giovedì 26 luglio 2012

Marina Berlusconi si sfoga: io alla gogna mediatica. Marina Berlusconi

Sulle vicende palermitane che mi riguarda­no e che hanno trovato ampia eco sulla stampa avevo deciso di mantenere quello che consideravo un doveroso e rispettoso silen­zio. Ma proprio il modo in cui la stampa si è occu­pata della mia deposizione di ieri a Palermo mi spinge a non tacere più. Vorrei racconta­re una storia che qualcuno chiamerà di giustizia ma che rappresenta l’esatto con­trario­di quella che io ritengo dovrebbe es­sere la giustizia. Niente di nuovo, per cari­tà e purtroppo, ma può forse essere utile apprenderla direttamente da chi l’ha vis­suta sulla propria pelle, per capire che questa degenerazione non è un problema di singoli, pochi o tanti che siano, ma un problema di tutti, un problema che mina le fon­damenta del vivere civile. Ecco il ri­sultato di vent’anni di teoremi giu­diziari: un veleno che intossica da troppo tempo l’intero Paese. La storia è questa. Il 9 luglio ven­go convocata dalla Procura di Pa­lermo come «persona informata dei fatti». Peccato che i presunti fatti su cui dovrei essere informa­ta li apprendo solo, qualche gior­no dopo e con grande abbondan­za di dettagli, dai giornali. Ma par­lare di «fatti» è totalmente fuori luogo: paginate e paginate di falsi­tà e insinuazioni per qualificare le quali è perfino difficile trovare gli aggettivi giusti. Ma perché la Procura di Paler­mo è interessata a sentire proprio me su questo cumulo di assurdi­tà? Sempre dai giornali apprendo che si parla di un conto cointesta­to mio e di mio padre, da cui sareb­bero partiti due dei bonifici indi­rizzati a Dell’Utri e a suoi famiglia­ri. Io però di questo conto non ri­cordo neppure l’esistenza. Faccio le verifiche, e in effetti emerge che è esistito fino a sette anni fa, anche se non ne ho mai avuto la disponi­bilità e a mia memoria non l’ho mai utilizzato. Che cosa devo andare a dire allo­ra alla Procura di Palermo? Che di questo conto non ricordo assolu­tamente nulla, dei bonifici alla fa­miglia Dell’Utri tantomeno? Che peraltro non trovo nulla di strano nel fatto che mio padre senta, di­rei, il dovere etico, oltre che il desi­derio, di sostenere un prezioso col­laboratore il quale, all’apice del successo professionale, è improv­visamente sprofondato in un incu­bo che da quasi vent’anni lo co­stringe a trascinarsi da un tribuna­le a una Procura, un incubo che gli ha rovinato non solo la carriera ma anche la vita, un incubo che è guarda caso comparso in contem­poranea con la discesa in campo di mio padre? È la pura verità. Ma per dire que­sto è necessario che io debba an­dare a Palermo, per sentirmi chie­dere informazioni che senza alcu­na fatica e con molto minor di­spendio di energie avrebbe potu­to d­omandarmi un incaricato del­la Guardia di Finanza di Milano? È necessario che venga interrogata da un gruppo di pm antimafia, e soprattutto che debba espormi a quell’efficientissima gogna me­diatica che non riposa mai? Co­munque vado non appena possi­bile, addirittura in anticipo. Con­testo, su indicazione dei miei lega­li, la possibilità di essere ascoltata, per svariate e rilevanti ragioni. Successivamente rispondo a tutte le domande (una ventina di minu­ti complessivamente), riparto sen­za dire nulla- rispettosa del segre­to di indagine - alla stampa che qualcuno mi ha fatto trovare schie­rata in forze all’uscita. Risultato? Nel giro di poche ore mi vedo precipitata nell’inferno mediatico. Nei tg della sera la mia foto si mescola con quelle dei boss e di orribili stragi, tutto tenuto in­sieme da una parola che mi mette i brividi solo a pronunciarla: ma­fia. Peggio avviene con i giornali di stamane. Ben forniti dai soliti noti «ambienti giudiziari» di mez­ze verità e bugie intere, mi descri­vono come una teste evasiva o che aveva l’unica preoccupazione di evitarsi problemi. Naturalmente, basta leggere il verbale della mia deposizione (a quando le fotocopie da parte degli «ambienti giudiziari»?) per ren­dersi conto che non è vera né l’una né l’altra cosa. Ma intanto il marchio è impresso, la trappola infernale è scattata: ovviamente non puoi dire di sapere cose che non sai, ma se dici di non saperle ecco che diventi sulla stampa una teste «vaga», con tutti i peggiori sottintesi possibili.Eccola qui l’al­ternativa folle, assurda, inaccetta­bile: o menti, raccontando quello che da te si vorrebbe sentire an­che se non è vero, o dici la verità e allora cominciano a circondarti il sospetto e le insinuazioni. E ricor­diamoci che stiamo parlando di quanto c’è di più terribile, la ma­fia. È evidente che anche questa storia, come tutte quelle che ci scagliano addosso da vent’anni, finirà nel nulla.Con l’unico risul­tato possibile: nessun collega­mento con le cosche, assoluta correttezza e trasparenza. Ma non è questo che interessa.L’uni­co processo che interessa è quel­lo che viene fatto ogni giorno sul­la stampa, convocando testimo­ni­buoni a ingolosire i telegiorna­li della sera, trasformando penti­ti veri e falsi in icone, facendo fil­trare quello che fa comodo, e po­co conta se è totalmente falso. Un processo dal quale è impossi­bile difendersi, perché neppure la verità più conclamata in un’au­la può eliminare completamen­te il fango che ti hanno tirato ad­dosso. Che cosa ha a che vedere tutto questo con la giustizia? A che cosa servono le regole e le norme approntate proprio per evitare soprusi se, anche quan­do vengono formalmente rispet­tate, basta di fatto un articolo di giornale ad aggirarle e vanificar­le? E questa mostruosa macchi­na è compatibile con il funziona­mento della democrazia? Tutto ciò che è accaduto e sta ac­cadendo dovrebbe­trovare oppor­tune valutazioni nelle sedi compe­tenti. Ah, un’ultima precisazione: naturalmente io non ero e non so­no accusata di nulla, i pm di Paler­mo mi hanno convocato come «persona offesa», come presunta vittima. Insomma, per «tutelar­mi ». Si è visto come. (il Giornale)

lunedì 23 luglio 2012

Euro, dubitarne per salvarlo. Davide Giacalone

E’ intollerabile che i giudici costituzionali tedeschi ritengano di potere andare in vacanza e posticipare al 12 settembre la decisione sull’Esm, il così detto fondo salva-stati. E’ inaccettabile che la Germania prolunghi a proprio piacimento il non dovuto vantaggio di finanziarsi gratis e indebolire i concorrenti costringendoli a pagare sangue. Ma è ancora più imbarazzante che qualcuno creda veramente l’Esm possa salvare questo o quello Stato. Da tre anni a questa parte, da quando la crisi dei debiti ha fatto la sua comparsa a oggi, si sono tenuti 30 vertici europei, tutti mirabilmente inutili. Si fa finta di non vederlo, dirigendoci giulivi verso il precipizio, oppure è lecito avvertire che si sta perdendo del tempo prezioso?

I giornali italiani riportano senza troppi commenti l’affermazione del ministro del tesoro tedesco, Wolfgang Schäuble: l’Italia non avrà problemi a finanziarsi. Come se il problema fosse farsi dire “bravi” dai tedeschi. L’Italia ha già problemi enormi a finanziarsi, già paghiamo assai più del dovuto, già ci sveniamo, sicché quelle parole sono oltraggiose. Che le si prenda come incoraggiamento è segno dell’insufficienza della nostra classe dirigente, giornalisti e opinionisti compresi. La stessa che ora ripete quanto sostenuto, giorni fa, dal governatore della Banca d’Italia: 200 punti di spread sono colpa nostra, il resto è colpa dell’euro. Noi lo scriviamo dal luglio scorso. Ma non avevamo ascolto, perché lo sport nazionale consiste nell’usare i disastri per riuscire a colpire il proprio nemico interno. Era demente ritenere che l’impennata degli spread dipendesse dal governo Berlusconi, è demente imputarla oggi a Monti. Il punto è, però, che il governo commissariale era stato imposto quale rimedio. E non ha funzionato. Attenzione: non è che non ha funzionato perché c’è instabilità politica interna (altra balla che avvince i provinciali, diffusa da imbroglioni), ma perché non s’è mosso un pelo della politica europea. Il vuoto politico che sta distruggendo l’Europa è europeo. Il che non copre e non giustifica le miserie di casa nostra, ma è da selvaggi e da cretini credere che se la si smette di fornicare il dio di turno farà piovere. Dobbiamo fare riforme profonde, anche costituzionali, dobbiamo vendere patrimonio, abbattere il debito e diminuire la tasse, ma nulla di tutto questo potrà essere messo in faccia a mercati che chiedono risposte dalla sera alla mattina.

Quindi dobbiamo capire che la fine dell’euro, l’uscita dalla moneta unica, non sono variabili della propaganda politica interna, ma serie possibilità imposte dal cumulo di errori commessi. Anzi, la metto in modo più crudo: se noi italiani vogliamo dare un utile contributo alla salvezza dell’euro dobbiamo annunciare che, a queste condizioni, siamo pronti ad andarcene. Solo mettendo sul piatto la forza della politica, smettendola di biascicare sciocchezze penitenziali sui compiti a casa, potremo ottenere che la partita non si risolva con un danno ai nostri interessi. Solo chiarendo che non siamo disposti a pagare le colpe di altri (le nostre sì, ci spettano, abbiamo il dovere di farlo) otterremo credibilità politica. Magari i giudici tedeschi torneranno dalle vacanze italiane. Giusto in tempo per dire loro che possono anche rilassarsi, tanto quel che ci vogliono far credere sia prezioso non vale nulla. Ci vuole molto di più, ci vuole federalizzazione vera.

In quanto al governo Monti: se serve ad avere autorevolezza in quella direzione, superando la colpevole e rissosa inerzia delle forze politiche, che resti al suo posto, meritando rispetto; se, invece, crede sul serio d’incarnare una specie di superiorità etnica, immune da critiche e intenta a redimere gli italiani dai loro peccati, per giunta fallendo ripetutamente analisi economia (le cose di oggi, ripeto, le scriviamo da luglio 2011!), allora possiamo farne a meno. Abbiamo già dato. Troppo.

Troppi topi nel formaggio. Angelo Panebianco

Dobbiamo proprio sperare che la pressione dei mercati sul nostro Paese si attenui, che i pronostici più infausti si rivelino sbagliati. Se questo accadrà, finita l'estate, comincerà subito, di fatto, la (lunghissima) campagna elettorale. Quali temi la caratterizzeranno? A fronte di una pressione fiscale che ha raggiunto il 55% (e oltre), è facile scommettere che quello fiscale sarà l'argomento che più terrà banco. Tutti, o quasi tutti, diranno di voler ridurre le tasse. Nella schiacciante maggioranza dei casi si tratterà di bluff o di promesse da marinaio. Come riconoscere i bluff? Ci sono, sostanzialmente, due modi per bluffare in materia di tasse. Il primo è proprio di coloro che promettono drastiche riduzioni della pressione fiscale senza spiegare dove troveranno le risorse necessarie, senza spiegare come, dove, e di quanto, taglieranno la spesa pubblica al fine di mantenere la promessa. Questo è un bluff facile da scoprire, inganna solo chi vuole essere ingannato.

Il secondo modo è più sottile, più subdolo: è proprio di coloro che attribuiscono la responsabilità dell'elevata tassazione vigente all'eccesso di evasione fiscale e, per conseguenza, promettono di colpire gli evasori fiscali al fine di ridurre le tasse. Anche se è molto popolare, condivisa da tanti, la tesi secondo cui per ridurre le tasse bisogna prima contenere l'evasione fiscale, è falsa. È vero infatti l'esatto contrario. Per contrastare, come è doveroso fare, l'evasione fiscale, non basta, anche se è ovviamente necessario, usare gli strumenti repressivi: bisogna anche ridurre in modo cospicuo le tasse. Soltanto una riduzione della pressione fiscale, infatti, può spingere l'evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell'evasione. Senza di che, nemmeno la più vigorosa e puntuta «lotta alla evasione» potrà mai ottenere seri e durevoli risultati. La controprova è data dal fatto che quando aumentano le tasse aumenta anche l'area dell'economia sommersa. Si tratta di un movimento a spirale: più crescono le tasse più cresce l'evasione. Abbassare sostanzialmente le tasse, passare da un regime di tasse alte a un regime di tasse basse, è sicuramente il mezzo più sicuro per contenere l'evasione.

Oltre che falso l'argomento secondo cui non si possono ridurre le tasse se non si riduce prima l'evasione, ha anche il difetto di fare distogliere lo sguardo dalla principale causa del regime di tasse alte: la presenza di un amplissimo stuolo di rent-seekers , di cercatori e percettori di rendite che campano di spesa pubblica, che prosperano grazie a un sistema pubblico che combina alti costi di mantenimento e, soprattutto in certe zone del Paese, l'erogazione di servizi scadenti. È lì che si annidano i più strenui difensori del regime di tasse alte. La contrazione della spesa pubblica e, con essa, dell'area della rendita, brulicante, per usare una vecchia espressione di Paolo Sylos Labini, di «topi nel formaggio», è l'unica strada possibile per ridurre la pressione fiscale. Ma è anche una strada politicamente molto impervia.

I percettori di rendita da spesa pubblica sono numerosissimi, e ciò li rende assai potenti, sanno come ricattare elettoralmente i partiti, tutti i partiti. Per giunta, hanno dalla loro parte le norme (o meglio: le prevalenti interpretazioni delle norme) e la giurisprudenza. La sentenza della Corte costituzionale che ha colpito le liberalizzazioni dei pubblici servizi locali è stata certamente accolta con applausi e brindisi da tutti i rent-seekers sparsi per la Penisola. Anche le iniziative, abbastanza timide fino ad oggi, del governo Monti in materia di spending review rischiano di infrangersi contro un sistema amministrativo e un sistema giudiziario costruiti per proteggere la rendita da spesa pubblica a scapito del mercato e dei consumatori. Se non si disbosca quella giungla la riduzione delle tasse resterà un sogno irrealizzabile.

Ci sono coloro che, scambiando il sintomo con la causa, sono convinti che a provocare le guerre siano i mercanti d'armi (non è così naturalmente: i mercanti d'armi guadagnano grazie a guerre che hanno all'origine ben altre cause). Allo stesso modo, ci sono coloro che non comprendono, o fingono di non comprendere, che l'evasione fiscale è un deprecabile effetto, ma non la causa, delle tasse alte. Converrà guardarsi da costoro nella prossima campagna elettorale. (Corriere della Sera)

giovedì 19 luglio 2012

I grandi flop della Procura di Palermo. Stefano Zurlo

Indagini lunghe, indagini spigolose, indagini controverse. Indagini che spesso hanno fatto flop. Da Calogero Mannino a Francesco Musotto fino a Saverio Romano, scagionato l'altro ieri dopo nove interminabili anni, la catena degli errori e dei processi finiti in nulla nell'arena di Palermo o nella vicina Caltanissetta è lunghissima. I pm si difendono dicendo che è assai più difficile colpire la mafia dei colletti bianchi, quella che abita il Palazzo, rispetto a quella militare, divisa fra boss e picciotti. Certo, nei tribunali siciliani si continua a riscrivere la storia d'Italia ma spesso le sentenze fanno tabula rasa degli arditi postulati investigativi di pm famosi in tutta Italia.

LE DUE VITE DI ANDREOTTI
Giulio Andreotti sarebbe organico a Cosa nostra. Grappoli di pentiti, tutti svegliatisi negli stessi mesi del '93, confermano. Uno dei più importanti leader italiani viene azzoppato e fermato da un'indagine che raccoglie molte suggestioni e pochi elementi concreti. Ala fine la corte d'appello trova una soluzione salomonica che accontenta tutti: esistono due Andreotti. Il primo, legatissimo alla vecchia mafia dei Bontade e dei Badalamenti, è colpevole, ma la pena viene dichiarata prescritta; il secondo, arcinemico di Cosa nostra, viene assolto. È un mezzo flop, ma Giancarlo Caselli, procuratore di Palermo in quel periodo, considera la conclusione un successo. In aula capita di tutto: si discute perfino, sfiorando le comiche, se un certo giorno il sette volte presidente del consiglio abbia incontrato Michail Gorbacev o Nitto Santapaola, capo delle cosche catanesi.

SOLO FANGO SU MUSOTTO
L'8 novembre 1995 il presidente della provincia di Palermo Francesco Musotto, eletto con Forza Italia, viene arrestato e si dimette. L'accusa è la più impalpabile e insidiosa: concorso esterno. Un reato che nel codice non c'è ma che va per la maggiore nel capoluogo siciliano perché permetterebbe di portare a galla i comportamenti illeciti nella cosiddetta area grigia. Il rischio è naturalmente quello di formulare accuse nouvelle vague, ma il copione si ripete. Ala fine i pm chiedono per Musotto 9 anni e mezzo di carcere. Invece arriva l'assoluzione. Ed è assoluzione anche in appello e in Cassazione.

LA VIA CRUCIS DI MANNINO
Storia sfiancante, con risultati alterni e un finale che fa piazza pulita di tutto. Mannino viene assolto il 14 gennaio 2010, dopo sedici anni di tormenti e 23 mesi di carcere. La procura di Palermo sosteneva che Mannino avesse raggiunto un'intesa con i clan attraverso un mafioso agrigentino, Tony Vella, e esponente della corrente cianciminiana, Gioacchino Pennino. Il primo avviso di garanzia è del 24 febbraio 1994. Segue un'altalena di manette, processi, condanne, assoluzioni, annullamenti fino all'epilogo che gli restituisce, con gravissimo ritardo, l'onore. Per i pm di Palermo è un altro processo eccellente che finisce in nulla.

MORI, ULTIMO E IL COVO DI RIINA
In Sicilia anche la storia dei successi contro Cosa nostra può essere ribaltata e letta con la chiave di violino del sospetto. Capita ad uno dei più brillanti investigatori italiani: il generale dei carabinieri Mario Mori, numero uno del Ros. Il 15 gennaio 1993 i militari catturano il capo dei capi Totò Riina. Un'operazione storica che mette fine a una latitanza che aveva umiliato lo Stato per decenni. Dovrebbero dare una medaglia a Mori e al tenente Sergio De Caprio, meglio noto come Ultimo, una leggenda dell'antimafia italiana. Invece li processano per favoreggiamento di Cosa nostra. La colpa? Un ritardo di diciotto giorni nella perquisizione del covo. Il ritardo non nasconde nessun giallo, ma un pasticcio. L'idea era quella di controllare gli ingressi e le frequentazioni, sfruttando il fattore sorpresa. Solo che, causa una cattiva catena di comunicazione, nessuno tiene d'occhio l'abitazione che viene ripulita in fretta e furia dai mafiosi e poi abbandonata. Per lo stato è una sconfitta dopo una pagina gloriosa, ma da qui a portare alla sbarra la copia Mori-De Caprio ce ne corre. I due uomini in divisa vengono assolti. Cade un altro teorema.

IL DISASTRO SU BORSELLINO
Dopo le stragi del '93 la procura di Caltanissetta si mette all'opera e pare trovare il bandolo giusto. Un picciotto, Vincenzo Scarantino, si autoaccusa di aver rubato la Fiat 126 che sarà poi imbottita di tritolo e fatta esplodere in via D'Amelio. Il pool di Caltanissetta segue una pista che pare sicura ed è confermata da un superpoliziotto come Arnaldo La Barbera che oggi non c'è più. Vengono individuati i presunti esecutori e i processi si concludono con una raffica di condanne all'ergastolo. In realtà il pool si è spaccato. Ilda Boccassini, a quel tempo in Sicilia, è scettica sulla pista Scarantino. A distanza di tanti anni si scopre che aveva ragione: un altro pentito, Giuseppe Spatuzza, racconta la vera storia della Fiat 126. Scarantino si è inventato tutto, le prove erano costruite sulla sabbia anche se avevano retto al giudizio della Cassazione. Il processo dovrà essere rifatto e intanto si prepara la revisione per i disgraziati che sono andati in carcere e presto verranno scagionati. Nei giorni scorsi, Enrico Deaglio firma un libro, Il vile agguato, in cui ricostruisce l'incredibile vicenda, fra errori e depistaggi, e se la prende anche con Antonino Di Matteo che all'epoca lavorò, anche se in posizione defilata per la giovane età, a quell'indagine sbagliata. Per la cronaca Di Matteo è il pm dell'inchiesta sulla trattativa che ha acceso scintille a non finire nelle ultime ore, perché i magistrati hanno intercettato anche la voce del capo dello Stato Giorgio Napolitano.

IL CAVALIERE SANGUINARIO
A Caltanissetta s'indaga anche sul Berlusconi mafioso. Mandante esterno, o qualcosa del genere, delle bombe e del sangue del terribile '93, sempre insieme al fidato e inseparabile Marcello dell'Utri. È il pentito Salvatore Cancemi a dare la preziosa dritta ai pm che ipotizzano un Cavaliere sanguinario: pronto a scendere in campo con Forza Italia e qualche mese prima ad a aprirsi la strada a colpi di tritolo. Strano destino quello del Cavaliere. Lo accusano alternativamente di essere vicino ai boss, addirittura parte di un disegno criminale, contemporaneamente di pagare le tangenti a Cosa nostra, come sarebbe capitato per i magazzini della Standa a Catania. Nel 2002 Caltanissetta archivia. Ora l'ultima puntata: Berlusconi sarebbe sì vittima, ma al posto di Cosa nostra adesso c'è Dell'Utri.

L'ULTIMO FLOP: ROMANO
Nove anni di scavo da parte dei pm, le lacrime in aula per l'assoluzione. Saverio Romano non è mafioso. Ma che strazio: una prima richiesta di archiviazione perché le prove non c'erano, poi una seconda, e poi ancora il processo imposto dal gip alla procura, per una volta dubbiosa, col capo d'imputazione coatto. In aula il pm Antonino Di Matteo, sì, proprio quello nel mirino di Deaglio, chiede otto anni di carcere. Il giudice spazza via tutti. (il Giornale)

martedì 17 luglio 2012

Solo ora Napolitano capisce. Alessandro Sallusti

Denunciati i pm per le sue intercettazioni illegali. Ma su Berlusconi lasciò fare

Napolitano ha denunciato la Procura di Palermo per attentato alla Costi­tuzione che garantisce riservatezza assoluta alle conversazioni telefoni­che del capo dello Stato. La vicenda riguarda la complessa e antica questione della presunta trattativa tra Stato e mafia per allentare la carce­razione dura ai boss in cambio di una sospensio­ne degli attentati che in quegli anni, primi anni Novanta, insanguinavano l’Italia. Napolitano ne avrebbe parlato, appunto al telefono, in alme­no due occasioni, con un ministro dell’epoca, Nicola Mancino, che preoccupato di essere tra­scinato dentro uno scandalo chiedeva protezio­ne a destra e a manca. Quelle intercettazioni (sotto controllo era il telefono di Mancino) anda­vano distrutte a norma di Costituzione, ma così non è stato. Sono custodite in una cassaforte di Palermo e presto o tardi le leggeremo da qual­che parte. Cosa illegale, esattamente come le conversazioni carpite a Silvio Berlusconi senza l’autorizzazione del Parlamento. E qui sta il pun­to.

Napolitano sta subendo lo stesso trattamen­to criminale fino a ieri riservato dai pm all’ex pre­mier. La sua denuncia sarebbe più credibile se come custode della Costituzione e capo del Csm, il capo dello Stato fosse intervenuto negli anni e nei mesi scorsi a difesa dei diritti del presi­dente del Consiglio, non certo inferiore ai suoi. Invece se ne è stato zitto, dando forza a pm im­broglioni e permettendo un linciaggio mediati­co senza precedenti. Le conversazioni private di Berlusconi finirono sceneggiate in prima se­rata sulla Rai, perché mai quelle di Napolitano dovrebbero essere cancellate per sempre? Per­ché quando Berlusconi denunciava l’uso politi­co delle intercettazioni veniva deriso e ora Na­politano dovrebbe essere preso sul serio?

E co­me la mettono Bersani, Casini e soci che ora non è il Cavaliere ma il capo dello Stato a sostenere che ci sono pm mascalzoni? Che fanno, portano in piazza il popolo viola con la costituzione in mano a difesa della magistratura perché «se non ora quando»? Perché il Csm non si è ribella­to all’interferenza del Quirinale? Domande inutili, per tutte la risposta è una. Siamo circondati da una banda di ipocriti che usano la giustizia per fini politici. Godono delle disgrazie degli avversari anche se c’è il trucco e piangono come femminucce quando tocca a lo­ro o ai loro amici. Noi, almeno, non cambiamo idea per convenienza e una volta tanto stiamo con Napolitano coda di paglia. Cioè dalla parte di un Paese civile. (il Giornale)

mercoledì 11 luglio 2012

L'Italia sul divano di Freud. Gianni Pardo

A chi compra i suoi titoli di Stato la Germania offre oggi un interesse dello 0,0344%. Attenzione, in negativo. Chi compra un titolo tedesco di mille euro fra sei mesi non riceverà 1000,34 € ma 999,65 €. Ciò significa che la Germania tende a scoraggiare l’arrivo di capitali stranieri e che i compratori di titoli tedeschi non vogliono ottenere un interesse ma salvaguardare il capitale. Infatti, se l’euro scoppiasse, i mille euro “tedeschi” sarebbero ancora più di 999 euro, mentre i mille euro “italiani” o “spagnoli” potrebbero da un giorno all’altro, a causa di una subitanea svalutazione, divenire come potere d’acquisto 700, 600, e forse meno. Lo vedremo con la Grecia, una volta o l’altra.

Il momento economico che viviamo può servire a una riflessione. In psicoanalisi il principio di realtà, caratteristico dell’adulto maturo (“La droga è uno ‘sballo’ ma fa male e dunque ci rinuncio”), si contrappone al principio del piacere (“So che la droga mi fa male ma mi drogo lo stesso”). In campo economico l’Italia ha adottato per decenni il principio del piacere: denaro da spendere subito anche se da restituire poi con gli interessi. Fino a un debito di duemila miliardi di euro. E con ciò arriviamo all’attualità.

Se un debitore deve somme sempre maggiori, arriverà fatalmente il momento in cui i creditori cominceranno a chiedersi se il capitale sarà rimborsato. Quando si tratta del proprio denaro il principio di realtà funziona alla grande. Dunque per l’Italia il problema non era “se” ci sarebbe stata una crisi di fiducia nella sua moneta, ma “quando” ci sarebbe stata. Ed essa si è verificata nell’autunno dell’anno scorso.

Se l’Italia fosse stata un Paese con un forte principio di realtà, innanzi tutto si sarebbe chiesta se c’era un rimedio; e poi, in caso positivo, se fosse in grado di adottarlo. Invece ha prevalso la mentalità dei primitivi: il terremoto non è dovuto a motivi geologici; non abbiamo perso la battaglia perché l’avversario ha combattuto meglio; non abbiamo subito la peste a causa di un microorganismo: tutto è avvenuto perché abbiamo irritato gli dei. La soluzione è identificare il colpevole e mandarlo a morire nel deserto. Il principio è talmente antico e universale che ha una denominazione in tutte le lingue: piaculum in latino, capro espiatorio in italiano, bouc émissaire in francese, scapegoat in inglese, Sündenbock in tedesco: e si badi che Sünden significa “peccati”. Nel nostro caso, la vittima ideale da offrire agli dei era un capo stramaledetto per anni come causa di tutti i mali del Paese e dintorni: un sorridente e sfacciato gaudente (chissà quanti Sünden!) di nome Silvio Berlusconi. Presto, in fretta, mandatelo a casa e nominate un uomo pio, che piaccia agli dei. Anzi, per renderlo più presentabile, copritelo col laticlavio.

La manovra riuscì perfettamente. Da un giorno all’altro il governo si trasformò da carnevalesco in lugubre e si reputò che ci si fosse fermati sull’orlo del baratro. L’Italia ebbe un accesso di irrefrenabile gratitudine per il salvatore e lo sostenne con la più ampia maggioranza multicolore che si fosse mai vista. Tutti furono molto contenti.

Tutti, salvo i creditori. Questi, evidentemente insensibili ai sacrifici, presto hanno fatto risalire gli interessi sui titoli italiani allo stesso allarmante livello di prima. Dunque la colpa non era del gaglioffo Berlusconi! E allora l’Italia ha trovato un’altra soluzione.

Se non è bastato il sacrificio dello scapegoat, placheremo la collera degli dei macerandoci tutti nella penitenza. Un popolo che soffre, che guadagna di meno, che spende di meno, che va in recessione, non merita dunque che le cose vadano meglio? Mentre riceve lodi dall’Unione Europa, dalla Germania, ed anche da Giorgio Napolitano, può la sua sofferenza non commuovere i creditori?

Purtroppo i creditori non sono dei. Non vogliono sacrifici, vogliono indietro i soldi. Non sono guidati dalla morale ma dal principio di realtà. Un popolo che soffre sarà meglio in grado di pagare i suoi debiti? Certo che no. E allora ecco che oggi abbiamo un drammatico “spread” del 4,8% al di sopra dei Bund tedeschi. Siamo al punto in cui eravamo – pagando meno tasse – nell’autunno dello scorso anno.

La cosa che non si vuole vedere è che la crisi italiana dipende dal suo debito pubblico: e questo è oggi lo stesso di prima, anche se Mario Monti non organizza feste a base di burlesque a casa sua.

In futuro, o l’Unione Europea si farà garante del debito sovrano dei componenti dell’eurozona (sia pure imponendo agli Stati stretti controlli) oppure prima o poi l’euro scoppierà. Con conseguenze tragiche ma non imprevedibili. (il Legno Storto)

martedì 10 luglio 2012

A cosa serve la spending review? A far vincere sempre il partito delle pensioni. Giuliano Cazzola

A conclusione dei Campionati europei di calcio, il CT della Nazionale Cesare Prandelli (osannato con qualche esagerazione per la buona performance dell’Italia perché è singolare che un squadra abbia esaurito le sostituzioni già al 16° minuto del secondo tempo) si è permesso un commento un po’ osé in presenza di un Presidente della Repubblica che aveva appena compiuto 87 anni: l’Italia è un Paese vecchio. In quelle stesse ore, l’Istat diffondeva la consueta rilevazione sulla disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni senza che nessuno si chieda mai se si tratti o meno di una coorte effettivamente rappresentativa del lavoro giovanile) denunciando un tasso superiore al 36%.

Le due circostanze hanno ovviamente trovato spazio nei commenti dei media e nelle dichiarazioni di esponenti politici e sindacali, con forti sottolineature sulle priorità che dovrebbero avere d’ora in poi le politiche pubbliche, con misure a favore dei giovani. Archiviata con poche speranze - circa il conseguimento di tale obiettivo - la legge Fornero sul lavoro, nonostante l’impegno assunto da Monti in persona di individuare “tempestivamente” delle modifiche presumibilmente inserite nel decreto sviluppo, vedremo se quest’ultimo provvedimento determinerà un minimo di ripresa produttiva in grado di riattivare anche il mercato del lavoro in modo da compensare, almeno in parte, gli effetti negativi che saranno prodotti, appunto, dalla riforma Fornero.

Nel frattempo, accompagnata dal solito frastuono mediatico, è arrivata la spending review, un provvedimento che dovrebbe tagliare 26 miliardi di spesa pubblica in un triennio, intervenendo sulla sanità e sul pubblico impiego. Di qui le proteste dei sindacati che hanno minacciato, in ordine sparso, il ricorso allo sciopero generale pur senza deciderne ancora la data. L’Italia è proprio un Paese strano.

Quando non si corrono rischi di tagli, tutti si scagliano contro gli ospedaletti di provincia, dicendo che, in realtà, sono poco più che infermerie, del tutto inadeguate ad affrontare patologie di una qualche gravità. I servizi televisivi, a caccia di episodi di malasanità, ci propinano casi di persone ricoverate in questi presidi, poi costrette ad andare altrove per poter disporre delle cure necessarie. Gli assessori regionali alla Sanità, quando sono in vena di dire la verità, raccontano, nelle tavole rotonde, le difficoltà che incontrano nel ristrutturare o chiudere i piccoli ospedali, divenuti centri di spesa pressoché inutili, perché si imbattano in numerosi ostacoli architettati dal personale dei nosocomi e soprattutto dai primari (veri e propri generali senza esercito) che riescono a sollevare le proteste delle autorità locali e delle comunità, per le quali avere un ospedale sotto casa è una questione di prestigio e di (apparente) comodità.

Ci raccontiamo queste storie da sempre, salvo dover constatare che, ogni qual volta si affronta il problema della chiusura di queste strutture, gli interessi colpiti si travestono da grandi questioni di principio. Lo avete notato ?

Se un datore di lavoro chiude una fabbrica e licenzia i lavoratori, i sindacati se la prendono con lui. Se invece si chiude un ospedale, eccoli pronti a denunciare che è in atto un pesante attacco al welfare, alla riforma sanitaria, al servizio pubblico a favore delle cliniche private, ai diritti fondamentali dei cittadini. In sostanza, ogni portantino, ogni usciere ed ogni bidello (chissà perché le pulizie nelle scuole non possono essere affidate in appalto?) impersonano in sé una particella di socialismo.

Ma il finale di questa storia italiana, ancorchè impersonata da attori travestiti da supertecnici (che nel caso della spending review hanno mobilitato un tecnico ancora più ‘super’ come nella pubblicità dell’acqua che elimina l’acqua), finisce in gloria, come tutti i salmi.

A che cosa serviranno i risparmi derivanti dai tagli ? In larga misura, a tutelare altri 55mila esodati (portando a 36 mesi il periodo di salvaguardia delle regole previgenti). In sostanza, le pensioni prima di tutto, anche se i sindacati insisteranno (farà loro eco il Pd) nel sostenere che il problema non è risolto. E come avverrà la riduzione dei pubblici dipendenti (che era pur sempre un punto della famosa lettera della Bce del 5 agosto scorso) ? Grazie ai pensionamenti anticipati del personale in esubero o in mobilità. Nella previdenza del pubblico impiego, negli ultimi anni, ne abbiamo viste di tutti i colori. Bruschi innalzamenti dell’età pensionabile insieme a misure di “pensionamento forzoso”.

Da ultimo, nella riforma Fornero persino lo “sconto” per i nati nel 1952 (che potranno andare in quiescenza a 64 anni) valeva soltanto per i settori privati, mentre ora, a quanto si dice, per favorire l’esodo dei dipendenti pubblici - in misura di 300mila - saranno ripristinati gli ordinamenti in vigore prima del decreto SalvaItalia.

Insomma, in Italia, le pensioni, tecnici o no, sono sacre. Alla fine vincono sempre. (l'Occidentale)

Dottrina fallimentare. Davide Giacalone

Giorgio Squinzi e Mario Monti hanno un perso il controllo dei nervi e degli argomenti. Il primo scivolando sul concetto di “macelleria sociale” e facendo l’eco alla Cgil, a sua volta animata dalla Fiom, laddove il problema del decreto taglia-spesa non è quello di provocare dolori ingiustificati, ma di non avere lo spessore strutturale che si richiede (il solo taglio che fa coincidere risparmi e riforme è quello di tribunali, procure e uffici distaccati della giustizia). Il secondo è ruzzolato sull’idea che se si critica il governo si favorisce la crescita dello spread, in questo modo sollecitando un unanimismo deleterio, specie se dimentico della sostanza. Entrambe non hanno saputo leggere l’intervento del governatore della Banca d’Italia, che ha sentito il bisogno (e già questo è singolare) di prendere lungamente la parola a meno di due mesi dalle “considerazioni finali”. Egli dice: l’impennata degli spread non ha a che vedere con quel che succede in Italia, ma con la debolezza istituzionale e costituiva dell’euro. E’ quel che sosteniamo dal luglio scorso. E’ quel che Libero ha dettagliato anche in un libro (Maledetto spread). Ed è quello che induce a un giudizio severo sull’opera dei governi (plurale).

Secondo Ignazio Visco 200 punti base di differenza, rispetto ai tassi che i tedeschi pagano per finanziare il loro (alto) debito pubblico, sono giustificati da nostri ritardi: debito troppo alto, spesa pubblica improduttiva e perdita di competitività. Il resto, vale a dire più del doppio, lo stiamo pagando per colpa dell’euro. Esatto. Ciò dimostra, come qui tante volte scritto, che i compiti a casa non servono a fronteggiare l’attacco speculativo, le cui ragioni sono diverse. Su questo punto decisivo si dovrebbe raggiungere il comune sentire e agire delle forze politiche raziocinanti, il che, purtroppo, è impedito dall’avere voluto far credere che le colpe ricadevano sul governo precedente, con tanto di sapientoni che annunciavano il calo dello spread non appena avesse tolto il disturbo. Guardate quel che accade e dedicate loro il pensiero che meritano.

La partita degli spread, dunque, si giocava e si gioca al tavolo europeo. Senza gli inutili propagandismi cui c’è toccato d’assistere. A quel tavolo i tedeschi devono mollare la posizione d’ingiustificato privilegio di cui godono, ma hanno ragione nell’indicare la maggiore integrazione, quindi la devoluzione di sovranità, quale contropartita della federalizzazione. La politica, se non si rassegna a essere rappresentazione d’inutilità e acquiescenza al proprio commissariamento, presente e futuro, deve misurarsi con questo problema. Non so se se ne rendono conto, ma si è riusciti a fra passare l’idea che l’Italia non è affidabile perché ancora una democrazia. Come se il presente fosse perfetto (salvo che gli spread se ne fregano), mentre il futuro sospetto.

Il tutto non deve farci dimenticare le questioni interne, che così potremmo riassumere: l’aumento della pressione fiscale ammazza l’Italia produttiva e privilegia quella dei profittatori, mentre il tagliuzzamento della spesa pubblica è inutile sul fronte degli spread e del tutto inadeguata su quello della ristrutturazione, della mutazione necessaria circa l’idea stessa di stato sociale. Siamo un Paese ricco e forte, se accedessimo all’idea di chiudere lo Stato inefficiente, restituendo al mercato sia le funzioni che i quattrini, se ne lasciassimo una quota progressivamente crescente nelle tasche di chi ha prodotto, piuttosto che prosciugarle a favore di chi li brucia, potremmo impostare una rinascita altrimenti insperabile. Basta compiti a casa. Ma per cambiare scuola, non per fare i somari. Le parole di Mario Draghi e la sollecitazione al calo fiscale fanno piacere, ma sempre in funzione del far dimagrire lo Stato, altrimenti riprendiamo con i peggiori vizi.

Se Squinzi intende dire che quanto si sta facendo è troppo poco, ha ragione. Provi a dirlo meglio. Se Monti intende dire che per cambiare (non solo tagliare) la spesa pubblica occorre maggiore consapevolezza e determinazione, da parte di tutti, ha ragione. Provi a non pensare alla propria immagine, ma alla necessità di non perdere altro tempo. Che non c’è, perché nel mentre gli italioti si senton furbi a officiare riti in omaggio all’euro quello corre verso una crisi durissima, che da noi comporterà l’intervento del Fondo monetario internazionale. Una corsa al dirupo che non si arresta se facciamo finta di credere che la riforma del lavoro sia una buona cosa o che i tagli annunciati siano giusti e sufficienti. Non è così: la riforma non ci restituisce un briciolo di competitività e i tagli sono cosmesi. I tatticismi politicanti non producono nulla, perché comunque prigionieri di una dottrina che ha già imprigionato diversi governi, i cui sacerdoti siedono alla Ragioneria generale dello Stato. Non si deve attendere il fallimento per riconoscerla come fallimentare.

mercoledì 4 luglio 2012

Bersaglio grosso. Davide Giacalone

E’ più facile colpire un orso che un passero. La doppietta del governo si accanisce su un bersaglio piccolo, tremando fra le mani di chi non riesce a tarare il mirino, tant’è che i tagli necessari ammontano a 4.2 miliardi per Antonio Catricalà, fra i 7.5 e i 10 per Enrico Bondi, per collocarsi all’intermedio 6.8 di Piero Giarda. Tutto per evitare di aumentare ulteriormente l’iva di due punti, o quanto meno, per dimezzarne il già programmato e annunciato intervento. Al bersaglio grosso nessuno pensa.

L’idea di tagliare per non tassare è corretta, ma troppo limitata. Qualcuno penserà di leggere le parole di un matto, perché laddove non si riesce a fare poco è insensato proporsi assai di più. Invece credo che sia più facile ottenere molto, perché ci si proverebbe con strumenti e seguendo ragionamenti diversi. Più efficaci e promettenti. Seguite questi pochi numeri.

Marco Fortis insiste, meritoriamente, nel sottolineare che il mero parametro del rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ci penalizza. Quel tipo di misurazione è stato santificato nei trattati europei e posto a base dell’euro, ma non ha valenza generale e riconosciuta. Meglio sarebbe lavorare sul rapporto fra il debito aggregato e la ricchezza patrimoniale. Guardate la differenza: se si calcola il debito pubblico sul pil l’Italia arriva al 120%, la Francia al 90, la Germania all’83 e la Gran Bretagna all’81. Siamo messi male. Ma se si calcola il debito aggregato (Stato + famiglie + imprese), la classifica cambia: Gran Bretagna 507%, Francia 346, Italia 323 e Germania 279. Se si mette in rapporto il debito aggregato con il patrimonio, infine, risultiamo fra i più solidi e affidabili. Chi ci presta i soldi dovrebbe star più che sicuro, tant’è che, come calcola sempre l’ottimo Fortis, ove tutti i Paesi applicassero una patrimoniale (il cielo non voglia) per rientrare sotto il 60% del rapporto debito pubblico/pil, dopo la cura da cavallo gli italiani resterebbero i più ricchi, fra i grandi Paesi europei. Tutto questo per dire che c’è materiale buono per spiegare ai partner europei, come anche ai mercati, quanto l’Italia sia oggi vittima di una pericolosa manomissione. Il cui risultato sono tassi d’interesse così elevati da comportare un effettivo e pericoloso svantaggio competitivo.

Ciò, però, dice anche un’altra cosa, che ci riporta al tema della spesa statale: se i debiti pubblici sono così elevanti e quelli privati così bassi (rispetto a quelli degli altri) è segno che il nostro è un mercato statalista, una sorta di socialismo reale post-sovietico. Dentro l’Italia c’è un morbo cubano. Tale condizione è anche un’opportunità: non si deve tagliare a fette la spesa pubblica, provando a diminuirne progressivamente lo spessore, ma la si deve colpire a tocchi, perché alimenta un’idea sbagliata e regressiva di Stato. E’ vero quel che ha detto Mario Draghi, ovvero che la crisi non può non mettere in discussione il modello europeo di welfare, ma, come dimostrano i dati prima citati, da noi si tratta di una massa tumorale assai più estesa, capace di soffocare l’Italia che corre.

I debiti pubblici dei grandi europei, presi in valore assoluto, si somigliano (Germania 2.082 miliardi, Italia 1.988, Francia 1.946, Gran Bretagna circa 1900, dati relativi a previsioni per il 2013). I rapporti cambiano perché cambia il pil. Un’Italia che riprendesse a crescere scalerebbe posizioni anche in quella classifica che ci sfavorisce e ci costa. Se debellassimo il morbo cubano vedremmo crescere anche il bello della latinità, la gioia di vivere, la musica, il bel vivere, ma lo faremmo grazie alle imprese che crescono, non deprimendole per aumentare il gettito fiscale. Ci siamo riusciti in passato, possiamo rifarlo.

Quindi: provare a tagliare 4.2 miliardi è più difficile che tagliarne 42, sforbiciarne 10 più doloroso che 100, perché nel primo caso si cerca di farlo salvando l’esistente, nel secondo essendo consapevoli che va superato. Se si riesce a fare la prima cosa si evita un ulteriore aumento delle tasse, restando esattamente dove siamo (e non dico dove), nel secondo si può abbassare la pressione fiscale, restituendo irrigazione a un mercato che ha tante volte dimostrato d’essere fertilissimo. Se anziché tagliuzzare la spesa si sfoltisce lo Stato si fa cosa meno dolorosa e più promettente, al punto che quei numeri diventerebbero la premessa di un boom, questa volta sospinto non dagli investimenti pubblici, ma dalla globalizzazione.

C’è una sola cosa che c’impedisce di farlo: l’incapacità di pensarlo. Il governo commissariale, che non deve cercare voti, che non deve piatire consenso, prenda coraggio e agisca nel profondo. Poi porti il tutto davanti al Parlamento e chieda la fiducia. Sarà più serio e rispettoso di tredici decreti legge da convertirsi entro la fine di agosto, con fiducie fioccanti e riti umilianti.