mercoledì 24 dicembre 2014

Autonomi traditi. Davide Giacalone


Al celebrato “popolo delle partite Iva” arriva la polpetta avvelenata. Gli obiettivi annunciati erano: a. diminuzione della pressione fiscale; b. semplificazione; c. elasticità. La legge di stabilità impone gli opposti. Prima 30.000 euro era il limite massimo entro cui forfettizzare un prelievo del 5%, ora si scende alla metà (15.000), ma con aliquota al 15%. Il reddito, però, è tassabile al 78%, supponendo costi al 22. Supposizione frutto di esoterismo burocratico, basata sul nulla, il cui unico effetto sarà quello di mettere fuori mercato le iniziative coraggiose di chi si spende oggi per guadagni futuri. Dovendo mettere fra i costi un fisco che non tassa solo il profitto, ma anche quel che si spende per raggiungerlo, chiuderanno bottega. Impoverendoci tutti. Con il vecchio sistema forfettario un reddito autonomo di 30.000 euro ne pagava 1.500 di Irpef, con il nuovo ne pagherà 7.000. Queste stesse partite Iva, inoltre scopriranno che non conviene più il regime forfettario, talché sarà saggio tornare a quello ordinario. Il tutto mettendo nel conto anche la crescita della pressione previdenziale, generata dalla gestione separata Inps: 2 punti in più nel 2015, poi uno in più all’anno, fino a toccare il 33,72%. Morale: la promessa diminuzione della pressione fiscale ha generato il suo incremento e l’annunciata semplificazione ha partorito le complicazioni. Veniamo all’elasticità.

Che, per quanto sembri strano, è la guancia su cui è stato assestato il più bruciante ceffone. Il governo aveva annunciato di volere puntare sull’elasticizzazione del mercato del lavoro, venendo incontro a chi ha meno protezioni, premiandolo con meno oneri e meno vincoli. Ricordate la storia di Marta? La giovane precaria sui si voleva assicurare una maternità serena, evitando che sia un privilegio delle sole lavoratrici dipendenti a tempo pieno e indeterminato? Ebbene, la Marta che ha una partita Iva non solo non ha alcuna protezione, non solo avrà una maternità interamente a proprio carico, e non solo contabilizzerà come minor reddito il tempo in cui non lavorerà, ma ora dovrà anche pagare più tasse e non potrà più scalare dal reddito tutte le spese sostenute per mantenere in piedi l’attività, ma solo il 22%. Volevano festeggiare Marta, ma l’hanno conciata per le feste.

I lavoratori autonomi sono la parte più elastica del mercato produttivo e di quello del lavoro. Con il job act si vuol portare maggiore flessibilità e adattabilità nel mercato del lavoro, ma intanto si bastona chi ne è l’incarnazione. Il lavoratore autonomo porta sulle proprie spalle l’intero carico del rischio e modula il proprio lavoro in rapporto alle esigenze del cliente. Per questo non esiste un suo orario di lavoro, dato che (se è bravo e fortunato) potrebbe semplicemente non avere mai sosta. In questo modo si scaricano le spalle dei clienti, a cominciare dalle aziende, dagli oneri fissi, pagando a consumo. Questo esercito di lavoratori (circa 6 milioni e mezzo) rende ancora fluido il sangue che circola nel corpo produttivo. L’ultima delle cose di cui abbiamo bisogno è quella che si è fatta: punirlo.

Conosco a memoria (se non altro per esperienza diretta) il copione della polemica inutile: tutti i lavoratori dipendenti pagano le tasse, mentre tutti gli autonomi le evadono. Nessuna delle due cose è vera. I lavoratori dipendenti possono ben evadere le tasse, ad esempio i docenti facendo ripetizioni private in nero. Mentre i controlli sugli autonomi sono severi. Certo che c’è l’evasione fiscale, ma il conto reso intollerabilmente salato dalla legge di stabilità non lo pagheranno mica gli evasori, bensì le persone per bene. Fino a rompere l’elastico.

La ciliegina sulla torta, la beffa dopo il danno, è il sentire i governanti continuare a pavoneggiarsi: abbiamo diminuito la pressione fiscale. E’ falso per tutti. Per i lavoratori autonomi è vero il contrario: è cresciuta e crescerà. Tutto per finanziare la spesa pubblica corrente, che continua intonsa la sua corsa verso l’abisso.

Pubblicato da Libero

mercoledì 17 dicembre 2014

Maria Cannata: prossima Presidente della Repubblica?




• Torino 2 gennaio 1954. Matematica. Manager pubblico. Direttore del dipartimento del debito pubblico del Tesoro (dal dicembre 2000). Si deve a lei, tra le altre cose, la creazione nel 2012 del Btp Italia, il titolo del Tesoro legato all’inflazione che ha spopolato tra i piccoli risparmiatori.

• Venuta a Roma nel 1966 con tutta la famiglia, si laurea in Matematica alla Sapienza di Roma nel 1977 (tesi sui processi statistici), dopo due anni di insegnamento al liceo e un breve passaggio in Ferrovie, vince il concorso del ministero del Tesoro ed è assunta come statistico presso l’Osservatorio della Direzione generale. «Da qui – ed era il 1983 – sono iniziati i suoi approfondimenti sul debito pubblico che l’hanno portata in contatto con i maggiori esperti della materia italiani e internazionali. E l’hanno spinta a insistere affinché nel 1985 il ministero acquistasse il suo primo personal computer» (Stefania Tamburello) [Cds 16/4/2013]. • «Lega la sua svolta professionale al ’92, quando l’economista Francesco Giavazzi, chiamato al Tesoro dall’allora direttore generale Mario Draghi, decise di valorizzarne la squadra. Dal ’96 al ’98 cura per il ministero la transizione all’euro, nel 2000 è nominata dirigente generale e capo della direzione del debito pubblico, dal 2005 è nel gruppo di governance del network Ocse-Tesoro sulla gestione del debito pubblico» (Alessandra Puato) [Cds 28/11/2011].

• «Sulla sua scrivania transitano ogni anno le centinaia di miliardi di titoli in asta e la gestione complessiva dei circa 2.000 miliardi del debito pubblico italiano. A inizio 2013 ha annunciato che il Tesoro è pronto a lanciare un nuovo Btp a 30 anni, alla luce del rinnovato interesse del mercato» (Andrea Gagliardi) [S24 8/3/2013].

• «Piglio sicuro e tranquillo, modi spicci, diretti e semplici; persino dimessi. Con l’approccio chiaro e sintetico della professoressa. Quando si è trattato di prendere posizioni dure, l’ha fatto, anche pubblicamente, con grande determinazione. Per esempio con (contro) le agenzie di rating, accusate apertamente di aver avuto una parte nella crisi. “Ha la capacità di capire cosa vuole la gente comune, quali sono i bisogni e sa tradurre queste esigenze in azioni”, dice chi la conosce bene. Del suo lavoro lei dice che le piace perché le dà la possibilità di avere una visione globale, perché è vario e interessante. Del resto e questa è una competenza che alla Cannata viene riconosciuta praticamente in tutti gli ambiti, non solo quelli degli economisti e non solo in Italia, anzi in modo particolare all’estero la gestione del debito pubblico italiano dal punto di vista tecnico è tra le più brillanti al mondo» (Vittoria Puledda) [Affari & Finanza 19/3/2012].

• Sposata Bonfrate, un ingegnare conosciuto all’università. Una figlia, Silvia. Ha fama di essere tirchia: «In verità sono solo accorta nelle spese» (Stefano Righi) [Cds 9/7/2007].


Giorgio Dell’Arti
Catalogo dei viventi 2015 (in preparazione)
scheda aggiornata al 22 marzo 2014

martedì 16 dicembre 2014

Sconfitti i taglialingue Magdi Allam è prosciolto: "Non è islamofobo". Magdi Cristiano Allam


«Prosciolto». Vittoria! Per il Consiglio di disciplina dell'Ordine nazionale dei giornalisti non sono colpevole di «islamofobia». È una vittoria della libertà d'espressione promossa coraggiosamente dal Giornale .

È una vittoria di tutti gli italiani a cui i taglialingue nostrani ed islamici avrebbero voluto vietare la critica all'islam come religione.

Per ora ho ricevuto ieri, per il tramite del mio avvocato Gabriele Gatti, solo due righe in stile telegramma: «Comunicasi che il Consiglio disciplina nazionale nella seduta del 10 dicembre 2014 lo ha prosciolto. Segue notifica del provvedimento».

È innanzitutto una cocente sconfitta dell'Ordine dei giornalisti e del suo presidente Enzo Iacopino che sono stati costretti ad auto-sconfessarsi, dopo aver fatto propria l'accusa di «islamofobia», aggiungendoci altre accuse ridicole come l'aver «violato l'obbligo di esercitare la professione con dignità e decoro», «non aver rispettato la propria reputazione», «aver compromesso la dignità dell'Ordine professionale», «non aver rafforzato il rapporto di fiducia tra la stampa e i lettori».

In questa vicenda, che rappresenta un gravissimo attentato alla libertà d'espressione, Iacopino farebbe bene a dimettersi. E la smetta di pararsi dietro ai formalismi cercando di far apparire il «Consiglio di disciplina» come un organo autonomo rispetto all'Ordine dei giornalisti. Com'è possibile che sul profilo Facebook dell'avvocato che ha presentato l'esposto e poi il ricorso all'Ordine nazionale presieduto da Iacopino, tra gli ultimi 16 post ben 5 sono di Iacopino evidenziati da commenti elogiativi: «Il bellissimo post del presidente dell'Ordine dei giornalisti», «Ancora una lezione dal presidente dell'Ordine dei giornalisti», «Leggete questo bello e coraggioso post del presidente dell'Ordine dei giornalisti»? È solo una coincidenza che nel 2010 Iacopino scrisse la prefazione al libro di Angela Lano, «Verso Gaza, in diretta dalla Flottilla», e sempre lo stesso avvocato dei militanti islamici difese l'autrice in tribunale da chi l'aveva duramente criticata?

Il mio proscioglimento è ovviamente una sconfitta per la strategia dei militanti che vorrebbero imporci il divieto assoluto di criticare l'islam, Allah, il Corano, Maometto, la sharia, il jihad, la poligamia, le bambine ridotte a schiave sessuali, la lapidazione degli adulteri, l'impiccagione degli omosessuali, la decapitazione degli infedeli e l'uccisione degli apostati, così come vorrebbero che accettassimo acriticamente le moschee, le scuole coraniche, i tribunali sharaitici, le banche e gli enti assistenziali islamici.

Lo straordinario risultato dell'Ordine dei giornalisti che si auto-sconfessa si è avuto innanzitutto grazie alla condivisione e solidarietà del direttore Alessandro Sallusti e delle prestigiose firme del Giornale che hanno anche concorso alla scrittura del libro Non perdiamo la testa. Il dovere di difenderci dalla violenza dell'islam . Importante è stata la solidarietà espressa da giornalisti di diverse testate tra cui Libero , Corriere della Sera e Repubblica . Fondamentale è stata la disapprovazione nei confronti di Iacopino espressa da Bruno Tucci, ex presidente dell'Ordine dei giornalisti del Lazio, da Franco Abruzzo, ex presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, e dal magistrato Guido Salvini. Determinante è stata la memoria difensiva stesa magistralmente dall'avvocato Gabriele Gatti che ha confutato il fondamento legale del reato di islamofobia, ha sostenuto la legittimità della critica alla religione sottolineando che il vilipendio non è assoluto ma in riferimento alle persone, che l'articolo 19 della Costituzione non tutela la religione ma la libertà dei singoli di professarla, infine ha sottolineato il fatto che l'Ordine dei giornalisti confonde tra il diritto di critica, che è assolutamente lecito, e il diritto di cronaca che io non ho mai violato. In parallelo Gatti, facendo riferimento ai comportamenti dell'avvocato degli islamici che mi ha denunciato, ha evidenziato che «sorge il dubbio che la sua battaglia non sia per la legalità ma per eliminare - in senso figurativo - Magdi Cristiano Allam considerato non un avversario bensì un nemico, un nemico che non deve parlare».

Dal canto mio, che si dimetta o meno Iacopino, proseguirò la mia battaglia di civiltà per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, un residuato del fascismo. Così come proseguirò, costi quel che costi, la mia missione contro i nostri aspiranti carnefici, i taglialingua islamici che vorrebbero ridurre a schiavi di Allah l'intera umanità. Almeno per ora possiamo gridarlo forte: l'islamofobia non passerà!

www.magdicristianoallam.it

martedì 9 dicembre 2014

Parla Berlusconi


Caro Mauro,
ecco per te il testo della mia intervista all'Huffington Post. Buona lettura.

Silvio Berlusconi scherza, appena ci salutiamo: “Oh, ecco il compagno... Voi dell’Huffington siete critici su Renzi... ”. Palazzo Grazioli, mi riceve nel suo studio. Un bicchiere di “falso amaro” sulla scrivania e un blocco su cui annota appunti, è assai poco appassionato al conflitto interno al centrodestra: “Teatrino”. E ancor meno alla questione delle primarie, su cui si dice contrario. È sul Great Game del Quirinale che però sfoggia il sorriso del Grande Seduttore. Sul punto cruciale della conversazione, la zampata: “Da Renzi mi aspetto un percorso di condivisione che consenta al paese di avere un capo dello Stato che non sia espressione solo della sinistra, come è stato con gli ultimi presidenti, ma sia una figura di garanzia per tutti gli italiani”. Non espressione della sinistra significa che dall’elenco va depennato non solo Prodi, ma tutti i segretari del Pd: Veltroni, Franceschini, Bersani.
In cambio, sulla legge elettorale il Cavaliere non alza le barricate. Anzi, taglia corto sulla proposta di Renzi sui tempi e sulla cosiddetta clausola di salvaguardia, ovvero che la nuova legge elettorale entri in vigore nel 2016: “Non mi sembra francamente una questione rilevante. Prima o dopo l’importante è che si realizzi una buona legge che non penalizzi nessuna delle parti in causa”.
Suona come un richiamo al Patto del Nazareno che Renzi deve rispettare tutto il ragionamento di Berlusconi. Il premier, nel corso della trasmissione di Enrico Mentana, ha detto: “Il Quirinale non è nel Nazareno”. E non ha escluso, per il Quirinale, nessun nome neanche quelli già bocciati la volta scorsa. Per Berlusconi la successione al Colle “condivisa” è invece l’esito di un percorso che il Cavaliere definisce “naturale” nel Patto del Nazareno. E della disponibilità a fare le riforme: “È evidente – dice - che i due temi (Colle e riforme, ndr), poiché fanno entrambi parte delle regole e delle garanzie, non possono che andare di pari passo”. Già, "evidente".
Nel corso dell’oretta passata nel suo studio, lo trovo assai poco innamorato di Renzi. Anzi, lo punzecchia proprio sul rapporto col popolo, con la gente: “L’astensionismo non è secondario. È un segnale per il governo”. Si percepisce che ha voglia di sfidarlo. Un’ultima battaglia, per dimostrare che è, ancora, Silvio Berlusconi. Pesa l’anno di restrizioni, di limitazione nella libertà di movimento. Proprio solleticato su questo esce il vecchio leone. Smette di prendere appunti: “Quando sarà, sarò in campo contro Renzi”. Il ruolo, da candidato o da leader, dipende dalla questione dell’agibilità politica: “Sono certo – dice - che riavrò l’onore perduto”. Ma, parlando del suo “popolo”, quasi commosso lascia capire che non ha alcuna intenzione di dismettere i panni da leader del centrodestra.
Presidente Berlusconi, partiamo dal futuro del centrodestra, da quella che appare una “frantumazione” dello schieramento per come l’abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni.
(Berlusconi è alla sua scrivania, a Palazzo Grazioli. Mentre risponde, ha una penna in mano, e davanti un blocco di fogli. Ogni tanto, mentre parla, annota qualcosa, come se raccogliesse in uno schema i suoi stessi ragionamenti).
Dobbiamo fare ancora un passo indietro: il centrodestra in Italia, come realtà politica, non è mai esistito, almeno dall’epoca pre-fascista. Solo con la mia discesa in campo nel 1994 è diventato un soggetto maggioritario nel paese. Questo non perché prima non esistesse un “sentire comune” moderato, ma perché i partiti chiamati a interpretarlo avevano progetti diversi o erano ininfluenti. I moderati, da maggioranza nel paese, sono diventati per la prima volta con noi anche una maggioranza politica. Molti si attendevano che questo consentisse una trasformazione radicale dell’Italia. Anch’io lo avrei voluto, ma non è stato possibile per diverse ragioni: perché negli ultimi vent’anni noi abbiamo governato per meno della metà, e perché quando abbiamo governato le regole istituzionali, gli egoismi di alcuni alleati minori, le forti resistenze della burocrazia e del sindacato lo hanno reso impossibile. Di conseguenza noi abbiamo fatto grandi riforme liberali, ma “la grande rivoluzione liberale” a cui io puntavo è rimasta incompiuta.
E questo è il passato. Ora però il centrodestra pare frantumato...
Di fronte a quello che le ho illustrato, è successo che una parte dei nostri elettori, delusa, si è rifugiata nell’astensione, mentre alcuni protagonisti politici, da Alfano a Salvini, hanno pensato che potesse essere venuto il loro turno. Ne sarei lieto, come ne sarei stato contento nel 1994 se Segni e Bossi, Martinazzoli e Fini si fossero messi d’accordo senza bisogno del mio intervento. Io non ho mai sofferto di ambizioni politiche né allora né oggi. Ma ancora oggi come allora non vedo nessun altro che possa esercitare una leadership in grado di unificare il mondo del centro-destra.

Lei dice che riunire il centrodestra da Alfano a Salvini, ma ormai è chiaro, a leggere le dichiarazioni, che i due sono incompatibili. Uno è al governo, uno all’opposizione, uno mette il veto sull’altro. Lei che nel ’94 chiamò a raccolta tutti gli italiani alternativi alla sinistra in nome del suo carisma inventandosi una coalizione, che schema ha in mente e con chi?
(Sorride e scuote il capo). Purtroppo i politici italiani non riescono a fare a meno dei tatticismi. Pensano, sollevando barricate, di alzare il prezzo in una trattativa che, prima o poi, è inevitabile, se non vogliono condannare se stessi e tutta l’Italia di centro-destra ad essere minoritaria per sempre. È il teatrino della politica, proprio quello di cui gli italiani, i moderati in particolare, sono sempre più disgustati e indotti a rifugiarsi nell’astensione.
E quindi?
E quindi occorre la pazienza e la volontà di non perdere mai di vista l’obiettivo che si ha davanti. Nonostante i veti reciproci, Lega ed Ncd governano insieme regioni importanti come la Lombardia e il Veneto, che tra l’altro è prossimo alle elezioni, e tante amministrazioni locali. Vuol dire che questa presunta incompatibilità non è poi così definitiva. D’altronde fra pochi mesi in Veneto si vota: non mi risulta che Lega e Ncd abbiano deciso di perdere.
Ma davvero pensa che il calo di consensi sia solo dovuto alla litigiosità o si è rotto qualcosa col paese?
I moderati, tutti i sondaggi e le ricerche lo confermano, sono e restano la maggioranza degli italiani. A tenerli lontani dalle urne sono diversi motivi. Sono delusi da questa politica e da questi politici che profittano dei soldi pubblici, che non trovano soluzioni concrete ai loro problemi, che si perdono in litigi e liturgie incomprensibili. Poi c’è una forte preoccupazione per il proprio futuro, c’è la paura di dover perdere il proprio benessere, il proprio lavoro, la paura di non trovare un lavoro per i propri figli. E poi…
E poi?
(Ora Berlusconi pare rabbuiarsi, fin qui è stato sorridente e cordiale. Diventa cupo. E cambia il tono di voce). Poi c’è la questione che tutti voi dei media avete messo da parte come se non esistesse, come se in Italia fosse tutto normale. Noi siamo in una condizione pericolosa e inaccettabile di democrazia sospesa. Una condizione nella quale il leader di uno dei due schieramenti in campo non può fare campagna elettorale, non può muoversi sul territorio nazionale, non può stare in mezzo alla gente, non può neppure dire quello che pensa, è privato del suo diritto di voto, del diritto ad essere votato, è privato della sua libertà. Una situazione che non ha precedenti nella storia della nostra democrazia.

Ci arriviamo. Prima però un’ultima domanda sul tema. Dentro e fuori il suo partito, da Salvini a Fitto, le dicono: per rifondare il centrodestra “agonizzante” servono le primarie, una sorta di rianimazione, di ossigeno democratico. In fondo a sinistra hanno funzionato, Renzi da quel meccanismo è uscito...
Non è il meccanismo elettorale a far nascere i leaders. I leaders o ci sono o non ci sono. Renzi sarebbe emerso anche senza primarie. È stato abile nell’utilizzarle, certamente, ma non è un prodotto delle primarie. Dalle primarie sono usciti i peggiori esempi di amministratori della sinistra, come Pisapia, Marino, Doria, De Magistris… Una serie di pessimi sindaci che stanno portando allo sfascio le maggiori città italiane. Io sono convinto che le primarie siano un pessimo strumento per la scelta dei candidati leaders. Penso che ogni movimento politico debba proporsi ai cittadini presentando i suoi programmi e i suoi candidati. Se vi convincono, votateli. Questo è il linguaggio dell’onestà e della chiarezza in virtù del quale i moderati italiani da vent’anni hanno scelto e ancora scelgono, senza bisogno delle primarie, un leader del centro-destra che si chiama Berlusconi.
E lei a Fitto che dice: “falla finita, o dentro o fuori”...
Siete speciali: uno vi riferisce un pettegolezzo, oltretutto sbagliato, e tutti lo riprendete, lo commentate e lo rilanciate fino a farlo diventare una apparente verità. Lei mi conosce da tempo: crede davvero possibile che io tratti così qualcuno? La verità è che in trent’anni di imprese e in vent’anni di politica io non ho mai cacciato nessuno. Forse è stato un errore, in qualche caso avrei dovuto farlo, ma, francamente, non ne sono capace.
Diciamoci la verità, questo controcanto le ricorda un po’ Fini o Alfano.
(Ride). Visto l’esito, credo che nessuno abbia la tentazione di imitarli.
Non so lei, ma io sono rimasto molto colpito dall’astensionismo alle regionali. È un fenomeno secondario come dice Renzi?
No, quello uscito dalle urne dell’Emilia Romagna è un segnale molto grave.
È anche un segnale per Renzi e per il governo?
È un segnale per il governo, certamente, che dimostra che una parte importante del Pd, non solo fra i dirigenti, ma anche fra gli elettori, non è d’accordo con quel che è ora il partito che hanno sempre votato.
Sbaglio o è un po’ deluso dal premier?
Renzi ha molte qualità. È giovane, è dinamico, è un formidabile comunicatore. Ha anche il vantaggio di avere una discreta dose di cattiveria che a me, per esempio, manca del tutto. Vedremo cosa sarà capace di realizzare.
Presidente, la seguo da anni e se ho una certezza è che lei è un combattente. Sa cosa penso? Penso che nella sua testa frulla un ragionamento così: vabbè, Renzi è bravo, bravissimo, il migliore dei suoi, però ha pure incrociato il momento di mia massima difficoltà, politica, giudiziaria, pure di libertà dei movimenti. Se avessi la possibilità di fare il Berlusconi vero, di andare in giro per l’Italia, di abbracciare le persone, di andare in televisione, glielo farei vedere io a questo baldo giovane che prima mi stringe la mano e poi cambia idea 8 volte sulle riforme chi è Silvio Berlusconi. Dica la verità, l’idea di una campagna elettorale contro Renzi, quando sarà, le piace assai.
Si è già dato la risposta da solo. Aggiungo solo una cosa.
Prego.
Io sono certo, certissimo (scandisce, guardandomi fisso negli occhi, ndr), che presto sarà l’Europa a restituirmi quell’onore e quei diritti politici che mi sono stati incredibilmente e inaccettabilmente sottratti. E allora sarò in campo, a tempo pieno, per vincere. Ma già da oggi il silenzio è finito. Ho taciuto fin troppo per senso di responsabilità verso il paese in un momento difficile. Ma oggi, se tacessi ancora, sarebbe, al contrario, un gesto di irresponsabilità, verso di me, verso la mia storia, verso chi mi ha sempre dato fiducia, verso tutti gli italiani. (Berlusconi ha fatto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo contro la sentenza della Cassazione che lo ha condannato per frode fiscale. Si riferisce alla sentenza della corte europea quando parla di Europa, ndr).
Esclude, quando sarà, di essere lei colui che guida la sfida a Renzi come leader del centrodestra?
Non lo escludo. L’unica cosa che invece escludo è di non essere in campo. Se poi ci sarò come attaccante o come regista, dipenderà da molti fattori oggi difficili da prevedere.
Se fosse premier, che farebbe nei primi cento giorni? L’Italia è il paese che amo. E quindi all’Italia dico...
…dico che senza una svolta radicale dalla crisi non si esce. Svolta radicale significa soprattutto una cosa: lasciare più soldi nelle tasche degli italiani, riducendo una volta per tutte i costi dello Stato e le tasse sulle famiglie e sulle imprese. Meno tasse significa più consumi e più investimenti, quindi più lavoro e più utili per le aziende, quindi più occupazione, a favore proprio delle categorie più deboli, come i giovani e le donne, ma anche delle persone di mezza età espulse dal mercato del lavoro e che oggi non riescono a ritrovare un’occupazione e sono ancora lontane dalla pensione. È uno dei nuovi drammi sociali, perché spesso sono padri e madri con figli a carico.
Dunque i provvedimenti che varerebbe?
Introdurremo la “flat tax”, quella che ormai funziona benissimo in trentotto Paesi e che mi convince dal 1994. Quella che i miei alleati non hanno mai condiviso, una rivoluzione totale del nostro sistema impositivo, basato sull’aliquota unica per tutti, un’aliquota del 20 per cento e dunque molto inferiore alle attuali, e una “no tax area” al di sotto di un certo reddito. I paesi dell’Europa dell’est, tra i tanti che hanno introdotto questo sistema di tassazione negli ultimi anni, hanno conosciuto spettacolari passi in avanti. L’altra cosa essenziale da fare subito è occuparsi degli anziani. Nessuno oggi può vivere dignitosamente con meno di 1000 euro al mese. Per questo aumenteremo immediatamente le pensioni minime, fino a quella cifra. E anche questo avrà un effetto positivo sui consumi, sul lavoro, sulle imprese.
Presidente, sta usando i verbi al futuro. Non sta raccontando quello che farebbe se tornasse al governo, ci racconta quella che farà.
(Sorride) Esatto.
E ciò che non rifarebbe? Qualche errore ci sarà nella passata esperienza...
Senza dubbio. Aver accettato una continua mediazione con chi remava contro all’azione del governo. Per carattere tendo a fidarmi delle persone, a credere che siano sempre in buona fede. Farò forza sul mio carattere, non ripeterò questi errori.
Ora però c’è la questione del successore di Napolitano. Non sono così ingenuo da chiederle un nome ora. Però vorrei provare a capire qualcosa. Quale metodo si aspetta da Renzi? Una “rosa” con nomi non ostili?
Mi aspetto un percorso di condivisione il quale, al di là delle procedure che si seguiranno, consenta a questo Paese di avere un Presidente della Repubblica che non sia solo espressione della sinistra, come è stato con gli ultimi presidenti, ma sia una figura di massima garanzia e di rappresentanza di tutti gli italiani.
Un nome condiviso, dunque.
Sono convinto che ci arriveremo, nel quadro di quella collaborazione istituzionale, che è diversa dalla convergenza politica, che si è avviata con il Pd sulle riforme. È evidente che i due temi, poiché fanno entrambi parte delle regole e delle garanzie, non possono che andare di pari passo.
È “evidente”, dice lei. E dal nuovo capo dello Stato si aspetta maggiore sensibilità di quella mostrata da Napolitano sulla sua “agibilità politica” così può tornare candidabile?
Non pongo condizioni, non tratto su quello che considero un mio, un nostro ineludibile diritto. Sono tuttavia convinto che l’Europa risolverà il problema prima del nuovo capo dello Stato.
A proposito di legge elettorale. Le chiederei una parola chiara. Lei aveva detto: prima il Quirinale, poi si vota la legge elettorale. Renzi le ha risposto: “Non dà le carte Berlusconi”. Vuole votarla prima del prossimo capo dello Stato, però offre come clausola di salvaguardia che entrerà in vigore nel 2016.
Non mi sembra francamente una questione rilevante. Prima o dopo l’importante è che si realizzi una buona legge che non penalizzi nessuna delle parti in causa.
Sempre sul Nazareno. Ma perché è così importante per le sue aziende? A leggere le interviste di Ennio Doris viene il sospetto che ci sia un nesso tra tutela delle aziende e Nazareno.
(Sbuffa, evidentemente infastidito) Rovesciamo per un attimo le parti e mi spieghi lei una cosa. Che vantaggio potrebbero mai avere quelle che lei chiama le mie aziende, da Renzi? Mediaset è una grande azienda culturale e di informazione, è quotata in borsa con decine di migliaia di azionisti che ne detengono il 60 per cento, dà lavoro a migliaia di persone e ha operato sotto i governi più diversi. Si rende conto che questa domanda presupporrebbe l’esistenza di una sorta di possibile ricatto da parte del presidente del Consiglio ai danni di una delle principali aziende italiane? Le pare accettabile una cosa del genere? Comunque, non arrivo davvero ad individuare cosa potrebbe fare il governo per le aziende che ho fondato. Forse dovrebbe fare una sola cosa: far ripartire l’economia e quindi anche il mercato pubblicitario, del quale tutti i media vivono. Questo sarebbe il bene del paese, non solo di Mediaset.
Presidente, concludiamo con una nota personale. Rispetto all’ultima volta che ci siamo visti, un anno fa, è stato un anno difficile. Posso chiederle quale è stato il giorno più brutto, da politico, che ha vissuto, la cosa che le ha fatto più male?
Il giorno nel quale il Senato italiano, per la prima volta nella sua storia, ha votato l’espulsione di un leader politico capo dell’opposizione e del centro-destra dal Parlamento della Repubblica e l’ha fatto, violando la Costituzione italiana, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la prassi e le sue stesse procedure. L’ha fatto a seguito non solo di una sentenza inverosimile, ma anche di un’applicazione incostituzionale dei suoi effetti. Una pagina vergognosa della politica italiana, decisa dalla sinistra, avallata dalle più alte istituzioni e subita senza reazione da chi, eletto con i miei voti, ha deciso, nonostante tutto questo, di continuare a collaborare con i responsabili di questa infamia.
Lei più volte ha usato in questo anno la parola “delusione” e “tradimento”. Ora “infamia”. Si sente cambiato, umanamente?
Questa volta sono stati delusi e traditi milioni di italiani che oggi non credono più nella politica e che si rifugiano nell’astensionismo, perché chi avevano votato in nome di un programma e di un’alleanza, col chiaro mandato di contrastare la sinistra, si è comportato esattamente al contrario. Sono loro che devono perdonare. Loro, ogni volta che compaio in pubblico, in strada, si affollano intorno a me, mi abbracciano, mi dicono di non mollare, quasi mi soffocano con il loro affetto e il loro entusiasmo.
Dunque, il leader è sempre lei.
(Adesso appare quasi commosso, mentre parla della sua gente) A volte faccio fatica a sottrarmi a questo abbraccio così affettuoso e intenso. Negli occhi di tutta questa gente, gente di tutte le età e di tutte le condizioni sociali, vedo la speranza di un’Italia diversa, quel sogno in nome del quale vent’anni fa sono sceso in campo per difendere la nostra democrazia e la nostra libertà. Posso deluderli?
Insomma, diceva Nietzsche: “Ciò che non mi uccide, mi rafforza”.
Nietzsche aveva ragione.

Silvio Berlusconi

martedì 2 dicembre 2014

Epidemia di panico. Davide Giacalone


E’ in corso un’epidemia. E scarseggiano i vaccini. L’epidemia è di panico e il vaccino dovrebbe consistere nella credibilità delle autorità sanitarie. Meglio: delle autorità in generale. Invece si mette in dubbio tutto e l’epidemia dilaga, passando dall’allarme per i vaccini antinfluenzali a quelli che si praticano ai bambini, che hanno salvato centinaia di milioni di vite e infinite sofferenze. Ma non fai a tempo a finire la frase che già ti danno del servo delle multinazionali farmaceutiche. O, nel migliore dei casi, dell’ignorante. Un plotone di googolanti, oramai, crede di sapere tutto, intontito da uno scientismo che è sciamanesimo. Sicché è utile non lasciar correre, soffermandoci su tre aspetti della faccenda: 1. la credibilità di chi parla; 2. la nocività dei farmaci; 3. la logica del profitto.

1. Se il ministero della sanità e le regioni hanno deciso di demolire quel che resta della loro credibilità, continuino pure a rimpallarsi le colpe. Prima si scucuzzano per stabilire chi è responsabile del mancato allarme, poi aggiungono che non c’è ragione d’allarme. Ma chi volete che creda, a quel punto, alla seconda cosa?

A parte loro, che meritano ogni biasimo, c’è da considerare l’allarmismo stridulo che oramai il mercato dell’informazione usa per ogni cosa. E se oggi vale per il vaccino, ieri valeva per l’influenza, che ogni anno s’annuncia monotonamente devastante e con preludi di morte. Nel 2009 non ne potemmo più e ci mettemmo qui a fare i conti (carta canta), scoprendo che in Messico, da dove si dipartiva una mortale influenza suina, era trapassato le stesso numero di persone di ogni anno. Non c’erano picchi. Sopraggiunse la notizia era agghiacciante: un morto in Spagna. L’epidemia correva, eravamo spacciati. E si moriva in fretta. Però, cribbio, quanta gente nuore, in Spagna, ogni giorno? Presi coraggio è azzardai: questa è una bufala. Meglio: una maialata. Morale: fortunatamente l’allarme era infondato e ci salvammo, ma ci costò assai caro, perché il governo comprò vagonate di vaccini, che restarono nei magazzini, giacché i medici di famiglia (brava gente) li sconsigliavano. Quindi, scusate, ma l’accusa di servaggio farmaceutico la si rivolga altrove.

2. Ma è possibile che quei vaccini siano nocivi? Certo che lo è. Tutti i farmaci sono nocivi. Anche gli esami clinici lo sono, e taluni assai pericolosi. Tutto sta a capire se il rischio che corro me ne evita uno peggiore e potenzialmente mortale. E’ per questo che la gente ragionevole si rivolge ai medici e non ai cartomanti.

Inoltre non si deve fare confusione fra i vaccini volontari, che si dovrebbero fare se il medico lo consiglia, rientrando in una categoria a rischio, e i vaccini obbligatori, che tutelano la persona vaccinata, ma anche la collettività che la circonda. Basta abbassare la guardia e malattie un tempo mortali, oggi addomesticate, riprendono a falciare vite. Sono e devono restare obbligatori proprio perché si tutela la salute collettiva, non solo quella individuale. Del resto: avete provato a chiedere di studiare o lavorare laddove la civiltà sanitaria esiste? Vi domandano subito se avete fatto i vaccini.

Quello che non è tollerabile è il rischio aggiuntivo, dato da cattive pratiche o uso di sostanze improprie. Per questo esistono organismi di controllo, nazionali e internazionali. Se c’è dolo ci sia anche condanna.

3. Le case farmaceutiche lavorano per il profitto. Evviva. Lavorando per il profitto sono spinte a non uccidere i clienti. Essendo in concorrenza finanziano la ricerca per trovare prodotti più efficaci. Mi piace. Non mi piacciono, invece, quanti chiamano i disperati a credere nel nulla, travestendosi da giustizieri, ma restando ciarlatani.

La logica del profitto genera mostri in tre casi: a. quando ostacola la ricerca di farmaci contro le malattie rare, che proprio in quanto tali non sono remunerative; b. quando sperimenta i prodotti su cavie umane, in zone lontano dalla sensibilità dell’informazione; c. quando spinge sui pubblici amministratori affinché comprino roba inutile. Nel primo caso deve sopperire la ricerca universitaria (conosciamo Ebola da tempo, e oggi se ne parla in un convegno romano della Fondazione Balsano, ma solo ora si grida al pericolo). Negli altri due deve dischiudersi la galera.

Se politici e giornalisti si mettono a far concorrenza ai miti della rete, inseguendo le paure collettive e soffiando su un fuoco millenarista fuori tempo massimo, otterranno un solo risultato: verranno portati al rogo dal mostro che oggi sperano d’accarezzare. E se lo saranno anche meritato.

Pubblicato da Libero

mercoledì 26 novembre 2014

La sinistra politica? Segui i soldi e vedrai! Giorgio Alfieri


Fondazione comunista Longo, fondazione comunista Berlinguer, fondazione comunista Natta, fondazione comunista Chiaromomte, fondazione comunista Quercioli, fondazione comunista Vittorio Foa, fondazione comunista il Tricolore, fondazione comunista Bella ciao, fondazione comunista La Quercia, fondazione comunista Rinascita, fondazione Duemila, sono solo alcuni tra i numerosi enti cosiddetti no profit o morali formalmente senza scopo di lucro ma lucrosissimi proliferati grazie alla leggina Prodi del 2006 e dentro cui, affidati a fedelissimi comunisti, c’è il patrimonio immenso della sinistra politica italiana, cioè soldi, immobili, terreni, fondi, società, opere d’arte eccetera per una somma complessiva di ben mezzo miliardo di euro.

Il vecchio criterio stantio di dove stanno i soldi ha sempre una sua indubbia efficacia. Segui i soldi (e saprai decifrare la situazione). Le domande da porsi, sempre, e chi paga? Chi tiene i cordoni della borsa? Lì c’è il potere e chi lo comanda e gestisce. Qui si tratta di beni che dal partito comunista italiano sono transitati ai Ds e al partito democratico attuale. Sono un’enormità. Li “amministra”, nel senso che è detto loro da qualcuno di tirarli fuori alla bisogna il compagno Ugo Sposetti, l’attuale moglie di Massimo D’Alema Linda Giuva e Massimo D’Alema stesso che produce infatti un ottimo vino da ultimo dopo avere veleggiato per i mari pugliesi e non.

Trasparenza? Zero. Arbitrio e discrezionalità? Totale. La gran parte di queste fondazioni fanno capo ad un’associazione nazionale intitolata a Enrico Berlinguer e presieduta da Sposetti stesso, si tratta di una specie di holding che coordina ma a cui non risale nessun obbligo di rendicontazione o tenuta di bilancio alcuno, niente, non si sa niente circa la consistenza patrimoniale complessiva. Ogni ente fa quello che gli pare, cioè fa quello che vuole chi lo gestisce, sempre di sinistra però. Non c’è sito internet o bilancio pubblicato, nessun censimento, elenco o lista degli edifici o dei loro indirizzi, o dei canoni di affitto, niente, non si sa niente.

Le regioni che dovrebbero vigilare su tali enti “non profit” non pubblicano alcun bilancio delle fondazioni. Non si sa alcunchè delle loro attività non profittevoli formalmente ma nella sostanza profittevoli per molti altri versi (politici), nessun cenno o traccia sulle iniziative con cui esse “valorizzano il patrimonio culturale” del partito comunista italiano, poi pds poi ds, oggi partito democratico. C’è solo un’iniziativa, quella della “note rossa” durante cui è stato proiettato il filmetto di Walter Veltroni dal titolo Quando c’era Berlinguer e qualche serata di presentazione delle fondamentali produzioni letterarie di Massimo D’Alema, tra una regata e l’altra e prima degli ottimi vini, ca va sans dire. Il vero business di queste fondazioni è la gestione degli immobili atta a tenere alto il tesorone della sinistra politica italiana.

Fanno capo al tesorone sinistrorso edifici all over Italy, cioè in ogni dove in Italia, masserie e case in campagna, le famose case del popolo (requisite al popolo di sinistra che, come si è visto da ultimo, alle elezioni regionali in Emilia romagna, non va più a votare), centinaia di opere d’arte, quadri di artisti targati sinistra quali Guttuso poi divenuto parlamentare pci e noto perchè scopò con la modella alla fame Marta elevatasi poi a contessa della sinistra nobiliare Marzotto, Mario Schifano, Renato Birolli, Ernesto Treccani, Piero Dorazio, Giò Pomodoro eccetera. Negli anni 90 il patrimonio artistico valeva cinque milioni di attuali euro, oggi raddoppiato. L’attore Gianmaria Volontè comprò uno Schifano e lo regalò alla sezione dell’allora partito comunista italiano di Roma, a Trastevere.

Il patrimonio rosso si è arricchito di tessere dei poveri lavoratori asserviti e oggi a ragione arrabbiati furiosi, si è arricchito ancor più con le feste dell’Unità che sono lo strazio sonoro di ogni abitante di città, i lasciti e i sacrifici della gente onesta che oggi viene presa doppiamente in giro da Renzi tanto quanto da Landini, Prodi, D’Alema e compagni tutti (ma cosa piange la Turco? E’ lei che fa piangere da cinquant’anni a questa parte). Gli immobili oggi pd risalgono in parte ad impossessamenti operati durante la resistenza, altri acquistati con l’oro di Mosca, con i finanziamenti dall’Unione sovietica e con le tangenti sugli scambi commerciali con i Paesi dell’est durante la guerra fredda.

Il partito comunista italiano, con tale ingente patrimonio, si è così strutturato ben bene pagandosi e pagando il partito e i compagni; nel 2007 Piero Fassino, Massimo D’Alema e Ugo Sposetti si rifiutarono di “passarlo” all’attuale partito democratico, ma bisogna anche dire che nel frattempo, ben depredato, il patrimonio è diminuito (i debiti del pci poi ds ammontavano a 200 milioni di euro), si è quindi in parte venduto per fare cassa, si pensi ai casi di botteghe oscure (appunto, oscure) o del palazzo delle frattocchie. In realtà le fondazioni sono state istituite e fondate appunto, per fare margine alla crescente progressiva dilapidazione del patrimonio medesimo, per diffidenza verso la Margherita di Francesco Rutelli e dell’ amico sconfessato Luigi Lusi, e per “proteggerlo” dalle banche della sinistra stessa, Unicredit ed Efibanca in testa, che hanno cominciato, nonostante fossero “amiche” (ma le amicizie saltano con i soldi di mezzo), a contestare le donazioni degli immobili dai ds alle fondazioni, volendone un pezzo, o più pezzi per sé.

La fondazione Duemila (20 milioni di euro di disponibilità) è stata istituita nel 2006 prima della fusione ds/Margherita, a giro il parlamento a maggioranza ds/Rifondazione ha consentito ai partiti di costituire fondazioni politico-culturali (sic) per gestire anche patrimoni immobiliari che godono di un vantaggio fiscale perché in caso di vendita non pagano la tassa di registro. Capito? Gli italiani vengono mazzolati a forza di tasse anche astruse come quella della Rai ma la sinistra politica non è gravata da tassa alcuna! Costruendo quel sistema, le fondazioni inoltre non hanno scopo di lucro ma le immobiliari da loro controllate sì, eccome se ce l’hanno! E in tutt’Italia le fondazioni politiche di sinistra agiscono così.

I responsabili ovviamente designati senza alcuna selezione popolare ma unicamente a piacimento sono compagni/amici blindati nominati a vita (un affarone!) e qindi il partito del tutto in comune, della collettivizzazione, al dunque, cioè sui soldi, sulle cose serie, non è collettivo e comunista per niente, ma, alla maniera di Giorgio Napolitano, decidono in pochi , sempre gli stessi perché ha privatizzato i propri beni affidandoli a beni amministrati da persone che non devono rendere conto a nessuno, tantomeno al popolo che ha costruito e alimentato quello stesso patrimonio. Devono rispondere solo a chi li ha nominati e prepararsi, nel caso vengano scoperti o colti in flagrante come è successo a Luigi Lusi, a inghiottire la qualunque perché non c’è regola che tenga, i soldi innanzitutto. Anche perché in caso contrario, il castello viene tutto giù, e buonanotte ai suonatori. Di chi sono tutti questi soldi e questo immane patrimonio? Degli italiani, del popolo.

Il problema che, dai che ti ridai, la cassaforte sta scoppiando in mano a chi la detiene perché, se da una parte i partiti della sinistra si pagano con il finanziamento pubblico (che deve finire) e in pratica il partito paga e fa vivere con i suoi soldi tutto il tessuto della sinistra politica ormai tuttavia a fatica, dall’altra parte, subentrato Renzuccio bello che nessuno vuole mettere a parte del patrimonio, si assiste alla crescita esponenziale dei crediti insoluti, degli sfratti e dei dissesti dei bilanci eccetera. In sostanza il partito della sinistra non fa mangiare, o anche solo partecipare all’abbuffata lo stesso partito della sinistra: Ds contro Margherita, Pd contro Renzuccio bello e compagni, e così via. Si tenga presente che gli immobili rossi sono affittati ad associazioni, coop, circoli arci, sindacati e centri sociali, ma anche a privati e che si raggiungono così canoni d’affitto lucrosi.

C’è poi il 5 per mille che, in una smania di esosa fame, è stato fatto inserire in quanto le fondazioni sarebbero enti di volontariato, in realtà il sistema indiretto di finanziamento al partito. Pare però i militanti di sinistra non si stiano rivelando molto generosi in tal senso. Cosa fare di tutto questo sistema politico di sinistra viziato? L’unica è ricondurre tutto al mercato, quello vero. Ha il vantaggio non secondario di fare ricostruire le amicizie sui binari più veri e sinceri della onestà e della sincerità, e quello di riportare i rapporti tutti, economici, politici, sociali, ad un ordine trasparente, e di autenticità oggi necessaria. Se non lo si farà, se la sinistra politica non lo farà, non tarderà a farlo e a pensarci ugualmente il mercato, spazzando via, partito e soggetti, con vergogna e ignominia, con tutta probabilità anche con qualcosa di più.

(LSBlog)

lunedì 24 novembre 2014

Peccato


Avremmo potuto battere la sinistra e non ci abbiamo creduto.

Si era capito sin da subito che in Emilia Romagna serpeggiava il malumore tra i nipoti di Stalin: le primarie per Bonaccini non erano state una passeggiata ed uno sconoscito sindaco di Imola gli aveva dato dal filo da torcere, dopo che Richetti si era "spintaneamente" ritirato.
I nipoti dell'uomo d'acciaio non hanno digerito il fatto che il segretario del loro glorioso partito sia un democristiano, che il sindacato sia stato messo alle corde e che Renzi sia pappa e ciccia con l'odiato Caimano.

A parte il fatto che il pasticcio dei rimborsi ai consiglieri regionali e la condanna di Errani non sono quisquiglie, i trinariciuti si sono sempre mossi a comando e gli intrecci di potere ed interessi economici nella regione ex(?)rossa sono talmente radicati, che non si sarebbe potuto pensare ad una valanga di astensioni quale è stata quella di ieri.

Però i segnali c'erano e valeva la pena di provarci.

Ma gli elettori di centrodestra non ci hanno creduto: e si sarebbe potuto vincere!
Cribbio, direbbe Silvio.

Quel che mi rammarica è che non ci hanno creduto le teste pensanti del centrodestra a cominciare da Forza Italia.

Era sufficiente convincere gli elettori a non disertare le urne scegliendo di mettere la croce su Lega, Forza Italia o Fratelli d'Italia a seconda della loro esposizione a destra, al solo scopo di cambiare aria in una regione dove da cinquant'anni comandano sempre gli stessi: non serviva un programma, perché di programmi non se ne sono visti o sentiti in campagna elettorale.
Sarebbe bastata la parola d'ordine: andiamo tutti a votare, perché questa volta ci sono le condizioni per battere la sinistra.

Peccato!

venerdì 21 novembre 2014

Fantasma elettorale. Davide Giacalone


Per sapere che è in corso una campagna elettorale, in Emilia Romagna, devi comprare i giornali. Leggendoli scopri che si parla di tutto, a partire dai riflessi nazionali del voto, ma non di Emilia Romagna. Se giri per le strade non trovi traccia di politica. E sì che questa è la sanguigna terra di Brescello, di Peppone e Don Camillo. Che fine hanno fatto? Non credete a quelli che vi dicono esserci disinteresse e qualunquismo, è che sia la politica che i cittadini sono stati espulsi dalla competizione, ridotta ad affarismo e parolismo.

Se stessimo parlando di cose serie, proponendo agli elettori qualche cosa che abbia a che vedere con il futuro, i vibratori troverebbero posto solo nelle battute marginali. Invece sono lì (giacché fra le spese rimborsate ai consiglieri regionali, in questo caso Pd, a dimostrazione che oltre a fessi sono anche miserabili), ad eccitare solitari i dibattiti. Che manco si fanno. Già, perché non solo sono vuote le piazze, non solo mancano i manifesti, risultando in gran parte vuoti anche i tradizionali tabelloni, ma neanche le televisioni locali si mostrano interessate. Robetta. Normale amministrazione. Occhio: non succede a caso. Questo effetto-sonno è voluto.

Se stessimo parlando di cose serie, infatti, parleremmo delle 500 società partecipate dalla Regione, assieme a un nugolo di enti locali. Matteo Renzi disse che le 8000 municipalizzate sarebbero dovute diventare 1000. Sarebbero ancora troppe, ma, comunque, perché il Pd, in Emilia Romagna, non propone di ridurle a 62 (500 diviso 8)? Perché quelle sono rimaste l’unica ragione per votare Pd. Il tessuto del consenso s’è stracciato, come dimostra il deserto elettorale, rimane solo quello della cointeressenza. Finché regge, vincono. Un esempio? Davanti alla stazione di Fidenza si sarebbero dovute realizzare due torri, per appartamenti. Una l’hanno abbandonata, l’altra è finita, ma semi deserta. Operazione a cura del sistema cooperative, in questo caso Unieco. Operazione fallimentare e fallita. Qual è l’unico appiglio di salvataggio? Il fatto che nella torre prendano uffici il comune, le altre cooperative, il sindacato. Soldi buttati per salvare compagni falliti. Ci hanno fatto anche un parcheggio per le biciclette, costato un milione di euro (cosa denunciata da Francesca Gambarini). Una rivisitazione neorealista, affinché i ladri non si concentrino sulle biciclette.

Questo mostro da socialismo insaccato produce appalti, posti, prebende, cointeressenze. Fa da collante a ciò che s’è sfasciato. Ma impoverisce tutti. Prendete le Terme di Salsomaggiore: già solo il palazzo merita il viaggio ed è attrazione turistica, ma, gestite dagli enti locali, falliscono anche quelle. Hanno fatto vasche per ospitare meno di dieci persone. Lo hanno scambiato per il bagno di casa loro. Dice Matteo Richetti, esponente del Pd e sfidante affondato prima delle primarie: la gente non sa perché andare a votare. Correggo: lo sanno solo quelli che ci andranno, i meno, i cointeressati.

A destra ci si interessa del possibile sorpasso di Forza Italia, a opera della Lega. Ma, scusate, è già avvenuto. Guarderemo dentro le urne, ma se in una regione così combinata chi dovrebbe rappresentare l’alternativa non ha da proporre un modello diverso, se non martella notte e dì per lo smantellamento di quelle 500 pepite di clientelismo e inciucismo, ha già perso. Anzi: s’è perso. La Lega agita problemi veri usando parole non sempre risolutive. Farà la strada che merita. Sono gli altri ad essere andati fuori strada. Il che, però, lascia orfano l’elettorato ragionevolmente convinto che il presente si debba cambiarlo senza perdere il senso del tempo e dei tempi. Restano orfani i risparmiatori che hanno messo da parte quel che serve a vivere con sicurezza e non intendono esporlo alle avventure monetarie dei propagandisti. Di vecchio e nuovo conio.

Andranno a votare in pochi perché gli altri non sono desiderati, prima ancora che interessati. Perché se andassero a votare in tanti si dovrebbero per forza fare i conti con la realtà. Mentre i militi del voto assicurano a forze spompate e idee approssimate di potere vivere ancora un poco nella realtà surreale di una politica che discuterà di percentuali, quando l’unico numero che conterà sarà quello assoluto. Dei votanti e dei voti. E perderanno tutti.

Pubblicato da Libero

venerdì 14 novembre 2014

De Benedetti: "Sono fortunato". Marina Berlusconi lo stana: "Salvato grazie ai nostri soldi". Franco Grilli

 

"Matteo Renzi mi ricorda il Fanfani degli anni '50. Non ho mai visto tanta energia in un politico".
Carlo De Benedetti adesso benedice il premier. Dopo averlo criticato in passato, definendolo "furbo" ed etichettando gli 80 euro del bonus Irpef come "spot elettorale", adesso l'Ingegnere lo reputa un "fuoriclasse".
Intervistato dal Corriere della sera in occasione dei suoi 80 anni, il presidente del Gruppo L'Espresso spiega: "Renzi è un fuoriclasse, è molto intelligente. Poi c'è l'empatia. Dicono che Renzi ricordi Craxi, per decisionismo e abilità politica; Craxi però era antipatico. E poi Renzi è una spugna. Di economia non sa molto; ma in un attimo assorbe tutto. È veloce e spregiudicato".
Sul patto del Nazareno, poi dice: "Il premier ha fatto benissimo a stringerlo. E Berlusconi per sopravvivere non poteva fare altro. È innamorato di Renzi e disgustato dal suo partito". Sull'elezione del presidente della Repubblica: "Renzi non lascerà che sia eletto qualcuno che distragga l'attenzione da lui. Ma il Presidente dovrà essere un politico dal grande profilo istituzionale, che conosca a fondo il funzionamento delle Camere".
Ripercorrendo poi la sua vita, De Benedetti afferma: "Compio ottant'anni, sono un uomo fortunato e sono vissuto in un'epoca straordinaria: dalla fabbrica - nel 1958 mio padre fermò il lavoro alla Gilardini per festeggiare Tunìn, il primo operaio arrivato con l'auto anziché in bici - all'economia digitale. Mi sono ammazzato di lavoro, poi a sessant'anni mi è successa una cosa che non credevo possibile: mi sono innamorato, e mi sono risposato. Grazie a mia moglie Silvia ho scoperto un'altra vita. Abbiamo girato il mondo in barca, ho coltivato interessi in campi che già prediligevo: arte, collezioni, musei...".
Le dichiarazioni dell'editore di Repubblica non sono piaciute a Marina Berlusconi. "Tra le tante cose che Carlo De Benedetti dice, con una presunzione e sfrontatezza che non finiscono mai di stupire, nell'odierno tentativo di autocelebrazione sul Corriere della Sera, ce n’è una su cui non si può non essere d’accordo: sì, lui è davvero "un uomo fortunato". Senza quei 500 milioni di euro che una sentenza assurda ci ha costretto a versargli per il Lodo Mondadori, senza quella fortuna piovuta dal cielo su un gruppo con una situazione debitoria decisamente complessa, oggi per De Benedetti ci sarebbe davvero ben poco da festeggiare. Nel leggere l’intervista, fa impressione l’elenco di fallimenti e clamorosi errori che De Benedetti cerca con evidente imbarazzo di giustificare. Nonostante tutto ciò, si permette di pontificare perfino su un business nel quale ha sempre cercato di entrare accumulando un insuccesso dietro l’altro, quello della televisione generalista. Le sue fosche profezie però ci confortano. Sul futuro della tv generalista, un settore nel quale siamo da leader e nel quale resteremo, non abbiamo mai avuto il minimo dubbio. Le sentenze funeree di De Benedetti, famoso per non averne mai azzeccata una, suonano come l’ennesima conferma di quanto fondate siano le nostre certezze", ha dichiarato il presidente di Fininvest.

(il Giornale)
 

martedì 11 novembre 2014

La sapienza giuridica del M5S. Gianni Pardo


Andrea Colletti, deputato del M5S, ha presentato alla Procura della Repubblica di Roma una denuncia per "accertare esistenza e contenuto del Patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi". "Ho chiesto - ha dichiarato Colletti - di verificare se il Patto sia stato effettivamente preordinato a pilotare illegittimamente le riforme in atto nel Paese e a decidere chi nominare come futuro inquilino del Colle".
Antiche nozioni di diritto penale fanno raccogliere una messe di perplessità. Come è noto, l'azione penale non può avere inizio senza la notitia criminis: "È stato ucciso un tale"; "mi hanno rubato la bicicletta"; "quel testamento olografo è falso". Ma, appunto, l'uccisione, il furto, il falso devono esserci. Non si può chiedere al magistrato di accertare se per caso il proprio vicino " abbia ucciso qualcuno", "abbia rubato qualcosa", o " abbia falsificato qualche documento".

L'ordinamento giuridico ha già troppo da fare con i reati denunciati, per andare a cercare se per caso ne siano stati commessi altri. Salvo che nel caso di Berlusconi, questa è la regola. E comunque nella denuncia si usa il verbo "verificare", il quale contiene l'aggettivo "vero". Verificare corrisponde a dire: "A me risulta, sulla base di questi elementi. Accertatevi anche voi di questa verità". E quali sono questi elementi? Gli interessati potrebbero sempre dire che le loro sono state lecite e private discussioni di politica, oggetto poi di ricostruzioni giornalistiche largamente devianti.

Ma ammettiamo che la Procura di Roma, per vincere la noia che deriva da un prolungato ozio, si attivi per vedere se i due gaglioffi intendessero pilotare illegittimamente le riforme e la nomina del futuro inquilino del Colle. Qui il punto giuridico riguarda l'avverbio "illegittimamente". Infatti è lecito cercare di convincere i parlamentari a votare in un certo modo, sia in Parlamento (dove si parla, appunto) sia fuori. È invece illecito minacciarli di morte se non votano in un certo modo. E poiché l'onorevole Colletti precisa che il pilotaggio era da attuare "illegittimamente", se ne deduce che Renzi e Berlusconi intendevano coartare con la violenza la volontà dei parlamentari. Questo è un reato previsto dall'art. 289 del Codice Penale: "È punito con la reclusione da uno a cinque anni [omissis] chiunque commette atti violenti diretti ad impedire [omissis] alle assemblee legislative [omissis] l'esercizio delle loro funzioni".

Colletti non sembra rendersi conto della responsabilità che s'è assunto. Se si denuncia qualcuno senza avere nessun elemento concreto, per la legge ciò corrisponde a denunciare un innocente e a commettere il reato di calunnia. Andando sul concreto, da che cosa gli risulta l'intenzione dei due malfattori di usare violenza o minaccia contro i parlamentari della Repubblica? Che prove ne ha? Per caso pensa che quei due imbecilli abbiano scritto nero su bianco: "Assolderemo dei mafiosi perché vadano a sparare alle gambe dei parlamentari, se non votano secondo la linea da noi stabilita"? E se non ha queste prove, come farà ad evitare la condanna per calunnia?

Per sua sfortuna, questo reato (art. 368 del Codice Penale, reclusione da due a sei anni) non è di evento ma di pericolo. Esso si sostanzia non in un accadimento ma nella possibilità che dalla denuncia nasca un procedimento penale a carico di un innocente. E poco importa che poi questo procedimento penale effettivamente abbia inizio: basta il pericolo. Al posto di Colletti, qualcun altro comincerebbe ad avere problemi di insonnia.

C'è per giunta un particolare saporito. Il denunciante rischia la condanna anche se, putacaso, i due mentecatti ammettessero pubblicamente che intendevano mettere in atto quei propositi criminosi. Infatti il reato tentato non si ha quando si pianifica il delitto ma quando si comincia ad attuarlo. Se qualcuno versa il veleno nel caffè della moglie, e questa non lo beve, si ha tentato omicidio. Ma se il marito comincia a frequentare biblioteche per informarsi sull'efficacia dei vari veleni non si ha tentato omicidio: infatti i suoi sono soltanto "atti preparatori", non punibili. Renzi e Berlusconi dunque non sarebbero punibili neanche se effettivamente risultasse che hanno sognato di intimidire i mille parlamentari della Repubblica. Bisogna dimostrare che hanno cominciato a mettere in atto questo insano proposito. E qui Colletti potrebbe avere qualche difficoltà.

Se in materia di diritto il livello tecnico del M5S è questo, è una vera fortuna che sia all'opposizione e non al governo. Di questo passo potrebbe decidere di mettere in galera tutti quelli il cui cognome comincia per B o per R.

pardonuovo@myblog.it


venerdì 31 ottobre 2014

la Malalingua 178. Dino Cofrancesco





Non c’è nefandezza di cui Matteo Renzi non venga accusato dalla minoranza PD, da molti giornali d’opinione – ad es., il quotidiano della buona borghesia genovese, in questo allineato sul ‘Fatto’, ‘Il Secolo XIX’ – dagli ex notabili DC, dai bravi del Cavaliere. E’ un nuovo Craxi, anzi è un nuovo Berlusconi o, peggio, è un nuovo Mussolini! C’è qualche ex opinion maker che si augura di non dover morire in un’Italia governata da un altro duce. Dico subito che non sono pochi gli errori fatti da Renzi e che condivido in toto le critiche che gli vengono rivolte da Angelo Panebianco, da Luca Ricolfi, da Antonio Polito etc. E, tuttavia, almeno un merito gli va riconosciuto: quando ha detto brutalmente alla Camusso che «le leggi non si fanno convocando le ‘parti sociali’ ma in Parlamento» ha richiamato un principio liberale che nessun altro politico della I della II Repubblica aveva osato ricordare alla Trimurti sindacale. Fine del consociativismo? Sarebbe la vera rivoluzione italiana!

(LSBlog)

 

lunedì 27 ottobre 2014

Il diluvio. Marco Cavallotti

 
 
Sugli eredi del Pci sembra essersi riversato il diluvio universale. Ormai da molti lustri essi erano stati affiancati da pattuglie sempre più vivaci di reduci della Dc e della sinistra cattolica, con i quali avevano dovuto condividere, un po' artatamente, la visione del mondo. Ma ora l'onda di piena costituita da una nuova generazione che è profondamente estranea ai rituali, ai vezzi ed ai luoghi comuni della vecchia “ditta” – per usare un'espressione infelice del buon Bersani – li supera tutti, ignorandone le differenze, scorrendo loro intorno rovinosa e inarrestabile, lasciandone i resti abbarbicati alla tradizione come i vecchi alberi che spuntano, sulla loro isoletta sempre più piccola, in mezzo al fiume in piena.
 
Postcomunisti e cattocomunisti frastornati e balbettanti faticano a comprendere l'improvvisa inattualità delle loro reazioni, la nonchalance dei loro interlocutori di fronte a considerazioni pensose e aggrottate – che solo qualche mese fa avrebbero provocato un arresto dell'attività del governo, la caduta di un ministro, la pubblicazione di preoccupati editoriali –; e si coprono quasi di ridicolo avvolgendosi in un dignitoso bozzolo di incomprensibilità e di incomunicabilità per il grosso pubblico. Le loro parole d'ordine, le reazioni a comando, le manipolazioni retoriche un tempo infallibili hanno perso tutta o quasi la loro efficacia.
 
Sic transit gloria mundi, e così politici che potevano, solo qualche mese fa, apparire alla platea delle pasionarie come desiderabili e quasi mitici modelli di “uomo di sinistra”, un po' intellettualmente estenuati, un po' intelligenti, un po' civili ma inflessibili nelle loro convinzioni sociali, si riducono a balbettare risposte abborracciate, a risfoderare un inventario di luoghi comuni obsoleti – spesso causa storica di tanti guai per il nostro paese –, a capitolare miseramente di fronte alla folla dei giornalisti fattisi audaci e certi di poter dire e chiedere tutto, finalmente. Magari anche aspirando alla medaglia della originalità.
 
Si potrebbe dire che una cultura che per decenni, costruita a pezzo a pezzo e giorno per giorno da mille intellettuali organici, che ha formato l'ossatura del pensare comune nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle mille realtà costruite per incuneare “elementi di socialismo” in una società già di per sé storicamente propensa ad una visione del mondo non liberale, in poco tempo abbia mostrato con imbarazzante evidenza la sua fumosa inconsistenza, la sua inattualità rispetto ai problemi del mondo d'oggi, i guasti provocati, e soprattutto la sua incapacità di mantenere quelle promesse palingenetiche che tanto a lungo avevano riscaldato i cuori dei militanti.
 
Merito di Berlusconi, che – pagando anche di persona – ha aperto la via, e di Renzi, che sta tentando spericolatamente di trasformarla in una autostrada a quattro corsie. Le stesse grandi strutture economiche “parallele” – banche e imprese cooperative, un tempo salvadanaio e bancomat di tutte le amministrazioni “democratiche” – mostrano impudiche i loro piedi d'argilla, con paurosi crolli in borsa. E sono coinvolti perfino santuari un tempo intoccabili, che solo pochi mesi or sono nessuno immaginava che sarebbero stati abbandonati al loro destino dal partito. Nel quale – questa in fondo è la prova più “vera” e più certa – gli equilibri, le prospettive e i gruppi di riferimento con Renzi sembrano davvero cambiati.
 
Non è evidentemente insensato immaginare che sia l'intero sistema politico nazionale a dover fare i conti con se stesso e con il proprio passato, per immaginarsi un futuro più rispondente alla realtà ed ai tempi d'oggi, rivoluzionato dalla globalizzazione.
 
Destra e sinistra, come specchiandosi, sono entrate in una fase nuova, in cui si ripensano, o meglio, dovrebbero ripensarsi. E senza dubbio, in questa prospettive, si pongono i problemi delle “radici”, di ciò che è vitale del proprio passato e di ciò che costituisce solo una zavorra, o addirittura un elemento incompatibile di contrasto. Immaginare che le “radici” sane della sinistra italiana – anzi, le uniche veramente legittime – possano essere ancora una volta costituite dalla mitologia resistenziale, con le sue mezze verità, con i suoi silenzi, con le sue iperboli, con la sua divisività procrastinata nei decenni, ovvero – per dirla sinteticamente con Galli Della Loggia – pensare che a innervare il futuro possa essere «la memoria di papà Cervi», con tutto il rispetto dovuto a quella tragedia familiare, significa aver capito poco del passato, e nulla del futuro. Significa illudersi, con non poca spocchia, che passata la nottata si possano riprendere i modi usati, i soliti rapporti, gli schemi consolidati in decenni di egemonia consociativa. Tutto da capo, ignorando che i personaggi in scena da decenni, nel frattempo, sono diventati mummie. Serve certo “avere una storia”. Ma una “scelta” delle radici che prescinda da un serio esame critico sugli errori e sui guasti del passato – di una vicenda che ha finito per assegnare all'Italia un destino tristemente eccentrico ed eccezionale rispetto a gran parte del resto d'Europa – sarebbe un errore fatale, che finirebbe anche per determinare una analoga confusione fra passato e presente sul fronte opposto. Allora è molto meglio non averne – di storia –, o averne, come Berlusconi, una meno tragica – se non sul piano personale.
 
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venerdì 24 ottobre 2014

Bondage tributario. Davide Giacalone


Dal governo dicono: aboliamo il canone Rai. Bravi. Bravissimi. Applausi. Poi leggi con attenzione: hanno in animo di abolire la tassa per il possesso del televisore, ma introducono un obbligo di finanziamento della Rai, proporzionale al reddito e ai consumi, che grava su tutti i contribuenti, anche quelli che non possiedono il televisore. Meno bravi. Molto meno. Vabbe’, non lo aboliscono, ma lo riducono, facendolo passare dagli attuali 113.50 euro a una somma variabile fra 35 e 80 euro. Bravini. Però poi ci ragioni e ti accorgi che no, alla fine il prelievo fiscale aumenterà. E non solo perché sarà più facile colpire l’evasione, ma anche perché sarà lecito colpire le persone oneste. Che non è una bella cosa.

Come al solito, ci tocca ragionare sugli annunci. Costantemente divisi dai testi di legge da un congruo lasso di tempo. Questa volta l’attesa dovrebbe essere breve, dato che siamo alla fine di ottobre e sono prossimi alla stampa i bollettini da inviare agli italiani, in partenza a gennaio. Quei bollettini dovrebbero sparire e il corrispettivo dovrebbe essere pagato con il modello F24. Qui comincia la nebbia, perché dal governo dicono che ciascuna “famiglia” pagherà in ragione del reddito e dei consumi. Ma le famiglie non compilano dichiarazioni dei redditi e non pagano modelli F24, quelli sono i singoli contribuenti. Chi e come calcola il reddito e i consumi familiari? Ancora prima: cos’è una famiglia? Domanda pertinente, perché oggi la Rai non considera “famiglia” neanche marito e moglie, ove risiedano in case diverse, arrogandosi, una televisione di Stato, il diritto di stabilire che non basta un canone, ma ne devono pagare due. Una famiglia, due canoni. Del resto, pensate a tutte le unioni di fatto, etero od omosessuali: in attesa che si concluda l’ozioso dibattito su matrimoni, equiparazioni e diversità, fin qui era chiaro che se sto a casa mia (proprietà o affitto, non cambia) e pago il canone, ove ospiti, a scopo di lussuria o conversazione, un altro individuo, del mio sesso o di sesso diverso, quell’altro non è tenuto al pagamento del canone. Con la novità, invece, paghiamo tutti: quattro conviventi, quattro canoni.

Con la novità, del resto, paga il canone anche la badante del nonno. E’ stata assunta per assisterlo e conviverci, già oggi la Rai le manda il bollettino, trattandola da evasore senza che minimamente lo sia, ma domani non riceverà la missiva, non avrà casa propria, non possiederà un televisore, ma dovrà pagare. Diciamo che le stiamo fornendo una ragione in più per sposare il nonno. Sperando che il vegliardo sia ancora nelle condizioni di accorgersene e usufruirne, ma mettendo in conto che, in quel modo, ella s’appropria di una parte dell’eredità.

Tirate le somme, si raggiunge una vetta d’illogicità ideologica: dopo avere sostenuto la bischerata che se pagassimo tutti pagheremmo meno, si realizza un sistema nel quale paghiamo tutti, paghiamo meno, ma ci costa di più. Segnalo la cosa perché, se riescono a farla, è degna dei manuali sulle perversioni fiscali. Una specie di bondage tributario.

Chiudo segnalando il reiterato imbroglio, dato che la Rai, nel succedersi di vertici politici, tecnici, professorali, al di sopra e al di sotto delle parti, continua a ripetere sempre la stessa solfa: il canone italiano è fra i più bassi d’Europa. E’ falso. Quel gettito copre il 50% del finanziamento Rai, ed essendo l’altra metà procurata da introiti pubblicitari, facilissimi da raggiungere perché con spazi illimitati, venduti anche a prezzi stracciati, in reti rette da soldi pubblici, ne deriva che ciò che lo Stato, con le sue leggi, garantisce alla Rai è il doppio del canone. Che, a quel punto, non è proprio per niente fra i più bassi d’Europa, ma il più alto.

Si obietta: molti lo evadono. Sono dei cattivoni, perché non si evade. Ma hanno ragione, perché è un prelievo iniquo e insensato. Apposta sostengo che va abolito, cancellato, incenerito. Non camuffato e illegittimamente travestito da imposta progressiva sui redditi, quale con questa riforma diviene. E la Rai, come fa a campare? Vende, si ridimensiona. Magari prova anche a fare il servizio pubblico, sempre che si trovi qualcuno in grado di stabilire cosa sia.

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martedì 14 ottobre 2014

Il vero problema di Matteo Renzi. Lorenzo Matteoli




Si comincia oggi a capire il vero problema di Matteo Renzi e del suo Governo. Non basta “rottamare” una ventina di dinosauri del veterocomunismo reazionario e di casta per far ripartire l’Italia, far rinascere il PD e riscoprire la vocazione di una vera “sinistra” di progresso e movimento. Il problema è molto più serio e la malattia molto più grave, forse letale e irreversibile. Non sono solo i pochi vertici PD sopravvissuti alla dissoluzione del PCI che vanno rottamati: è la cultura di una intera classe dirigente infarcita di sedicente sinistrismo reazionario e conservatore e solidamente insediata al potere che deve essere mandata al macero. Sono gli errori commessi in quaranta anni di ideologismo conforme che hanno spostato la vera sinistra su posizioni di gretta conservazione, che devono essere denunciati, superati e corretti.

Molti di questi errori, per essere corretti, richiederanno investimenti per migliaia di miliardi di Euro su strategie generazionali. La sinistra che per venti anni ha creduto di essere tale solo perché “contro Berlusconi” si è lasciata soffocare in una involuzione ideologica mortale, drogata al punto da non saper più riconoscere gli scopi, gli obbiettivi, le strategie, l’azione macroeconomica, l’azione sociale, il quadro culturale fondamentale che avrebbe dovuto informare una politica socialmente aperta e avanzata, moderna, attuale, laica e libera da viscosità ideologiche nuove e antiche. Questa pseudo sinistra così accecata, anzi proprio utilizzando il sonno della ragione, ha occupato gli spazi di potere consentiti dalla consociazione con la Democrazia Cristiana e anche quelli non consentiti, ma da quella abbandonati per insipienza e incapacità concettuale.

Il padre di tutti gli errori è stato l’appiattimento sulla magistratura politicizzata: il PCI fin dalla fondazione di Magistratura Democratica ha cessato di elaborare concettualmente la sua politica facendosi sostituire dalla interpretazione politica della Costituzione e della Legge imposta da MD. Nel giro di pochi anni MD è diventata di fatto un super-partito con poteri che andavano ben oltre il mandato istituzionale di applicazione delle leggi e amministrazione della Giustizia. La Magistratura, nei fatti subalterna all’attivismo prepotente di MD, è diventata un organo di controllo dell’azione dei partiti e del Governo acquisendo un potere così forte e consolidato al quale oggi non intende rinunciare che continua a provocare danni costosissimi e che costituisce una aggressione insopportabile alla libertà della nostra democrazia malata. Una aggressione che la politica debole e subalterna non riesce a controllare. Il secondo errore strategico è stata l’isterica concentrazione sulla demonizzazione di Berlusconi come se questa fosse l’unica responsabilità di una opposizione politica di sinistra: venti anni di accanimento antiberlusconiano e di assoluta colpevole inerzia politica.

Terzo errore l’appiattimento sull’ambientalismo cialtrone e fanatico. Per catturare il voto viscerale di protesta ambientale si sono commessi errori mostruosi: il referendum sull’acqua, la condanna assurda ingiustificata e costosissima dei termovalorizzatori (migliaia di tonnellate di rifiuti mandati settimanalmente in Olanda via nave a costi insostenibili), la condanna assurda, ingiustificata e basata su sistematiche falsificazioni degli OGM, la posizione ambigua e ondivaga sulla TAV e sulle altre grandi opere di infrastruttura aggredite dal verdismo fanatico che è diventato la “marca” della pseudo-sinistra ambientale. Esempio tragico: la incentivazione forzosa puramente ideologica del fotovoltaico e dell’eolico elettrico voluta da Bersani per ignoranza energetica e subalternità al verdismo grezzo e strumentale: il costo di questo errore è di circa 40 miliardi di Euro all’anno a carico dei piccoli consumatori e della piccola media industria.

Correggere questo errore richiederà strategie generazionali (20 anni?) e investimenti per migliaia di miliardi. Forse l’unica possibile soluzione l’auto privata elettrica (qualche milione di veicoli, 25 anni, il 50% del debito pubblico attuale) capace di assorbire in via prioritaria la produzione fotovoltaica che oggi sta massacrando la redditività delle centrali turbogas. Un progetto complesso e tutto da inventare, non certo da Bersani & C. Dietro a tutti questi errori o alla loro base sta una “finta cultura di sinistra”, stucchevole, mediatica, superficiale, modaiola, da talk show, ma prepotente, arrogante, demagogica e imbattibile. Un pesante mainstream conforme e autoreferenziale. Altro esempio emblematico: le reazioni a qualunque proposta di revisione della Costituzione. È un fatto noto, consolidato e riconosciuto che la nostra Costituzione, nata in circostanze storiche particolari, oggi prive di attuale sostanza, necessita di aggiornamenti e revisioni. Devono essere riscritti i poteri del Presidente della Repubblica e quelli del Governo e del Capo del Governo, devono essere ridefiniti gli equilibri tra i diversi poteri dello Stato, deve essere ridefinito il processo legislativo e gli organi preposti, vanno riveduti i poteri e le autonomie delle Regioni: non sono cose di poco conto e sono proprio quelle responsabili di inefficienza amministrativa e di governo oltre che degli enormi costi della macchina legislativa e di conduzione del paese.

La cultura della sedicente sinistra purtroppo dominante per l’assenza di una opposizione “liberal”, e per la pochezza della opposizione di centro destra, è riuscita a fare in modo che chiunque sostenga queste, che sono banali e urgenti necessità, venga marcato come nemico della democrazia e pericoloso liberticida. Il successo mediatico di battute sciocche come quella della “Costituzione più bella del mondo” (Benigni), le arroganti affermazioni e diktat come “La Costituzione non si tocca” (Bersani, Rodotà, Zagrebelski) degli immancabili firmatori di manifesti da salotto, sono state assunte e sono diventate il mantra di una “finta sinistra” che non si rende nemmeno conto di essere oramai dalla parte della conservazione più gretta e della tutela ad oltranza di uno status quo immobile e mortale. Ho ricordato solo pochi punti per descrivere il vero, immane, problema di Renzi: rifondare la cultura del Paese non solo quella politica. Denunciare i pregiudizi le posizioni di casta e di potere che hanno soffocato la cultura laica, “liberal”, progressista per fare spazio a un mostro culturale reazionario e conservatore che si qualifica abusivamente di “sinistra” e che ha occupato enormi spazi di potere nella Magistratura, nella Scuola, nella Università, e nell’informazione. Da solo è difficile che ce la faccia, è urgente e indispensabile una mobilitazione della piccola borghesia italiana: l’unica classe che ha fatto con tenacia, sacrificio e pazienza tutte le grandi rivoluzioni della storia. Quelle vere. Questa è la priorità più importante di quella economica: infatti si può con certezza escludere qualunque possibilità di rinascita e rilancio dell’economia Italiana se non viene sciolto il pesante bubbone culturale della finta sinistra di reazione e potere che ancora domina la nostra Società, i nostri giornali e gli insopportabili talk show della più vergognosa demagogia.

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venerdì 10 ottobre 2014

Le Camere messe da parte. Antonio Polito




Corriere della Sera - Da molti punti di vista, quello di Renzi è un governo extra-parlamentare; forse il primo di una nuova era. Non solo perché il premier non siede in nessuna delle due Camere: c’era già il precedente di Ciampi, anche se gestito con altro stile. Ma per motivi più di merito.
Si moltiplicano infatti i luoghi di decisione politica esterna che il Parlamento non può rimettere in discussione: il Patto del Nazareno, un discorso nella Direzione del Pd, un incontro estivo con Draghi. La stessa ratifica parlamentare si fa al contempo obbligata (con la fiducia) e vaga (con la delega), trasferendo sempre più il potere legislativo all’esecutivo: come è avvenuto sulla riforma dell’articolo 18, di cui nei testi votati non c’è niente, e tutto resta affidato alla tradizione orale e agli impegni verbali.
 
Il parlamentare è ormai un’anima morta, legata al leader da un ferreo vincolo di mandato; il che, come in ogni servitù, lo induce alla rancorosa vendetta ogni volta che può agire in segreto, ad esempio col triste spettacolo della mancata elezione dei giudici della Consulta. In alternativa, se non è d’accordo, può solo disertare dal suo mandato (assentandosi o dimettendosi).
 
La stessa definizione di presidente del Consiglio non si addice più a Renzi, il quale pur essendo primus non è certamente più inter pares tra i suoi ministri, come testimoniato dalla performance di Giuliano Poletti sulla riforma del mercato del lavoro. Pur senza nostalgie per il regime parlamentare uscente, davvero impossibili, bisogna riconoscere che qui siamo oltre. È come se avessimo sostituito a vent’anni di mancate riforme istituzionali la biografia e la personalità di un leader di quarant’anni: una riforma costituzionale incarnata, in personam invece che ad personam.
 
Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non può sopravvivere a periodi troppo lunghi di paralisi. A Bersani e D’Alema che protestano per l’andazzo odierno andrebbe risposto che ne sono in buona parte responsabili. Però non è detto che la nuova costituzione materiale che si sta delineando sia l’unica forma di post-democrazia possibile.
 
Non è vero che funziona così ovunque. Perfino in un regime presidenziale come quello statunitense i parlamentari hanno un incomparabile potere di condizionare le scelte dell’esecutivo. Perfino a Westminster le ribellioni in Aula sono all’ordine del giorno. Perfino in Germania la Merkel ha dovuto spesso ricorrere ai voti dell’opposizione per resistere alle defezioni interne della sua maggioranza. Istituti come la sfiducia costruttiva, sistemi elettorali basati sul collegio uninominale, o anche un presidenzialismo dotato di check and balances, consentono di avere insieme governi autorevoli e Parlamenti liberi.
 
Sarebbe il caso di pensarci per tempo. Perché democrazia è certamente decisione, ma è anche e soprattutto potere di controllare il potere. Ogni giorno, e non solo una volta ogni cinque anni.
 
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giovedì 25 settembre 2014

Il 25 per cento del Pd spiegato a Bersani (se serve anche con i disegnini). Claudio Cerasa



Il Foglio - Prima o poi qualcuno dovrà spiegare a Pier Luigi Bersani che non ci fa una grande figura a dire a Matteo Renzi ehi bimbo, devi portare rispetto alla vecchia ditta perché se tu fai tanto il ganzo in America con Bill Clinton e gli amici suoi il merito è del mio 25 per cento che ho conquistato lo scorso anno e senza il quale oggi non saresti a Palazzo Chigi con i tuoi amici toscani.
Senza volerci dilungare troppo qualcuno che vuole bene a Bersani dovrebbe spiegare all’ex segretario che rivendicare con orgoglio di aver preso il 25 per cento alle ultime politiche, 8,6 milioni di voti ottenuti, 4 milioni di voti persi rispetto al 2008, circa lo stesso numero di elettori raccolti dal Pds nel 1996 (7 milioni e 800 mila), 3 milioni di elettori in meno rispetto a quelli conquistati un anno dopo dal suo successore alla guida del Pd alle europee, fare tutto questo significa non aver capito quasi nulla su ciò che è successo, a sinistra, il 25 febbraio del 2013.

Proviamo a riepilogarlo: il capo di una coalizione che avrebbe dovuto stravincere le elezioni smacchiando senza difficoltà il giaguaro è riuscito nella non facile impresa di far arrivare il principale partito della sinistra al livello più basso della sua storia recente (peggior risultato dal 1963), regalando un’autostrada a un partito guidato da un buffone travestito da giustiziere e costringendo il suo partito, che avrebbe dovuto vincere agevolmente le elezioni, ad allearsi con lo stesso giaguaro che avrebbe dovuto essere smacchiato. Verrebbe da sorridere se la questione non fosse invece terribilmente seria. Non c’è nulla di peggio, per un leader come Renzi che tende ad accentrare il potere decisionale delle sue politiche di governo, che avere a fianco dei leader di minoranza interna che non capiscono che il modo migliore per ripetere il capolavoro del 25 febbraio è quello di non prendere coscienza di un fatto elementare che potremmo sintetizzare utilizzando poche parole: alle ultime elezioni abbiamo ottenuto più voti rispetto ai nostri avversari ma ne abbiamo ottenuti così tanti in meno rispetto a quelli che avremo dovuto ottenere (per via della nostra clamorosa mancanza di identità e per via della nostra propensione a delegare a qualcuno esterno al partito il compito di rappresentare i vari strati della società) che l’unico modo corretto per ricordare quell’esperienza elettorale è inquadrarla sotto un’unica voce: un fallimento.

Nel dibattito finora molto ideologico sulla riforma del lavoro bisogna dire che la parte più sindacalizzata del vecchio Pd a vocazione bersaniana sta mostrando di non aver capito la lezione del 25 febbraio: accusare il segretario del Pd di essere un inguaribile liberista, “di destra”, che non ha altro interesse se non quello di umiliare i sindacati è un discorso che si tiene solo ragionando con vecchie e arrugginite categorie del passato – quelle di chi per molto tempo ha pensato che per la sinistra la parola “lavoro” dovesse coincidere necessariamente con la parola “sindacato” (in questo senso chiedete per credere a Pier Luigi Bersani quanti sono i sindacalisti ex Cgil che ha scelto di piazzare in commissione lavoro nel momento in cui è nata la legislatura – vi diamo un aiuto: 11 su 24). Ed è un discorso, poi, che mostra tutti i limiti di una sinistra incatenata che prova – disperatamente – a cercare un nuovo collante culturale senza però trovare niente di meglio da fare che utilizzare una formula che non ha mai portato bene ai progressisti: dipingere il proprio avversario come se fosse un nemico giurato o, peggio, un inguaribile corpo estraneo, ovviamente da eliminare al più presto. Difficilmente la minoranza del Pd riuscirà a ottenere qualcosa da Renzi sul dossier della riforma del lavoro (il 29 settembre la direzione del Pd voterà a favore della proposta del governo, poi il testo andrà in Aula e non saranno molti i parlamentari democratici disposti ad andare contro il voto della direzione del partito) ma la partita sul Jobs act, più che sui contenuti relativi ai provvedimenti parlamentari, per la minoranza del Pd sarà utile da seguire per capire come si andrà a strutturare l’alternativa al renzismo nel Pd.

Le strade sono due: costruire una sinistra a vocazione non vendoliana e alternativa al grillismo capace di considerare il 25 per cento come il punto più basso della propria storia politica, o andare all’inseguimento di Renzi scopiazzando le idee di Grillo e Rodotà. Dire che la sinistra che ha perso le primarie non deve in nessun modo pensare di influenzare l’agenda a chi le ha vinte è un po’ da arroganti. Dire invece che la sinistra che ha perso le elezioni non deve avere la spocchia di fischiettare di fronte ai 4 milioni di voti persi un anno e mezzo fa è invece il modo migliore per permettere alla stessa sinistra di avere un proprio futuro: anche a prescindere poi da quale sarà il destino di Renzi e dei suoi amici toscani.

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Il pil degli agnelli. Davide Giacalone



Dicono sia difficile che gli agnelli s’entusiasmino per la pasqua. Beati loro, perché da noi ci sono quelli che si rallegrano per la rivalutazione del prodotto interno lordo, indotto dai nuovi criteri (Sec 2010) e comprendente varie attività criminali. Osservate la soddisfazione con cui si dice che migliora il deficit e riflettete su quanto si debbano invidiare i giovani ovini diffidenti.

Avevamo già avvertito (fine agosto) sui rischi di quel riconteggio. Che non riguardano i numeri, ma il modo in cui li si legge. Fummo facili profeti: quelli che parlano di diminuzione della pressione fiscale sul pil, che negli ultimi tre anni sarebbe di 0.9, 0.8 e 0.5%, meriterebbero un ricovero urgente. Il maggiore pil non porta un solo centesimo aggiuntivo di gettito fiscale, perché o si tratta di cose già diversamente contate (come la ricerca o gli investimenti militari), oppure di cose che fanno marameo al fisco.

Siccome, però, l’aumento del pil porta un aumento dei contributi all’Unione europea, a essere precisi la pressione fiscale, per quanti pagano, aumenta. Già, ma diminuisce il deficit, quindi, evviva, siamo sotto il 3%! Manco per idea, perché ha un senso calcolare la percentuale di deficit (o di debito) rispetto al pil solo per misurare la sostenibilità fiscale del relativo costo. Se metti nel conto quel che non paga ti prendi in giro per i fatti tuoi. E ti prendi in giro anche sul crimine: 300 milioni di contrabbando di sigarette si fanno al confine est dell’Italia, mentre le stime fissano a quel livello il totale nazionale. Dite che da Napoli è sparito?

Fin qui, lo avevamo detto. Ma la cosa che non avevo immaginato, e che trovo drammaticamente spassosa, è che i nostri fratelli tedeschi si dimostrano assai più furbi, non pubblicando i criteri con cui stimano l’economia nera e la sottovalutano alla grande. Così ottengono di far crescere il loro pil più di quello altrui, in termini assoluti, ma meno in termini relativi, con il risultato di diminuire il distacco (con tutte le polemiche che quello comporta) e diminuire il peso percentuale dei loro contributi all’Ue. Noi dovremmo credere che il Paese in cui si può fare tutto in contante è anche quello che ha meno nero? Signori, siamo al capolavoro: farsi battere da un teutonico in organizzazione e disciplina, ci sta, ma farsi battere in estro e gioco delle tre carte, è un oltraggio.

I fratelli francesi, invece, adesso hanno due pil: uno per tenere i conti veri e l’altro per darlo alle autorità europee. Perché va bene fare finta di avere più ricchezza utilizzabile di quella fiscalizzabile, ma non è saggio raggirarsi da sé soli. Sicché tengono due conti.

Nell’ovile italico si festeggia: sfangati i conti di fine anno, senza manovre aggiuntive. Primo, aspettate a dirlo. Secondo, l’impegno era a star sotto il 2.6 non il 3%. Terzo, a parte le percentuali immaginarie, sarà bene ricordare che il debito pubblico ha continuato a crescere e, con il fiscal compact, l’impegno di rientro riguarda un ventesimo annuo del tutto. Quello è il muro verso cui si corre. Credo (spero proprio di no) di aver capito la ricetta governativa: prima dello schianto ci diamo malati. Diciamo che c’è la recessione, quindi non si può fare la cura e ci serve l’elasticità, già prevista dal trattato. Peccato che si sia rimasti i soli in recessione, quindi con colpe nostre e non solo congiunturali. E peccato che il nostro pil ricalcolato guadagni (insignificanti) posizioni rispetto a quello dei tedeschi. Con gli agnelli che si danno il cinque: e vai, che ora è pasqua.

www.davidegiacalone.it

@DavideGiac

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La lezione del Corrierone. Michele Marsonet


C’è qualcosa di vagamente inquietante nell’editoriale che Ferruccio de Bortoli ha pubblicato sulla prima pagina del “Corriere della Sera” il 24 settembre. Il direttore – peraltro in scadenza – del quotidiano milanese ha attaccato con violenza Renzi e il suo governo, ma il pezzo è diviso in due parti.
La prima contiene critiche e considerazioni che sono in buona parte condivisibili. Anche se la popolarità dell’ex sindaco di Firenze sembra ancora alta, siamo tutti un po’ stufi del suo stile e del modo in cui gestisce il potere. Un modo solitario e sin troppo irruente, punteggiato da continui annunci e tweet ai quali, poi, non s’accompagnano fatti concreti.

La cerchia dei fedelissimi fa fatica a contenere la fronda sempre più aperta della minoranza PD. Se finora c’è riuscita è perché i capi della suddetta minoranza non sono certo dei giganti della politica. E desta una certa impressione vedere un perdente come Bersani rivendicare dei meriti che non ha. Tralascio il conflitto con i sindacati, e con la CGIL di Susanna Camusso in primis, poiché in quel caso era evidente sin dall’inizio che sarebbe andata così.

Si può concordare con de Bortoli anche quando scrive che “la muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan”, e che “il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso”.

Molti vanno dicendo da tempo le stesse cose, magari con stile diverso e, a volte, ben più crudo. Pure il giovanilismo del premier si sta dimostrando assai meno efficace di quanto promesso. Non è che Mogherini e Madia – per citare solo due esempi – abbiano fornito prove brillanti, a riprova del fatto che la giovane età, di per sé, non è affatto garanzia di bravura ed efficienza. E fin qui nulla di strano.

Nella seconda parte dell’editoriale, tuttavia, il direttore del “Corriere” calca la mano con alcune frasi oscure, riferite soprattutto al patto del Nazareno. Secondo l’autore tale patto finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, e ne consegue l’opportunità di conoscerne i dettagli per sciogliere ogni sospetto ed eliminare “uno stantio odore di massoneria”.

A sorpresa, però, de Bortoli conclude il pezzo augurando a Renzi di farcela e di “correggere in corsa i propri errori”. Ma va ben oltre, sostenendo che il politico toscano “non può fallire perché falliremmo anche noi”. E i nessi di conseguenza logica che fine hanno fatto? Come si giustifica una simile conclusione partendo dalle premesse di cui sopra?

A mio avviso è molto centrata e ben argomentata la risposta di Alessandro Sallusti sul “Giornale” di oggi. Nel notare che la stroncatura dev’essere attribuita, più che alla singola persona, al mondo che il “Corriere” rappresenta e che de Bortoli frequenta, Sallusti afferma che si è messo in moto il solito trenino dei salotti buoni e dei circoli ristretti, i quali includono anche “la sinistra al caviale”. Un mondo che non tollera di essere escluso dalle decisioni importanti e che, d’altro canto, non si perita di appoggiare operazioni che portano al governo persone senza alcun mandato popolare.

Ha quindi ragione, il direttore del “Giornale”, a terminare il suo editoriale scrivendo “da che loggia viene la predica…”. In sostanza, se Renzi deve cadere (ipotesi tutt’altro che fantasiosa), si spera che non avvenga ancora una volta su input di “Corriere” e “Repubblica”, e neppure grazie a un’inchiesta a orologeria di qualche procura.

Vi sono buone ragioni per essere stanchi del suo governo, ma ve ne sono altrettante che inducono a essere stufi di decisioni prese da circoli che non amano mostrarsi in pubblico, anche se non è poi così difficile ricostruirne la composizione.

(LSBlog)