in Germania. Con quelli si dovrebbe dialogare per indebolire la Merkel, così come la Merkel ha usato forze e interessi degli altri Paesi europei per indebolire i suoi avversari esterni.

In queste condizioni il treno dell’euro corre veloce verso lo schianto, destando il terrore dei mercati su cui si scaricherà l’impatto, conducendo l’Unione europea verso una sconfitta storica, ma lasciando quasi imperturbati i politici nazionali, o i movimenti di protesta generatisi in ciascun Paese. Se ne stanno chiusi ciascuno nel proprio scompartimento, dediti a liti dialettali, felici di consumare vendette, pronti ad aizzare i risentimenti popolari contro le banche, che li meritano quanto i governi, salvo che quel treno non si salva di sicuro, senza politica e senza banche. Siamo un affollato gruppo di pazzi benestanti, cui il destino s’appresta a presentare il conto dell’incapacità. Beffare quel destino si può, trasformare la corsa al dirupo in marcia trionfale si può, ma non senza rotture e dolori, che richiedono idee chiare e parole schiette.

Siccome Merkel è più brava e più dotata di attributi degli altri, ora prova a far passare due imbrogli: l’Europa a due velocità e l’integrazione politica che anticipi quella dei debiti. Due bidoni, perché fuori tempo massimo. L’Europa a due velocità (una parte più integrata e l’altra dentro e fuori, a geometria variabile) poteva funzionare per costruire l’Unione (ne era teorico Altiero Spinelli, uno dei tre autori del Manifesto di Ventotene), non funzionerà per smontarla. E’ impossibile, perché le forze dei mercati dilanieranno tutto colpendo le banche, oramai prossime alla dichiarazione d’insolvenza. Non abbiamo banche europee, ed è un male, ma nessuna banca europea è indipendente dalle altre, il che aggrava il male. In quanto all’unione politica e istituzionale, il trucco è fin troppo evidente: siccome i soldi per federalizzare i debiti sovrani vanno messi subito ecco che la Merkel rilancia, posticipando di anni l’intervento. Possono cascarci degli allocchi, o dei falsi governanti, privi di spessore.

Attenti, però, a non credere che le colpe della Merkel coprano quelle degli altri, noi compresi. I debiti pubblici non sono il riflesso di investimenti per lo sviluppo, ma di spese improduttive. Quella roba va risanata e cancellata. Per sempre. E si deve farlo all’interno, vendendo patrimonio pubblico. Meno Stato, per meno spese, per meno tasse. La colpa del governo Monti è qui: sta andando in direzione opposta. Né si può tacerlo sol perché neanche gli altri ne furono capaci.

Il punto è questo: avendo costituzionalizzato il pareggio di bilancio (decisione folle), ciascun Paese ha rinunciato alla propria sovranità, ma non l’ha consegnata a una sede europea, perché non esiste; da questo indirizzo o si torna indietro (e salta l’euro), o si sposta il deficit e il debito a livello federale, iniziando una nuova storia e una nuova era di sviluppo. La Cina, in crescita, taglia i tassi d’interesse. Gli Stati Uniti sono pronti a spaccare l’Europa, pur di avere sponde non ostili. Nel vecchio continente, invece, quattro colonialisti senza colonie pensano ancora d’essere l’ombelico del mondo, nel mentre i loro cittadini, che del mondo sono fra i più ricchi, guardano spiritati il baratro della povertà.

giovedì 7 giugno 2012

Schifani la dice tutta e invita Berlusconi a non giocare con il caos


Caro direttore,

se la crisi non fosse così aggressiva e lacerante, se la confusione delle idee non fosse così dispersiva e inconcludente, continuerei a stare rigorosamente entro i confini di quella terzietà che la carica istituzionale mi impone. Ma sarebbe come rinchiudersi tra le quattro mura del Palazzo e non sentire le voci, allarmate e dolenti, che arrivano da una Italia sempre più stremata dalle difficoltà economiche e sempre più segnata dalla affannosa ricerca di una soluzione che ancora non si intravede.

Purtroppo viviamo tempi inesorabili, che non consentono più né comodi silenzi né strumentali arroccamenti. Se ne è reso conto, per primo, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che con grande equilibrio e sensibilità costituzionale, si è fatto carico di una responsabilità straordinaria ed ha chiamato Mario Monti alla guida del Paese. Una scelta certamente non facile. Forse addirittura un azzardo, però quello che ha fatto il Capo dello Stato andava fatto. Le istituzioni hanno indubbiamente la loro sacralità, ma non possono mai diventare un’ingessatura o, peggio, un alibi per non affrontare le emergenze che sono davanti ai nostri occhi.

La situazione è, per certi versi, drammatica. Il governo tecnico presieduto dal professor Monti ha cercato di fare quel che ha potuto. Ha lavorato con abnegazione e ogni sua decisione è stata improntata alla massima onestà intellettuale. Ora però bisogna andare oltre ed evitare che i sacrifici fatti dagli italiani vengano inghiottiti dalla recessione e da altre devastanti speculazioni sull’euro. E’ venuto il momento di disegnare una strategia che rafforzi la presenza dell’Italia nello scacchiere europeo ed è venuto soprattutto il momento che le forze politiche, tutte le forze politiche, mettano finalmente in campo le proprie idee, in vista delle elezioni del 2013, per dotare l’Italia di un governo forte e autorevole, in grado di affrontare sfide e prove che, ahimé, si preannunciano severe se non addirittura ai limiti della tollerabilità.

Mi chiedo: che ne sarà dell’Italia, tra sei mesi e tra un anno? La domanda, mi dispiace dirlo, è persino angosciosa. Lo scenario politico, più che verso la compattezza, tende verso una confusa e rissosa disgregazione. E i partiti che, piaccia o no, restano pur sempre i pilastri di ogni democrazia, vivono una fase acuta di smarrimento. Soprattutto i partiti tradizionali, a cominciare dal mio, il Pdl, dove il grado di incertezza è diventato così alto da penalizzare gli slanci più sinceri, le passioni più genuine, le storie più belle, le energie più costruttive, i suoi uomini migliori. Si può restare insensibili di fronte al lento sfilacciamento di un partito che è stato, e resta, l’architrave dell’Italia moderata e liberale? Io non me la sento di girare lo sguardo dall’altro lato. E non me la sento nemmeno di trincerarmi tra le rassicuranti pareti di Palazzo Madama. La condizione in cui versa il Pdl richiede che mi assuma anch’io le mie responsabilità, senza finzioni e senza sudditanze. Ernesto Galli della Loggia, l’altro giorno sul Corriere della Sera, sosteneva che il Pdl rischia di morire perché i suoi dirigenti, davanti a Silvio Berlusconi, non hanno mai il coraggio di dire ciò che pensano. Lungi da me l’idea di contraddire Galli della Loggia ma posso rassicurarlo sul fatto che la cultura del mugugno non mi appartiene. Con Berlusconi ho un collaudato rapporto personale e politico, da sempre improntato a una reciproca lealtà. Quando mi ha indicato come presidente del Senato abbiamo stretto un patto che mi assegnava la massima autonomia dal partito nella convinzione, ampiamente condivisa, che il prestigio dell’istituzione potesse rappresentare un punto di forza, oltre che di orgoglio, per tutta la nostra parte politica. E così è stato, senza arretramenti e senza invadenze.

Credo dunque di potere rivendicare a pieno titolo il diritto di chiedere a Berlusconi e all’intera classe dirigente del Pdl un’operazione verità. Perché senza una riflessione seria, senza un’autocritica profonda sarà difficile per tutti, vecchie e nuove generazioni, restituire al Pdl autorevolezza, fierezza e combattività. Vanno dette tutte le verità, anche spiacevoli, che riguardano il passato.

Va detto, per esempio, che l’ultimo governo, prima che arrivasse Monti, non è stato scalzato da chissà quali forze oscure, ma da una mancanza di coesione che non ha consentito alla maggioranza di varare le riforme tenacemente volute dai nostri partner europei; va detto che la nostra credibilità all’estero precipitava di giorno in giorno perché Berlusconi sosteneva una linea e il ministro Tremonti l’esatto contrario; e va detto anche che la rottura con Gianfranco Fini segnò un punto di debolezza della coalizione e che la campagna condotta dai giornali di area sulla casa di Montecarlo ha finito per trasformare un contrasto politico in una frattura irreversibile.

Ma l’operazione verità deve riguardare soprattutto il nostro presente e il nostro futuro. Il nostro elettorato è visibilmente frastornato. Un giorno il Pdl approva l’Imu e il giorno dopo irrompe sulla scena una parte del Pdl, certamente la più chiassosa, che minaccia di scendere in piazza contro l’Imu. Un giorno il Pdl approva i decreti, anche i più duri, di Monti e il giorno dopo la parte più colorita e populista del Pdl propone addirittura lo sciopero fiscale. Un giorno si ascoltano in televisione le più convinte dichiarazioni di Berlusconi a sostegno di Monti e il giorno dopo, anche e soprattutto sui giornali che si professano berlusconiani, si leggono titoli improntati al grillismo più avventato. Come meravigliarsi poi se la gente, soprattutto la nostra gente, non va a votare?

Il nostro elettorato è salito sull’aventino dell’astensionismo perché non capisce più che cosa vogliamo, perché non vede più nel Pdl né la coerenza né l’affidabilità.

Coerenza e affidabilità che non vedono più nemmeno i nostri potenziali alleati, i cui comportamenti cominciano a spingersi oltre l’indicibile. Si pensi ai veti posti dal leader dell’Udc nei confronti di Berlusconi. Sono inaccettabili, non c’è dubbio, ma esigono una risposta politica. Non possiamo continuare, come nel deserto dei tartari, ad aspettare Casini mentre Casini, stando così le cose, non perde occasione per dirci che non vuole venire.

Capisco che, per dare una risposta, occorre sapere che cosa dire. Occorre, insomma, una linea politica che ci dica quantomeno se è strategicamente preferibile contrastare Grillo con un grillismo d'imitazione o se non sia invece il caso di attestarsi su una linea di responsabilità che eviti al Paese di precipitare nel dissesto di bilancio e alla politica di trascinarci in una ingovernabilità simile a quella che si è determinata in Grecia con la frantumazione dei partiti. Sono convinto, se mi è consentita una sottilineatura, che il grillismo ci porterebbe dritti all’isolamento e che la conseguente incapacità di riaggregare il blocco moderato sarebbe un danno enorme per la politica e, più in generale, per la democrazia di questa amatissima Italia. Da qui la mia richiesta di una urgente e ineludibile operazione verità.

La farà Berlusconi? Ci conto. E sono certo che stavolta il nostro Presidente non si rivelerà prigioniero della propria, incommensurabile generosità. Una generosità talmente connaturata alla sua personalità che spesso gli impedisce di emarginare gli amici che sbagliano o di allontanare quelli che remano contro o lo portano fuori strada. Oggi però c’è in gioco non solo il futuro del Pdl ma anche il futuro del Paese. E Berlusconi, ne sono oltremodo sicuro, saprà prendere in tempo utile le decisioni più opportune. Il Pdl, per fortuna, può rivendicare davanti al mondo di avere avviato il rinnovamento ben prima che insorgesse il grillismo.

La segreteria di Angelino Alfano ha segnato una svolta e ha dimostrato sul campo di sapere fare politica, di sapere incalzare Monti. Sono convinto che, se sarà in grado di guadagnarsi l’autonomia necessaria, avrà tutte le carte in regola per rilanciare il Pdl, per riannodare i fili spezzati tra partito e società civile, e per cercare tra i giovani, e soprattutto tra quei giovani che hanno una storia politica legata al territorio, le risorse necessarie per formare una nuova classe dirigente.

Non abbiamo altra scelta. Chiedere un’operazione verità penso che sia ormai un dovere di tutti quelli che hanno creduto e ancora credono in questo partito. A partire da Alfano. Per quanto mi riguarda credo semplicemente di avere fatto, con questa lettera, nient'altro che il mio dovere.

Renato Schifani, presidente del Senato
 (il Foglio)


mercoledì 6 giugno 2012

La gazzella e il leone. Davide Giacalone

La crisi angoscia il ministro Corrado Passera, che essendo responsabile dello sviluppo economico non si rassegna, giustamente, ad esserne il certificatore del regresso. Dice di alzarsi la mattina chiedendosi cosa si debba e possa fare, ma non si ha notizia delle risposte che trova, entro l’ora in cui va a coricarsi. Il fatto è che ci sono tante cose buone e giuste, che si potrebbero fare e non si fanno, ma prima di tutto si deve essere capaci di capire la situazione nella quale ci si trova. In un certo senso il terremoto è una metafora.

L’Italia è un Paese forte e ricco, la terza potenza economica e industriale di un’area, quella europea, che è la più ricca e forte del pianeta. Per molti aspetti i nostri piagnistei collettivi sono ridicoli. Come quelli del latifondista, depresso perché gli hanno portato via una cascina periferica, e se ne lamenta con il mendicante. O come colui il quale si rivolge affranto all’amico morente, dicendo: la fidanzata mi ha lasciato. E chi se ne frega. Ma se la perdita di una frazione infima dei propri beni è intesa come inizio della fine, se la fuga di una (saggia e previdente) fanciulla è intesa come condanna all’onanismo, ecco che quei due scemi hanno ragione di sentirsi persi, finiti. Noi somigliamo loro.

Il governatore della Banca d’Italia ha, non per primo, ma autorevolmente, ricordato che la condizione economica dell’Unione europea sarebbe florida e fortissima, se solo fosse veramente un’unione. Noi italiani abbiamo un debito pubblico troppo alto, ma non solo abbiamo un patrimonio pubblico che lo copre, non solo abbiamo patrimoni privati di gran lunga superiori al debito e più alti di quelli medi degli altri Paesi ricchi, ma il nostro debito complessivo, che somma quello pubblico a quello delle famiglie e delle imprese, è inferiore a quello di altri, è più o meno pari a quello tedesco, anche se calcolato rispetto al prodotto interno lordo, quindi usando il rapporto a noi più sfavorevole. La ragione per cui si chiamano al governo non dei ragionieri, ma gente che disponga di una visione d’insieme e abbia idee da spendere per il futuro, consiste proprio in questo: fare in modo che i punti di forza siano sfruttati, anche quando ci si trova in difficoltà.

Qui non si tratta di mettere gli occhiali con le lenti rosa, ma nemmeno la retorica della crisi deve accecarci al punto di negare quel che siamo. Il nostro sistema produttivo risente di arretratezze strutturali, ma è forte. Non ha alcun senso che i governanti stilino e ristilino il lungo elenco delle cose che si dovrebbero fare, in modo da lasciarle in eredità esattamente come le trovarono. Si tratta di scegliere, di individuare le priorità. Che oggi sono: a. riprendere l’iniziativa europea, imporre il ritorno alle sedi collegiali e rompere il maleficio di un’austerità cui ci siamo piegati per assai mal riposto senso di colpa; b. avviare la vendita di una fetta consistente del patrimonio pubblico, creando un veicolo che ne consenta la veloce monetizzazione e destinandola per due terzi all’abbattimento del debito pubblico e per un terzo alla diminuzione delle tasse; c. varare subito le riforme di cui tutti sanno con esattezza cosa e come si devono fare, salvo ciascuno bloccarsi per le resistenze corporative, che spesso sfociano in minacce. Un esempio? La giustizia: l’Italia non può permettersi di dipendere dalle toghe, che siano quelle dei magistrati o degli avvocati, basta, tanto più che, in questi anni, hanno prodotto tutto tranne che giustizia.

Al governo non può chiedersi la riforma dello Stato, pure necessaria. Quella è materia che spetta al Parlamento. Si può e si deve farla, chi lo impedirà trascinerà se stesso e gli altri nel pozzo nero di una democrazia in preda a convulsioni inconcludenti. E’ compito del governo, specie di un governo chiamato all’emergenza, avere visione, stabilire le priorità e agire con immediatezza. La metafora del terremoto è proprio questa: un popolo generoso, pronto a darsi da fare, anziché essere incoraggiato con le defiscalizzazioni e con lo sprone a costruire per un più forte modello di sviluppo viene umiliato con la tassazione (e voglio vedere come si farà a distinguere i due centesimi destinati ai terremotati), quindi con la coartazione, a sua volta dimensionata più sull’elemosina che sulla riscossa.

Per forza che poi ci si sveglia preoccupati e con la testa pesante. Non so se al governo conoscono la storiella della gazzella e del leone, e ho anche paura a ricordarla. Perché non basta correre, si dovrebbe anche sapere in che direzione.