sabato 31 dicembre 2011

Appunto Addio 2011, la poesia di Filippo Facci "Ti ricordi Berlusconi? Scorda lui e le elezioni"

E' finito un altro anno / è iniziato un altro inganno / Ti ricordi Berlusconi? / Scorda lui e le elezioni / L'han deciso in una stanza / l'ha deciso la finanza / l'ha deciso supermario / e anche il fondo monetario / L'han deciso in una sera / quella là, la cancelliera / ha chiamato il Quirinale / poco costituzionale? / forse sì, ma è l'emergenza / di denari siamo senza / ora da Milano a Foggia / fan la danza della pioggia / Largo dunque ai professori / dell'Europa ambasciatori / sono grigi, sono seri / zitti con i gazzettieri / la politica è un tumore / dice il Sole 24 Ore / Ma dal giorno del trasloco / è cambiato niente o poco / non ci metti insieme il rancio / col pareggio di bilancio / Noi che siamo media classe / ci fracassano di tasse / ma non pagano palanche / come al solito le banche / Italiani genuflessi / risaliti gli interessi / Bamboccioni e vari imberbi / del futuro restan servi / Ma infinite le lezioni / di accademia e di Bocconi / Per non esser deludente / Mario, sai, non dice niente / E' finito un altro anno / è iniziato un altro inganno / Un Paese più normale / ma un futuro rateale / La politica si è arresa / meno soldi per la spesa / né pareggio né ripresa / la democrazia sospesa. (Libero quotidiano))

venerdì 30 dicembre 2011

Canone perverso. Davide Giacalone

Il “Canone Rai”, che per i cittadini conserva il suo nome obbrobrioso, essendo il migliore nel rendere la sua orrenda natura, ha tutti i possibili difetti dei peggiori tributi: non si sa cosa tassa, non si sa per cosa serva, non è affatto chiaro a chi vada, aumenta di continuo. E’ vero, non si può abrogarlo per referendum, né si può sollecitare un cittadino a non pagarlo, perché sarebbe induzione all’evasione fiscale. Si può cancellare la legge che gli consente di sopravvivere a sé stesso. Ma si può fare anche dell’altro, prima, ora, talché nessuno si senta assolto o scusato se quest’incresciosa situazione si protrae oltre.

Ricapitoliamo. 1. Non si sa cosa tassa, perché dovrebbero essere i televisori, ma in realtà sono i terminali “atti o adattabili alla ricezione d’immagini”. Tutti, compresi i telefoni, i computers, i navigatori e così via. Una intollerabile corbelleria. Non si sa neanche chi tassa, perché la legge dice che se paghi il canone a casa poi non lo devi pagare al mare, ma la Rai s’è messa in combutta con i comuni e vanno a cercare le case intestate al coniuge, sostenendo che non si tratta dello stesso nucleo familiare. E nessuno li ferma, laddove questa è tentata o riuscita estorsione. 2. Non si sa a cosa serva, perché dovrebbe finanziare il servizio pubblico. Quale? La Rai è una televisione commerciale a totale capitale statale, che svolge un “servizio pubblico” solo perché così si definisce in convenzione. A questo punto si possono anche chiamare “cavalli” i cinghiali e pretendere di cavalcarli. Auguri. 3. Non si sa quei soldi a chi vanno. Perché vanno alla Rai, ma in realtà si pagano al fisco, salvo il fatto che la sollecitazione al pagamento ti arriva dalla Rai stessa, ovvero dal beneficiario, che è una società per azioni di diritto privato, ma al tempo stesso una roba statale, che nella seconda veste prova a mettermi paura e nella prima ingrassa le proprie casse. Una roba così non è neanche un animale misto: è una bestialità. 4. Il fatto che aumenti lo sapete di già, quindi non sto a perdere tempo, solo che se i miei soldi servissero al servizio pubblico qualcuno dovrebbe dirmi dove finisce l’aumento: quali costi sono aumentati, quali nuovi servizi saranno offerti. Nisba.

La Rai è stato un grande servizio pubblico. E’ poi divenuto il paradiso della lottizzazione. S’è trasformato in greppia senza significato. Ora è la sopravvivenza di un passato troppo lontano. La soluzione migliore è venderla. Su questa strada c’è un ostacolo, rappresentato dalla legge 112 del 2004 (alias legge Gasparri), ove si stabilisce che nessuno può possedere più dell’uno per cento delle azioni Rai. Ostacolo che sarebbe bene rimuovere, semmai anche per via referendaria. Ma che si può anche aggirare, essendo oramai trascorsi i tempi oltre i quali quella stessa legge consente alla Rai di vendere “rami d’azienda”. Che non è roba vegetale, ma reti e produzioni. Si vendano.

Qui sento già il lamento più stupido del mondo: sarebbe un favore a Mediaset, azienda del più noto e votato fra i malfattori. Quell’uomo ha una fortuna smisurata, dato che la sorte gli ha spesso riservato avversari d’impareggiabile ottusità: è vero il contrario, perché il duopolio consente di fare del canone un provento che finanzia il sistema, mentre la privatizzazione e la concorrenza ristabiliscono regole di sano mercato, con quel che segue: chi è bravo vince e si fa ricco, chi non lo è esce di scena. Pensare che questo sia un favore a Berlusconi significa fargli un complimento che egli stesso si farebbe solo in privato. E ho detto tutto.

Per concludere. Vedo che non appena si parla di cancellare l’odioso e deforme tributo più d’un politico corre a prendersi uno spicchio di gloria. Bravi: visto che non avete di meglio da fare, visto che la politica conta sempre di meno, nel tempo che vi rimane dopo avere chiesto raccomandazioni per assunzioni e lavori in Rai, raccogliete le firme per i referendum. Se avete idee confuse, circa i quesiti, siamo a vostra disposizione. Gratis. Detto ciò, si può fare subito molto, si può cominciare a vendere, si può far scendere il costo di una baracca che pretende di piazzarmi le chiappe come servizio civile e culturale, come pretende di far passare per pluralismo la spartizione. Si può farlo oggi stesso. Facendolo si libererebbe quel che (se proprio si deve) della Rai è servizio, liberando l’azienda dall’ossessione dell’audience e liberando risorse pubblicitarie per altri competitori.

Ecco, adesso sono sicuro d’essere rimasto in risicata compagnia, con la destra mercatista e la sinistra moralista già fuggite a rimpiattarsi dietro i propri raccomandati, i propri amministratori, i propri lottizzati, le proprie vergogne.

mercoledì 28 dicembre 2011

Biografia non autorizzata di uno strano "antifascista". Milton

Leo Longanesi disse, “I fascisti si dividono in due categorie: fascisti ed antifascisti”. Alla seconda categoria apparteneva Giorgio Bocca, che per la verità fino al 1943 è appartenuto anche alla prima, dopo aver firmato nel 1938 il Manifesto in difesa della razza a sostegno delle leggi razziali e che ancora nel 1942 scriveva “Sarà chiara a tutti … la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù”.

Dopo l’8 settembre, dimostrando ottimo intuito, divenne antifascista e come partigiano nella divisione “Giustizia e Libertà” attese le truppe americane che risalivano la penisola per liberare l’Italia. Il contrappasso lo raggiunse a guerra finita(!), quando come responsabile dei Tribunali del Popolo partigiani, una sorta di industria della vendetta e dell’odio, condannò a morte per fucilazione presunti traditori e repubblichini.

Nel 1975 quando già si contavano i primi morti, dopo aver firmato, con la solita compagnia di giro che a tutt’oggi ci fa la morale, l’appello contro il commissario Calabresi, sostenne, assieme al PCI, che le Brigate Rosse fossero una favola raccontata agli italiani dagli inquirenti e servizi segreti. Nel marzo del 1980 disse ancora “la nascita del terrorismo è stata tenuta a bagnomaria per costruire la teoria degli opposti estremismi”, erano gli anni di piombo e il sangue di giudici, politici, cittadini scorreva ormai da un decennio.

Più tardi, con un linguaggio da far arrossire anche un tipo come Borghezio, vomitò odio anche sul Sud “Durante i miei viaggi al sud c’era sempre questo contrasto tra paesaggi meravigliosi e gente orrenda, un’umanità repellente”. Un commento insomma da razza padana, cinico e sprezzante, non dissimile a quello che riservò, dimostrando un’acerrima omofobia, a Pasolini.

Negli anni ottanta fu uno dei primi giornalisti di un certo nome a frequentare con successo, anche economico, gli studi Fininvest e le tipografie Mondadori, per poi considerare servi tutti gli altri che l’hanno fatto dopo, e definire Berlusconi, in un afflato di lirismo, “un maiale”. Si vantava di essere senza padroni, scordandosi che nel 1976, fondò assieme a ad Eugenio Scalfari “Repubblica”.

Ci lascia un opportunista scaltro, cinico, fascista quando Mussolini era all’apice, partigiano quando il regime cadde e le sorti della guerra erano segnate, leghista quando Bossi predicava la secessione e conquistava il Nord, Berlusconiano quando c’era da mangiare a Fininvest, protagonista di Repubblica quando c’era da strisciare al fianco del fallimentarista De Benedetti.

Insomma il classico percorso di tanti intellettuali nostrani, un percorso a tratti indecente, viscido, fatto di opportunismi e convenienze. Umana pietà per chi non c’è più e per chi ha lasciato, ma ci si risparmi il frignare delle prèfiche inconsolabili che oggi lo definiscono, con la solita ipocrisia, “Maestro”. (l'Occidentale)

martedì 27 dicembre 2011

Stregoni. Davide Giacalone

Quella di un secondo tempo, nel corso del quale il governo Monti saprà fare quel che non ha fatto, rilanciando l’Italia verso magnifiche sorti e progressive, è un’illusione. Una favola che ci raccontiamo per far finta di non capire quel che accade, o perché davvero non lo si capisce, e si prova a darsi un contegno. Quel che il governo Monti doveva fare lo ha fatto. E non è servito. Non poteva servire, pur dovendosi farlo.

La terapia è sbagliata perché la diagnosi non è reale. E’ frutto di un pregiudizio, di una superstizione, non di analisi e conoscenza. Lo “spread” non è un numero che dica quale che sia cosa circa l’affidabilità del debito pubblico italiano, ma un indice che consegna la misura di quanto sia fragile la struttura istituzionale dell’euro e dell’Unione europea. Da quando è comparso sulla scena, da quando la crisi del debito ha attraversato l’Atlantico e morso le carni europee, lo spread è divenuto un dio pagano, le cui ire e bizze si spera possano placarsi con sacrifici umani. Idee da selvaggi. Idee, però, che da noi vestono alla moda del perbenismo trinariciuto, seguendo la linea di chi ha sempre avuto sul gozzo la democrazia, con l’assurda pretesa che il popolo sappia scegliere il proprio interesse. Ma vi pare? Qui il popolino votava Berlusconi! L’impresentabile, l’insostenibile, il vergognoso, l’inquisito, il debosciato. Toglietelo di mezzo e vedrete che lo spread si placherà. Uccidete la vergine, sgozzate l’agnello, e vedrete che il dio si quieterà. Imbecilli.

Già, ma se Berlusconi fosse rimasto al suo posto, se la coalizione degli ignoranti in cattedra, dei ladri moralisti e dei bugiardi giuranti non avesse trovato nello spread il piede di porco per scardinarlo, sarebbe cambiato qualche cosa? No. Questo è il bello: la nostra partita è irrilevante, perché giocata fuori tempo e fuori campo. Due club di scemi, che si spaccano gli stinchi a vicenda.

Occorrerebbe, invece, che si facesse squadra per giocare il campionato europeo, quello in cui ci stanno prendendo a pedate. La si smetta con l’atteggiamento provincialissimo di chi festeggia il fatto che i “potenti” ci rivolgono la parola e offrono un pranzo. Tanto più che i “potenti” sono i colpevoli di quel che accade. I potenti siamo noi: abbiamo popolo, intelligenza e produzioni quanto basta per contare. Possiamo farlo salvando l’Europa, opponendoci fermamente all’andazzo attuale, che porta tutti al massacro. Abbiamo le carte in regola, perché le cose che scrivevamo un anno fa sono esatte, la diagnosi precisa, la terapia efficace: il malato è l’Europa, sicché si deve passare alla cura drastica della maggiore integrazione, ove non si voglia imboccare la via dell’eutanasia.

Ma da noi è come parlare con il muro, perché in questo Paese di trasformisti a dar lezioni d’europeismo ci sono i vecchi arnesi comunisti che hanno passato la vita a battersi contro l’Europa. So che nessuno lo scrive e qualche ignorante lo nega, ma è così. E lo ripeto, nel modo più ruvido possibile, perché è destinato alla tragedia un Paese che credi di potersi mettere nella mani di un comunista mai divenuto ex e di un professore intento a selezionare i contribuenti da immolare al dio spread. Che, poi, diciamolo: non esiste nemmeno il Paese che si mette nelle loro mani, se non nelle pagine di giornali scritti per lisciare il pelo ad una risicatissima minoranza d’italiani. I selvaggi che ritengono incivili i propri connazionali, per non dovere guardare l’anello che portano al proprio naso.

La malattia europea consiste nel non coincidere di democrazia e potere, nel divorzio fra suffragio popolare e governo degli interessi. Noi ci stiamo comportando, in Italia, come se lo scopo fosse quello di adeguarci a quella malattia, laddove è evidentissimo (e lo sarà nel racconto che faremo a posteriori) che serve l’esatto contrario. Solo che serve in ambito europeo: con partiti, popoli, elettori e istituzioni dell’Unione. Il resto, quel che stiamo praticando, è solo un modo per torturare il corpo malato, indebolendolo con la pretesa di guarirlo. Anche gli stregoni, in fondo, erano “tecnici”.

martedì 20 dicembre 2011

L'odio per i ricchi. Gianni Pardo

Tutta la società sembra unita nell’odio contro i ricchi, in un’acida voglia di “fargliela pagare”. E tutta la legislazione è improntata a principi di fattiva ostilità nei loro confronti. Basti pensare alla voglia di tassare a morte i “grandi patrimoni”, all’accresciuto peso di imposte per seconde case (anche all’estero, dove già pagano le tasse allo Stato locale!), barche, e ogni bene che sembri denotare “ricchezza”. Tutto questo è giusto?

È giusto che chi guadagna 1.000 paghi 100 e chi guadagna 10.000 paghi 1.000 o 1.500. Ma è giusto che chi guadagna 10.000 paghi 4.000 o 5.000? Secondo la Costituzione (art. 53) “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ma la progressività poteva estendersi fino a triplicare il tributo per chi ha una casa e la tiene sfitta? Dov’è la maggiore capacità contributiva, se da quella casa non si ricava nessun reddito? Qui si punisce il fatto che il proprietario non faccia beneficiare gli altri del suo bene. La nostra Costituzione è “di sinistra” e ne sono stati accentuati i risvolti giacobini: ora bisogna che “anche i ricchi piangano”. Ma chi sono, esattamente?

Per il disoccupato che non sa come dare da mangiare ai suoi figli, è già ricco il ragioniere del secondo piano che guadagna millecento euro al mese. Ma se la stessa domanda fosse posta all’interessato, il poverino sgranerebbe gli occhi: “Io, ricco? Forse il commercialista del piano rialzato, quello che guadagna cinque o seimila euro al mese”. Ma il commercialista osserverebbe che lui ha cominciato a guadagnare sul serio ben oltre i trent’anni e che comunque, mentre il ragioniere stacca alle due, lui lavora dalle nove del mattino alle nove di sera ed ha delle spese. Ricco è sempre qualcun altro. Se infine si arriva ai ricchi innegabilmente ricchi, ci si accorge che sono così poco numerosi da non avere importanza, nella società. Anche a distribuire tutti i loro averi ai poveri, non cambierebbe nulla.

L’odio per gli abbienti ha una spiegazione. Per molti secoli il grande patrimonio è stato costituito dalla proprietà terriera. Jean-Jacques Rousseau non odiava il ricco in quanto tale ma perché la ricchezza l’aveva ereditata. Il suo patrimonio era pura casualità e pura ingiustizia. Spesso per giunta la proprietà terriera si accoppiava con la nobiltà, sicché le categorie erano stagne, o si nasceva nobili e facoltosi, o si nasceva “roturiers” e indigenti: senza possibilità di cambiare categoria. Persino un genio capace di procurarsi un grande patrimonio, come Voltaire, rimase sempre un inferiore perché non era nobile.

Il tempo è passato. L’esperimento sovietico ha dimostrato che, abolendo la proprietà privata, l’intero popolo si impoverisce invece di arricchirsi. In Occidente la nobiltà è praticamente sparita e la terra ha cessato di essere il paradigma della ricchezza: oggi è ricco l’industriale, il celebre artista, il grande professionista, tutta gente che lavora sodo. Prima l’alto livello economico era conseguenza della nascita, ora è conseguenza del lavoro. Prima le categorie erano impermeabili, oggi il figlio del milionario spesso si ritrova povero prima di arrivare alla vecchiaia. Il mondo è cambiato. Purtroppo, la gente è mentalmente ferma al passato e infatti la nostra Costituzione a proposito della proprietà privata parla di imporle dei limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Parole importanti. Il patrimonio non è più un fatto privato: deve avere una funzione sociale. Inoltre deve essere “accessibile a tutti”, come se prima fosse stato vietato. Accessibile significa che la porta è aperta: e chi l’ha mai chiusa, dopo la Rivoluzione Francese?

Siamo alla contraddizione dei sogni. Da un lato si fantastica che i ricchi siano tali per eredità - tanto che si vorrebbero distribuire i loro beni a tutti - dall’altro si auspica che tutti divengano ricchi: per poi espropriarli dei loro beni?

Chi ha guadagnato molto è tormentato in tutti i modi. Inoltre è additato al disprezzo generale: se ha soldi è un delinquente; se ha soldi è un evasore fiscale; se ha soldi non andrà in Paradiso. In Italia il modello positivo è l’impiegato statale che con lo stipendio arriva a stento alla fine del mese. Il risultato è la scarsa propensione alla produzione, l’esistenza di pochissime grandi imprese e la quasi assenza di investimenti stranieri.

La società italiana ha voluto essere liberale il meno possibile, ha voluto che anche i ricchi piangessero e ci sta riuscendo: si chiama recessione. (il Legno Storto)

Giustizia al gabbio. Davide Giacalone

Quella carceraria non è un’emergenza, ma un’indecenza. Il ministro della giustizia, Paola Severino, fa bene a occuparsene. Ma faccia attenzione a non confondere le cause con gli effetti e a non immaginare soluzioni, come quelle di cui si sente parlare, che suonano come un favore ai colpevoli e un ulteriore sfregio per gli innocenti. Il fatto che il pontefice si sia recato a Rebibbia e qui abbia pronunciato parole dure (e giuste) contro il sovraffollamento, mi fa rizzare le orecchie, perché già le parole del suo predecessore, pronunciate in Parlamento, furono utilizzate per favorire un provvedimento oltraggioso e inutile, l’indulto.

Non sono un’emergenza, le carceri, come non lo è la spazzatura a Napoli: sono fenomeni d’inciviltà permanente, che talora tornano agli onori della cronaca, salvo restare tali anche quando non se ne parla. Nel caso delle galere, quel che causa il problema non è il moltiplicarsi del crimine, ma il crescere dell’inciviltà giuridica. La causa è la malagiustizia, l’effetto il sovraffollamento. Più della metà dei detenuti italiani non stanno scontando una pena, ma stanno aspettando di sapere se devono scontarla. Sono “in attesa di giudizio”, come il titolo del film con Alberto Sordi (regista il grande Nanny Loy), che più lo guardi più ti arrabbi, perché le cose sono peggiorate, restando immutabili. Più della metà dei carcerati, quindi, devono, secondo la Costituzione e la Convenzione Europea Diritti dell’Uomo, essere considerati innocenti. Non ci si deve chiedere dove metterli, ma come dar loro giustizia.

Se, invece, si parte dalle celle, saltando i tribunali, va a finire che si presentano proposte come quelle che il ministro ha formulato: mandare agli arresti domiciliari chi ha ancora 18 mesi da scontare, oppure rilasciare chi ha condanne inferiori ai 4 anni, pensando a pene alternative. Misure concepite per sfoltire le presenze, ma che portano a una singolare e abominevole conseguenza: escono i condannati e restano dentro gli innocenti. E’ già successo con l’indulto, e siamo fra i pochi che protestarono.

Il tema è così delicato, e di così rilevante portata, che tutti dovrebbero proibirsi le sparate propagandistiche. Aggiungo subito, quindi, che il ministro fa bene a dire che il tema dell’amnistia deve essere preso in considerazione, e vado oltre: è necessaria, si deve fare. Al contrario dell’indulto, che cancella solo la pena, l’amnistia cancella anche il reato e il procedimento, quindi evita che il sistema soffochi sotto al peso dell’arretrato. E’ un provvedimento ingiusto, repellente. E’ uno schiaffo in faccia alle persone oneste, una stilettata al cuore degli innocenti. Ma è necessario. Solo che deve essere fatta dopo la riforma della giustizia, non al suo posto. Deve prendere corpo dopo avere liberato i palazzi di giustizia dai corporativismi, dalle politicizzazioni e dalla nullafacenza, non materializzarsi quale succedaneo di ciò che non si è capaci di fare. Perché in questo secondo caso la vergogna sarebbe incancellabile e la rabbia incontenibile.

Ai non condannati il ministro pare abbia rivolto una sola attenzione, immaginando che gli arrestati possano restare per due giorni nelle celle di sicurezza delle polizie. Idea pessima. Consapevole di quel che significa pare lo stesso ministro abbia suggerito di cambiare loro il nome, denominandole “sale di custodia”. Ora, a parte il fatto, cui non voglio credere, che l’idea sarebbe venuta, a lei ed alla collega degli interni, nel mentre andavano alla prima del San Carlo (e vi garantisco, signori del governo, che si vive bene anche senza andare a teatro a scrocco, dimostrandosi già corrotti dall’effimera fama passeggera, così come vi avverto che i vostri predecessori sono stati travolti anche dall’incapacità di comprendere che il loro mondo era divenuto irreale), a parte ciò, dicevo, cambiare il nome alle cose non muta le cose stesse: la cella di sicurezza, senza controlli e garanzie, è roba medioevale. Toglietevelo dalla testa.

Ciascuna persona civile non può non sentirsi offesa dallo stato delle nostre carceri. Ciascun cittadino non può non avvertire che la soluzione deve portare maggiore giustizia, come anche certezza che i condannati scontino la pena. Noi che abbiamo dedicato alla giustizia tanta parte della nostra vita una cosa l’abbiamo imparata: la bontà delle intenzioni non conta nulla. Contano i risultati.

lunedì 19 dicembre 2011

Recessione burning. Fabrizio Grasso

La recessione è una malattia democratica: colpisce tutti.

Recessione: forma religiosa d’impotenza.

Recessione: Ancora tu non mi sorprende lo sai/ ancora tu ma non dovevamo vederci più?

Governare la recessione non è difficile, è inutile.

Recessione, il meglio è passato.

Un contribuente è uno che lavora per lo Stato e la recessione, ma senza avere vinto un concorso pubblico.

Non chiedete cosa possa fare la recessione per voi: chiedete cosa potete fare voi per la recessione.

Certe recessioni non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano.

Recessione: ecco una lametta che ti taglia le vene.

Questa è la recessione del mondo senti che scende questa economia.

Allora prenderò la recessione al volo.

La recessione è la misura di tutte le cose.

Recessione homini lupus.

Datemi una recessione e seppellirò il mondo.

Che cos’è la recessione? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.

***

Hanno collaborato: Indro Montanelli, Charles Régismanset, Lucio Battisti & Giulio Repetti, Benito Mussolini, Ennio Flaiano, Ronald Reagan, John Fitzgerald Kennedy, Antonello Venditti, Donatella Rettore, Jovanotti, Fantozzi, Protagora, Thomas Hobbes, Archimede, Giorgio Perozzi. (The FrontPage)

Differenza tra crisi economica e crisi dei mercati. Gianni Pardo

Se un uomo si rompe una gamba ed ha la diarrea, soffrirà dell’ingessatura e del dover correre continuamente in bagno. Naturalmente ognuno dei due mali renderà peggiore l’altro, ma questo non significa che la frattura dipenda dallo stomaco o il mal di stomaco dipenda dalla frattura.

Nella crisi economica italiana si rischia una analoga confusione. Noi soffriamo del peso degli interessi sul debito pubblico e della recessione economica, ma i due fenomeni non sono eziologicamente collegati: l’unico punto comune è che l’uno aggrava l’altro.

La grande massa del debito pubblico si è formata in anni lontani, mentre negli anni recenti l’Italia è stata molto virtuosa: i proclami di Tremonti non erano infondati. Ma c’è stata la crisi mondiale cominciata nel 2008, si è avuta la crisi della Grecia, l’Italia si è avviata alla recessione, i mercati si sono preoccupati e la cosa ha fatto valanga: da questo l’aumento dei tassi di Bot e Btp. L’Italia aveva ed ha necessità di venderli per pagare col ricavato quelli in scadenza e abbiamo toccato picchi dell’8% di interesse: con impegni che domani potrebbero salassarci a morte.

Facciamo l’ipotesi che la crisi si fosse verificata mentre l’Italia andava a gonfie vele, il pil aumentava del 4% l’anno - non si sta dicendo niente di mitologico - e le prospettive economiche erano rosee. I mercati, pur preoccupati per la crisi mondiale, si sarebbero detti che, comunque, l’Italia rimaneva solida. È quello che pensano della Germania, e proprio per questo i suoi tassi d’interesse sul debito pubblico sono tanto più bassi dei nostri (il famoso spread). Se domani l’euro scoppiasse, non è che la Germania non piangerebbe: ma la sua situazione interna è più rassicurante e i mercati ne tengono conto.

In Italia siamo nei guai perché la crisi dell’euro e il macigno del debito pubblico pesano su una nazione che economicamente non progredisce più ed anzi indietreggia: si chiama recessione. La domanda diviene dunque: come se ne esce?

La formula scelta dalle autorità europee ed italiane, fino ad ora, è stata quella di un aumento della pressione fiscale. Gli italiani sono stati “invitati” a dare di più allo Stato e consumare meno per loro stessi. Solo che il denaro dato allo Stato è sterile, non produce ulteriore ricchezza, mentre consumando di meno gli italiani comprano di meno, i commercianti vendono di meno, gli industriali producono di meno e lo Stato intero tende ad impoverirsi, accentuando la recessione. Prosit.

Un’altra formula, molto in voga nel secolo scorso, era quella di John Maynard Keynes, se l’abbiamo capita bene. Lo Stato lancia (facendo debiti) enormi lavori pubblici, in modo da combattere la disoccupazione, far produrre di più le imprese, immettere liquidità nel sistema, e fa ripartire l’economia. Sempre se abbiamo capito la teoria di Keynes, questo “acceleratore” funziona se il piede su di esso è tenuto momentaneamente, mentre nel secolo scorso non lo si tolse più dal pedale e questo creò il debito pubblico. Oggi Keynes è visto come uno che aveva torto e non bisogna parlarne, mentre forse non è la teoria ad essere sbagliata ma l’applicazione che se ne dette.

Rimane l’ultima soluzione, quella di cui nessuno vuole parlare: un cambio di modello produttivo. Invece di invitare la Cina a fare come noi, noi dovremmo fare come la Cina. Attuare una liberalizzazione selvaggia del tutto dimentica delle famose “conquiste dei lavoratori” che ci hanno portato dove siamo, fino a rilanciare la nostra economia come una tigre. Ché poi, quando fossimo riusciti a riconquistare la prosperità economica, si potrebbe anche riparlare di salari minimi, stabilità del posto di lavoro, pensioni anticipate e ogni sorta di bonus. “Intanto guarisci dalla malattia e vai a lavorare, poi ti godrai le ferie a Montecarlo”.

Ma non c’è speranza. Il dogma corrente è che l’economia deve funzionare e produrre ricchezza anche se si fa di tutto per intralciarne il cammino. Se poi rallenta, la soluzione è aumentare la pressione fiscale e andare a cercare altri evasori. Il grande tecnico Monti non vede altro: da bravo antiberlusconiano, per lui uno Stato serio è uno Stato che impone tasse, e che, quando le cose vanno male, impone tasse, tasse e tasse. Come diceva lo scorpione alla rana, in un famoso aneddoto, “è la sua natura”. E, purtroppo, la natura dell’intera Italia. (il Legno Storto)

sabato 17 dicembre 2011

E' ora che alcune verità rimosse sui palestinesi siano riportate alla luce. Costantino Pistilli

Il candidato repubblicano Newt Gingrich in un’intervista con Jewish Channel ha dichiarato: “I palestinesi non esistono e il processo di pace in Medio Oriente è un’illusione. Dobbiamo ricordarci che non è mai esistito uno Stato di Palestina perché all’origine la Palestina era parte dell’Impero Ottomano. Credo anche che i palestinesi siano stati inventati perché in effetti erano parte della grande comunità araba”. Dal partito democratico statunitense fino a Ramallah la dichiarazione di Gingich ha provocato irruenti proteste. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua lo sospetta addirittura “di ignoranza storica e di superficialità politica”. Neanche la replica del suo portavoce, R.C. Hammond, è servita a calmare gli animi: “Gingrich si riferiva al fatto che questo conflitto è frutto di decenni di storia. Noi sosteniamo una pace negoziata fra Israele e palestinesi che includerà necessariamente i confini di uno Stato palestinese, ma per comprendere meglio cosa viene proposto e negoziato dobbiamo conoscere una Storia lunga e complessa, ed è proprio questo che Gingrich tentava di fare nell’intervista televisiva”. Quelle di Gingrich, però, sono altro che rozze farneticazioni. Il concetto di nazionalità etnica come base dell'identità politica era tipicamente europeo. Un concetto difficile da declinare in arabo. La sua nascita risale alla fine del XVIII e agli inizi del XIX secolo, e si collega alla Rivoluzione francese, alle guerre napoleoniche e al romanticismo. Nel caso della nazione palestinese, a supporto della tesi di Gingrich, arriva la spiegazione del professor Bernard Lewis, uno dei massimi studiosi del Levante e professore emerito di Studi sul Vicino Oriente alla Princeton University. “Dalla fine dello Stato di Israele nell'antichità all'inizio del dominio britannico, l'area ora designata con il nome Palestina non era una nazione e non aveva frontiere, solo confini amministrativi” scrive Lewis in un articolo pubblicato sull’americano Commentary Magazine nel gennaio del 1975.

In Palestine: On the History and Geography of a Name, editato all’International History Reviw, spiega invece come “ Migliaia di anni prima che i Romani inventassero la Palestina, la terra era conosciuta come Canaan. Il nome Falastin che gli arabi oggi usano per Palestina non è un nome arabo. È la pronuncia araba di ciò che i Greco-Romani chiamavano Palestina derivato da Peleshet: nome che iniziò ad essere usato nel tredicesimo secolo A.C., a causa di un movimento migratorio di genti chiamate "gente del mare", provenienti dall'area del Mare Egeo e delle Isole Greche e si insediarono sulla costa del Sud della terra di Canaan. Nel primo secolo D.C. i Romani annientarono lo stato indipendente della Giudea. Dopo la rivolta fallita di Bar Kokhba nel Secondo Secolo D.C., l'Imperatore Romano Adriano determinò di spazzare via l'identità di Israele-Giuda-Giudea. Perciò egli prese il nome Palestina e lo impose alla Terra di Israele. Nello stesso tempo egli cambiò il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina”. Mentre il mondo prova a bocciare Gingrich in Storia, il vice ministro degli esteri israeliano Danny Ayalon ha diffuso su YouTube un filmato di cinque minuti intitolato La verità sulla questione dei profughi - terzo video dopo quello sulla Cisgiordania e Il processo di pace - in cui spiega in parole semplici alcuni dei più complessi nodi del conflitto israelo-arabo-palestinese. Nel video Ayalon chiede chi sono i profughi, del perché dopo più di sessant’anni è ancora una questione aperta, come è incominciata la tragica e obliata storia di più di 850.000 ebrei delle antiche comunità ebraiche cacciati dalla conquista islamica nei Paesi arabi. Al contrario, continua il vice di Lieberman, 160.000 arabi accettarono l’offerta di Israele di restare ed oggi vi sono più di un milione di cittadini arabo-israeliani che vivono in Israele con pieni diritti di cittadinanza.

Uno status invece negato dai vicini arabi che ai profughi palestinesi riservano una serie di leggi discriminatorie: divieto di ottenere la cittadinanza (ad eccezione della Giordania), impossibilità di accedere a molte professioni, limitazioni al possesso di terreni, restrizioni di movimento, diniego di istruzione e assistenza sanitaria. Un’altra stoccata viene scagliata contro l’Onu: “Mentre tutti i profughi del mondo vengono assistiti dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR), un’agenzia separata, l’UNRWA, venne creata specificamente per i palestinesi. Come mai i profughi palestinesi non possono condividere la stessa agenzia con i profughi di Bosnia, del Congo o del Darfur, tanto per citarne alcuni?”. La risposta secondo il vice ministro israeliano è: “Mentre l’agenzia centrale delle Nazioni Unite aiuta i profughi a reinserirsi, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi contribuisce a perpetuare il loro status, applicando criteri atipici. Ad esempio, i profughi perdono il loro status di profugo quando ricevono la cittadinanza di un paese riconosciuto, i profughi palestinesi no; i profughi non possono trasmettere il loro status da una generazione all’altra, i profughi palestinesi sì; i profughi vengono incoraggiati a reinserirsi in altri paesi o ad integrarsi nei paesi che li ospitano, cosa che l’UNRWA evita di fare. Le Nazioni Unite spendono per ogni singolo profugo palestinese circa tre volte più di quanto spendono per un profugo non palestinese, e impiegano uno staff oltre trenta volte più numeroso. Insomma, per tutto il XX secolo le Nazioni Unite hanno trovato soluzioni durevoli per decine di milioni di profughi, mentre l’agenzia per i profughi palestinesi non ha trovato soluzione per un solo profugo”. (l'Occidentale)

Rivincita. Davide Giacalone

Il governo ha ottenuto la fiducia lo stesso giorno in cui promette la rivincita. Torneremo sul capitolo liberalizzazioni, affermano, e questa volta non ci fermeremo. Proposito lodevole, ma sarà bene chiariscano a se stessi perché, questa volta, hanno perso. Un simile esito non sarebbe stato possibile, forse neanche pensabile, se non fosse stato il governo stesso a commettere errori procedurali e politici.

Il contenuto finale del decreto è, per la grandissima parte (più o meno l’85%), fatto di tasse. In un paese già in recessione si tratta di una randellata micidiale. Per ragioni tutte legate alla comunicazione, che è stata sapientemente gestita, il dolore della botta ha assunto una valenza positiva, come a dire che era quello che serviva e ci voleva coraggio e sapienza nell’impartirla. Purtroppo, però, non è così: la sapienza sarebbe stata sprecata, perché quel genere d’operazione riesce a chiunque; il coraggio sarebbe stato meglio utilizzarlo per mettere l’Italia nelle condizioni di crescere, facendo venire meno i freni delle rendite di posizione; mentre il dubbio più consistente è relativo al merito e all’efficacia, perché sbagliare la terapia e praticare un salasso al paziente anemico significa avviarlo verso la tomba.

Ieri il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto che stiamo scontando anche la contraddittorietà delle risposte che l’Europa ha dato alla crisi. Ha ragione, ma noi lo scriviamo da mesi, ripetendo mille volte che prendere soldi agli italiani senza prima avere spento il fuoco della speculazione contro i debiti sovrani equivale a incenerirli. Non ci sono novità, insomma, sono dati e situazioni che tutti, da tempo, abbiamo il dovere di conoscere.

Il governo Monti ha operato in condizioni di grande difficoltà, dati i tempi stretti e le pressioni che ricevevamo da altri Paesi europei, segnatamente da Germania e Francia, oltre che dalle istituzioni dell’Unione. Nessuno può ignorare questo presupposto. Al tempo stesso, però, il governo s’è mosso in una condizione di grande favore istituzionale: nato dalla volontà e con la copertura del Quirinale, dispone, come ieri s’è confermato, dell’appoggio del Parlamento. Che ciò sia dovuto allo stato catatonico in cui si trovano le grosse forze politiche è vero, ma è pur sempre un vantaggio, per l’esecutivo. Partendo da queste premesse, e tenendo conto delle pressioni, il governo ha velocemente preparato un decreto legge, prontamente emanato dal Quirinale. E’ a partire da quel testo che è cominciato il precipitare.

Gli errori tecnici erano imperdonabili. Il che è paradossale, per dei tecnici. Non c’è fretta che tenga, ci sono cose che chiunque sia istruito alla vita istituzionale non può permettersi. A questi si sono sommati errori politici, che qui è bene scarnificare, se si vuol sperare in una “rivincita”, ovvero in un secondo tempo gestito con meno superficialità. La matrice dell’errore politico consiste nel credere che il governo possa andare avanti costruendo un consenso bilanciato, vale a dire ascoltando un po’ la destra e un po’ la sinistra, assecondando ora le richieste degli uni e ora quelle degli altri, nella consapevolezza che i provvedimenti passano, e i decreti si convertono, grazie ad una maggioranza parlamentare, che è pur necessario negoziare. Questa tesi è stata esposta, per giunta a sproposito (con riferimento all’ipotetica asta delle frequenze televisive, che è una bischerata in sé), anche pubblicamente. Se procede in questo modo il governo è finito: tradisce la propria natura e il proprio ruolo, avvicinando fino all’immediatezza la propria caduta. Ingloriosa.

Deve agire, invece, in base ad un criterio opposto: un governo tecnico, sostanzialmente extraparlamentare, che non sia il frutto di un colpo allo Stato, agisce senza contrattare i propri provvedimenti, ma ispirandoli all’unico equilibrio che concili il mandato con le necessità: scontentare tutti. E’ ovvio che, tanto per indicare due esempi, l’aumento delle tasse equivale allo sbugiardamento di tutta quanta l’impalcatura politica del centro destra, ed è ovvio che l’elasticizzazione del mercato del lavoro, comprendendo in ciò la cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, equivale a mettere un dito nell’occhio ideologico della sinistra, ma è anche vero che servono soldi per assicurarsi la discesa del debito e servono le condizioni affinché la crescita riparta, quindi procede, tira dritto, e fa le due cose contemporaneamente. Le forze politiche, in un Parlamento che resta sovrano, decideranno il loro voto, ma dopo che sia stato loro comunicata la non modificabilità dei provvedimenti. Così, forse, si salva la capra dell’emergenza e i cavoli delle istituzioni.

Non solo contrattare è un suicidio, ma diventa anche un obbrobrio se resta ferma la batosta nei confronti di quelli che non possono sottrarsi, mentre il resto viene meno al solo frusciar delle fronde corporative. Ne deriva uno spettacolo orrido. Capisco quei ministri che sentono il bisogno di dire: ci rifaremo, torneremo alla carica, ci sarà la rivincita. Ma rischia d’essere un inutile massacro se tutti, presidente del Consiglio in testa, non avranno la forza di ammettere l’errore compiuto. E di ammetterlo pubblicamente, perché la sola ipotesi che qualcuno faccia il furbo, subordinando l’interesse generale a un qualsiasi disegno politico, farà uscire allo scoperto un branco di volpi spelacchiate. Ma con le fauci sempre possenti.

mercoledì 14 dicembre 2011

Il governo dei ragionieri. Gengis

Pensioni e eccezioni. Perequazioni e indicizzazioni. IMU e detrazioni. 1 e qualcosa per cento di accise, 0.45 di contributi, 0.1 di bolli, 0.76 di patrimoniale estera, 0.4 di altri bolli, 0.0 per-cento-e-qualcosa di tanto altro. Non si capisce se è una manovra o un aiuto di stato all'ordine dei commercialisti. (l'Occidentale)

venerdì 9 dicembre 2011

Terapia pericolosa. Davide Giacalone

La Bce ribassa i tassi (dovrà farlo ancora) dopo che si sono accorti che l’euro potrebbe saltare in aria. Complimenti per la prontezza di riflessi. Cerchiamo di capire, noi italiani, come evitare di far la fine di Pietro Micca, senza neanche l’eroica opportunità di salvare Torino dai francesi. Rischiamo di spappolarci anche in assenza di detonazione. Micca, del resto, finì avvelenato dalle esalazioni, così come noi corriamo il pericolo di finire soffocati dalla recessione.

Il governo Monti ha commesso, sulle pensioni, un grave errore, cui cerca di rimediare facendone uno, politico, ancora più grosso. Sostenemmo subito che l’anticipazione dell’innalzamento dell’età pensionabile e del sistema contributivo era positiva. Ma avvertimmo che togliere l’adeguamento al costo della vita era una misura recessiva. Non siamo tecnici, bensì poveri scrivani, eppure ce ne accorgemmo. Rilevammo un difetto non di “giustizia sociale”, che non è materia maneggiabile da un governo privo di delega popolare, ma di prudenza economica. Ora lo capiscono e dicono che sono pronti alle modifiche, mediante un emendamento (che presto diventerà “maxi”) su cui porre la fiducia e da concepire “a saldi invariati”. E’ il linguaggio dei governi che mediano e s’arrabattano, non di quelli composti da sì alte intelligenze e competenze, privi dell’obbligo di barcamenarsi fra i partiti. Due errori, insomma.

Segnalo il terzo: ci sono lavoratori posti in mobilità o licenziati con la consegna dei soldi per pagare i contributi volontari, tutti alle soglie della pensione. Questo a legislazione allora vigente. Se cambiano le regole vanno tutelati, altrimenti sarà come dire che i più fessi sono quelli che credono nelle leggi. Lo sapevamo già, ma non è il caso di ribadirlo.

Questo governo si giustifica per l’emergenza, non per l’equità, e se quel che scrive non è da prendere in blocco allora il gioco non vale il prezzo della sospensione democratica. Andiamo oltre: il decreto contiene molte norme inique, ma necessarie, il guaio è che c’è tanto bastone recessivo e pochissima carota per la crescita. Non si sono aumentate le aliquote Irpef, ma le addizionali. Nelle tasche degli italiani non fa una grande differenza, salvo il fatto che le seconde riguardano tutti. La logica di tassare per galleggiare è esattamente quella che ci ha portati alla pressione fiscale superiore alla media europea (fra due anni saremo al top), al debito pubblico mostruoso e all’inefficienza della spesa pubblica. Va invertita.

Il quadro dominante è quello europeo. Se il Consiglio di Bruxelles dovesse fallire l’intera questione dovrà essere rivista. Radicalmente, perché in caso contrario non usciremmo dalla crisi, verremmo riaggrediti dalla speculazione e, in più, ci saremmo impoveriti togliendo agli italiani soldi che non servirebbero minimamente ad alleggerire il debito pubblico. Posto ciò, e fidando nel fatto che non si arrivi alla follia del fallimento, noi abbiamo il problema di non accasciarci per anemia. Non possiamo permetterci di far prima la chemioterapia e poi il sostegno, perché la terapia ci ammazza prima di passare alla convalescenza. Una cosa è certa: senza sviluppo e senza svalutazione (che non è nei nostri poteri) quel debito non è sostenibile. Punto. Possiamo anche torturare le vecchiette (e i loro nipoti), ma non sarà mai sostenibile, in queste condizioni.

Mettere sul mercato una fetta consistente del patrimonio pubblico, subito, è indispensabile. Più si aspetta e più ce lo mangiamo. Cambiare le regole del mercato del lavoro, superando la sicurezza dei posti fissi e rendendolo il più elastico possibile, non è un modo per minacciare l’avvenire e la tranquillità dei lavoratori, ma l’unica via sensata per tutelarli. Senza crescita non c’è lavoro. La quantità di italiani che non lavorano è impressionante. Succede per rigidità o per patrimonio accumulato, ma è pur sempre la condotta di chi consegna ricchezza verso mercati esteri e verso lavoratori stranieri. I tecnici dovrebbero conoscere questo ingranaggio infernale, che va fermato. Subito. Cancellare il valore legale del titolo di studio e mettere scuole e università in concorrenza fra di loro non è una minaccia al diritto allo studio, è la formula che porta cultura e saper fare. Il ministro della giustizia fa bene ad occuparsi di carceri, perché sono in condizioni pietose, ma la giustizia, civile e penale, è messa peggio. Qui occorre scardinare le resistenze corporative, dei magistrati e degli avvocati, azzerandole.

Sono materie politiche, spettanti al Parlamento, lo so. Ma se i partiti sono in stato confusionale e il Parlamento in condizioni comatose il dovere di provvedere passa nelle mani dei commissari, del governo in carica. Altrimenti saranno commissari liquidatori.

giovedì 8 dicembre 2011

Europa ed europei. Davide Giacalone

L’Europa che si riunisce oggi è molto diversa da quella, retorica e palloccolosa, di tante celebrazioni e discorsi rituali. Si gioca la pelle. Se la salverà lo farà a dispetto dei cittadini europei, in gran parte delusi, se non direttamente avversi. Ciascuno per propri motivi, talora opposti e inconciliabili, a dimostrazione che non ha saputo affermarsi, né nel bene né nel male, come patria comune. Sappiamo esattamente dov’è l’errore, ma difetta la forza di rimediare.

Con le macerie ancora fumanti della seconda guerra mondiale le potenze vincitrici, e prima fra tutti gli Stati Uniti, decisero che non si sarebbe commesso l’errore con il quale si concluse la prima: non si sarebbero ridotti gli sconfitti (fra i quali noi) in miseria, ma il contrario. Germania e Italia furono escluse dall’armamento atomico. La Germania fu sfregiata dalla divisione, poi ricucita grazie al crollo dell’Unione Sovietica, alla copertura europea e alla sicurezza data dalla Nato. L’Italia divenne terra di confine, con il “più grande Partito comunista d’occidente” e una strisciante guerra civile, alimentata dalla guerra fredda. In questo scenario i padri d’Europa immaginarono che l’integrazione economica potesse precedere e propiziare l’integrazione politica. Se vedessero quel che sta succedendo, non ne sarebbero punto orgogliosi.

Si cominciò con la Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, per proseguire con altri mercati in comune. La nascita di quell’Europa era guardata, dai cittadini, con estranea fiducia. Era una cosa buona e giusta, ma lontana. Poi si prese a costruire il Parlamento europeo, figlio delle assemblee parlamentari, e l’embrione del governo europeo, la Commissione. I cittadini guardavano con distratto disinteresse: restava cosa buona e giusta, ma anche sede di vaniloquio ed elefantiasi burocratica. Gli europeisti (fra i quali chi qui scrive) s’affannavano a dire che il bello sarebbe arrivato e che, comunque, quel che c’era non era poco. Venne la stagione del serpente monetario e dell’Ecu, i nonni dell’euro, in un crescendo che avrebbe dato effettività solida all’integrazione economica. La nascita della moneta comune fu salutata con gioia dai nuovi arrivati, provenienti dall’Europa che fu comunista, schiavizzata, immiserita. Gli altri guardavano con il sopracciglio alzato: gli italiani subivano un cambio che quasi dimezzava il potere d’acquisto, i francesi perdevano un simbolo della grandeur, i tedeschi perdevano il loro marco, ma ci guadagnavano i costi della riunificazione, la ripresa e un mercato interno ricchissimo. Sono loro, i tedeschi, quelli che ci hanno guadagnato di più. Sebbene oggi se ne siano dimenticati. Sarebbe dovuto essere l’apice dell’integrazione economica, dopo la quale sarebbero venuti gli Stati Uniti d’Europa, invece fu l’innesco della tragedia.

La moneta senza testa ha scontentato tutti, anche quelli che ci hanno guadagnato. Fra i quali gli italiani, che pure la guardano spesso con avversione. E’ vero, il cambio fu masochista, ma anni di tassi bassi hanno aiutato tanti che hanno sottoscritto mutui e hanno aiutato la collettività a pagare meno l’imponente debito pubblico. Ma che conta, oggi? Il soldo acefalo non ha resistito un solo minuto quando la speculazione s’è accorta dell’evidenza: avere una sola moneta, ma debiti diversi, venduti a tassi diversi, è una ciclopica cretinata. Capace di distruggere tutto, perché neanche la libera circolazione di persone e cose ha senso ove ciascuno portasse nel sangue di nascita una quota di debito pubblico autoctono e uno svantaggio (o vantaggio) fiscale.

Eccoci qui: la via dell’economia per federare la politica non s’è rivelata un vicolo cieco, come gli euroscettici avvertivano, ma un viale in fondo al quale c’è una voragine. Siccome viaggiamo con il pilota automatico, e dato che le classi politiche europee (con rare eccezioni) sono popolate da esseri minuscoli, abituati ad amministrare la dispensa e non interrogarsi sul mondo, corriamo il serio rischio di finirci dentro. In questo modo partorendo un’Europa di popoli antieuropeisti. Né migliore sarebbe l’Europa che, per restare unita, fosse costretta a ignorare l’opinione degli europei, cittadini democraticamente minorati.

Dubito che il Consiglio di oggi si concluda con una soluzione limpida, ma è necessario che qualcuno azioni il freno a mano, prima che i passeggeri si buttino dal finestrino. Dobbiamo tornare indietro e decidere: o ammettiamo d’avere sbagliato, che la moneta unica fu pura presunzione e incompetenza, oppure ne traiamo le conseguenze politiche e ci gettiamo verso la vera federazione, rinunciando a molta della sovranità nazionale. Di tutti, però, non di alcuni.

Quella in corso è una guerra, che in altri tempi si sarebbe combattuta con le armi. Fermarla è l’unico modo per vincerla. Guardo al mio Paese, purtroppo, e mi dispero all’idea che si sia giunti a questo appuntamento con la storia senza nulla che somigli alla grandezza e alla dignità della politica. Né tale è quella dei tromboni europeisteggianti, che hanno passato una vita a battersi contro l’Europa.

venerdì 2 dicembre 2011

Lo scandalo delle pensioni. FR

L’età media dei pensionati Inps per anzianità nei primi 10 mesi del 2011 è di 58,7 anni, in lievissimo aumento sui 58,6 anni del 2010. L’età media di uscita nel complesso (vecchiaia e anzianità) è stata di 60,2 anni, in calo rispetto ai 60,4 anni del 2010. Se poi si guarda solo ai lavoratori dipendenti, l’età media di uscita nel 2011 è stata, tra vecchiaia e anzianità, di 59,7 anni e dunque la più bassa degli ultimi 3 anni; era stata infatti di 60,9 anni nel 2009 e di 60 anni nel 2010. Per i lavoratori autonomi l’età media complessiva di uscita è stata di 61,1 anni, in calo rispetto ai 61,4 del 2009. È quanto dicono gli ultimi dati Inps, diffusi dall’agenzia Ansa.

Per quanto mi riguarda, il dibattito sulle pensioni finisce qui. Il sistema pensionistico italiano è uno scandalo e una vergogna, e il governo Monti non farà mai abbastanza per smantellarlo come meriterebbe. Le pensioni in Italia sono (state) la tangente che la politica ha pagato agli elettori per comprarne il consenso. I sindacati e la sinistra dovrebbero essere i primi a vergognarsene, perché ne sono corresponsabili.

La benedetta crisi europea – e speriamo che duri ancora a lungo, e che peggiori – svela finalmente il vero trucco contabile dell’Italia, lo scandalo profondo della sua corruzione civile e politica: la trasformazione dei cittadini in sudditi, e dei bisogni in “diritti”. La democrazia dei liberi mercati ha sferrato un attacco mortale all’oligarchia partitocratica della spesa pubblica. Nessun diritto acquisito è da considerarsi un diritto in tempo di rivoluzione: le pensioni di anzianità o di invalidità o sociali o come altro si chiamano non valgono oggi più di quanto valessero i diritti feudali dopo la presa della Bastiglia.

Il feudalesimo corrotto del Welfare all’italiana, di cui il sistema pensionistico costituisce una delle architravi, prima salta per aria e meglio è. In pensione in media a cinquantott’anni? Vergognatevi! (the Front Page)

Gentile professor Monti. Christian Rocca

Vorrei tagliarmi anch'io i capelli di domenica, come ha fatto lei la settimana scorsa. E magari anche di lunedì, se possibile anche di sera.
Le vette liriche raggiunte dai giornali sul suo taglio di capelli domenicale, nell'elegante Via Vincenzo Monti in Milano, resteranno nella storia della pubblicistica italiana e anche nordcoreana. Non importa che se a farsi lo shampoo fuori dall'orario vigente fosse stato uno come La Russa le medesime gazzette intente a lodare la sua cotonatura borghese avrebbero sparato a pallettoni contro la casta arrogante, infingarda e profittatrice. Lasci stare, sono chiacchiere. Ma si impegni, egregio professore, a favorire la casta dei cittadini. La aiuti a liberalizzare gli orari dei negozi. Barba e capelli per tutti. Anche la domenica, anche il lunedì, anche dopo il tramonto. Mi faccia comprare l'insalata a mezzanotte e le lampadine a mezzogiorno. Mi lasci libero di spendere e gli altri di guadagnare. Grazie. (Camillo blog)

mercoledì 30 novembre 2011

Ccà nisciuno è fesso.... Brown's Version

Quando il tasso di interesse sui titoli pubblici italiani e lo spread con i Bund tedeschi saliva, Finlandia e Austria erano tra i paesi contrari a che la Banca Centrale Europea (BCE) comprasse titoli di stato. Ma ora che i titoli pubblici di Austria e Finlandia sono nella stessa situazione, i loro governi chiedono che la BCE compri titoli di stato.

Quando il governo italiano chiedeva che la BCE comprasse titoli di stato per stabilizzare la situazione la Germania si opponeva. Ma quando i Bund tedeschi sono rimasti invenduti la Bundesbank su richiesta del governo tedesco ha comprato 2,4 miliardi di Bund, il 40% dei titoli rimasti invenduti nell’asta di novembre.

Prendere nota per quando certa stampa anti-italiana ripete che altri paesi europei sono sempre più onesti e rigorosi dell’Italia quanto a politica economica e monetaria. Ccà nisciuno è fesso. (l'Occidentale)

martedì 29 novembre 2011

La mamma dei cretini e quella dei banchieri. Il Padano

Un noto detto popolare dice che la mamma dei cretini è sempre incinta. Ne ho avuto l’ennesima conferma seguendo su La7 la trasmissione di Myrta Merlino L’aria che tira.

Il benemerito programma (che si occupa di economia quotidiana) la settimana scorsa ha dedicato una sua puntata alla vexata quaestio dell’eccessivo uso – da parte degli italiani – del denaro contante, cosa che sarebbe – si badi bene – la causa della enorme economia in nero nel nostro Paese.

Ospiti delle trasmissione – tra gli altri – gli “esperti e qualificati” Bruno Tabacci (quello con la doppia poltrona di parlamentare romano e assessore milanese, e – ovviamente – con doppi “benefit”…) e Vincenzo Visco (quello contro i condoni edilizi berlusconiani e che – ovviamente – si è condonato la villa al mare…). Insomma, due personcine coerenti e credibili…

La trasmissione è apparsa – sin da subito – tutta impostata con un taglio decisamente colpevolista contro l’uso del contante considerato inopportuno, criminogeno, banditesco, quasi fosse “lo sterco del diavolo”!

Se in Italia c’è un consistente “giro di nero” ciò è dovuto – questa la strampalata tesi dei due “super-esperti” – al troppo contante in tasca agli italiani e non invece (come sin troppo ovvio) alla insostenibile pressione fiscale!

Cioè gli obnubilati e saccenti Visco e Tabacci hanno confuso la causa con l’effetto…

In economia infatti è noto (“Curva di Laffer” e successive interpretazioni) che, in presenza di una eccessiva pressione fiscale, procedendo ad una significativa riduzione della medesima si ottiene come risultato l’emersione di molta economia “irregolare” (cioè l’emersione di nuovo imponibile) con conseguente maggior gettito per le casse statali.

Al contrario il demente sistema fiscale italiano continua pervicacemente a vessare i suoi contribuenti super-tassandoli (e questa è la causa), costringendoli – di fatto – all’autodifesa fiscale che passa anche attraverso “il sommerso” e “l’irregolare” strettamente legati all’uso del contante (e questo è l’effetto). Tutto molto banale.

Ma questa semplice evidenza il comunista Visco e il democristiano Tabacci non possono proprio comprenderla appartenendo entrambi alla stessa famigerata parrocchietta del… “tassa, ritassa & tartassa”!

Nel corso della sconcertante trasmissione i due “super-esperti” si sono pure dilettati – bontà loro – a dare qualche consiglio al governo Monti per ottenere una drastica riduzione del contante circolante in Italia onde consentire la tracciabilità di tutti i pagamenti.

Visco – con la sua ben nota e insopportabile tossetta nervosa – ha sentenziato (testuale): “Per prestazioni professionali pagamenti in contanti solo fino a 100 Euro, per tutte le altre spese (taxi, bar, ristoranti, negozi etc.) obbligo di pagamento elettronico, cioè abolizione totale del contante e obbligo per tutti gli esercenti di dotarsi di apparecchi Pos o simili”.

Bingo! Avete capito bene: “abolizione totale del contante per l’acquisto di beni e servizi”, così ha detto!

Bene, applichiamo subito la demenziale “ricetta Visco”: chiudiamo tutti gli sportelli Bancomat e mettiamo l’uso del contante fuorilegge che così di certo aiuteremo la nostra traballante economia a risollevarsi!

Un delirio! Un delirio! E questo tanghero con le pigne in testa è pure professore ordinario alla Sapienza (con stipendio pagato da noi!). Tralascio ogni ulteriore commento…

Ma se effettivamente – come pare – il governo Monti fosse intenzionato a rivedere la normativa sui pagamenti elettronici (abbassando magari la soglia a soli 250/300 Euro) ci sarebbero un paio di “piccoli” problemini da risolvere…

Primo problema: l’uso massiccio ed estensivo della moneta elettronica porterebbe a ulteriori, spaventosi problemi di tutela della privacy (da noi già per nulla protetta) poiché buona parte della nostra vita quotidiana potrebbe essere tracciata e spiata seguendo tutti i nostri pagamenti elettronici. Avremmo cioè un Grande Fratello onnisciente degno di George Orwell: la Gdf, la Magistratura, l’Agenzia delle Entrate, Equitalia & guardoni vari che si farebbero gli affari nostri H24… Un incubo!

Secondo problema: chi sopporterebbe i costi di tale uso massiccio della moneta elettronica, cioè – tradotto – chi verrebbe “inchiappettato” e chi ci guadagnerebbe?

Tutti sappiamo che la moneta elettronica è collegata ai circuiti bancari e ai depositi. Già le banche guadagnano in modo immondo sui nostri movimenti di conto, mi chiedo cosa succederebbe se l’uso dei pagamenti elettronici (con soglia così bassa) fosse imposto per legge a tutta la popolazione italiana (mia nonna di 91 anni compresa…).

Circa il 20% delle famiglie italiane non ha un conto corrente, cosa vorrebbero fare Visco, Monti & Tabacci? Forse imporglielo per legge? Imporre per legge a mia nonna di 91 anni di avere il Bancomat o la Carta prepagata? Follia!

Infine, questa assurda idea di demonizzare l’uso del contante per favorire la moneta elettronica porterebbe nel governo Monti anche ad un macroscopico conflitto di interessi considerato che c’è un tal ministro di nome Corrado Passera, individuo dotato di ricco portafoglio a fisarmonica imbottito di stock options e azioni bancarie…

E pure altri ministri, viceministri e sottosegretari notoriamente sono “lingua-in-bocca”con l’ABI…

Ci potremmo cioè trovare nella grottesca situazione di avere questo governo tecnico (eletto da nessuno e pieno zeppo di compagni di merende dei banchieri) che – guarda il caso – ti sforna all’istante (col pretesto della tracciabilità dei pagamenti) un bel provvedimento anti-contante schifosamente favorevole agli affaracci immondi delle banche!

Magnifico! Proprio un bel biglietto da visita per Monti & sodali, non c’è che dire…

Evviva la tecnocrazia, evviva il conflitto di interessi permanente! (the FrontPage)

lunedì 28 novembre 2011

Il New Yorker, la crisi italiana e il Super Mario sbagliato. Christian Rocca

Il New Yorker pubblica oggi un bell’articolo sulla crisi finanziaria della zona Euro, spiegando per bene che l’Italia non ha un problema di solvibilità, ok non cresce, ma anzi è uno dei pochissimi paesi del mondo occidentale con un surplus primario, cioè è uno dei rari paesi che incassa più di quanto spende esclusi gli interessi sul debito. Due settimane fa, quando qualcuno provava a far notare questo fatto veniva definito come una via di mezzo tra un negazionista dell’Olocausto e il cugino di Cicchitto. C’è solo un modo per fermare la crisi europea, scrive il New Yorker: la BCE deve fare da prestatore di ultima istanza. Ma, aggiunge la rivista americana, i tedeschi e Mario Draghi non vogliono. Sono loro che stanno affossando la moneta unica, non i governi politici italiani.

Nei giorni scorsi mi sono chiesto più volte come mai nessun giornale abbia acceso i riflettori su Mario Draghi, il banchiere centrale che può fermare questa crisi. Ora ho la risposta: la campagna giornalistica pro BCE prestatore di ultima istanza non si può fare perché svelerebbe l’imbroglio di queste ultime settimane. Agli italiani è stata raccontata una balla, una gigantesca balla dettata da motivazioni altre, secondo cui Berlusconi era la causa di tutti i disastri (diciamo oltre le sue molteplici responsabilità) e che le sue dimissioni seguite da un governo d’emergenza tecnico avrebbero risolto il problema. Ovviamente non hanno risolto nulla, perché non era quello il punto. La crisi è europea, è della Bce, come ormai riconoscono tutti purché fuori Chiasso. Ma da noi si è scelto di anteporre gli interessi di bottega, cioè fare fuori Berlusconi con una manovretta di Palazzo, invece che affrontare sul serio la questione che rischia di farci davvero male.
Berlusconi non era chiaramente più in grado di governare e di rappresentare il paese in Europa, ma aver approfittato della crisi dell’Euro per farlo fuori senza un passaggio elettorale ha sviato il paese dall’unica soluzione possibile alla crisi. Una soluzione che non era Berlusconi o Mario Monti, ma Mario Draghi. Lo sviamento continua ancora oggi, perché altrimenti si dovrebbe ammettere – almeno chi l’ha sostenuto in buona fede – che il problema non era il governo politico del paese, un governo che anzi produceva un avanzo primario, ma altro. Continuare a non affrontare il vero tema, come ci indicano i giornali di tutto il mondo e i principali economisti, dimostra come il nostro default sia più che altro intellettuale.

«Indeed, (Italy) it’s one of only a small handful of countries in the developed world that are running a so-called primary surplus: that is, if you exclude interest payments on its debt, it actually takes in more in tax revenue than it spends».(Dal New Yorker)
(Camillo blog)

venerdì 25 novembre 2011

Risposta sbagliata. Davide Giacalone

Non ci siamo. Il vertice di ieri può essere letto in due modi: per quel che non è stato comunicato, e lì ciascuno può fantasticare come gli pare, o per ciò che è stato detto, e qui sono dolori, perché abbiamo a che fare con il vuoto d’idee e azioni. I mercati lo hanno visto, ben conoscendo la partita reale, hanno capito che qui signori non hanno capito.

Merkel e Sarkozy hanno detto che sosterranno Monti, il che è stilisticamente orrendo, ma la cosa grave è quel che si nasconde dietro un’affermazione così priva di rispetto per la sovranità italiana: dimostrano di non avere colto quel che sta capitando. Non dobbiamo preoccuparci solo noi, ma i cittadini e le classi dirigenti di Francia e Germania, oltre che dell’intera Unione monetaria.

La Francia deve essere sostenuta, altro che sostenere gli altri. La Germania deve essere trattenuta, dal credere che esista un destino teutonico che può passare sopra le rovine nell’Unione europea e della moneta unica. Ieri a Strasburgo, invece, ha preso corpo l’Europa che vive illudendosi che possa funzionare l’“asse”, l’accordo fra due stati che subordina tutti gli altri. A parte le tragedie, anche in tempo di pace l’asse ha funzionato male, mentre l’Europa ha fatto passi in avanti quando ha adottato sistemi federativi e comunitari, nel prendere le decisioni. Merkel e Sarkozy, con i loro rispettivi egoismi nazionali ed elettorali, sono un problema, non la soluzione.

I mercati vivono il problema europeo in modo schematico ed efficace: a. se uno Stato aderente all’euro è insolvente ne deriva che le banche che hanno investito in titoli del suo debito si avviano al fallimento; b. se le banche s’avviano al fallimento è evidente che non potranno sostenere i debiti pubblici (il contrario di quanto stabilito a Basilea, ove si consideravano quegli investimenti privi di rischio, quindi equiparabili a denaro contante); se le banche non possono sostenere il debito pubblico e lo Stato è insolvente ne discende che l’euro sta per saltare in aria. Quindi via tutti. Alla prudenza s’associa la soddisfazione di veder strisciare la prosopopea degli europei, il loro pretendere d’essere valuta di riferimento globale.

Sarkozy è un presuntuoso che sta cercando di salvare la poltrona, ben consapevole che l’umiliazione della Francia equivale al suo sfratto, quindi gioca a fare il gradasso, l’amico del potente, scaricando le colpe su altri. Noi. Merkel ancora crede che si possano salvare le banche senza chiudere la voragine di una terrificante illogicità: 1. una moneta unica; 2. che federa debiti sovrani diversi; 3. venduti a tassi d’interesse diversi; 4. e non sostenuta da una vera banca centrale. Aiutare l’Italia, in queste condizioni, non serve a nulla e a nessuno. Serve solo a perdere tempo, mentre sulle cose che contano, ovvero sulla federalizzazione della politica fiscale, si continua a rimandare. Monti l’ha reclamata, ma la Merkel ne ha nuovamente escluso uno degli strumenti: gli eurobond. I mercati sentono puzza di morto e s’affrettano al funerale.

Fuori dalle dichiarazioni ufficiali gira la voce che il governo tedesco avrebbe dato il via libera ad una soluzione di questo tipo: va bene autorizzare un quantitative easing, ma sia la Bce a farlo “autonomamente”. La prima cosa è corretta, ma la seconda la depotenzia e rende sterile. Se la Bce continua a comprare titoli dei debiti sovrani, senza che il vertice politico abbia comunicato al globo che la festa della speculazione è finita e che i pertugi dove s’è infilata saranno tappati, otterrà il solo risultato d’infettarsi a sua volta, nel mentre i titoli del debito pubblico tedesco non li compra nessuno, anche perché rendono troppo poco rispetto al rischio che portano in pancia: essere espressi in una valuta immaginaria. Se aumenta la base monetaria senza politiche federali del debito lenisce il dolore, ma non riduce la frattura. A questo s’aggiunga che le nostre sono democrazie, e la furbata di nascondere le decisioni dietro l’autonomia altrui finisce con il produrre guasti considerevoli.

Se il vertice di ieri è l’antipasto del Consiglio europeo del prossimo 8 dicembre allora preparatevi al rigurgito dei mercati, che sarà doloroso. Una parola sulle cose nostre: fare i compiti a casa è cosa buona e giusta, ed è vero che avremmo dovuto già fare quelli del debito e della produttività. Ma oggi non è chiaro quale sarebbe la materia da compitare. Se fosse l’aiutino alle banche francesi la diligenza sarebbe esecranda.

Si avvicina il Btp-day, ma di cosa si tratta? Daniel Settembre

Era il 4 novembre quando l’imprenditore pistoiese Giuliano Melani, responsabile di una società di leasing, acquistò una pagina pubblicitaria intera del Corriere della Sera per un appello all’Italia: “ricompriamoci il nostro debito”.
In soldoni diceva l’imprenditore: “ogni anno ci viene chiesto di sottoscrivere il debito per circa 270 miliardi(circa 4.500 euro a persona). Lo so che le medie ci fanno fessi, ma state sicuri che molte persone dispongono di queste cifre. Compriamoli al tasso di rendimento più basso possibile, anche a tasso zero”.

Il sasso è stato lanciato e l’inziativa è piaciuta.

Tanto che Via Solferino in primis ha chiesto agli istituti di credito di rinunciare per un giorno alle commissioni applicate alla clientela privata che acquisti carta italiana.

Molte sono state le adesioni delle principali banche del Paese: da Unicredit a Intesa Sanpaolo, da Mps al gruppo Ubi Banca, da Bnl a Banca Sella. Tanto che l’Abi, l’associazione bancaria italiana ha indetto la giornata Btp-day per il 28 novembre per poi raddoppiare l’appuntamento il 12 dicembre.

Ultima ad aggiungersi Borsa Italiana che non applicherà alle banche e agli intermediari partecipanti all´iniziativa alcuna fee di negoziazione relativamente alle operazioni di acquisto dei titoli di stato italiani in "conto terzi" effettuate sul MOT.

“Riteniamo importante dare il nostro contributo alla riuscita di questa iniziativa congiunta che ha l´obiettivo di sostenere e rafforzare la fiducia degli investitori privati in una fase delicata per la nostra economia - commenta Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana - Il Btp Day rappresenta un chiaro esempio di azione coordinata il cui successo non potrà che essere a beneficio di tutti”.

Ma di cosa si tratta nel dettaglio?

Il 28 novembre l’evento si riferirà al mercato secondario, ai titoli già in circolaazione, come i Buoni Ordinari del Tesoro (BOT), i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP), i Certificati del Tesoro Zero Coupon (CTZ), i Certificati di Credito del Tesoro (Cct / Ccteu) e i Buoni del Tesoro Poliennali indicizzati all'Inflazione Europea (BTP), e potranno beneficiarne famiglie, imprenditori e imprese, escludendo solo investitori istituzionali.

Sui mercati (come per esempio il Mot di Borsa Italiana, il TLX o l'Hi-MTF) o fuori da tali mercati non verranno applicate le commissioni di negoziazione, o compravendita dovute alla banca. Per chi ha già un deposito titoli presso la propria banca, non sono previste altre spese. Se, invece, un cliente non ha mai operato in titoli dovrà aprire un deposito titoli. A non rientrare nell’iniziativa, e rimarranno quindi sulle spalle del cittadno, le spese e gli oneri, anche di natura fiscale, connessi con il deposito titoli .

Per il secondo giorno, il 12 dicembre, si potrà partecipare all’acquisto, prenotandoli, i titoli di nuova emissione nell’asta con scadenza il 14 dicembre 2012 che il Tesoro ha in agenda proprio per quel giorno. Le commissioni che il cliente non pagherà in virtù del Btp-day sono quelle previste dal Decreto ministeriale del 12 febbraio 2004, in base al quale la misura massima applicabile per il tipo di titoli che andranno all' asta è pari a 0,30 euro ogni 100 euro di capitale sottoscritto.

Quanto sarà il risparmio?

A spiegarcelo una simulazione di Uncredit, secondo la quale acquistando, durante i primo Btp-day, 2.000 euro di Btp a 10 anni (scadenza gennaio 2021), che costano 86,50, il risparmio di lunedì sarà di 15,65.

Per importi maggiori, sui 20.000 euro, il risparmio sarà di circa 105 euro di commissioni.

Da non dimenticare, infine, che per chi non possiede alcun titolo di Stato, è obbligatorio aprire un conto deposito in banca: il costo annuale per i diritti di custodia sarà intorno a 20 euro, più l’imposta di bollo sulle comunicazioni periodiche fino ai 50.000 euro è di 34,20 euro. (Soldi-web)

martedì 22 novembre 2011

Poteri forti, non occulti. Giampaolo Rossi

Ma insomma, questi benedetti «poteri forti» esistono o no? E sono poi così forti? La politica è quella che traspare dalle dichiarazioni dei leader di partito o nei dibattiti, o risponde a dinamiche più complesse e invisibili che ne condizionano il corso? Prima sgombriamo il campo dal tentativo di ridicolizzare la questione dei «poteri forti», facendo credere che chi la pone sia un nostalgico dei Protocolli dei Savi di Sion o un fan di Dan Brown. Se per «poteri forti» s'intendono centri occulti di ombre silenziose che tessono la ragnatela di conquista del mondo, tra logge massoniche di ogni grado e grembiule, o confraternite esoteriche di culti paranoici, allora siamo d'accordo: i poteri forti non esistono. Ovvio però che qualche riserva rimane comunque, a meno che non vogliamo credere che 130 signori tra i più potenti del mondo finanziario, economico e politico, ogni anno si riuniscono segretamente nel Gruppo Bilderberg per parlare di vacanze a Cortina o per un semplice seminario di studi di economia politica.

Ma allora cosa sono i «poteri forti»? Sono quegli ambiti di potere autonomo che nella complessità di una società moderna si sostituiscono alla politica, sfruttandone le fasi di debolezza, condizionando la vita democratica senza avere alcuna legittimazione per farlo. E la forza dei «poteri forti» è tanto maggiore quanto è debole quella della politica. Il potere è come uno spazio fisico, che non contempla l'idea del vuoto. Perché il vuoto è la sua negazione. Questo spazio va riempito con ciò che si chiama "decisione", ovvero ciò che consente al potere di svolgere la sua funzione e rispondere alla sua ragion d'essere. La democrazia rappresentativa è stata la forma di governo moderna che meglio ha saputo conciliare la legittimazione del potere con l'idea di consenso, garantendo alle nazioni che l'hanno adottata la possibilità di coniugare libertà individuali, diritti collettivi e benessere economico. Questo è stato possibile perché alla base della democrazia rappresentativa, e solo di essa, risiede la sovranità del popolo e il suo diritto a scegliere da chi farsi governare: è questo principio che fonda la supremazia della politica sull'economia e su qualsiasi altro settore della società.

I «poteri forti» non sono poteri occulti ma manifesti, spesso costituzionalmente garantiti, la cui azione però travalica le proprie funzioni e sconfina nello spazio politico alterando le regole del gioco. Per esempio, nel Cile di Allende e di Pinochet, l'esercito era o no un «potere forte»? Certo che sì. E il suo operato ha travalicato o no la sovranità popolare? Beh, direi proprio di si. Facciamo un altro esempio che ci riguarda da vicino: in questi ultimi 20 anni, in Italia, la magistratura è stata o no un "potere forte" in grado di condizionare la vita democratica? Certo che sì. Il famoso avviso di garanzia a mezzo stampa che costrinse Berlusconi a dimettersi nel '94, così come il circuito mediatico-giudiziario costruito in questi anni per condizionare l'azione della politica, rappresentano un superamento dei limiti costituzionali consentiti. I "poteri forti" non agiscono mai da soli, ma si devono appoggiare a figure istituzionali che ne avallino l'operato e ne diano parvenza di legittimità. Nel Cile di Pinochet fu la maggioranza del Parlamento, nell'Italia del 1992 e in quella del 2011, l'avallo di un Presidente della Repubblica.

In Europa, che non è uno Stato ma una moneta, i poteri forti sono ovviamente quelli finanziari. Come ci racconta tutta la stampa europea, sono stati loro, rappresentati da Bce, Fmi e gerarchia Ue, ad aver sancito la fine dei governi democraticamente eletti in Grecia e Italia. Quando i poteri forti intervengono, la democrazia viene sospesa. E comunque, se i poteri forti non esistono, ecco una proposta: per ogni banchiere che fa il ministro senza passare per il voto popolare, mettiamo un non-banchiere a capo di una banca, senza passare per il CdA. Se dobbiamo rimescolare le carte facciamolo bene. Se la politica fatta dai banchieri diventa più pulita, magari la finanza, non più in mano a questi geni dell'economia che hanno giocato con l'euro, cessa di essere il mare di squali che ha generato la crisi che noi stiamo pagando.(Notapolitica)

venerdì 18 novembre 2011

Ricco imbecille. Davide Giacalone

Angela Merkel ha detto, rivolgendosi a Mario Monti: “l’eurozona conta su di lei”. E fa male. Non perché Monti non meriti fiducia, che, anzi, proprio in queste ore la ottiene: ottima e abbondante. Ma perché il governo italiano ha già agito meglio degli altri europei, portando il bilancio pubblico in avanzo primario. Ci viene rimproverata una crescita troppo bassa, il che è musica per le orecchie di chi, come noi, ripete da anni la tiritera delle riforme, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, ma evitiamo di prenderci in giro: se si somma alla crescita del pil italiano il differenziale di deficit pubblico primario, ad esempio con la Francia, i livelli si pareggiano. Anzi, sono a nostro vantaggio. Ecco perché la signora Merkel fa malissimo a contare su Monti, giacché il problema non è il governo italiano, ma quello tedesco.

Alziamo lo sguardo sull’orizzonte, o, almeno, un po’ oltre le nostre vicende interne. Quel che vedo è che l’estate scorsa il presidente statunitense è stato massacrato da un congresso che si rifiutava di elevare il tetto al debito pubblico, spingendo il bilancio federale verso la bancarotta. Fu un dibattito lungo e umiliante, che mostrava il lato nascosto di una debolezza istituzionale. In capo alla più grande potenza economica e militare del mondo. Cosa è rimasto di quelle difficili settimane? Nulla. Anzi, gli Usa possono autorevolmente indicare agli europei qual è la via giusta per uscire dalla crisi dei debiti, vale a dire quella che hanno seguito loro: immettere valanghe di moneta sui mercati.

Rivolgiamoci all’altra parte del globo: la Cina vide di buon occhio la nascita dell’euro, è pronta a sostenerlo ed ha in portafoglio molti titoli dei debiti pubblici dell’eurozona. I nostri meno di quelli altrui, il che ci dispiace. Tale atteggiamento non è frutto di benevolenza, ma di convenienza: nel momento in cui la Cina esce dai sui confini e dalla miseria, divenendo protagonista sui mercati globali, gradisce che la valuta di riferimento non sia una sola, per giunta amministrata da chi ha interessi geostrategici potenzialmente non collimanti con i propri. L’euro era una buona alternativa.

Guardate un po’ più in basso, nel globo, dove trovate l’Australia: gode di un giudizio tripla A, circa l’affidabilità del proprio debito pubblico; offre tassi d’interesse convenienti; ora gli statunitensi hanno deciso di spedire colà 2.500 marines. Ciò non fa un gran piacere ai cinesi, ma è assai indicativo per gli investitori, mettendo in evidenza una buona occasione, non quotata né in dollari né in euro.

Allora, se ci si guarda in giro cosa si vede? Che l’euro come valuta di riferimento internazionale sta affondando. Se il Fondo monetario internazionale dovesse intervenire a sostegno di uno dei paesi dell’eurozona sarebbe il de profundis. Questa è una partita globale, nella quale l’Europa fa la parte del ricco imbecille. La colpa di ciò ricade prima di tutto su tedeschi e francesi, sulla premiata ditta Sarkel, che ha distrutto un lavoro iniziato dopo la seconda guerra mondiale. I mercati stanno spiegando ai francesi quel che noi scriviamo da mesi: partirà l’attacco contro di loro e, a quel punto, non avendo reagito prima e avendo cercato di fregare gli altri, resteranno senza difese. In quanto ai tedeschi, sarà difficile, un giorno, spiegare ai loro giovani che la grande Germania s’è giocata il ruolo europeo per cercare di far vincere alla Merkel almeno un’elezione provinciale. Senza neanche riuscirci.

Un tempo si diceva del “gigante dai piedi d’argilla”, ma l’Europa d’oggi è un obeso decerebrato. Dopo di che, per carità, discutiamo anche del governo italiano e mandiamo in onda l’orrido spettacolo di cancellerie che festeggiano e mercati che se ne fregano. Noi italiani abbiamo solo che da guadagnarne, ha ragione Francesco Profumo a ricordare che la crisi è una meravigliosa occasione per uscire dall’immobilismo inconcludente. Ma se qualcuno crede che tassando gli italiani, e dando i loro soldi alle banche francesi e tedesche, in modo che ci rivendano i titoli del debito pubblico, si arrivi da qualche parte, ebbene, non si tratta di un illuso, ma di un colluso.

giovedì 17 novembre 2011

17 novembre 2011. Andrea's Version

Potrebbe cadere da un’impalcatura, venir travolto da una banda di ubriachi, o perfino vedere l’onorevole Scajola che firma in piena consapevolezza un atto notarile, e il professor Monti manterebbe sempre quell’espressione da cocker che aveva anche ieri mentre leggeva la lista dei ministri. Ora, chiariamo una cosa. Il fatto di avversarne il governo per i noti motivi, non significa affatto che ci auguriamo una sua caduta per via dell’aspetto, anche se sembra quello di chi si prepara a rilevare da un momento all’altro la ditta di pompe funebri più onorata della città. Al contrario ci auguriamo che, dovunque vada, la sua competenza indiscussa e la padronanza delle lingue, unite al fascino composto che la sua figura sprigiona, facciano sempre fare all’Italia un’eccellente figura. Dopo quello che abbiamo passato, va bene così. L’importante sarà che i partner europei, quando lui, vestito di scuro, li incontrerà per spiegare loro il ciclo virtuoso già innescato nel suo paese, non cadano nel tragico errore di cremarlo prima che possa parlare. © - FOGLIO QUOTIDIANO

mercoledì 16 novembre 2011

La faccia come lo spread. Christian Rocca

Fa molto ridere la doppia paginata di oggi di Repubblica, molto in là nella foliazione, che interpella economisti, professori, Nobel per l'Economia su come affrontare e risolvere la crisi dei debiti sovrani, a cominciare da quello italiano. Ebbene, Krugman, Stiglitz, Roubini e molti altri esperti dicono quello che il solitario Giuliano Ferrara ripete ossessivamente da settimane e che Repubblica ha sempre negato: Mr. Spread si ferma solo se la Banca Centrale Europea fa il suo mestiere di banca centrale, ovvero di prestatore di ultima istanza. Il resto era propaganda. (Camillo blog)

Grazie Presidente Berlusconi

Chi volesse sottoscrivere un ringraziamento al Presidente Berusconi, può collegarsi al sito http://www.grazieberlusconi.eu/ e lasciare le proprie generalità.

martedì 15 novembre 2011

Presidente Berlusconi, per il bene dell'Italia, NON SI DIMETTA

Presidente, perdoni l'approccio informale. Sono il giornalista e autore Paolo Barnard, lavoro da due anni con il gruppo di macroeconomisti del Levy Institute Bard College di New York sulla crisi dell'Eurozona. Siamo guidati dal Prof. L. Randall Wray dell’Università del Missouri Kansas City, che coordina altri 10 colleghi inglesi e australiani.
Presidente, è incomprensibile che Lei non scelga di salvare la nazione, e il Suo governo, rendendo pubblico che:

a) l'Euro fu disegnato precisamente per affossare gli Stati del sud Europa, fra cui l’Italia.

b) esistono responsabili italiani ed europei di questo "colpo di Stato finanziario di proporzioni storiche". (una definizione del tutto ragionata offerta dell'economista americano Michael Hudson)

Presidente, dalle pagine del Financial Times, del Wall Street Journal e persino del New York Times, da mesi economisti del calibro di Martin Wolf, Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Nouriel Roubini, Marshall Auerback, Le stanno suggerendo la via d'uscita. A Parigi, l’eccellente Prof. Alain Parguez dell’Università di Besancon ne ha trattato esaustivamente. Wray e i suoi colleghi Mosler, Tcherneva e Hudson pure. Nel dettaglio, essi hanno scritto che:

L'Italia è stata condannata a un’aggressione senza precedenti da parte dei mercati dall'operato dei governi di centrosinistra che La hanno preceduta, poiché essi hanno portato il nostro Paese nel catastrofico costrutto dell'Eurozona. Le famiglie italiane e il Suo governo non devono pagare per colpe non loro. Lei deve dire alla nazione ciò che sta veramente accadendo, e chi ci ha condotti a questo dramma.

L'Euro fu pensato nel 1943 dal francese Francois Perroux con il dichiarato intento di "Togliere agli Stati la loro ragion d'essere". La moneta unica è infatti un progetto franco-germanico da quasi mezzo secolo (Attali, Delors, Issing, Weigel et al.), col fine di congelare le svalutazioni competitive d'Italia e Spagna, e col fine di deprimere i redditi del sud Europa per delocalizzare in esso manodopera industriale per l'esclusivo vantaggio del Neomercantilismo franco-tedesco.

Specificamente, la moneta unica:

- Esclude un prestatore di ultima istanza sul modello Federal Reserve USA, proprio per portare la sfiducia dei mercati sui debiti dell'Eurozona.

- I debiti dell'Eurozona non sono più sovrani, poiché l'Euro è moneta che ogni Stato può solo usare, non emettere, e che ogni Stato deve prendere in prestito dai mercati di capitali privati che lo acquisiscono all'emissione. L'Euro è moneta di nessuno, non sovrana per alcuno.

- I due punti precedenti hanno distrutto il fondamentale più importante della macroeconomia di Stato, che è "Ability to pay", cioè la capacità di uno Stato di onorare sempre il proprio debito emettendo la propria moneta sovrana. L’attuale aggressività dei mercati contro il nostro Paese (ed altri) è dovuta in larghissima parte proprio alla loro consapevolezza della nostra perdita di "Ability to pay", la cui presenza è infatti l'unica rassicurazione che può calmare i mercati. Motivo per il quale il Giappone dello Yen sovrano, che registra il 200% di debito/PIL, non è da essi aggredito e ha inflazione vicina allo 0%. Motivo per cui l'Italia della Lira sovrana mai si trovò in condizioni simili al dramma attuale, nonostante parametri ben peggiori di quelli oggi presenti.

- L'Euro è moneta insostenibile, disegnata precisamente affinchél'assenza radicale di "Ability to pay" nei governi più deboli dell’Eurozona inneschi un circolo vizioso di crisi che alimenta la sfiducia dei mercati che alimenta crisi. Non se ne esce, qualsiasi correttivo non altera, né mai altererà, questo fondamentale negativo, e i mercati infatti non si placano.

- Le estreme misure di austerità per la riduzione del deficit di bilancio che vengono oggi imposte al Suo governo, sono distruttive per la Aggregate Demand di cui qualsiasi economia necessita per crescere. Sono cioè il farmaco che causa la malattia, invece di curarla. Anche questo non accade per un caso.

- Tali misure ci vengono imposte proprio perché il nostro debito pubblico non è più sovrano, a causa dell'adozione di una moneta non sovrana. Infatti, ogni spazio di manovra del Suo governo al fine di stimolare crescita e riduzione del debito attraverso scelte di spesa sovrana (fiscal policy), è stato annullato dall'adozione della moneta unica, che, ribadisco, l'Italia non può emettere come invece fanno USA o Giappone. Si tratta di una perdita di sovranità governativa senza precedenti nella storia repubblicana, e di cui le misure imposte dalla Commissione UE come il European Semester e l'Europact sono l'espressione più estreme, ma di cui noi cittadini e Lei paghiamo le estreme conseguenze.

- L'Euro e i Trattati europei che l’hanno introdotto, sbandierati a salvezza nazionale dal centrosinistra, stanno, per i motivi sopraccitati, umiliando l'Italia, nazione che ha uno dei risparmi privati migliori del mondo, 9.000 miliardi in ricchezza privata, una capacità industriale invidiata dai G20, banche assai più sane della media occidentale, e parametri di deficit che sono inferiori ad altri Stati dell'Eurozona. Lei, Presidente, sarà il capro espiatorio, noi italiani ne soffriremo conseguenze devastanti per generazioni.

Presidente, Lei deve e può denunciare pubblicamente la realtà di questa moneta disegnata per fallire. Lei può e deve smascherare le responsabilità del centrosinistra italiano e dei governi 'tecnici' in queste scelte sovranazionali catastrofiche.

Presidente, il team di macroeconomisti accademici del Levy Institute Bard College di New York e dell'Università del Missouri Kansas City, sono coloro che hanno strutturato il piano Jefes che ha portato l'Argentina dal default al divenire una delle economie più in crescita del mondo di oggi. Essi sono a Sua disposizione per definire sia la strategia comunicativa che quella economica per salvare l'Italia, e il Suo governo, da un destino tragico e che non meritiamo.

In ultimo una precisazione di ordine morale.

Presidente, io non sono un Suo elettore, e avrei cose dure da dire sul segno che la Sua entrata in politica ha lasciato in Italia. Ma non sono un cieco fanatico vittima della cultura dell’odio irrazionale che ha posseduto gli elettori dell’opposizione in questo Paese, guidati da falsari ideologici disprezzabili, come Eugenio Scalfari, Paolo Flores d’Arcais, Paolo Savona, e i loro scherani mediatici come Michele Santoro, Marco Travaglio e codazzo al seguito. Perciò come prima cosa mi ripugna che Lei sia bollato come il responsabile di colpe che Lei non ha, e che sono tutte a carico del centrosinistra italiano. Incolpare un innocente, per quanto criticabile egli sia, è sempre inaccettabile. Ma soprattutto, Presidente, se l’Italia verrà consegnata dal golpe finanziario in atto contro di noi, e da elettori sconsiderati e ignoranti, nelle mani del Partito Democratico, per noi sarà la fine. Sarà l’entrata trionfale a Roma dei carnefici del Neoliberismo più impietoso, sarà la calata dellaShock Therapy su un popolo ignaro, cioè il saccheggio del bene comune più scientificamente organizzato di ogni tempo, quello che nell’Est europeo ha già mietuto più di 40 milioni di vite in due decadi, senza contare le sofferenze sociali inenarrabili che porta con sé.

I volti di Mario Monti, di Massimo D’Alema, di Mario Draghi, di Romano Prodi, dell’infimo Bersani, sono le maschere funebri di questa nazione, veri criminali e falsari di portata storica. Il cerimoniere complice si chiama Giorgio Napolitano.

Mi appello a Lei Presidente perché mi rendo conto che i miei connazionali non hanno la più pallida idea di ciò che il centrosinistra italiano ha già inflitto al nostro Paese, di ciò che gli infliggerebbe se salisse al governo, ma soprattutto di chi li guida dietro le quinte. Le eminenze grigie sono le elite Neoclassiche, Neomercantili e Neoliberiste, gente senza nessuna pietà.

Resista Presidente, affinché Lei possa usare il tempo che Le rimane per smascherare il “colpo di Stato finanziario” che sta travolgendo, fra gli altri, la nostra Italia. I mercati finanziari della “classe predatrice”, così ben descritta nella sua abiezione dall’americano James Galbraith, la odiano a morte, ci odiano a morte. Sia, Presidente, colui che piazza la mina nei cingoli della loro macchina infernale, rivelandone l’inganno chiamato Euro e Trattato di Lisbona. Gli italiani non lo faranno. Non ne sono capaci.

Fonte: Sito Web di Paolo Barnard

lunedì 14 novembre 2011

Tutta questa speculazione contro i titoli italiani è solo un grande bluff. Brown's Version

Berlusconi si è dimesso e Monti gli succede con un governo tecnico. Le dimissioni sono avvenute sotto la pressione della crisi del debito pubblico, con la speculazione all’attacco dei titoli italiani e lo spread tra i BTP e i Bund tedeschi che è passato dai 200 punti di luglio ai 600 di novembre, e gli interessi pagati sul debito italiano saliti al 7%. Perché questa improvvisa pressione speculativa contro l'Italia, se fino a metà giugno il FMI e le altre istituzioni internazionali ritenevano il Paese non a rischio?

I fondamentali dell’Italia sono buoni. Nessuna banca è fallita in Italia, a differenza della Gran Bretagna. Non c’è stata e non c’è nessuna bolla immobiliare, a differenza degli Stati Uniti. Le banche italiane non posseggono grandi somme di titoli tossici greci, a differenza di quelle francesi e tedesche che sono esposte per 350 miliardi di euro. Il deficit italiano nel 2011 è inferiore a quello francese, il debito pubblico in valore assoluto è inferiore a quello tedesco. Nel 2009 la somma del debito pubblico e del debito privato dell’Italia (337% del PIL) grazie agli altri risparmi delle famiglie era più basso di quello della Gran Bretagna (531%), della Spagna (371%) e della Francia (352%). Il PIL italiano nel 2010, nonostante la crisi mondiale, è cresciuto dell’1,5%. Ad agosto 2011 la disoccupazione italiana era al 7,9%, 2,1 punti in meno della media dei paesi aderenti all’euro che è al 10%. Sempre ad agosto 2011 la produzione industriale dell'Italia è salita del 4,3%, e il fatturato delle imprese italiane è cresciuto del 12% su base annua, trainato da un buon export. L’inflazione per tutto il 2011 è rimasta sotto il 3%.

Insomma una economia sana e solida, per quanto dannatamente frenata da bassa crescita e bassa produttività. Anche la gestione del debito pubblico da parte del governo Berlusconi è stata buona: il debito pubblico italiano tra il 2008 e il 2011 è cresciuto del 12,7%, contro il 25,6% della Gran Bretagna, il 20,3% della Spagna, il 16,9% della Germania e il 14% della Francia. Nel 2008 sono stati recuperati 11 miliardi di euro dalla lotta all’evasione fiscale, somma più che raddoppiata a 25,4 miliardi nel 2009.

Da giugno a novembre, in cinque mesi, il governo ha approvato due manovre finanziarie e la legge di stabilità che prevedono tra l’altro:

- il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2013, e l’abbassamento del debito pubblico dal 119 al 112,6% del PIL nel 2014, anche tramite l’aumento dell’IVA e altre misure per un totale da 70 miliardi di euro. Già nel 2011 si registra un avanzo primario nel bilancio dello stato, al netto cioè della spesa per interessi sul debito, dello 0,9% del PIL;

- la riforma delle pensioni, con l’equiparazione dell’età di pensionamento per le donne nel settore pubblico e privato, l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni dal 2026, il passaggio definitivo al sistema contributivo, l’aggancio dell’età pensionabile alla vita media;

- la riforma del mercato del lavoro, il famoso articolo 8 della finanziaria, che permette la contrattazione a livello aziendale necessaria alle imprese per investire, come successo dagli accordi di Pomigliano e Mirafiori tra la FIAT e tutti i sindacati tranne la CGIL;

- la riduzione delle tasse sui conti correnti, dal 27,5% al 20%, e l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, dal 12,5% al 20%, un provvedimento che aiuta i cittadini risparmiatori e pone un freno alle transazioni finanziarie;

- la dismissione di immobili e terreni pubblici.

La politica economica del governo, per quanto discutibile, c’è stata ed è andata nella direzione delle richieste dell’UE quanto a riforma delle pensioni, tagli alla spesa, dismissioni e pareggio di bilancio. Niente a che vedere dunque con il rischio default della Grecia o con la paralisi di governo. Ma allora perché tutta questa speculazione contro i titoli italiani? Si è detto per la mancanza di credibilità internazionale del governo Berlusconi. E’ vero. Ma la mancanza di credibilità non è dovuta alla mancanza di una politica economica, che nel bene o nel male c’è stata. E' dipesa piuttosto da tre fattori.

1) Gli scandali, le gaffe, e l’incapacità di Berlusconi di creare consenso nell’establishment internazionale, dalle istituzioni europee ai poteri forti che pubblicano giornali come Time o Economist (da qui le critiche continue su questi giornali, a volte fondate e a volte no).

2) La tendenza di molti italiani, inclusi giornalisti, intellettuali e analisti che fanno opinione, a parlare esageratamente male del proprio Paese all'estero, molto più di quanto fanno gli altri europei: gli inglesi all'estero non criticavano la Sterlina neanche quando in due mesi perdeva il 20% del proprio valore contro l'Euro, figurarsi poi i francesi che ancora non ammettono avere le proprie banche a rischio perchè piene di titoli tossici greci.

3) La campagna mediatica e politica condotta per anni da una parte dell’opposizione basata sullo sputtanamento continuo della vita privata del premier, violando le norme sul segreto istruttorio o sul rispetto della privacy. Se Le Monde avesse pubblicato per anni le intercettazioni delle telefonate di Sarkozy a Carla Bruni in cui il presidente parlava di sesso o faceva battute sulla Merkel, anche la credibilità internazionale di Sarkozy ne sarebbe stata danneggiata.

Ma Le Monde a differenza di Repubblica non sputtana il proprio paese pur di attaccare l’avversario politico. Molti italiani invece continuano a fare come i Comuni e i Principati italiani dal Medioevo in poi, che pur di sconfiggere la fazione avversa chiamavano in aiuto gli eserciti francesi o inglesi o tedeschi in Italia. Così negli anni scorsi c’è chi a sinistra diceva “Berlusconi non può governare perché il Financial Times dice che se ne deve andare”, come se fosse un giornale di Londra e non il popolo italiano a decidere chi debba governare l’Italia.

A loro volta francesi o inglesi o tedeschi, oggi come secoli fa, sono ben contenti che gli italiani siano divisi e li chiamino in soccorso, perché passando possono fare razzia nel nostro Paese. Certo oggi non si tratta più di portare la Monna Lisa al Louvre come fece Napoleone giusto due secoli fa, ma di comprare a prezzi di saldo industrie e banche strategiche italiane. Cosa già accaduta nel 1992-1993, quando con la crisi politica e il governo tecnico di allora furono svendute a compratori stranieri gran parte dell’industria chimica e farmaceutica italiana. Ed è per questo che anche a grossi investitori europei non dispiace che la speculazione attacchi l’Italia, che lo spread aumenti, che le azioni delle grandi imprese e banche italiane vadano giù a prezzi di saldo, e che il governo democraticamente eletto se ne vada per far posto a un ex Commissario dell’UE come Monti. Monti è un bravo tecnico e speriamo che faccia bene. Soprattutto, speriamo che Monti non faccia come i Comuni e i Principi italiani del passato, sennò il sacco economico dell’Italia sarà ben maggiore del valore della Monna Lisa. (l'Occidentale)

giovedì 10 novembre 2011

Salto dell'euro. Davide Giacalone

La teoria secondo cui sarebbe bastato che Silvio Berlusconi annunciasse le dimissioni perché lo spread con i titoli del debito pubblico tedesco si riducessero di uno o due punti, autorevolmente e insistentemente sostenuta, ha ricevuto una smentita sperimentale. Quando le teorie non resistono alla realtà è segno che sono campate per aria. E questa lo era, come abbiamo più volte avvertito. Le dimissioni sono state annunciate, opposizioni e presidenza della Camera sono corse a dire che la legge di stabilità può essere varata in due o tre giorni (allora si può?!), il Quirinale è tornato a sottolineare che i tempi devono essere velocissimi, ma i mercati hanno duramente schiaffeggiato sia la Borsa che i Buoni del tesoro.

Gli antipatizzanti del presidente del Consiglio diranno che la colpa è del fatto che non se ne è andato abbastanza, che doveva sparire come in un gioco di prestigio, che avrebbe dovuto annunciare l’intenzione d’esiliarsi, ma l’arrampicarsi sugli specchi lascia il tempo che trova, perché giornate come quella di ieri possiamo viverne ancora una o due, dopo di che il prezzo della partita diventa troppo alto. Anzi, è già troppo alto. Con quei tassi d’interesse riusciamo ancora a sostenere il debito, ma c’impoveriamo troppo e lo svantaggio competitivo, per le nostre aziende e per i nostri cittadini, diventa troppo severo, sicché povertà creerà povertà. Tutto questo lo dobbiamo, certamente, ad un debito pubblico troppo alto, ma pur sempre antico, mentre l’indebitamento delle famiglie e delle imprese italiane è di gran lunga inferiore a quello di chi oggi c’impartisce lezioni, il patrimonio pubblico pareggia il debito pubblico e quello privato lo supera di molte volte. Tutto si può sostenere, ma non che noi si sia strutturalmente sull’orlo del precipizio. Eppure ci siamo, già vediamo l’abisso e tutte le misure destinate a far cassa (che sono del genere horror, dalle maggiori tasse ai condoni) non risolveranno affatto il problema e bruceranno ricchezza.

Dentro i confini nazionali, anzi, dentro i ben più angusti confini dei giornali italiani, ci si è raccontati la favoletta che era tutta colpa del crapulone di Arcore, liberatici dal quale il mondo intero avrebbe preso a corteggiarci per il nostro grande valore e la nostra bellissima faccia. Passi che a questa storiella per bambini allocchi abbiano creduto le tifoserie antiberlusconiane e quegli stessi che la diffondevano, dimostrando il potere ipnotico dell’autosuggestione, ma è meno tollerabile che l’abbiano ripetuta, magari con qualche distinguo secondario, anche persone che avrebbero il dovere della serietà e della razionalità. Il governo è finito, la cosa è certificata, ma la musica non cambia. Anzi, peggiora.

E la ragione c’è. E’ razionale. Il mondo dotato di cervello sa che il problema da cui origina la tragedia in corso è politico, istituzionale ed europeo. Ha a che vedere non (solo) con i nostri vizi nazionali, ma (prima di tutto) con la natura stortignaccola di una moneta senza banca centrale e senza governo, che ha funzionato meravigliosamente bene quando ha tenuto bassi i tassi d’interesse, ma che cede e si sfarina non appena la speculazione scopre che quei tassi possono salire alle stelle, se si procede nell’aggressione di debiti sovrani che non hanno la valvola della produzione di moneta. Ricordiamocene: il Giappone ha un debito pubblico più alto del nostro e un debito complessivo (pubblico e privato) ancora più imponente, ma lo vende ad un tasso d’interesse inferiore, perché ha una banca centrale che può far funzionare la tipografia e scoraggiare la speculazione con la svalutazione.

L’euro è come un abito concepito per una sola temperatura: caldo e avvolgente, ce ne siamo pavoneggiati nel mentre tirava la tramontana, ma ora non possiamo togliercelo mentre soffia lo scirocco. Non solo: federando debiti nazionali e sistemi politici diversi, essendo nato con regole automatiche che non prevedevano meteorologie diverse da quella originaria, capita che i tedeschi insistano per chiudere il bavero, nel mentre altri sono zuppi di sudore. Non funziona, non può durare. E’ chiaro che, in queste condizioni, non saltiamo (solo) noi, ma salta l’euro. E con l’euro salta l’Europa. Ma questi, tornando al punto, sono problemi politici, mica tecnici. Se il tuo orologio cammina lentamente vai dal tecnico, dall’orologiaio, ma se puntualmente a mezzo giorno è notte devi capire che sei nel fuso orario sbagliato e con l’orologiaio non risolvi nessun problema. Se davanti ad un problema politico un Paese decide che è ora di farla finita con la politica, se le anime belle interne pensano che il gran giorno della liberazione è arrivato, ma non hanno idea di cosa avvenga il giorno dopo, se, come massimo della vita, si punta a governi tecnici o privi di maggioranza parlamentare, gli altri, che fessi non sono, ne deducono che non sarai in grado di risolvere un accidente, non ti farai valere nelle sedi europee e non difenderai sufficientemente gli interessi nazionali, quindi trovano nuova lena nel prenderti a calci. Quello che è accaduto.

E allora? Allora si tratta di non perseverare nell’errore, nel non credere che la crisi di governo sia un punto di svolta, di provvedere ad approvare immediatamente i provvedimenti per la stabilità, per poi puntare dritto al cuore della questione, che è europea, non italiana. Il governo in carica (è ancora in carica, almeno non imbrogliamoci per i fatti nostri) è finito, questo non si discute, ma la crisi politica deve essere tesa ad accertare se c’è una maggioranza alternativa, necessariamente frutto di una spaccatura della maggioranza attuale, e se quella maggioranza offre opportunità di coesione e determinazione superiori a quelle di chi se ne va. A me non pare, ma sono pronto a plaudire il contrario. Ove non ci sia nulla di ciò, allora il gesto difensivo più immediatamente efficace è la convocazione delle elezioni. Con questo singolare scenario: chiunque si candidi a governare avrà un programma già scritto, frutto delle epistole scambiate con le istituzioni europee. Quel che può metterci di proprio sono due cose: a. la volontà di riportare l’Italia ad essere protagonista del processo d’integrazione europea, e non il somaro trascinato per le orecchie; b. la consapevolezza che le regole istituzionali della democrazia interna devono essere riscritte. Di coalizioni multicolori e governi impotenti non se ne può più. Ci sono costati troppo.