In South Carolina e in Nevada Trump vince, e vince bene, hai voglia a ricordare che sarebbe una ferita perché si tratta dei primi Stati del Sud, perché in Sud Carolina c’è un governatore indiano e pure l’unico senatore nero repubblicano, perché insomma l’immagine di Stato moderato sarebbe appannata per sempre. Questo tipo di ragionamento, molto sostenuto sui giornaloni americani, contiene una contraddizione formale e sostanziale, o più semplicemente è una fesseria, perché se i repubblicani moderati di Charleston e dintorni votano per Trump, nonostante il candidato con l’aureola sia Rubio, nonostante Jeb Bush abbia scongelato suo fratello,
il grande George W, vuol dire che non gliene importa una granché di perdere l’aura di moderati.
Ma è inutile stupirsi perché l’intera campagna è arrotolata, avvinghiata, quasi paralizzata nel falso pretestuoso tema del personaggio improponibile che però procede spedito. Quando si fa così, si rinuncia a capire e raccontare. Non vale solo per inviati e pensosi commentatori italiani, vale per tutti, basta pensare che gli
Huffington Post si sono, al pari del
Foglio, proposti di trattarlo come un elemento di intrattenimento, e ora annaspano, che il
New York Times e il
Washington Post hanno dovuto fare pubblica ammenda sulla
forza del candidato Trump, ma che si sono anche prestati ad endorsement a Hillary Clinton che di solito si scrivono a ottobre, non a gennaio. Campagna eccezionale, quella del 2016, come un’annata di vini speciale, saltano tappi di conformismo, politically correct, brutture buoniste dell’era Obama.
Quanti voti avrà portato Bergoglio con le sue sparate al candidato Donald Trump? Molti, a giudicare dall’imbarazzo dei candidati repubblicani etichettati come buoni dall’establishment e dai media nazionali ed internazionali, ovvero Jeb Bush e Marco Rubio, ambedue cattolici, i quali, al pari dell’altro candidato repubblicano radicale, il cattivo numero due, Ted Cruz, obtorto collo hanno dovuto dichiarare che “«Rispetto l’opinione del Papa, ma noi dobbiamo trovare il modo di controllare i nostri confini», e «Nutro enorme ammirazione per il Papa. Detto questo il Vaticano ha il diritto di controllare i suoi confini e lo stesso diritto lo hanno gli Stati Uniti».
Non meriterebbero ancora tanta attenzione le dichiarazioni a ruota libera del pontefice, non fosse che denotano che
Bergoglio ignora davvero, come già si era intuito nel viaggio a Washington, che cosa e come siano gli Stati Uniti, oppure che se ne infischia. Nell’attaccare all’arma bianca un candidato, tra l’altro contrario all’aborto, etichettandolo come non cristiano, perché “non si alzano muri ma ponti”, ha ottenuto di dargli ulteriore visibilità e spazio politico, gli ha consentito di rispondere duramente senza paura, ha infastidito quel settantacinque per cento almeno di americani non cattolici, ha obbligato gli avversari che lo colpivano sotto la cintura a ostentare solidarietà, ha messo in serio imbarazzo i cattolici americani che sono un po’ diversi dallo stereotipo, perché, dati della
General Social Survey del 2014, favorevoli alla pena di morte al 62 per cento, all’aborto senza alcuna restrizione al 40 per cento, alle unioni omosessuali al 55 per cento. Obiettano alcuni gesuiti che ci sono i cattolici ispanici, linfa nuova e ben più tradizionalista; troppo vero, tant’è che sui loro giornali ieri si chiedevano come fosse possibile al Papa
abbracciare e lodare Raul Castro a Cuba, ovvero la faccia di un regime che perseguita oppositori, suore, preti e chiude le scuole cattoliche, ritenendo quello un buon cristiano e Donald Trump un non cristiano. La conclusione del siparietto? Decine di articoli sulle mura del Vaticano, altrettanti sulle dichiarazioni di solidarietà degli avversari, alla fine il vero estremista per tutti è l’altro, è Bergoglio.
Riusciranno la disapprovazione congiunta del partito repubblicano e del mondo a fermare la corsa di Donald Trump? Lo scopriremo solo vivendo il
grande spettacolo delle primarie, almeno fino al Big Tuesday, il giorno in cui un truppone di Stati vota insieme (poi si vota a raffica nei giorni seguenti fino al 14 giugno), quando dovremmo poter dire la parola definitiva sulle aspirazioni del miliardario di New York, la cui affermazione contro tutto e tutti è già l’evento più importante delle elezioni del 2016, comunque vada a finire.
Prometto, ma non so se sarò in grado di mantenere la promessa, che tenterò di ripetere il meno possibile quel “ve l’avevo detto” da grillo parlante, che rende antipatico chiunque abbia avuto per tempo l’intuizione da osservatore, senza paraocchi né birignao, del fenomeno. Non ero sola, eravamo in parecchi inascoltati. Come Larry Sabato, fondatore e direttore del Center for Politics della University of Virginia «In questa campagna elettorale Trump è importante perché rappresenta la rabbia intensa e l’alienazione di grandi segmenti del suo partito. Odiano Obama, i loro stessi leader, l’immigrazione illegale e un sacco di altre cose. Trump dà una voce a tutto questo». Non sono cittadini di poco conto, è la grande classe media e conservatrice americana bianca, stremata dagli strascichi di una crisi che non è finita, delusa da qualsiasi politico di professione, che vede in Trump uno che non li sfrutterebbe perché è già ricco a non finire di suo.
Ma guai a credere che sia l’unico richiamo. Come ha scritto Frank Rich, editorialista del New York Magazine, la capacità e lo studio del palcoscenico sono la cosa migliore accaduta alla politica americana dall’elezione di Obama nel 2008, e hanno riavvicinato il pubblico alla contesa elettorale. «In breve tempo», scrive Rich, «ha fatto un grande servizio esponendo, seppur approssimativamente e a volte anche inavvertitamente, gli atteggiamenti errati di entrambi i partiti, oltre che l’insensatezza e il declino della cultura politica che condividono». Secondo Rich, Trump assomiglia ai personaggi di Mark Twain, sarà anche un buffone, come scrivono le Huffington e i Giuliano Ferrara, per dirne due, ma quel tipo di buffone che decide di far saltare il sistema, e studia allo specchio le dichiarazioni bizzarre e i comportamenti rozzi con l’aiuto di un quarantenne, Corey Lewandowski, ovvero uno stratega eccezionale di campagne elettorali, formidabile lobbista, che è stato nascosto nei primi mesi perché Trump doveva sembrare libero dalle tecniche della vecchia politica, ma ora è uscito allo scoperto, perché il buffone deve ora presentarsi anche come politico sensato e vincente.
Che poi il buffone possiede miliardi di dollari e una torre grattacielo col suo nome quasi in ogni capitale, una vodka, una rivista, un’agenzia di viaggi, due o tre libri venduti in milioni di copie, una trasmissione, The Apprentice, copiata in tutte le tv del mondo, un busto di Reagan in ufficio, e nessuno gli ha regalato niente, né lui intende scusarsi della sua ricchezza. Ha 69 anni ostentati, una terza o quarta moglie strafica, figli bellissimi che lavorano con lui, e si capisce l’invidia del mondo, un po’ meno quella degli americani cresciuti a finanza squalo quando va male, a “life liberty and the pursuit of happiness”, quando va bene; figuriamoci il fastidio dei berlusconiani italici, a meno di un problema di conflitto tra parrucchini e trapianti di capelli.
“Revolution” la chiama giustamente quel vecchio furbone di Matt Drudge dal suo ormai storico sito di news, Drudgereport, perché Donal Trump vince solidamente, alla faccia degli snob americani ed europei. Il pupillo del partito, Marco Rubio, uno bravo, è sembrato fino ad oggi ingessato e non convincente, obbligato dai capataz del Gop, che detestano tanto Trump che Ted Cruz, a sembrare moderato e pronto ad accordi con i meno liberal tra i democratici. E’ come se il politically correct che pure permea la nazione in modo trasversale e vittorioso, si rivoltasse contro gli stessi che lo hanno seminato e fatto crescere, e che ora vogliono rabbiosamente sentir dire che l’avversario, ma anche l’alleato troppo per bene, “is a pussy”, è una fica lessa, come è successo a proposito di Rubio in un recente comizio di Trump.
Niente dei vecchi cliches sembra più funzionare, e il fantasma di Reagan aleggia sui possibili imbrogli di una convention che a luglio a Cleveland potrebbe, se Trump non avrà vittorie schiaccianti in Texas e California, ricorrere a una nomination taroccata, come accadde per Gerald Ford contro Reagan nel 1976. Ford perse malamente con Carter, nell’80 non ci provarono più a ostacolare Ronald. Nel ’76 sapete che cosa dicevano proprio i repubblicani del governatore della California venuto dal cinema? “Sì, vabbé, Reagan presidente e vice Jerry Lewis”. E’ un mostro nuovo l’elettorato nel 2016, osservatelo con attenzione, la classe media bianca, che sempre si è sentita la maggioranza della nazione, la guida generosa e illuminata, aperta al nuovo e diverso, al melting pot, e ora è allo sbando, non solo economicamente, soprattutto culturalmente, nell’identità, e si rivolge a chi coglie la sua esasperazione, il suo estremo, da una parte e dall’altra.
Cito ancora una volta da Rusty Reno, direttore di First Things, perché ha dato corpo ai miei pensieri: “Se questi candidati (Trump e il democratico Sanders che sta spaventando a morte Hillary Clinton) hanno un’attrattiva è perché negli ultimi decenni le nostre élite politiche, esse stesse quasi interamente bianche, hanno deciso, per ragioni diverse, che la classe media bianca non ha alcun ruolo da giocare nel futuro multiculturale e globalizzato che immaginano, un futuro che credono di guidare. Questa stagione di primarie mostrerà se hanno ragione oppure no”. La borghesia europea e italiana è forse meno disillusa e smarrita?
(l'Intraprendente)