mercoledì 29 agosto 2012

Il "Corriere" ci dice perché l'Italia fallirà. Gianni Pardo

Il professore e giornalista Giulio Sapelli scrive oggi sul “Corriere della Sera” un saggio tanto breve quanto importante per spiegarci perché l’Italia non solo non uscirà dall’attuale crisi economica, ma finirà con l’affondare nella miseria.

Naturalmente non si esprime in questi termini: il “Corriere” non vuole mai essere catastrofico. Tuttavia, se si dice con gentilezza «il tale malato è affetto da un male cui fino ad ora nessuno è sopravvissuto più di tre mesi» è come se si dicesse «quel poveraccio è condannato a morte». Il senso non cambia.

Sapelli scrive un inno ai minatori del Sulcis che attualmente hanno occupato la miniera e il titolista così riassume il suo pensiero: “Ecco perché hanno ragione quegli operai coraggiosi”. L’articolo è un appassionato ditirambo in lode di questi eroi del lavoro. Vengono ricordati i minatori scozzesi (“Coal is my life”) e quelli asturiani (politically correct, infatti viene ricordato che erano antifranchisti: “El carbone es mi vida”). Per il giornalista questa è «la professione più antica del mondo», dimenticando che di solito è un’altra, che è meglio non ricordare. E infine: «scendere nelle viscere della terra, affrontare la carenza d'aria, l'oscurità, la paura, implica un coraggio da primato». Se è un primato, è un primato condiviso da molte migliaia di persone; per l’oscurità, esiste l’illuminazione; per l’aria, non si vede perché debba mancare; insomma forse Sapelli avrebbe fatto meglio a parlare del caldo, quello sì difficile da combattere. Ma sono soltanto alcuni passaggi.

La vicenda del Sulcis – continua il giornalista, agitando il flabello – «è un esempio di riattualizzazione della tradizione della fierezza del mestiere... quelle donne e quegli uomini sono degli eroi: gli ultimi interpreti di una civiltà del lavoro. Essa supera lo sfruttamento capitalistico e le differenze sociali perché è un patrimonio etico universale. Supera le stesse regole economiche anche se queste continuano tuttavia ad agire». Dopo una tirata di cui Demostene sarebbe stato orgoglioso e spentosi il fragore degli applausi (soprattutto udendo le parole “sfruttamento capitalistico”) ci si può chiedere se il concetto di “superamento delle stesse regole economiche” significhi che, dinanzi a donne e uomini del genere, due più due non faccia più quattro. E del resto, come potrebbe l’aritmetica permettersi di resistere a una miniera che «è stata teatro di gloriose lotte operarie condotte con intelligenza politica e straordinaria responsabilità»?

Ecco perché l’articolo di Sapelli è prezioso. Ci spiega perché l’Italia non uscirà mai dai suoi guai. Se la crisi è dovuta ad uno sbilancio tra uscite ed entrate, e se si cerca di contrastarla con i comizi e con gli inni, avremo tanta possibilità di tirarci fuori dal fango quanta ne ha un elefante paralitico.

La mentalità che traspare da questo articolo ci condanna senza appello: essa pretende di tenere aperta un’impresa che opera in deficit facendo ripianare la differenza ad altri lavoratori, solo perché “pare brutto” licenziare dei padri di famiglia; e certo, bello non è: ma se l’economia passa dopo la politica, dopo la morale, e persino dopo la retorica, non usciremo mai dalla crisi. Potendo bisognerebbe rendere quella miniera capace di produrre profitti, non perdite. E se questo fosse impossibile bisognerebbe offrire a quei padri di famiglia un lavoro, magari con una paga dimezzata, purché in un’impresa che faccia profitti. Cioè cambiare modello economico.

Ma cambiare modello produttivo, divenendo concorrenziali sul piano planetario, non è politicamente corretto. Non è conforme agli ideali di Sapelli. E oggi come oggi è impossibile spiegarlo a dei poveri operai illusi dai sindacati. Non si possono licenziare gli eroi. Meglio dargli una paga a spese dei contribuenti oppure aumentando il debito pubblico e affondando tutti insieme.

Ma forse stiamo calunniando un valoroso professionista. Non solo infatti egli riconosce che, attualmente, la miniera opererebbe in perdita ma fornisce la soluzione del problema: «Un'alternativa più praticabile esiste ed è quella percorsa in Europa in tutte le aree ad antichissimo insediamento carbonifero: la trasformazione dei siti in complessi culturali ed espositivi secondo i canoni dell'archeologia industriale, disciplina in cui noi italiani siamo maestri». Basta trasformare tutti i minatori in guardiani di un museo del carbone sotterraneo e vedremo navi intere di turisti precipitarsi da tutto il Mediterraneo per vedere questa meraviglia. Prenotarsi in tempo. (il Legno storto)

Lo Stato (pat)etico tassa per fare cassa. Federico Punzi

«Bevi la coca cola che ti fa bene / bevi la coca cola che ti fa digerire / con tutte quelle, tutte quelle bollicine...». Le tasse salutiste annunciate dal ministro Renato Balduzzi ci renderanno più cari i versi di questa provocatoria canzone di Vasco Rossi. L’iniziativa del ministro rivela una concezione dello stato, della fiscalità, profondamente illiberale e anti-economica, ma con le aggravanti dell’inutilità, dell’ipocrisia e della banalità. Oltre al danno di essere governati da statalisti, la beffa (o forse la fortuna?): questi signori non mostrano la minima coerenza per esserlo fino in fondo, né il coraggio di sopportare le conseguenze del loro dirigismo.

C’è qualcuno che davvero ritiene che «un aumento di tre centesimi a bottiglietta» – questo l’aggravio quantificato ieri dal ministro – possa aiutare a «far riflettere – questo lo scopo proclamato – sulla necessità di abitudini alimentari migliori, specialmente per i più giovani»? Non solo l’aggravio è contenuto nell’entità, ma anche circoscritto nei prodotti che colpisce. Perché è stata esclusa una moltitudine di cibi e bevande – anche della nostra tradizione gastronomica – senz’altro nocivi e di cui spesso abusiamo? Perché, per esempio, si sono salvate le merendine? E gli insaccati? Il vino? Il sale? Il caffè? La mozzarella? La pasta? I dolci? Sono salutari forse un etto di pasta alla carbonara, o un crostino di lardo di colonnata, o una bottiglia di Chianti? E perché, al contrario, il fisco non premia i comportamenti virtuosi, come l’esercizio fisico? Per cambiare davvero, in senso “salutista”, i consumi alimentari degli italiani sarebbe servito un aggravio molto più pesante, e anche sui prodotti nostrani, ma avrebbe causato danni enormi all’economia e sollevato resistenze ancora più forti.

Eppure, per quanto sia “mini”, questo nuovo balzello su bibite analcoliche gassate e superalcolici con zuccheri aggiunti, in ragione della loro diffusione tra i ceti popolari garantirà alle casse dello stato un gettito nient’affatto trascurabile di circa 250 milioni di euro l’anno. La nuova tassa, dunque, è inutile sul piano delle abitudini alimentari e ipocrita, perché lo scopo apparentemente nobile – la salute dei cittadini – serve a dissimulare il vero obiettivo: fare cassa. Appare talmente inappropriata allo scopo dichiarato che chiamare in causa lo stato etico o il paternalismo di stato è persino troppo lusinghiero per Balduzzi.

In linea di principio concordiamo con il ministro che «promuovere uno stile di vita più razionale e sobrio non è un risultato malvagio». Ma riteniamo che non sia compito del governo farlo, e che farlo attraverso la leva fiscale introduca pesanti elementi distorsivi nell’economia. Le tasse dovrebbero servire a pagare i servizi erogati dallo stato, non a punire o premiare i cittadini a seconda dei consumi che il politico di turno ritenga “buoni” o “cattivi”. Inoltre, la pressione fiscale in Italia è già troppo elevata, ha già un effetto pesantemente recessivo sulla nostra economia. Se questi micro-aumenti possono risultare tutto sommato trascurabili, segnalano tuttavia che alla ripresa delle attività dopo la pausa estiva il governo è impegnato a perseverare nell’errore piuttosto che a studiare il modo di invertire la rotta.

Correggere gli stili di vita dei cittadini non dovrebbe far parte del campo d’azione di un governo, nemmeno se in senso “salutista”. La tutela della salute rientra invece nelle funzioni dello stato, ma la sua accezione si sta estendendo fino a minacciare le libertà individuali. Oggi il governo pretende di esercitare la sua tutela non solo nei confronti di possibili danni arrecati da terzi, ma anche di quelli che l’individuo adulto e nel pieno delle sue facoltà può autoinfliggersi. Il diritto alla salute può diventare un dovere alla salute senza ledere la libertà individuale?

Se l’obiettivo non è “etico”, ma è contrastare l’aumento dei costi per il servizio sanitario nazionale legati ai comportamenti dannosi per la salute, allora forse si dovrebbe mettere in discussione il modello di sanità pubblica: invece di tassare anche chi non abusa di cibi e bevande, far pagare ai singoli i costi sanitari dei loro stili di vita dissennati. (l'Opinione)

martedì 28 agosto 2012

La maledizione della sinistra: il nemico è sempre all'interno. Fabrizio Rondolino

«Non saranno quattro untorelli a spiantare il grande Partito comunista!», tuonò Enrico Berlinguer dal palco della festa dell'Unità di Genova, nel settembre del 1977, mentre le piazze italiane erano piene di giovani che, per la prima volta nella storia, contestavano anche il Pci, colpevole di appoggiare il governo Andreotti.

Di fronte alla protesta giovanile, il Pci si chiuse a riccio e pronunciò la sua fatwa: «untorelli», cioè propagatori della peste; e, naturalmente, «fascisti». In quegli anni la polemica politica, ancorché violenta, era un po' più colta di quanto non sia oggi, e gli intellettuali comunisti precisavano che il movimento del '77 aveva molti punti in comune con il «diciannovismo», cioè con la fase nascente, movimentista e anti-istituzionale, del movimento fascista. L'insulto di Bersani a Beppe Grillo, ripetuto ieri seppur in forma più sfumata, non è dunque una novità: nel lessico della sinistra (post)comunista tutti quelli che non sono d'accordo col partito diventano, prima o poi, «fascisti». Capitò a Trotsky, e capitò a tutti i partiti socialisti d'Europa alla fine degli anni '30, accusati indistintamente di «socialfascismo» perché non aderivano entusiasticamente alla politica sovietica. Fascista fu a un certo punto Pannella, e poi il «mussoliniano» Craxi. La categoria del «nemico interno» (o tutt'al più confinante) è centrale per comprendere la psicologia, e dunque anche la storia, della sinistra non soltanto italiana. C'è un vistoso paradosso nel proclamare a ogni piè sospinto l'«unità» (dei progressisti, della sinistra, dei lavoratori, del partito) e nell'avere invece una storia fitta di scissioni, scomuniche, lotte intestine, scontri fratricidi. Tanto per dire: senza contare Vendola, siamo l'unico Paese al mondo in cui ci sono almeno tre partiti comunisti (quello di Ferrero, quello di Diliberto e quello di Ferrando, che accusa gli altri due di «revisionismo»). Quanto a Bertinotti, dapprima fu corteggiato da Prodi perché indispensabile alla vittoria elettorale del '96, poi fu accusato di essere un traditore e un oggettivo complice di Berlusconi, dopo qualche anno fu riabilitato e trionfalmente eletto alla presidenza della Camera e infine, nel 2008, fu buttato fuori dal Parlamento da quello stesso Veltroni che era diventato vicepremier grazie ai suoi voti.Il motivo di questo devastante paradosso - proclamare l'unità e farsi la guerra l'un l'altro - deriva probabilmente dalle origini rivoluzionarie: la purezza è infatti un'arma pericolosissima, e chi ne fa uso normalmente ne diventa vittima. Del resto, proprio questo è successo ad Eugenio Scalfari: per anni Repubblica ha lisciato il pelo al giustizialismo più violento, salvo poi ritrovarsi sotto il fuoco amico di Gustavo «Fracchia» Zagrebelsky). Lo scontro interno a Repubblica è speculare, ma non simmetrico, alla guerra scatenata da Bersani contro Grillo e l'ex amatissimo alleato Di Pietro. Qui sono in ballo i voti, e non si va troppo per il sottile. Così Di Pietro, che è stato portato in politica nel 1997 dal Pds di D'Alema con la candidatura blindata al Mugello, e che è stato poi resuscitato nel 2008 dal Pd di Veltroni, che rifiutò l'accordo con Rifondazione e con i socialisti, ma aprì le braccia all'ex pm, oggi è diventato il nemico pubblico numero uno. Anzi, numero due: perché è il «fascista» Grillo a incutere un vero terrore nel gruppo dirigente del Nazareno.E il motivo è abbastanza semplice: Grillo dice la verità - o, per meglio dire, dice alcune verità scomode per il Pd. Qui forse ci avviciniamo al nocciolo della questione. Il nemico interno è sì un potenziale avversario nella raccolta del consenso, dei voti, dei finanziamenti e della militanza, e dunque va stroncato sul nascere. Ma, soprattutto, il nemico interno è quello che dice una verità sgradita al vertice del partito, che della Verità è l'unico depositario autorizzato, oppure che anticipa scelte e posizioni che il medesimo vertice giudica non ancora «mature» e opportune.Non è difficile, ripercorrendo la storia della sinistra italiana nel dopoguerra, trovare le prove di questo triste fenomeno. A Saragat, che pure aveva fatto la Resistenza, fu dato dell'ubriacone quando nel '47 uscì dal Psi per fondare il Partito socialdemocratico. Sul versante sinistro, non andò meglio agli ingraiani del Manifesto, che furono buttati fuori dal Pci, nel '69, tra l'altro per aver appoggiato troppo entusiasticamente la Primavera di Praga e aver duramente criticato i sovietici. Fu però lo stesso Berlinguer, dieci anni dopo, a dichiarare «esaurita» la «spinta propulsiva» dell'Unione sovietica. Nel Pci, insomma, c'era un tempo per ogni cosa: e a deciderlo era il Comitato centrale. Ne fece le spese Marco Pannella, accusato di volta in volta di essere un «provocatore» o addirittura un «fascista» (ancora!), malmenato dal servizio d'ordine e irriso nelle sue battaglie nonviolente, salvo poi riconoscergli, vent'anni dopo, lo status di padre della patria. Ma è stato senz'altro Bettino Craxi il più odiato «nemico interno» del Pci, il mostro frutto di una «mutazione antropologica» (parole di Berlinguer), l'avversario da sterminare. Eppure Craxi era il segretario del Psi, e socialisti e comunisti convivevano felicemente nelle giunte delle più grandi città, nella Cgil, nel movimento delle cooperative. E Craxi era, ed è sempre stato fino agli ultimi giorni dell'esilio ad Hammamet, un uomo di sinistra, un figlio della sinistra italiana orgoglioso delle proprie origini e delle proprie idee. Semplicemente, quelle idee erano troppo moderne per il Pci. Bisognerà aspettare Tony Blair perché la sinistra (post)comunista abbracci, purtroppo per un breve periodo, le posizioni riformiste e liberali che erano state di Craxi. Il nemico interno è chi vede giusto prima degli altri: per questo va eliminato. (il Giornale)

A che punto sono le trattative per il rilascio dei marò. Pio Pompa

E’ per via del coraggio mostrato da quel centinaio di marinai della fregata Grecale della marina militare italiana, rimasti a terra nel porto di Colombo (Sri Lanka) in aiuto della popolazione locale esposta a un possibile tsunami dopo il terremoto dell’11 aprile scorso nell’oceano Indiano, che una fonte d’intelligence di quel paese si è decisa a confidare al Foglio alcuni risvolti inediti sulla vicenda dei due Marò da mesi detenuti a Kerala con l’accusa di omicidio. “I vostri Marò – sostiene la fonte – sono innocenti e non c’entrano nulla con l’uccisione dei pescatori indiani del St. Antony. La storia è un’altra e ben nota tra gli uomini di mare dello Sri Lanka. Gli stessi che, quotidianamente, hanno a che fare e si scontrano con i pescherecci indiani dediti alla pesca di frodo sconfinando nelle nostre acque territoriali”.

Ed è ciò che avrebbe fatto anche l’equipaggio del peschereccio St. Antony, nei giorni precedenti quel tragico 15 febbraio, “avventurandosi scientemente – continua il nostro interlocutore – dove sapevano di potere essere attaccati e depredati da altri pescatori loro connazionali o di nazionalità diversa”. D’altro canto i dati su una simile realtà parlano chiaro. Centinaia sono i pescatori indiani rimasti uccisi durante le loro incursioni in acque cingalesi sfidando la sorte e la dura repressione della pesca di frodo, soprattutto di quella a strascico, da parte delle autorità dello Sri Lanka costrette a sopportare, ogni anno, danni per milioni di dollari. “Di contro – afferma la fonte – nulla viene fatto, sotto la pressione delle potenti associazioni che rappresentano quasi due milioni di pescatori indiani, dal governo di Kerala per impedire le scorrerie e lo scempio sin qui descritti. Solitamente, quando muore qualcuno dei loro pescatori, si limitano ad addossare la responsabilità alla nostra marina militare o a nostri pescherecci e non anche a indagare nel contesto della sanguinosa faida interna ai gruppi criminali che controllano la pesca di frodo”. Ci sarebbe stata, dunque, una vendetta tra gruppi criminali all’origine dello scontro a fuoco che ha coinvolto il St. Antony. “L’equipaggio indiano – aggiunge la fonte singalese – è stato attaccato e depredato del pescato in una delle aree più frequentate e pericolose dell’oceano Indiano. Alcuni nostri pescatori raccontano di avere assistito alla scena e sono quasi certi che l’imbarcazione avvistata dalla nave italiana, con a bordo i Marò, potesse essere proprio quella degli assassini tra l’altro armati di tutto punto. Gli stessi, a quanto sembra, che avrebbero imbeccato la polizia indiana per coprire le proprie responsabilità”.

Ecco il magma criminale che starebbe tentando di risucchiare le vite innocenti dei due Marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, con le accuse infamanti di omicidio e associazione a delinquere. Da qui il suggerimento discreto e quasi imbarazzato della nostra fonte: “In una situazione del genere è un suicidio usare il solo guanto di velluto della diplomazia. Da subito bisognava sporcarsi le mani affidando ai vostri servizi di intelligence il compito di infiltrarsi negli scomodi ambienti dove risiedono persone e testimoni a conoscenza di come si sono svolti veramente i fatti. A partire dai pescatori singalesi che non hanno dimenticato il gesto coraggioso dei marinai della Grecale”. (il Foglio)

domenica 26 agosto 2012

Machiavelli e la giustizia. Davide Giacalone

Surreale e noioso, al tempo stesso confuso e trasformista, il conflitto che dilania la sinistra dei sapientoni, circa il conflitto apertosi fra il Quirinale e la procura di Palermo. Leggere Luciano Violante che condanna l’uso politico delle inchieste giudiziarie induce al sorriso, ma anche al dispetto: diavolo di un raffinato trasfiguratore, riesce a pontificare predicando al contrario di quel che razzolò. Per non dire di Ezio Mauro, che s’avvede d’un colpo circa l’infiltrazione destrorsa, per via giustizialista, nelle verdi praterie del pensiero democratico: sono anni che definiamo fascisteggiante quel loro modo di ragionare, complimenti per la prontezza di riflessi. Né può tacersi il pulpito da cui parla un falsamente dotto Gustavo Zagrebelsky, che in una manifestazione giustizialista plaudì l’intervento d’un bambino, incarnazione di sua innocenza e di loro squadrismo moralista, ma che, più d’ogni altra cosa, è praticante attivo di quella continua e volgare violazione della Costituzione che fece lui, e tanti altri suoi consimili, presidente per qualche mese, con tante pernacchie al dettato della Carta. Tutto surreale e noioso, per pensatori farlocchi. Salvo il fatto che quel cortocircuito riflette un difetto di fondo del nostro sistema elettro-politico.

Niccolò Machiavelli fondò il pensiero politico moderno affermando l’autonomia della politica dalla religione. La cosa stupiva i benpensanti: ma come si può separare quel che è giusto da quel che è santo, quel che è sbagliato da quel che è demoniaco? Aveva ragione il fiorentino, sebbene non gliela diedero in vita. Ora abbiamo bisogno di separare il politico dal giudiziario, rifondando la convivenza civile. I benpensanti (ipopensanti) si scandalizzano: ma come si fa a separare il giusto dal legale, l’errato dal criminale? Si fa, eccome, perché il diritto è frutto della politica, invece assistiamo al dipendere della politica dall’amministrazione della giustizia. Anzi, per essere precisi: dall’amministrazione dell’accusa.

Ciò non comporta affatto impunità. Pensate ad un caso del genere: vostro figlio viene accusato di spacciare droga, o il vostro coniuge di avere fatto un furto con scasso, chi è così matto da dire: “attendo fiducioso l’esito del procedimento?”. Delle due l’una: o li difende a spada tratta, perché ne conosce l’onestà, o provvedete a prenderli a schiaffi, in privato. La stessa cosa vale per la politica, ove il giudizio non deve dipendere dalla giustizia.

Detto ciò, è ovvio che i procedimenti penali sono autonomi e devono andare fino in fondo. Nel caso quirinalizio, ad esempio, quel che stona, fortemente, è che un potenziale indagato (Nicola Mancino) si sia rivolto al presidente della Repubblica per fermare il procedimento, o indurre i magistrati a non compiere determinati atti. Malissimo. La cosa è bene si conosca, ed è bene che il giudizio politico (a mio avviso negativo) non dipenda da quello penale. Poi, però, ci sono le intercettazioni telefoniche in capo all’uomo del Colle, e non va affatto bene, talché credo abbia ragione nel ricorrere alla Corte costituzionale. Ma la politica deve ragionare sulla causa: le legge sulle intercettazioni va cambiata radicalmente, e il solo modo per non danneggiare le indagini e non esporre chiunque (anche normale cittadino) al gratuito ludibrio o indebita esecrazione, è quel che abbiamo proposto: libere per indagare, mai, o quasi, elementi di prova. Non si depositano, quindi non vanno sui giornali. Se ci finiscono, mancando scuse formali, pagano quanti le maneggiavano.

La cosa comica è che si crede possa tutto ridursi a un dibattito interno alla sinistra, senza riconoscere l’onestà e la lungimiranza di quanti, esterni a quel mondo, da anni avvertono quel che loro solo oggi vedono. Questa è arroganza insulsa. O si pensa che tutto andrebbe bene se altri, in politica e nel giornalismo, non avessero imparato a fare quel che loro insegnarono? Così procedendo la sinistra dimostra l’enorme debolezza culturale di cui è zuppa, impossibile da compensare solo indicando le rozzezze di certa destra. Ad ogni modo, grazie a Mancino, grazie alla reazione del Colle, e grazie ai tanti cocci moralisti che si ritrovano fra i piedi, finalmente ci sono arrivati. Affrontino la questione e non provino a cavarsela con i gargarismi. Quel che abbiamo prodotto mentre erano in sangunario letargo è a loro disposizione.

Attenzione, si è infiltrata la destra. Marcello Veneziani

Non ha torto Ezio Mauro, direttore de La Repubblica, a dire che alcu­ni giustizialisti collocati a sinistra sono in realtà gente di destra finita lì in odio a Berlusconi.

E poi, aggiungo io, se uno si butta a sinistra ti sorridono i poteri edi­toriali, giudiziari e le fabbriche del con­senso.

Nell’indole, Tonino Di Pietro, Marco Travaglio, ma anche Roberto Saviano, sono tipi da Legge e Ordine, giustiziali­sti e populisti destrorsi. Pure Grillo usa argomenti più da Uomo Qualunque che da Democrazia Proletaria. Anche lo stile giornalistico del Fatto , ha ragione Mauro, è quello del Borghe­se ; ma questo ne spiega l’efficacia. Tra­vaglio del resto scriveva sul Borghese de­stro- leghista degli anni Novanta e Di Pietro, rurale-autoritario, è più da Can­dido che da Micromega .

Accadde anche al tempo della Resi­stenza che alcuni fascisti intransigenti divennero partigiani intransigenti. E spesso nella nostra Repubblica l’antifa­sc­ismo è stato un fascismo di segno con­trario. Mauro omette però di dire che con loro ci sono i giacobini di Giustizia e Libertà, molto popolo viola, ex-giro­tondini, Zagrebelsky, Flores d’Arcais, Furio Colombo.

Mauro ha ragione ma lo dice un po’ tardi. Questa criptodestra c’era anche prima, ma finché attaccava Berlusconi andava bene, ora che tocca Napolitano viene scomunicata e accusata di essere sguaiata e non avere senso dello Stato. Anche ai tempi della sinistra stalini­sta c­hi sgarrava dalla linea veniva accu­sato di lavorare per la destra in agguato. Vigilanza democratica sugli infiltrati reazionari. (il Giornale)

venerdì 24 agosto 2012

Mario per sempre. Filippo Facci

Sempre più Europa e sempre meno Paese, gli editti di Moody's e di Fitch al posto del pastone politico, lo spread e le borse che ci dicono se stiamo bene o male (e chissenefrega di come stiamo davvero) e sempre nuove emergenze che si fanno eterne e che sconsigliano tutte quelle scartoffie chiamate elezioni e rappresentanza dal basso. L'Euro, poi, che non si può neanche più discutere (altrimenti scatta la speculazione) mentre i partiti sono al minimo storico e pensano seriamente di tenersi Monti in accordo con le banche e soprattutto coi «mercati», che nel primo articolo della Costituzione hanno sostituito il lavoro. Qualche illuso beota, intanto, aggiunge che l'unione monetaria dovrebbe farsi «anche politica» e tutti a rispondere certo, come no. Gli stessi tutti, subito dopo, tornano a scagliarsi contro la Grecia che sono le canaglie e i terroni d'Europa: mentre in quell'Ungheria che pure fa parte dell'Unione Europea - lo notava Michele Serra su Repubblica - il governo sta facendo a pezzi la democrazia nel silenzio generale. Perché Bruxelles, vedete, non ingerisce in queste cose: anche se in Italia l'ha fatto, ha mandato a casa un governo come sappiamo tutti. E per che cosa? Per vedere la luce in fondo a un tunnel che pare il traforo del San Gottardo. Per sentirci dire, per la prima volta nella storia dell'Occidente, che il futuro sarà comunque peggiore del presente. (Libero)

La regola dei 20 anni. Christian Rocca

In passato sul Foglio, e qui, se ne è scritto a lungo. La regola dei 20 anni è quella secondo cui la sinistra post comunista italiana riconosce, 20 anni dopo, che avevano ragione quegli altri. La regola prevede, inoltre, come elemento fondamentale la creazione fittizia di una grottesca linea di continuità tra le posizioni tragiche e sbagliate di allora e la nuova e improvvisa consapevolezza liberale. Questo percorso retorico e politico consente di cambiare, in ritardo, una posizione ideologica che non sta in piedi da almeno due decenni senza pagare pegno alcuno, anzi garantisce e rafforza la possibilità di continuare a dire che gli avversari avevano e hanno comunque torto. La regola dei 20 anni è una raffinata tattica politica che può e deve contare su un'egemonia culturale senza precedenti. Bravi, ovviamente. Ma è una barzelletta, nonostante faccia comunque fare qualche passo avanti al dibattito pubblico e al paese (anche perché il cambiamento, nei protagonisti, spesso è reale). Gli esempi si sprecano, basta leggere i libri e le evoluzioni del pensiero di D'Alema e Fassino e della gran parte degli intellettuali e giornalisti italiani over 50.

La regola dei 20 anni è stata abbracciata questa mattina da Ezio Mauro, nel prendere posizione tra il giustizialismo di Zagrebelski e i piedi per terra di Scalfari sull'assurda idea che Napolitano sia al centro di una macchinazione nei confronti di magistratucci capaci solo di trasformare in statista un imbroglione come Cancimino. Mauro non dice che Zagr e Ingroia sbagliano, non può anche perché dovrebbe cancellare dalle emeroteche alcune annate del suo giornale, ma riconosce che a causa di Berlusconi (la colpa è sempre di Berlusconi) la sinistra è stata invasa da una cultura giustizialista, becera ed eversiva di destra. Da Travaglio, insomma. Ovvero dall'editorialista principe dell'Espresso che è anche il giornalista assunto a Repubblica proprio da Ezio Mauro, per quanto poi confinato per la vergogna anni alla cronaca di Torino in modo da limitare i danni. O forse la sinistra è stata invasa dalla cultura giustizialista di Paolo Flores, ovvero dall'editorialista di Repubblica che è anche direttore di Micromega, bimestrale fratello di Repubblica. Si potrebbe continuare all'infinito con gli esempi, e comunque bastano le pagine sportive di Rep. di queste settimane.

La regola dei 20 anni è all'opera: Mauro punta il dito sulla cultura becera di destra che infanga la sinistra ma svia lo sguardo dalla Luna di Largo Fochetti. Per usare un'altra abusata metafora: com'era quella dell'Apprendista Stregone? Dire che a sinistra c'è un invasione di campo della destra giustizialista e non patteggiare non l'omessa denuncia, ma l'illecito strutturale, è poco credibile. La cosa interessante è che 5 anni fa (e allora scrissi di regola dei 15 anni) Repubblica fece la stessa operazione, denunciando Marco Travaglio come agente della destra becera e giustizialista a firma del compianto Giuseppe D'Avanzo. Ma non è cambiato niente, anzi. Travaglio è diventato pure editorialista numero 1 dell'Espresso.

Stavolta il caso è più eclatante, c'è di mezzo Scalfari e mai era stato messo in discussione il monolite ideologico del giornale partito di Rep. (altro che la libertà e la varietà di posizioni di cui scrive Mauro ). Forse è la volta buona, il primo passo di una svolta culturale, speriamo. Speriamo sinceramente. Ma resta il dubbio che anche in questo caso, come 5 anni fa, a Largo Fochetti abbiano fatto soltanto la mossa, cioè ancora della Regola dei 20 anni. (Camillo blog)

Fessi & furbi. Davide Giacalone

L’invito a non chiamar “furbi” gli evasori fiscali, giunto dal presidente del Consiglio, non aveva nulla di prezzoliniano. Mario Sechi ha reagito da uomo libero e giornalista che pretende di restare tale, sconsigliando chi governa dal dettare il vocabolario. Ma, al tempo stesso, ha suggerito a Mario Monti di rileggere Giuseppe Prezzolini. Suggerimento perfido e pepato, perché nella prosa di quel grande italiano, e nel cammeo citato (“L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono”), per “furbi” si può anche leggere “stronzi”. Sebbene il linguaggio dell’epoca non concedesse tali volgarità (e nel mentre me la concedo la detesto). La scurrilità oggi accessibile, però, consente di approfondire il prezzolinismo, dacché l’epiteto può essere utilizzato anche quale sinonimo di “fessi”. Perché gli uni e gli altri, in fondo, sono la definizione bifronte dell’italiano che non crede nello Stato, non crede nella collettività, non crede nella politica e, tendenzialmente, non crede in un bel niente di esterno alla famiglia (i leader politici cattolici ci credono così tanto che ne hanno diverse).

Prezzolini fu a lungo negli Stati Uniti, ove rappresentò la cultura italiana nonostante l’ostilità del governo italiano dell’epoca. Che era fascista. Al contrario di tanti altri intellettuali suoi coevi, Prezzolini non trasformò mai la benevolenza verso gli albori del fascismo in successivo comunismo, il che gli procurò l’ostilità dell’accademia marxisteggiante, che potremmo iscrivere d’ufficio all’Italia dei “furbi”. Ma erano anche “fessi”, perché passare dal fascismo al comunismo era come trascorrere la vita costantemente dalla parte del torto, sebbene sempre accompagnato dall’arroganza di chi pretende d’avere ragione. Quindi quei “furbi” “fessi” ben si descrivono con il sinonimo bifacciale, che non ripeto, perché oggi ho esaurito la mia scorta di volgarità.

Motivo in più, comunque, per leggere Prezzolini (Sechi è un uomo profondamente buono, capace di suggerire le riletture, io sono meno incline al volemose bene, quindi so e scrivo che Prezzolini non lo ha letto nessuno). Anche perché quel nostro vivace e impareggiabile connazionale è vero che tornò a vivere in Italia, a Vietri. Sul mare. Ma è anche vero che morì a Lugano (nel 1982), dove si trasferì ben prima (nel 1968). Lugano. Vi dice nulla? I più raffinati ricorderanno le note malinconiche di “Addio Lugano Bella, o dolce terra mia”. Canto degli anarchici scacciati. Più prosaicamente Lugano era ed è meta di soldi italiani sottratti al fisco. Ebbene, Prezzolini non era uomo da esportare illecitamente capitali, ma giunto in Italia scoprì che il fisco era vampiresco (e stiamo parlando di tempi in cui la pressione fiscale arrivava alla metà di adesso), quindi esportò sé stesso, con i propri redditi. Della serie, appunto, non faccio né il furbo né il fesso.

Credo che nella categoria dei “furbi” potrebbe collocarsi anche chi fa finta di non sapere che il fisco italiano è fatto su misura per i “fessi”, il che comporta il dovere civile di soddisfarlo, ma non quello morale di onorarlo. Il nostro erario non è affatto capace di scoprire i “furbi”, ma si abbandona ad azioni dimostrative, di stampo maoista, nella speranza che se non a redimerli quanto meno a sconsigliare loro gli eccessi sia la paura. Ma i furbi veri non hanno paura, perché incarnano l’incrocio fra i realisti (fra ricorsi e giudizi il fisco non scuce loro un tallero) e i menefreghisti (capita agli altri). Sì come è da furbi praticare la politica che soffia sul fuoco dell’invidia sociale, approfittando del consenso di chi vorrebbe vedere impalato il vicino di casa, reo di avere comprato un frigorifero esagerato, in grado di umiliare il vecchio arnese che in famiglia tante volte s’è proposto di cambiare, ma per il quale scarseggia la pecunia.

E’ da furbi andare a dire che gli evasori non si debba chiamarli “furbi”, prendendo l’appaluso dei fessi non meno che dei furbi. E’ una furbata perché il problema non è come li si definisce, ma che quanto chiesto dallo Stato è fuori da ogni limite di tollerabilità. Ed è da furbi supporre che gli altri siano talmente fessi da credere che se pagassero tutti ciascuno pagherebbe meno, perché fin qui è stato vero il contrario: più si paga e più lo Stato spende. Il che, del resto, è esattamente quel che il governo sinceramente sostiene, ovvero che il gettito serve per pagare i conti. Appunto.

Direi che diffondere il vocabolario del montianamente corretto è idea da furbi-fessi, nel senso che strizza l’occhio al popolo pagante e, già che ci si trova, gli strizza anche la saccoccia. Ma c’è una cosa, in quell’invocazione, che mi pare prezzolianamente apprezzabile: l’Italia sarà diversa quando non sarà più popolata da fessi che si sentono furbi e da furbi che sono inesorabilmente fessi. Fregarsi vicendevolmente, in una specie di collettivo rubamazzi, non è costruttivo. E manco divertente. Nonché micidialmente diseconomico. Chi si trova in alto può ben dare il buon esempio, magari un po’ deamicisianamente. Direi che Monti ha perso l’occasione e fatto un passo falso. Può rimediare, magari irridendo il prossimo settimanale da parrucchiere che provi a descriverlo come patriarca della tipica famigliuola italica. Anche i fessi, alla lunga, si stufano.

giovedì 23 agosto 2012

Le manfrine di Rosario Crocetta. Enzo Nardi

Fino a ieri non conoscevo il sig. Rosario Crocetta. Poi, questa mattina, in un Caffé del mio paesotto (trattasi di Macerata, detta anche la “ Micene delle Marche” nel senso dannunziano di città morta), dopo una breve colluttazione con un pensionato in canottiera che non vuole lasciarmi il quotidiano impiastricciato di marmellata, leggo una sua dichiarazione: «Se dovessi diventare presidente della Regione Sicilia, dirò addio al sesso e mi considererò sposato con la Sicilia».

Quindi, ancorché a fatica, visto che il pensionato come un forsennato continua a tirare le pagine, vengo a conoscenza di altre sublimi realtà di Crocetta che qui di seguito riassumo: mi piacciono gli uomini ma non sono mica come Berlusconi che, avvinto dalla lussuria e dalla peperina, ha mandato l'Italia in rovina, io piuttosto mi consegnerò alla Sicilia in purezza d'animo e di corpo.

Ed ora, cari lettori, comodamente seduto in poltrona, dopo aver lasciato al suo destino il pensionato dalla canottiera bianca (indossava, se a qualcuno interessa, anche un orribile paio di calzoni di raso rosso con la scritta Cementificio Siprox), rifletto. Perché Crocetta ha fatto una tale apologia della castità e suonato un dolce preludio alle nozze mistiche con la Politeia? Forse per mettere ancora una volta alla gogna l'insaziabile mandrillone di Arcore? Ma la goduria dovuta alla solita smaltatura di odio nei confronti dell'erotomane brianzolo – e ciò Crocetta doveva prevederlo – non poteva compensare lo sdegno della solita Paola Concia e di tutta quella cricca (piano con le parole, Enzo, rischi una condanna ai lavori forzati negli illuminati laogai della borghesia di sinistra) che Dante ficcherebbe nel canto quindicesimo dell'Inferno. D'altro parte molti avversari di Crocetta, nel tentativo di difendere il parente acquisito di Mubarak , hanno gridato che a loro non frega nulla dei costumi sessuali di un politico. Il ragionamento è in parte giusto (meglio un bravo medico che fuma sessanta sigarette senza filtro al giorno, piuttosto che un medico salutista ma somaro).

Ma non è questo il punto. Il punto è un altro e si chiama Udc. L'Udc, nota ninfomane sculettante della politica, in Sicilia, guarda un po', sostiene Rosario Crocetta, candidato del Pd. La cosa è davvero singolare. Non è facile per una devota vecchietta di Siracusa (con lo zendado nero in testa quando entra in chiesa) digerire un governatore gaio (stai attento con le parole, Enzo!). Io sono sicuro che l'Udc, con tutto quel pelo sullo stomaco prodotto da Alien Buttiglione, troverebbe facilmente il modo di operare la convergenza delle parallele e di disegnare triangoli con quattro lati. Ma ci ha pensato prima Crocetta (non escludo però un conciliabolo notturno con l'Udc per la stesura di un copione cattolicamente corretto). Insomma che ti fa Crocetta? Dice: «Sì, sono stato come Brunetto Latini (canto quindicesimo dell'Inferno) ma adesso sono puro siccome un angelo.» Praticamente Suor Crocetta. (il Legno storto)

lunedì 20 agosto 2012

Combriccola. Gianluca Perricone

Nei giorni scorsi il pm Ingroia ha fatto tra l’altro sapere all’opinione pubblica che «La seconda Repubblica è nata sui pilastri eretti sul sangue di magistrati e persone innocenti. Non potrà mai diventare una democrazia matura fino a quando non si riuscirà a sapere la verità su quella stagione». Concetto assai discutibile ma che tanto è piaciuto (e come poteva essere altrimenti…) a Marco Travaglio che domenica, nella sua colonna della prima pagina del “Fatto Quotidiano”, ha copiato l’Ingroia-pensiero includendo il pm palermitano tra quei «pm che cercano la verità sulla trattativa Stato-mafia, atto fondativo della Seconda Repubblica».

Coerente, non c’è che dire: perché, come noto, tutto ciò che sostengono certi pm, per Travaglio rappresenta il Vangelo, la linea guida del suo pensiero. E questo lo porta, assai spesso, a sparare a pallettoni contro coloro che la pensano diversamente. In questo periodo, poi, il vice-Padellaro c’è l’ha con tutti: Napolitano, B., “Repubblica”, Scalfari, “Corriere della Sera”, “l’Unità” e chi più ne ha, più ne metta. Proprio tutti, tranne quella combriccola composta dai “soliti noti” e che include un Di Pietro oramai allo stremo ed un Grillo che, contro l’ex pm molisano, sta facendo a gara a chi la spara più grossa pur di acchiappare qualche consenso in più.

Mai una volta che questa congrega renda noto il suo disappunto per qualche discutibile decisione di un qualunque togato; mai che questa cricca ammetta che una intercettazione (di chicchessia, si intende) non doveva essere resa nota; mai (ma proprio mai) che questi signori riconoscano un qualche eccesso da parte dei loro ex colleghi, compagni di vacanze o di palco. Niente che sia niente: loro, e soprattutto i loro ispiratori, sono sempre e comunque dalla parte della ragione. Anche quando oltrepassano i limiti dettati al loro ufficio, quello di magistrato inquirente: il resto del mondo è nel torto e basta.

Solo due domande. La prima: ma quando parte Ingroia per il Guatemala? La seconda: ma chi ha ucciso il dottor Borsellino (dopo vent’anni di indagini, la domanda non ci sembra poi così peregrina)? (il Legno storto)

domenica 19 agosto 2012

Tutti i veterani di Montecitorio. Giuseppe Mele

Stefano Pedica (chi era costui?) ha chiesto l’apartheid per i 100 parlamentari da decenni al vertice della rappresentanza. Pedica dell’IdV, eletto per magnanima decisione dell’ex magistrato capopopolo Antonio Di Pietro, sembra ed è un democristiano, già Ccd, cossighiano, ulivista, mastelliano, buttiglionesco. A suo paragone Antonio Razzi e Domenico Scilipoti sono aristocratici. L’espressione, la favella, il gesto, lo sguardo, la triste imitazione del capo del momento ne indicano il vuoto assoluto. Siamo alla rappresentazione massima della partitica per mera occupazione del tempo.

Tutti dovrebbero essere disposti a pagare ai tanti perduchiani e famiglia vacanze briatoresche pur di evitare danni peggiori. Purtoppo il Zentrum italico è soprattutto fatto da gente così che deve sistemarsi ad ogni costo e anche molto bene. Non è da prendere in considerazione la cattedra da cui viene la predica, né è corretto fare di tutt’un’erba un fascio. Si può stare in parlamento se nei decenni si mantiene un sincero consenso. Starci da 20 anni vuol dire superare la prova di diversi sistemi elettorali. Significa appartenere fortemente ad un sistema cooptante quale sono quelli di tutti i sistemi partitici di questo mondo. Turco e Finocchiaro da 25 anni, Mannino da 24, D’Alema da 23, Bossi da 21, Maroni, La Russa, Cicchitto, Giovanardi, Gasparri, Calderoli, Castelli, Marini da 20, Melandri, Bindi, Berlusconi, Baccini, Veltroni, Giulietti, Stefani, Buttiglione, Tremonti da 18 hanno consenso. Matteoli da 29 anni, i leccesi Poli Bortone da 22, Patarino da 20, Costa da 18, Landolfi, il milanese De Corato, il cattolico Mazzocchi, il comasco Butti da 18 hanno dalla loro l’elettorato missino. Sul voto siciliano si basano Nania da 25 anni, l’aennino Battaglia, Prestigiacomo e La Loggia da 18, Schifani da 16.

Inutile ironizzare sul Gattopardo che resta amara realtà: D’Alì ha ereditato il posto del nonno Giulio, già senatore del Regno. Anche il ministro Patroni Griffi d’altronde è, come Totò, principe di Costantinopoli, per discendenza materna. Se quasi tutti i direttori di giornali sono figli di papà, perché non dovrebbero i politici? Finché vivrà Fassino, la moglie Serafini rimpinguerà i 20 anni di legislatura. Non è colpa dei coniugi, ma dell’elettorato Pd, che se glielo dicono i capi, vota anche per i Treu da 16 o i Morando da 18 anni, malgrado questi abbiano posizioni antitetiche ai postpiccisti.

Anche i quasi 20 anni di Rutelli, deputato di quattro bandiere, sono dipesi dall’ingenuità del voto di sinistra. I 28 anni, ministeri inclusi, del siciliano Vizzini, passati tra Psdi, Psi, Pdl, nuovo Psi ed infine Udc dall’ingenuità di destra. Casini, deputato da 29 anni, senza Forlani, Berlusconi ed i siciliani la prossima volta potrebbe fare fatica; dovrà ricorrere al sostegno di Mieli e dei poteri forti. Anche Fini rischia di porre fine ai suoi 29 anni di presenza parlamentare come i seguaci Napoli e Menia ai loro 18. L’ex leader Msi si tira ancora dietro un 2% che gli potrebbe far evitare la fine di Segni. Fine che vede vicina il decano Pisanu, non sazio in 38 anni di ministerialità Dc, Fi e Pdl, in cui non ha neanche imparato una corretta dizione italiana. L’elettorato di destra non ha contestato al Nostro gli affaire P2 e Calciopoli, difficile ora che gli perdoni i complotti anti Berlusconi svelati da Wikileaks. Valentini del Pdl merita i suoi 18 anni anonimi per avere un giorno difeso la caccia. Valducci in 18 anni e Leoni in 16 sono stati premiati come fondatori di Forza Italia e Lega, dopo di che stop, nulla di pervenuto. Anche Colucci, in 33 anni, eletto dai socialisti prima e dai berlusconiani dopo, ha brillato per stima al vertice, nell’assoluta insipienza degli elettori di cosa abbia fatto, ma è restato al suo posto. I 16 anni di Dell’Utri dipendono dalla magistratura che ne ha fatto simbolo della persecuzione politica. Quelli di Dini dalle stranezze dei governi del Presidente. Follini invece li deve al premio per i tradimenti. Mario Tassone, in 34 anni, da Dc ha governato con Craxi e Fanfani, ha militato nei cattolici di destra, poi ha seguito l’evoluzione montiana dell’Udc. In trent’anni e più solo un’opinione, il plauso alla Scentology di Cruise.

Come ha fatto in 25 anni il cuneese Delfino a fare il sottosegretario sia con D’Alema che con Berlusconi? Il simpatico Calderisi, l’esperto di riforme elettorali, per non avere un voto sulla carta, ha fatto un quarto di secolo di legislatura, metà da radicale metà da berlusconiano. Bonino, tignosa e stimata dalle persone autorevoli, i suoi 21 anni li ha basati sulle follie pannelliate, su un incarico europeo made in Berlusconi, uno di governo made in Prodi e su una coalizione che l’ha eletta che si chiama (tenetevi forte) Pd-Idv. Miracoli da volontà alfieriana che permette alla Nostra di dettare legge a colleghi con tanti voti veri. Si sa, quando si ha la ragione dalla propria, non c’è democrazia che tenga. Il siciliano Urso era un miracolato con il Msi, per miracolo ha fatto il ministro, ci ha lasciato una fondazione per il design, ha cercato di far cadere il governo di destra ed ora è tornato da Alemanno che lo miracolerà di nuovo: voilà, 18 anni.

Qualche volta poi si va avanti anche senza amore. Si pensi a Giorgio La Malfa che deve i suoi 38 anni a papà Ugo ed al trucco di usare voti di destra per poi passare con i dalemiani. Il Parlamento è regno di burocrazie, procedure, attività anonime da peones. Anche Vito con 20 anni, Martino con 18 Baldini con 17 o Pera con 16 rischiano di naufragare in questo mare magnum. L’elenco dei cento veterani conferma che è demagogico parlare di “nominati”. Chi c’era con il proporzionale è rimasto anche dopo. Il listone però evidenzia due cose: il numero complessivo degli eletti è troppo grande, da ridurre da mille a qualche centinaio. Poi, è inammissibile mantenere il seggio dopo avere cambiato partito. Che è poi il tradimento dell’unico rapporto vero tra eletto e voto. (l'Opinione)

La grande fuga dalla prigione Italia. L'Opinione

In principio furono i cervelli. I primi a comprendere che in un’Italia senza meritocrazia non c’era futuro. Tecnici e scienziati che hanno fatto le valige per cercare all’estero quelle opportunità che la patria negava loro.

Poi è toccato agli industriali: con una pressione fiscale tra le più alte al mondo, un sistema sindacale ottuso, una giustizia civile lenta come una tortura e una burocrazia da stato leviatano, provare a fare gli imprenditori in Italia era qualcosa di troppo difficile per definirla soltanto un’impresa. Figurarsi poi pensare di convincere uno straniero a tentare l’impresa da noi.

Poi è stata la volta dei ricchi. Chi aveva una barca, un auto di lusso, un bel dipindo o un conto con qualche zero in fondo ha impacchettato tutto e se n’è andato all’estero, magari dove il fisco chiude anche più di un occhio.

Ora tocca agli immigrati. Lo dice l’ultimo studio di Unioncamere: persino quelli che una volta facevano tutti quei lavori che gli italiani non volevano fare hanno capito che, adesso, in Italia (e per l’Italia) non c’è più niente da fare.

venerdì 17 agosto 2012

Diversamente montiani. Luca Ricolfi

E’ ormai chiaro a tutti che, alle prossime elezioni politiche, il discrimine principale sarà il giudizio sull’operato del governo Monti. Le forze politiche che criticano Monti «senza se e senza ma» sono almeno quattro: Lega Nord (Maroni), Italia dei valori (Di Pietro), Movimento Cinque Stelle (Beppe Grillo), Sinistra Ecologia Libertà (Vendola). Insieme, secondo i sondaggi degli ultimi mesi, sono in grado di attrarre oltre il 40% dei voti. Se aggiungiamo i nostalgici del fascismo e del comunismo, il fronte delle liste anti-governo (e spesso anche: anti-euro, anti-Europa, anti-austerità) arriva al 45%.

E dall’altra parte?

Dall’altra parte, sul fronte dei non-ostili a Monti, per ora troviamo i tre partiti che appoggiano il governo (Pdl, Pd, Udc), che attirano sì e no il 50% dei voti, più un certo numero di piccole formazioni politiche, più o meno visibili e più o meno ben rappresentate in Parlamento.

In teoria le forze non-ostili al governo prevalgono ancora su quelle ostili, però il problema è che il loro giudizio sul governo Monti è estremamente articolato, per usare un eufemismo. E anche ove allargassimo il quadro, immaginando che scendano in campo nuovi soggetti e nuove liste (Montezemolo, Marcegaglia, Giannino…), lo spettro dei giudizi sul governo resterebbe molto ampio, probabilmente ancora più ampio di come si presenta attualmente. Insomma, il fronte dei non-ostili può anche arrivare al 55% dei consensi, ma è profondamente diviso al suo interno.

Ma da che cosa dipende tale divisione?

In parte da ragioni ovvie. Dentro il fronte dei non-ostili ci sono il principale partito di destra (Pdl), il principale partito di sinistra (Pd), il principale partito di centro (Udc). E’ come dire che la spettacolare crescita del fronte anti-Monti (e segnatamente del movimento di Beppe Grillo) ha compresso e confinato la naturale dialettica destra-sinistra entro una piccola porzione dello spazio politico: il 55% dei voti validi, corrispondenti al 40% del corpo elettorale, tenuto conto di astensioni, schede bianche e schede nulle. Ciascuno di questi partiti, in campagna elettorale, non potrà che presentarsi secondo la formula «montiano sì, ma a modo mio», se non altro perché altrimenti non saprebbe come chiedere per sé stesso anziché per uno degli altri due partiti (attualmente) alleati.

C’è tuttavia anche una ragione non strettamente politica, più seria e più profonda, per cui il fronte montiano è diviso. E questa ragione è che le forze che sostengono, o comunque apprezzano almeno in parte, l’azione del governo Monti non condividono la medesima diagnosi sui mali dell’Italia e – non condividendo la diagnosi – tendono a divergere anche nella terapia. Ne è una testimonianza l’aspra battaglia che, giusto in questi giorni, infuria fra economisti sul modo migliore di ridurre il debito pubblico. E se anche stiamo al solo dibattito sulla politica economica, non è affatto chiaro che cosa «essere montiani» possa significare oggi, e tantomeno domani in campagna elettorale. Perché se togliamo alcuni punti fissi importanti ma davvero minimali – il non ritorno alla lira, l’ancoramento alle istituzioni europee, un minimo di disciplina fiscale, una certa sobrietà nello stile di governo –, sulla maggior parte del resto non esiste una «Agenda Monti», ma ne esistono più di una. Certo, fra le molte agende Monti possibili, ce n’è una che è la più ovvia perché la più conforme all’originale: andare avanti così. Ma nessuno, forse nemmeno l’Udc, la sottoscriverebbe senza riserve: perché l’azione del governo Monti è sì fatta di scelte coraggiose, ma è anche costellata di errori, marce indietro, timidezze, promesse non mantenute (che ne è dei pagamenti della Pubblica amministrazione alle imprese?).

Con questo non voglio dire che ci siano tante agende Monti quanti sono gli economisti di questo Paese, però – anche solo a leggere la stampa specializzata – di punti controversi, su cui bisognerà pronunciarsi per costruire un’agenda coerente, ve ne sono parecchi, che ridurrei ad almeno tre.

Il primo, forse il più importante, è come ritornare alla crescita. C’è chi pensa che senza una drastica riduzione delle tasse sui produttori (Irap e Ires innanzitutto), proseguirà lo smantellamento dell’apparato produttivo dell’Italia, e che per permettere tale riduzione non si possa che tagliare la spesa pubblica di alcuni punti di Pil. E c’è chi pensa, tutto all’opposto, che i nostri problemi siano essenzialmente problemi di domanda: per tornare a crescere occorre ridurre le tasse sulle famiglie, sostenere i consumi interni, varare progetti infrastrutturali (anche a livello europeo), limitare i tagli alla Pubblica amministrazione. Su questo va in scena il classico duello fra liberali e keynesiani.

Il secondo punto controverso, in parte connesso al precedente, è come agire sul nostro immane debito pubblico. Qui, dentro lo stesso fronte montiano, le proposte si sprecano: super-patrimoniale una tantum, patrimoniale leggera ma permanente, consolidamento più o meno esplicito del debito, vendita delle aziende pubbliche, dismissioni immobiliari, solo per richiamare alcune delle idee in campo. Su questo terreno, il punto chiave – il punto che divide – è su chi far pesare il conto di mezzo secolo di dissennatezze della classe politica: sul ceto medio-alto (patrimoniale), sui detentori di titoli pubblici (consolidamento), o sullo Stato e gli Enti locali (dismissioni).

Il terzo punto può sembrare accademico, ma lo è solo apparentemente. Nel fronte montiano convivono due diagnosi diverse sul funzionamento dei mercati finanziari. Da una parte l’ortodossia montiana, secondo cui i mercati non rispecchiano adeguatamente i fondamentali delle economie, e vanno quindi corretti attraverso gli strumenti di cui la politica può dotarsi: Banca Centrale Europea, scudo anti-spread, fondi salva-Stati, Tobin tax. Dall’altra l’idea – montiana anch’essa, ma del Monti professore – che quelli dei mercati siano segnali utili, e che la via maestra per correggere i mercati non sia deplorarli o imbrigliarli, ma rimettere a posto i fondamentali. E’ perché ci sono queste due visioni del funzionamento dell’economia, e non perché ci sono la destra e la sinistra, che l’altalena dello spread riceve sistematicamente due letture diverse. Ed è perché tali diverse visioni comportano linee d’azione a loro volta diverse che anche questo è un punto di frattura rilevante nel fronte montiano.

Se questo è il panorama, non è dei più confortanti per i cittadini-elettori. Chi detesta Monti e non teme il salto nel buio di una politica anti-europea, dovrà solo scegliere se dare il suo voto a un partito-zattera, pieno di vecchie glorie, come presumibilmente saranno Lega, Italia dei valori, e forse anche il partito di Vendola, oppure a un partito-novità, necessariamente pieno di outsider, come non potrà non essere la lista di Grillo. Ma chi apprezzasse qualcosa del governo Monti, o semplicemente diffidasse della gioiosa macchina da guerra dei nemici di Monti, dovrebbe fare i conti con la triste realtà che abbiamo provato a descrivere: solo la nostra distrazione, nonché la buona educazione dei protagonisti, riescono a nascondere la cacofonia di voci – e di ricette di politica economica – che si leva dal vasto fronte di quanti aspirano a raccogliere l’eredità di Monti.(la Stampa)

Caro Direttore, che estate.... Gianluca Perricone

Caro Direttore, ma che estate è questa? E’ il giorno di Ferragosto (me ne sto sulla costa toscana in quanto minoranza in una famiglia composta da amanti delle onde mentre io, con il mio inguaribile vizio di essere sempre minoranza, me ne starei volentieri a far compagnia a Mario Monti sui monti svizzeri) e sui quotidiani di oggi c’è una sorta di tragico riassunto di un’estate “da brividi” che ci ha catapultato addosso di tutto.

A farla da padroni (in tutti i sensi) i giudici ai quali non bastava evidentemente più decidere soltanto sulla durata di governi ed amministrazioni (il caso della giunta regionale d’Abruzzo e del suo presidente Ottaviano Del Turco grida ancora vendetta), e sono così passati a decidere sulla chiusura di poli industriali.

Intanto “Il Fatto Quotidiano” ha dato vita alla raccolta di firme a favore dei giudici alla quale, permettimi di scrivere anche a tuo nome, aderiremmo anche noi se non fosse il fatto (mi si scusi il bisticcio di parole) che Travaglio e soci intendono difendere i togati ovunque e dovunque, anche quando il loro operato va ben oltre le competenze assegnate per legge ed i loro comportamenti sembrano non tener (paradossalmente) per nulla conto di ciò che la legge prevede. L’unica cosa certa è che, dopo venti anni, ancora non sappiamo chi e perché ha ucciso il giudice Borsellino: il resto è fuffa!

Caro Direttore, che dire poi dell’assoluzione di quei giovinastri che nel centro di Roma hanno mangiato ‘a sbafo’ in un ristorante, picchiando poi camerieri e carabinieri intervenuti? Assolti perché il fatto non costituisce reato. Con simili presupposti, la prossima volta che ci incontriamo nella Capitale, il pranzo lo offro io: per il conto so come provvedere! E proprio oggi, ferragosto bollente di un’estate altrettanto torrida, è uscita anche la notizia del giovane beccato con 5 grammi di cocaina in tasca anziché i 750 milligrammi consentiti dalla legge per considerarne il possesso ad uso personale. Lo studente è stato assolto perché il giudice ha considerato quasi naturale, in estate, fare scorta di sostanze stupefacenti: o perché l’interessato sta per partire e non sa se sul luogo di vacanza troverà la sostanza, o perché lo stesso assuefatto rischia di rimanerne sprovvisto perché è oramai nota la tendenza degli spacciatori ad emigrare in periodi di ferie verso luoghi più frequentati da turisti. Salvo trastullarsi frequentando le gallerie presenti nel sottosuolo di Roma. Ma possiamo andare avanti così?

Anche in questo periodo estivo non possono mancare le vicende legate al Presidente della Camera Gianfranco Fini che avrebbe fatto meglio a definire il periodo nel quale intendeva frequentare Ansedonia (Gr) consentendo così di ridurre al minimo indispensabile il soggiorno della sua scorta nell’hotel di Orbetello. Comunque lo scoop sembra essere piuttosto ‘debole’.

Caro Direttore, un’ultima cosa. Hai notizie recenti del ministro del Turismo Piero Gnudi? Perché, sai, ci sarebbe in piedi (si fa per dire…) WindJet e la sua vicenda che coinvolge traffico aereo, dipendenti e viaggiatori. Sarebbe opportuno che il titolare di tale dicastero facesse sapere come la pensa sulla questione. A meno che l’interessato non sia in vacanza su qualche atollo polinesiano dove ha difficoltà ad essere raggiunto dalle notizie relative alle vicende di casa nostra. (il Legno storto)

martedì 14 agosto 2012

Torti e storti. Davide Giacalone

La Repubblica giudiziaria dilaga, supponendo possibile trascinare nelle aule giudiziarie qualsiasi tipo di conflitto. Sociale, economico, culturale o religioso che sia. La risposta politica latita, perché ubriacata da decenni di giustizialismo vendicativo, contrapposto a innocentismo dissennato. Nel tramontare del diritto e delle idee, si assiste allo scontro fra due contrapposti “sostanzialismi”: quello che ritiene prevalente la sostanza della presunta verità, rispetto alla forma del procedimento giudiziario, e quello che immagina si possa fermare quella macchina infermale laddove i provvedimenti giudiziari provocano, nella sostanza, danni alla collettività. E’ uno scontro fra torti e storti, che impiomba l’Italia e la fa degradare.

Alla radice della deviazione vi è la viltà con cui la politica ha delegato alla giustizia scelte e indirizzi difficili. La patologia cominciò con la lotta al terrorismo e continuò con quella alla mafia. Ovviamente giuste, ma impostate in modo tale da far crescere enormemente l’indeterminatezza della norma e la discrezionalità del giudizio. Il tutto nelle mani di un potere, quello giudiziario, che la Costituzione voleva “ordine”, ma che si è trovato ad agire con le garanzie di chi aveva il solo compito di dar voce alla legge, salvo divenire legge a sua volta (sia con le interpretazioni che con il divorzio fra misure cautelari e giudizio).

Questi giorni ci consegnano due esempi. Quello della Fiat, ove il giudice segnala al mondo che aprire imprese in Italia significa non avere il controllo del fattore lavoro, quindi avverte che è meglio non venire, o scappare. Ha torto, il giudice? I torti e le ragioni dei giudizi si sanano e confermano in giudizio. Ogni altra strada svelle le regole esistenti. Il punto è che se si fanno leggi che puntano a tutelare non i lavoratori, e con essi il mercato, ma l’influenza dei sindacati poi non ci si deve stupire se l’equivocità di tale dettato si presta a operazioni come quella in corso. Il secondo esempio e quello dell’Ilva. Qui accadono cose singolari: 1. a fronte del primo sequestro un ministro chiese l’immediato riesame, come se la rivalutazione delle misure cautelari non sia sempre urgentissima; 2. dopo tale riesame il gip insiste nella sua tesi e punta alla chiusura dello stabilimento; 3. il ministro della giustizia chiede di “acquisire gli atti”, che in altri tempi sarebbe stato considerato un gesto insurrezionale; 4. il governo annuncia ricorso alla Corte costituzionale, sostenendo che la politica industriale è propria competenza (e ci mancherebbe!); 5. il ministro dell’ambiente sostiene che il giudice è in conflitto con le autorità competenti; 6. infine il presidente del Consiglio annuncia l’invio dei ministri in quel di Taranto, per rimediare all’azione giudiziaria. Il risultato è l’impazzimento totale, cui si aggiunge la voce eguale dei due grossi partiti, Pdl e Pd, che chiedono al governo di contrastare l’azione del giudice.

Domanda: perché per l’Ilva di Taranto si registra non solo tale convergenza, ma l’unanime voce dei più influenti giornali (segnalo che il Corriere della Sera ha titolato in prima dando del “rossa” alla signora giudice, precisando in cronaca che trattasi dei capelli), nel considerare esecrabili i provvedimenti adottati? Dipende dal fatto che è divenuto macroscopico il danno della Repubblica giudiziaria, capace solo, per definizione, di proibire, impedire e punire, ma mai di costruire. Ma, del resto: cosa può fare un giudice, nel caso in cui gli si sottoponga l’ipotesi che una determinata attività provochi il cancro alla gente che si trova lì attorno? Messa così è una questione senza vie d’uscita. Invece ci sono, e riguardano la gerarchia dei poteri e delle decisioni, nonché la chiarezza delle norme.

Fare impresa in Italia non deve essere più difficile che in altre parti non dico del mondo, ma dell’Unione europea. Le acciaierie, come altre produzioni, non creano delle riserve naturali, inquinano. Come tante altre attività umane, cui nessuna persona sensata rinuncerebbe. Eppure quelle attività contribuiscono a far crescere la ricchezza di una collettività, rendendole possibile accedere a un più diffuso benessere, una più evoluta assistenza sanitaria, a una maggiore istruzione collettiva. Queste cose non possono essere ricercate ad ogni costo, naturalmente, esiste un punto di equilibrio, ma da noi non può essere diverso da quello che c’è in Germania, in Polonia o in Francia. Vale per ogni cosa, perché in caso contrario succede quel che è successo e che ci porta alla rovina, ovvero che la nostra produttività cala, lo sviluppo frena e il bilancio pubblico salta, o punta ad un appello eccessivo e insopportabile al prelievo fiscale.

Detto questo, la colpa non è dei giudici, perché, lo ripeto, le loro decisioni sono sottoposte a un iter decisionale che conterrebbe in sé il sistema per correggersi. Salvo il fatto che non funziona più, da molto tempo. Non funzionava quando è divenuto clava per la battaglia politica. Non funziona oggi, che la clava demolisce il resto. Ma la colpa è del legislatore, che non ha avuto il coraggio e la forza di regolare diversamente le cose. Di dire che la Repubblica giudiziaria era ed è la morte del diritto.

Io cattolico e il conformismo sui gay. Io cattolico, i media gli anni Settanta. E quel conformismo sugli omosessuali. Marcello Messori

Qualche tempo fa - pare per uno sgradevole incidente o per colpevole pigrizia - il redattore di non so quale documento pubblico ha proceduto a un rovinoso copia-incolla. Trattando di omosessuali, ha attinto di peso da un Manuale per le Forze dell' Ordine degli anni Cinquanta, dove si parla di «ambienti ambigui», «giri torbidi», «passioni oscure», «amori inconfessabili». E via imprecando e deprecando. La cosa è stata subito notata e, come doveroso, si è provveduto a cestinare quell' imprevisto reperto di una prospettiva da tempo improponibile. Ma chi, come me, era già nei giornali in anni lontani, ha letto con un sorriso un po' amaro le reazioni sdegnate, se non furibonde, di certi colleghi, molti dei quali non più giovani. Le loro rampogne senza appello per l' episodio, le loro richieste di licenziamenti con infamia dei colpevoli, dimenticano che essi stessi, o i loro giornali, hanno usato quei toni e quegli epiteti e non solo per conformismo al «politicamente corretto» dell' epoca ma, probabilmente, per autentica convinzione. Ebbene, il disteso clima estivo, favorevole anche agli esami di coscienza, mi suggerisce di rievocare un ricordo, forse non irrilevante. Era l' autunno del 1971, terminavo il mio praticantato giornalistico in un quotidiano torinese. Passando per la centralissima piazza Solferino (la sorpresa fu grande, dunque la memoria è vivida) fui colpito da un manifesto con la scritta F.U.O.R.I, seguita da un punto esclamativo. Mi avvicinai e scopersi che l' acrostico stava per «Fronte Unitario Omosessuali Rivoluzionari Italiani». Il testo che seguiva era firmato da Angelo Pezzana, un libraio giovane ma già noto e stimato: io stesso ne ero saltuario cliente, senza nulla sospettare. Non ricordo se altri si fossero esposti, firmando l' appello pubblico. Quel manifesto era davvero storico: per la prima volta - ma proprio la prima, almeno in Italia, e giusto a Torino - usciva allo scoperto, rivendicando non solo il diritto a manifestarsi ma, tout court, ai diritti umani, un mondo da sempre esistente eppure sconosciuto, celato, indicato solo con termini di offesa o di condanna. Lessi incredulo e, da buon cronista di «bianca», raggiunsi in fretta il giornale. Raccontai d' un fiato la novità al capocronista, proponendo subito un articolo, un' intervista a Pezzana. Intendiamoci, non mi sentivo il reporter coraggioso dei film americani, non mi muovevano nobili sentimenti come la ricerca di giustizia per chi doveva nascondere la sua vita privata, sempre timoroso che venisse violata. Ci ho pensato spesso, negli anni seguenti, interrogandomi soprattutto - essendone coinvolto - sul silenzio e l' indifferenza anche da parte cattolica. Eppure, per il credente dovrebbe esserci qui un motivo di profonda riflessione: se l' omosessualità, in ogni tempo e in ogni luogo, marca e marcherà sempre una percentuale (che sembra fissa), dell' umanità, può forse trattarsi di un «errore» del Creatore? Che sono, questi nostri fratelli in umanità? Sono forse «scarti di lavorazione»? Perché Dio e la sua Provvidenza non siano offesi, occorre riconoscere che anche questo fa parte, enigmaticamente, del piano da Lui voluto e da Lui attuato. La teologia, qui, ha ancora molta strada da fare. In ogni caso, quel giorno, in cronaca, ciò che mi preoccupava era soltanto l' istinto del mestiere. Se il nostro, di mestiere, era dare delle notizie, quale notizia maggiore dell' uscita dalle catacombe, per giunta con toni battaglieri e rivendicativi, di un popolo da sempre nascosto? Bisognava muoversi al più presto, soprattutto per precedere l' altro quotidiano locale. Il capo mi ascoltò in silenzio, con aria ironica, commentando alla fine: «Mi dispiace proprio, non sapevo che anche tu fossi uno di quelli!». Gli replicai che proprio perché non lo ero né temevo di diventarlo, non avevo complessi o paura di ricatti: dunque, se mi dava il via, andavo con un fotografo in libreria a incontrare «l' omosessuale rivoluzionario» che aveva infranto la legge millenaria del silenzio. A questo punto, il capo chiamò a testimoni, ad alta voce, gli altri cronisti presenti nello stanzone: «Ehi, ragazzi, ' sto pivello di praticante vuol andar dietro ai "cupi". Adesso si sono fatti un loro sindacato, una specie di partitino, roba da matti! E secondo questo qui, noi dovremmo anche intervistarli, manco fossero prime donne». Per intenderci: «cupio», in torinese, è l' equivalente del «frocio» romanesco. All' allarme beffardo del capocronista vennero dai colleghi battutacce, pernacchie, scuotimenti ironici di teste: «Pure lui, chi l' avrebbe detto!». La reputazione fu salva solo perché era evidente il mio assiduo interesse per l' altro sesso. Comunque, nessuna notizia andò in pagina, né il giorno dopo né quelli seguenti, ma non ci fu alcun problema di concorrenza: neanche gli altri quotidiani pubblicarono alcunché. Tacque rigorosamente anche la redazione torinese de l' Unità: il perbenismo comunista superava quello clericale e per «i diversi», nell' Urss, c' era il Gulag, in Cina il colpo alla nuca, a Cuba i lavori forzati, nell' Africa allineata ai russi il «capestro». Ma passò qualche tempo, il F.U.O.R.I.! pubblicò un mensile che in edicola ebbe un buon successo, organizzò qualche manifestazione clamorosa, insomma divenne impossibile ignorarlo, anche perché dall' estero giungevano notizie di movimenti analoghi, ancor più agguerriti. Parlarne, ma come? Stando a quanto ha scritto lo stesso Angelo Pezzana, risulterebbe da un' inchiesta che, prima degli anni Settanta, sui giornali italiani non apparve mai la parola «omosessuale», usando - se proprio era necessario - «invertito» o, nei casi più benevoli, «diverso». Quando, alla fine, anche il mio quotidiano, dovette occuparsene, ero passato ad altri settori, non mi occupavo più di cronaca, dunque neanche di «quelli là», come li chiamavano. Ma fu significativo assistere alla ricerca di cronisti «volontari», di temerari che accettassero di firmare un articolo sui «cupi». Tutti si schermivano, dicevano con chiarezza che avevano paura di essere scambiati per uno che difendeva una parte che era anche la sua. Ora: una buona dose di conformismo contrassegna sempre chi lavora nei media. Ma proprio per questa obbedienza di tanti giornali alle mode culturali del tempo, è sgradevole lo sdegno di chi, oggi, vede ovunque «omofobia», sale in cattedra e invoca punizioni esemplari per chi ne sarebbe colpevole: per quanto conta sono testimone che, nella categoria, tante conversioni furono assai tardive, spesso obbligate. E ho visto di persona tanti conformisti attuali, paladini oggi di cause ormai stravinte, nascondersi un tempo sotto le scrivanie, pur di non dover firmare pezzi su quelli che definivano «invertiti». (Corriere della Sera)

lunedì 13 agosto 2012

Caro Monti sul caso Ilva batta un colpo. Mario Sechi

La storia dell’acciaieria Ilva a Taranto è ormai un caso incredibile. Il governo ha approvato un piano per risanare l’azienda assicurando la continuità della produzione e il mantenimento dell’occupazione, la magistratura non ci sta ed emette un provvedimento che ordina il risanamento e la chiusura dell’area a caldo. Trattandosi di un’acciaieria e non di un macello, significa dire addio alla fabbrica e a ventimila posti di lavoro. Siamo di fronte a un caso unico in Occidente, uno spot meraviglioso per gli investitori esteri.
Chi voleva venire con i suoi capitali in Italia, se ne starà al largo. Non si fa impresa in uno Stato dove l’attività può essere compromessa dal primo magistrato che si alza e interpreta a suo modo il ginepraio del diritto italico. Sono cose che accadono solo dove ci sono le dittature, dove i regimi non conoscono equilibrio tra i poteri, dove un satrapo si alza la mattina e decide che tutto ciò che è privato da quel momento è pubblico. D’altronde, i manager e la famiglia Riva sono già stati colpiti dall’arresto. Tutto questo accade senza che nessuno - ribadisco, nessuno - abbia il coraggio di dire pienamente che tutto questo è fuori non solo dalla ragione e dal buonsenso, ma è contrario allo spirito della nostra Costituzione. Articolo 1: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Il caso dell’Ilva è uno sfregio al primo punto della nostra Carta Fondamentale. Si invoca la Costituzione per difendere i diritti dei polli, ma a quanto pare gli operai dell’Ilva valgono meno. Conosco i problemi legati alle emissioni delle acciaierie e dell’industria pesante in genere. Ribadisco quanto scritto qualche settimana fa: produrre acciaio inquina. E la scelta è solo una: la fabbrica deve restare aperta o no? Finché la magistratura emetterà ordini di custodia cautelare in cui viene colpevolizzata «la logica del profitto», è chiaro che non si andrà lontano e la nostra politica industriale - che per ora non c’è e temo non ci sarà per lungo tempo - sarà poco più di un esercizio accademico. Siamo seri, in Italia fare impresa in queste condizioni è una follia. Secondo uno studio di Mediobanca un imprenditore guadagna di più investendo in Btp piuttosto che nella sua azienda. Pressione fiscale, burocrazia, corruzione e ora anche i tribunali ideologici, sono una zavorra che fa colare a picco qualsiasi impresa. L’Ilva è la più grande acciaieria d’Europa e con questa vicenda è diventata anche il simbolo di una giustizia che pretende non di far rispettare la legge ma di decidere la politica industriale di un Paese. E il governo? Troppo timido. Caro Monti, questo non è un tema che si può lasciare alla sola opera (buona, tra l’altro) del ministro dell’Ambiente Clini. Uno statista, su un tema così importante, ci mette la faccia. (il Tempo)

giovedì 9 agosto 2012

Le gare più significative delle (p)olimpiadi italiche. Giovanni Marizza

L’entusiasmo degli spettatori è salito alle stelle quando la squadra dei politici italiani di ieri e di oggi ha fatto il suo ingresso in campo guidata da Giuseppe Saragat nella sua qualità di portabarbera. Lo seguivano innumerevoli politici, parlamentari, ministri, sottosegretari, gerarchi, portaborse, governatori, sindaci, podestà, senatori a vita, consiglieri regionali, provinciali, comunali, rionali e condominiali, tutti in gara per un alloro olimpico, tutti giunti allo stadio a bordo delle loro 550.000 auto blu. Sono le Polimpiadi italiche, che per due settimane hanno dato vita ad uno spettacolo unico. Ecco una sintesi delle gare più significative.

Nella gara di rimborso elettorale tutto si è svolto secondo i pronostici: nessuno è riuscito a strappare il primo posto a Umberto Bossi, la cui Lega Nord incassa rimborsi 14 volte superiori alle spese dichiarate. Lo segue a ruota Pier Luigi Bersani, segretario del Pd che incassa rimborsi 10 volte superiori alle spese. Terzo posto per Antonio Di Pietro, che con la sua Idv incassa rimborsi pari a “solo” 6 volte le spese.

Nella competizione di coerenza primo posto a Pier Luigi Bersani, secondo cui le bocciature dell’Italia da parte delle società di rating durante il governo precedente erano una condanna senza appello nei confronti del mondo economico-finanziario italiano, mentre le stesse bocciature di oggi sono azioni irresponsabili da parte di inqualificabili ed immorali speculatori americani. Secondo posto a Pierferdinando Casini, secondo cui l’uscita di scena di Berlusconi avrebbe fatto scendere lo spread da 400 a 200, mentre oggi, che quel valore è schizzato a 500, sostiene che lo spread non conti nulla. Medaglia di bronzo a Oliviero Diliberto che a Mosca ha sfilato davanti al mausoleo di Lenin in occasione del 90° anniversario della gloriosa e imperitura rivoluzione d’ottobre e a Roma ha governato a suo agio col centrosinistra capitalistico, decrepito e corrotto.

Nella gara di insaputa lotta serrata fra Scajola che non sapeva chi gli aveva pagato un appartamento, Rutelli che non sapeva che Lusi gli aveva fregato decine di milioni di euri, Bersani che non sapeva che Penati aveva inventato il “sistema Sesto” e tanti altri. Alla fine la spunta Fini, che non sapeva di possedere una casa a Montecarlo.

Nella gara di volta della gabbana Michele Pisacane, membro in tempi diversi di Ccd, Cdu, Forza Italia, Udeur, Udc e infine Pdl quota Responsabili si piazza al primo posto, soffiando l’oro a Fini che si classifica secondo, mentre Follini, anche in considerazione della faccia, si deve accontentare del …bronzo.

Nella competizione di longevità governativa vince Benito Mussolini con 7.572 giorni, medaglia d’argento a Silvio Berlusconi con 3.340 giorni, che precede Giulio Andreotti con 2.679. Fuori dal podio, di poco, rimane Alcide De Gasperi con 2.548 giorni complessivi.

Molto combattuta la gara di appiccicamento del nomignolo, in cui la medaglia di bronzo è andata ex aequo a due passati inquilini di Palazzo Chigi: Romano Prodi il “Mortadella” e Silvio Berlusconi “Al Tappone”. Medaglia d’argento a due personaggi mesti: Dario Franceschini detto “Su-dario” e Alcide De Gasperi detto “crisantemo”. Un’ovazione si è levata dall’elettorato quando il vincitore è salito sul gradino più alto del podio: Gianni De Michelis “avanzo di balera”.

Nell’anagramma del nome trionfa Giulio Andreotti con “un gelido Totò Riina”. Due partecipanti si classificano a pari merito al secondo posto: Armando Cossutta con “straunto da Mosca” e Amintore Fanfani con “affari monetari”, mentre sul gradino più basso del podio altri due politici si classificano a pari merito: Rocco Buttiglione con “un clerico bigotto” e Giovanna Melandri con “madonna virginale”.

Nella gara di lancio dell’insulto vince D’Alema per il suo “energumeno tascabile” lanciato a Renato Brunetta, medaglia d’argento a Mara Carfagna per il suo “vajassa” dedicato ad Alessandra Mussolini e medaglia di bronzo ad Antonio Gramsci col suo “semifascista” rivolto a Filippo Turati.

Nella competizione di caccia alla laurea all’estero dominio incontrastato di Renzo Bossi che straccia ogni record: diploma ottenuto in un solo anno, superando decine di esami in lingua albanese con il massimo dei voti.

Nella categoria euri al vento gara senza storia: trionfo per Valter Veltroni, pensionato a 49 anni, che fino ad oggi ha raggranellato 864.000€. Seguono Antonio Mastrapasqua presidente dell’Inps con 3.287 € al giorno e Attilio Befera direttore di Equitalia con 1.698 € giornalieri. Fuori dal podio Anna Maria Tarantola, presidente della Rai, coi suoi miseri 1.095 € quotidiani.

Nei rapporti umani e non la giuria ha dovuto faticare alquanto per stilare la classifica. I concorrenti erano numerosi e agguerriti, da Ilona Staller detta Cicciolina a Rosi Bindi detta Cicciolona. Alla fine, tre concorrenti hanno ottenuto il punteggio massimo a pari merito, per cui si è fatto ricorso a uno spareggio fra Silvio Berlusconi, Nichi Vendola e Piero Marrazzo. Costoro hanno dovuto rilasciare una dichiarazione per convincere la giuria. Marrazzo è stato il migliore, dichiarando: “Sono andato in convento per farmi un cappuccino ogni mattina a colazione”. Secondo posto per Vendola, che non è riuscito ad aprire bocca, sconvolto dall’efficacia della frase marrazziana. Terzo con distacco Silvio Berlusconi, penalizzato da una dichiarazione goffa e maldestra (“mi piacciono le donne”) che ha fatto storcere il naso alla giuria.

Nella gara di umorismo involontario, infine, trionfo per Fausto Bertinotti che si aggiudica l’oro con la frase “il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre il comunismo è l’esatto contrario!”. Argento al senatore Giuseppe Astore per la frase “vogliono farci lavorare anche il lunedì, come le bestie!” Solo bronzo per Mario Draghi con la sua esternazione “la crescita arriverà a fine anno” (senza specificare quale anno). Deluso Mario Monti: la sua frase “il mio compito è salvare l’Italia” non ha fatto ridere nessuno. (l'Occidentale)

lunedì 6 agosto 2012

L'Orfanello. FR

Mario Calabresi è un caso fortemente emblematico: la sua rapida e immeritata carriera racconta esemplarmente le psicosi e le ipocrisie italiane, e ci aiuta a capire il nostro disgraziato Paese. Il fatto che non se ne possa parlare, se non in termini encomiastici, e che chi ne parla venga subissato di insulti, è un’ulteriore prova della sua centralità (oltreché, naturalmente, dell’ipocrisia italiana). Torno dunque a scriverne, senza i rigidi limiti (e le semplificazioni) imposte da Twitter.

Ho cominciato a chiamare pubblicamente Mario Calabresi l’Orfanello dopo aver visto la prima puntata del suo programma su Rai3 dello scorso anno. Anziché parlare dell’Italia, Mario Calabresi parlava di sé: cioè della sua tragedia personale e familiare. La tecnica è ben nota agli americani: non si vendono fatti e opinioni, ma personaggi e storie (Obama non si è lanciato verso la Casa Bianca con un saggio politico, ma con un’autobiografia). Nulla di male né di strano, dunque: nel teatro mediatico-politico Mario Calabresi ha scelto di impersonare l’Orfanello. Lo aveva fatto con un libro di successo, con innumerevoli presentazioni pubbliche e comparsate televisive, e persino con una stucchevole cerimonia quirinalizia.

Il punto è che Mario Calabresi è un orfano del tutto particolare. Quando suo padre, il commissario Luigi Calabresi, fu assassinato sotto casa dai sicari di Lotta continua, tutta l’Italia democratica e antifascista, tutta l’Italia dei salotti e delle redazioni brindò spensierata e allegra. Perché il commissario Calabresi era il responsabile – morale, politico, simbolico – di un altro omicidio: quello di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico ingiustamente sospettato per la strage di piazza Fontana, illegalmente trattenuto da Calabresi in questura e infine misteriosamente volato giù da una finestra del quarto piano. Calabresi aveva una vera e propria ossessione per anarchici e “cinesi”, come allora venivano chiamati gli extraparlamentari; mentì più volte su Pinelli; era famoso per i metodi spicci, da “duro”.

Camilla Cederna scrisse un manifesto contro di lui, pubblicato dall’Espresso e sottoscritto dalla crema del giornalismo e dell’intellettualità italiana (fra cui Natalia Ginzburg, la cui nipote Caterina è oggi la moglie di Mario). Quando Calabresi fu ammazzato, nessuno dei firmatari versò una lacrima o condannò l’omicidio. E vent’anni dopo, quando finalmente un magistrato formalizzò ciò che tutti sapevano da sempre, e cioè che era stata Lotta continua ad organizzare l’attentato, quella stessa opinione pubblica democratica e antifascista insorse sdegnata in difesa di Adriano Sofri.

Quel che è troppo, è troppo: persino nella sinistra italiana. E così, quello stesso mondo che brindò alla morte del padre pensò bene di lavarsi la coscienza risarcendo il figlio con una splendida carriera. Mario Calabresi ne approfittò volentieri, in nome di non si sa bene quale spirito di riconciliazione nazionale, scalando Repubblica e diventando infine (su proposta di Berlusconi, che voleva liberarsi di Giulio Anselmi) direttore della Stampa.

Questa è la storia, e non c’è molto da aggiungere. L’Italia fa notoriamente schifo, e la storia pubblica dell’Orfanello e dei suoi molti sponsor non fa eccezione.

Un’ultima osservazione sul ‘fatto personale’. È vero, Mario Calabresi mi ha cacciato dalla Stampa, e lo ha fatto nel peggiore dei modi: per un anno e mezzo non ha risposto né alle mail, né alle telefonate, né alle proposte di articoli; poi mi ha convocato per dirmi che scrivevo poco, e che La Stampa era in difficoltà. Questo fa di lui una persona con scarse qualità umane; quanto a me, ci sono ovviamente rimasto molto male. Ma il ‘caso Mario Calabresi’ resta in tutta la sua imponenza, e accusarmi di interesse personale è un’altra forma di ipocrisia. (the Front Page)

domenica 5 agosto 2012

La moneta dei più forti. Ernesto Galli Della Loggia

L'Italia è di fronte a una scelta decisiva: continuare a sopportare lo spread assai alto che sappiamo (e che domani potrebbe essere ancora più alto), ovvero chiedere l'intervento del fondo salva Stati. La conseguenza nel primo caso sarebbe un declino economico certo. Ma ancora più grave sarebbe la conseguenza nel secondo caso, e cioè - in forza delle condizioni che accompagneranno l'aiuto della Bce, volute dalla Germania e da altri Paesi forti dell'eurozona - un vero e proprio commissariamento del governo italiano attuale e di quelli successivi. Che dunque sarebbero obbligati per anni ad attenersi a una serie di direttive dettate dall'esterno. Insomma, una radicale perdita di sovranità da parte della Repubblica.

È la conferma di un dato drammatico che la crisi dell'euro sta sempre più mettendo in luce: vale a dire che a distanza di circa sessant'anni dalla sua origine, e al di là di ogni apparenza formale, nell'ambito dell'Unione Europea non esiste alcun organo realmente sopranazionale, neppure la Banca centrale europea. Non esiste cioè alcun organo che in materie rilevanti possa - ispirandosi a un interesse collettivo o comunque a suo insindacabile giudizio ritenuto tale - decidere indipendentemente dalla volontà dei governi dei singoli Stati. Per esempio, stabilendo di distribuire con una certa equanimità fra tutti i membri i costi e i benefici delle sue decisioni. In queste condizioni l'euro è solo formalmente una moneta «europea», adottata su base paritaria e concordata: come i suoi padri s'illudevano che fosse. In realtà, essendo una moneta «unica» che alle spalle non ha però alcuna unità (nessuna unità vera, cioè politico-statale: la sola che conta per le classi politiche chiamate a rispondere a degli elettorati nazionali), esso è destinato inevitabilmente, alle prime difficoltà, a divenire qualcos'altro. E cioè il semplice paravento dietro il quale si manifestano, insopprimibili, i tradizionali contrasti e rivalità tra gli Stati.

Peggio: l'euro diviene un arma insidiosissima nelle mani dei Paesi economicamente più forti contro quelli più deboli. Infatti, nei tempi di tempesta la coesistenza da un lato di autonome individualità statali, e dall'altro della moneta unica, rischia di sortire il virtuale effetto, prendendo a motivo i vincoli «unitari» che questa comporta, di spezzare il nerbo degli Stati di serie B. Trasformandoli di fatto in autentici Stati vassalli. L'autonomia del «politico» si prende in tal modo la più beffarda vendetta a spese dell'immaginario primato dell'economia sul quale tutta la costruzione europea è stata edificata.
Ma ciò detto, va aggiunto subito dopo che quanto sta accadendo pone all'Italia, mi pare, tra le tante, anche una delicatissima questione di costituzionalità (e a mio giudizio sarebbe stato bene che non si fosse posta oggi per la prima volta: sennonché la nostra Corte Costituzionale, per ragioni che ignoro, non ha mai ritenuto di dovere imboccare quella via di rigida salvaguardia della sovranità nazionale nei confronti della costruzione europea che invece ha imboccato a suo tempo la Corte Costituzionale tedesca; dalle cui decisioni, così, anche noi finiamo oggi grottescamente per dipendere).

Nella nostra Carta, infatti, esiste un articolo 11 secondo il quale l'Italia può consentire alle limitazioni di sovranità ma «in condizioni di parità con gli altri Stati», ed evidentemente solo a queste condizioni. Non sembra allora inappropriata la domanda: quali mai «condizioni di parità» sarebbero garantite nell'eventuale cessione di sovranità alla quale ci vedessimo costretti in base alla richiesta di aiuto alla Banca centrale europea? Qui si tratta evidentemente di condizioni decise di volta in volta per diretto impulso dei governi, con contenuti ogni volta mutevoli. E dunque mi chiedo: che certezza può mai esservi che il trattamento oggi riservato all'Italia lo sarebbe domani, mettiamo, anche alla Germania? Cioè che siano effettivamente rispettate le «condizioni di parità» volute dalla Costituzione? Senza contare - altra considerazione all'apparenza non irrilevante - che sempre la nostra Costituzione stabilisce nel medesimo articolo che le limitazioni di sovranità di cui si sta dicendo possono essere fatte solo se «necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni». E allora ecco una nuova domanda: di quale «giustizia» è questione negli obblighi che dovremmo eventualmente prendere per salvarci dallo spread ? La giustizia del «guai ai vinti» o quale? (Corriere della Sera)

sabato 4 agosto 2012

Fermare il declino, ma senza abiure. Andrea Mancia e Simone Bressan

Che il liberismo sia, in tutto o in parte, “qualcosa di sinistra” ormai non lo pensano neppure Alesina e Giavazzi. La destra, invece, berlusconiana e non, ce l’ha messa tutta per dare ragione a chi nega che il liberismo possa diventare l’architrave su cui costruire un blocco liberale, conservatore e moderato in grado di modernizzare l’Italia.

In questo vuoto pneumatico si è inserito da alcuni giorni il bel manifesto liberal-liberista “Fermare il declino”. Poche cose, ma dette con chiarezza. E dieci proposte dalle quali - con trascurabili eccezioni - è davvero difficile dissociarsi: riduzione del debito pubblico, riduzione della spesa pubblica, liberalizzazioni, federalismo, privatizzazioni, abbattimento della pressione fiscale. Sono argomenti convincenti ed è inutile ripetere che nelle coscienze di molti quel manifesto sfonda una porta aperta. Tra il dire e il fare, però, c’è la stessa differenza che passa tra un editoriale illuminato del Corsera e i disegni di legge che lo dovrebbero tradurre in realtà. Imporre un’agenda liberista (ma anche soltanto di buonsenso) a questo paese richiede uno sforzo ulteriore rispetto alla semplice testimonianza. Quello che serve all’Italia è ormai chiaro da decenni. Quello che non è chiaro è come - e con chi - trasformare quei dieci punti in qualcosa di più di una dichiarazione di principi.

Il primo pregiudizio evidente del manifesto (e traspare da un numero consistente dei suoi firmatari) è quello anti-berlusconiano. Non è questione da poco. E dovrebbe interessare anche a chi, con Berlusconi o i berlusconiani, non ha mai avuto a che fare, o se n’è dissociato in tempi non sospetti. Il rischio, ancora una volta, è quello di rendere assolutamente impossibile ogni tentativo di scrivere un’agenda anti-statalista per l’Italia.

Silvio Berlusconi ha rappresentato per molti, con alterne fortune, l’unico catalizzatore in grado di tenere insieme una maggioranza costruita attorno a parole d’ordine e suggestioni che, almeno fino al 2001, erano molto simili a quelle di “Fermare il declino”. Scegliere di superare il berlusconismo è idea saggia. Chiedere a tutti quelli che con Berlusconi e il centrodestra italiano hanno condiviso un pezzo di strada di accettare l’idea che il Cav sia stato solo «un brigante» è, al contrario, pura follia politica. Rasenta la mistificazione anche il tentativo di farci credere «destra, sinistra, centro sono categorie che non significano più nulla». C’è stato un elettorato che in questi anni ha scelto «meno tasse» contro «le tasse sono bellissime». E ci sono stati governi che hanno cercato di riformare il sistema dell’istruzione, del pubblico impiego o del mercato del lavoro; contrapposti a forze di opposizione che stavano in piazza con la Cgil a difendere l’esistente e a gettarsi a peso morto contro qualsiasi cambiamento. Da una parte c’è sempre (o quasi) stato il centrodestra. Dall’altra il centrosinistra. È ridicolo, poi, negare che da decenni una parte della magistratura agisce con logiche e obbiettivi da partito politico, abusando del proprio ruolo senza neppure essere sottoposta al giudizio degli elettori come capita ai partiti veri. Eppure, ci sono state forze politiche che questa anomalia del sistema l’hanno denunciata (o almeno hanno provato a farlo) e altre che hanno negato l’evidenza. Per miopia o per convenienza di parte. I liberali-liberisti del nostro paese, quelli “à la page” che scrivono sui giornali giusti e insegnano nelle università cool dell’America buona, in genere si sono sempre schierati con i secondi. Per essere credibile, insomma, un’agenda di questo tipo dovrebbe risolvere almeno due fraintendimenti.

Il primo è che possa essere spendibile, indifferentemente, con il centrodestra, il centrosinistra o con il terzo polo perché - molto semplicemente - questo non accade e non è mai accaduto in nessuna parte del mondo. Il secondo è un problema di prospettiva: se i liberisti vogliono uscire dall’angolo dell’accademia - in cui troppo a lungo hanno deciso di rintanarsi, rifiutandosi sdegnosamente di sporcarsi le mani con la politica - per tentare di conquistare un’egemonia culturale, devono iniziare ad essere comprensibili anche alla gente comune. Si deve parlare, insomma, alla grande maggioranza silenziosa che vorrebbe poter scegliere “meno stato” perché sa benissimo che si traduce in italiano con “meno tasse”. Non si va da nessuna parte disprezzando la storia e il percorso di quel blocco sociale, culturale e politico che, nel bene e nel male, ha dato vita al centrodestra italiano negli ultimi decenni. Con la spocchia si va forse sui giornali, ma poi si finisce come Alleanza democratica. (l'Opinione)

venerdì 3 agosto 2012

Sicilia con le ali. Davide Giacalone

Raffaele Lombardo non esce di scena, semmai recita la scena madre per provare a tasformarsi da saltafossi della politica e scavabuche dei bilanci in terrapieno di potere. Quello che meno si vede e più conta. Sconfiggere quest’ultima messa in scena servirà a far ripartire la Sicilia e restituire dignità ai siciliani. A tal proposito mi preme riprendere un’osservazione fatta ieri da Maurizio Belpietro, spietatamente realista: con le urne alle porte nessuno taglierà la spesa regionale, anzi, se possibile la si farà crescere, come lubrificante elettorale. Tagliare, scrive il direttore, non è popolare. Tutta qui la sfida, in Sicilia come in Italia: far comprendere che tagliare è degno di tripudio, perché significa ripristinare le condizioni della ricchezza e della crescita, non solo economica.

Le dimissioni di Lombardo lanciano la Sicilia verso le elezioni di ottobre. Non c’è una sola ragione al mondo per rimpiangere l’amministrazione uscente, che dai posteri sarà ricordata per le stesse ragioni note ai contemporanei: trasformismo e clientelismo. I governi di Lombardo lasciano un equanime responsabilità alle parti politiche, visto che furono figliati dall’Udc, portati alla vittoria dal Pdl e tenuti in piedi dal Pd. Lombardo non si lascia innocenti dietro le spalle, che se proprio non è un risultato entusiasmante, quanto meno è ragguardevole. Il tema, da qui in poi, è uno solo: rompere con questo passato.

Le elezioni siciliane avranno un valore nazionale, per tre ragioni. La prima: quel che serve è un cambio di classe dirigente, non solo di governo. Ne è ben consapevole Antonello Montante, presidente della confindustria siciliana, che ha detto: “Bisogna sganciarsi dai vecchi marchi dei partiti, che brandiscono la bandiera autonomista come una clava contro ogni ipotesi di rinnovamento della politica e della società”. Giusto, si tratta di passare dalle parole ai fatti. In Sicilia, come nel resto del Paese, non è più tollerabile, né più tollerato, che sempre gli stessi facciano tutte le parti in commedia: governo, opposizione e anche opposizione a sé stessi. Non è più sostenibile un’economia assistita, che impoverisce e annienta quella capace di competere.

La seconda ragione ha a che vedere con i partiti: ripresentandosi quali sono vanno incontro alla rovina. La logica dei sistemi elettorali è che almeno uno vinca, il che accadrà, ma sarà trionfo illusorio, se costruito grazie alla disaffezione e alla rassegnazione degli elettori. Quindi non basta che candidino alla presidenza della regione qualche anima bella, perché serve la forza d’animo che porti a riconoscere e correggere gli errori commessi. Senza rotture con il passato non si costruisce nulla e si va incontro al commissariamento, che se non di diritto s’incarna in una perdita di fatto della sovranità (avventura già in corso, a livello nazionale).

La terza ragione consiste nel fatto che in Sicilia, come in Italia, non servono solo facce nuove, ma anche idee e sogni nuovi. Ce ne sono, la Sicilia e l’Italia ne sono ricche, se solo non soffocati dai fantasmi del passato e dagli zombie del presente. Si tratta di vedere se esiste un elettorato d’opinione capace di sostenere una simile offerta politica o se, invece, la stragrande maggioranza degli elettori continua a essere drogata dalle promesse della spesa pubblica, anziché allettata dalla liberazione dei meriti privati. Se pensa ancora di potere avere, non accorgendosi che sarà costretta a dare assai di più. Se esiste l’orgoglio di chi voglia essere padrone del proprio futuro o se prevale il desiderio (illusorio) di mettere a carico d’altri il proprio presente. Le classi dirigente indecenti durano poco, se il Paese che rappresentano è migliore.

Lombardo è riuscito a mettere nel sacco i supponenti capi della maggioranza e a dare una lezione ai professori, sul tema del rapporto fra bilancio e potere politico. Se tale abilità portasse ricchezza alla collettività i siciliani avrebbero di che esserne orgogliosi, ma porta privilegi solo agli amici e agli amici degli amici, a quanti collocano negli enti regionali la loro incapacità professionale, a quanti segnano il trionfo burocratico della promozione quale preludio della rimozione. Lombardo è l’eroe di tutti costoro, al cui consenso si uniscono quanti sperano, con afflato plebeo, di poterne a loro volta godere. Ma non accadrà, mentre, purtroppo, a farne le spese sono i figli disperati di un’isola impoverita, i tanti che non entrano e non entreranno nel mondo produttivo, come i figli disprezzati che avrebbero potuto avere qui il successo che cercarono e cercheranno altrove.

I pregiudizi del nord verso il sud sono come i motteggi del sud verso il nord: puro folclore. Vanno bene per riderne. Guai, però, a non trovare un numero significativo di siciliani capaci di credere e lavorare per una Sicilia diversa, capace di mettere le ali. Non temo i leghismi (la Lega, poi, si alleò con Lombardo!), ma i siciliani che legano l’isola al passato.

giovedì 2 agosto 2012

Giusva e le colpe della strage: "La verità? Fa troppa paura"


Riceviamo e pubblichiamo questa lettera di«Giusva»Fio­ravanti, condannato per la strage alla stazione di Bolo­gna del 2 agosto 1980. Fiora­vanti ha ammesso altri delit­ti, ma ha sempre negato ogni responsabilità per la bomba di Bologna. Oggi, dopo aver scontato la pena, è in libertà.


Caro direttore,

la strage di Bologna è avvenuta 32 anni fa, le indagini si sono concluse 25 anni fa e la nostra condanna è datata 20 anni. Fu una condanna atipica, dove la procura prima, e le corti poi, sostennero che le prove vere erano state nascoste dai servizi segreti e quindi bisognava per forza affidarsi agli indizi.

L'indizio principale era che le stragi in Italia le fanno per forza i fascisti, nel periodo in questione io e mia moglie eravamo i terroristi fascisti più noti, quindi... «non potevamo non sapere». La sentenza ammetteva che il quadro probatorio non era completo, e sostanzialmente rinviava a una «inchiesta bis» per individuare i tasselli mancanti. Il fatto è che i tasselli mancanti erano molti.

La sentenza per la parte che riguardava noi ammetteva che nessun testimone ci aveva mai visti a Bologna, e che quindi non eravamo stati noi a portare la bomba dentro la stazione, ma sicuramente (per il ragionamento di cui dicevamo prima) facevamo parte del gruppo che tale strage aveva organizzato. Veniva rinviato alla «inchiesta bis» l'incarico di individuare gli effettivi esecutori materiali «in loco», individuare l'origine dell'esplosivo, individuare il movente, e individuare i mandanti. Come dicevo, da quella promessa di «inchiesta bis» sono passati 20 anni, e nulla è stato trovato.

La cosa, comprensibilmente, crea un certo nervosismo. Chi ama la vecchia sentenza grida alla luna che il processo non riesce ad andare avanti perché io non confesso chi sono i miei mandanti e gli altri della banda. In linea strettamente teorica potrebbe essere una ipotesi. Però poi di ipotesi se ne possono fare altre, ad esempio che l'inchiesta non riesce ad andare avanti perché sin dall'inizio marcia nella direzione sbagliata.

Questa cosa iniziò a dirla pubblicamente Cossiga già nel 1998, quando con Francesca andammo a trovarlo sperando potesse darci informazioni utili per ridiscutere il nostro processo. Ci disse che fogli «firmati e bollati» non ne aveva, ma che la vera pista su Bologna era quella palestinese. Sono passati altri 14 anni, e nel silenzio di molti, alcuni storici dilettanti (nel senso positivo del termine, ossia di gente che fa le cose per passione, non per tornaconto) hanno iniziato a studiare una materia difficilissima, il terrorismo arabo in Italia.

Non se ne sa niente, non esistono libri esaustivi né niente. Ma il terrorismo arabo in Italia ha fatto più di 60 morti, e più di 300 feriti. Ma non se ne parla mai, non c'è mai una commemorazione, mai un servizio rievocativo in televisione, mai una lapide da nessuna parte, mai una associazione dei parenti delle vittime.

Quando il presidente Napolitano ha istituito la giornata a ricordo delle vittime del terrorismo, nell'elenco preparato dagli uffici del Quirinale non c'era nessuna di queste 60 vittime.È su questo silenzio che, assieme ad alcuni di questi «storici dilettanti», stiamo ragionando. Silenzio sulle vittime, e sempre scarcerazioni in tempi fulminei dei vari palestinesi arrestati. Che è un po' quello che sta succedendo ancora oggi, quando l'Italia, non importa chi in quel momento sia al governo, cede sempre ai ricatti del terrorismo filo-arabo, e paga tutti i riscatti e non arresta mai nessuno.

Dopo che si è scoperto che fisicamente presenti a Bologna c'erano due terroristi dell'estrema sinistra tedesca legata al terrorismo palestinese, è ovvio che le persone ragionevoli si pongano il dubbio se c'entrino qualcosa. È ovvio che se si scopre che tra le vittime di Bologna c'era un giovane dell'Autonomia Operaia romana, le persone ragionevoli si ricordano che solo pochi mesi prima, a Ortona, tre capi dell'Autonomia Operaia romana erano stati arrestati mentre trasportavano un potente missile terra aria per conto di un certo Saleh, dirigente del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina che abitava a Bologna. Viene spontaneo, alle persone semplici, domandarsi se per caso, come era successo pochi mesi prima nelle Marche, anche il 2 agosto a Bologna dei giovani romani stessero aiutando i loro amici palestinesi a trasportare un carico di armi.

 Se poi ci aggiungiamo che dal carcere in Francia il capo dei terroristi filopalestinesi dell'epoca, Carlos lo Sciacallo, in diverse interviste ha ammesso che la sua «Organizzazione» quel giorno era presente alla stazione di Bologna... Carlos dice che un loro trasporto è stato boicottato dagli americani o dagli israeliani per rovinare i buoni rapporti tra i terroristi palestinesi e i nostri servizi segreti (lo ha scritto diverse volte, e questa tesi è stata confermata da almeno due dirigenti palestinesi ormai in pensione, ma nessuno sembra stupirsene). Cossiga prima di morire in diverse interviste aveva parlato anche lui di un «incidente», ma lo riteneva casuale.

Un funzionario dei servizi segreti civili italiani fu il primo, mi pare già nel 1981, a dire che si trattava di un incidente, ma venne messo a tacere, e tutto sommato fu facile parlo perché risultava iscritto alla P2. Licio Gelli, senza tutti i ragionamenti e i riscontri che invece aveva fornito Cossiga, parla anche lui da 30 anni di un «incidente», seppure in una maniera un po' grossolana. Io, storico dilettante più scarso degli altri, ancora non ho nessuna convinzione certa su ciò che è accaduto a Bologna. Mi rendo conto però che certi argomenti creano preoccupazione. Mi sembra un buon segno. Però ci vorrà ancora tempo, tanta pazienza e un pizzico di coraggio per avvicinarsi se non alla verità, almeno al contesto della verità. (il Giornale)