venerdì 30 aprile 2010

Fini ma non troppo. Il Foglio

Nella sua autorevole galleria di buone ragioni culturali, c’è un errore politico che Gianfranco Fini deve evitare di commettere. Consegnarsi all’impazienza, alla foga e sopra tutto al retropensiero di non essere compreso da amici e avversari se non in ragione - espressione sua - di un iperattivismo pubblico e mediatico sempre più compulsavo. Nessuno, a parte i soliti forsennati, nelle attuali condizioni gli negherà il diritto di occupare la presidenza di Montecitorio in omaggio a un merito personale condiviso con la coalizione uscita vincitrice dalle elezioni politiche del 2008. Né certo si vorrà rinunciare al suo prezioso ruolo di collegamento istituzionale con il presidente della Repubblica e con le figure meno faziose dell’opposizione democratica. Diversamente, sarebbe anzitutto il centrodestra a patirne le conseguenze in fatto di incomunicabilità e tensione generalizzata. Ciò detto, Fini dovrebbe ricordare prima di tutto a se stesso che l’indipendenza della propria carica è un bene da salvaguardare con un contegno impersonale e costruttivo. Sicché proprio non giova la sua recente inclinazione a improvvisarsi commesso viaggiatore televisivo in attrito permanente con il centralismo carismatico berlusconiano.

Che vale, infatti, rivendicare autonomia di giudizio e di pensiero se poi questa dote viene dissipata sbrigativamente nel cortile rissoso delle correnti interne al Popolo della libertà, o peggio ancora nel duello mal dichiarato con l’antipatizzante direttore del Giornale? Si sta insinuando nel comportamento finiano una frettolosa agitazione incompatibile con certe sue promesse cui vogliamo continuare a credere: non vuole scavare nel Pdl una galleria sotterranea per sé e per gli scontenti pronti alla diserzione; non intende sabotare un naviglio che fino a ieri sembrava destinato a copilotare nel mare aperto dei successi elettorali; non inquinerà il proprio diritto alla differenza d’opinione con il raggruppamento di nuovi colonnelli senza truppe. Ecco, se le cose stanno ancora così, Fini si calmi e magari imponga a se stesso ciò che ha appena inflitto ai suoi pensatori di FareFuturo: silenzio meditativo per almeno sette giorni. Sennò, a forza di controcanti, si guasta la voce.

Il telefono senza fili. Fantacronaca climatica. Carlo Stagnaro

Annunciata l’istituzione di un “telefono rosso” sul clima tra Europa e Cina. Provo a immaginare la tipica telefonata rossa tra Connie Hedegaard, commissaria europea per il cambiamento climatico, e Xie Zhenhua, capo negoziatore cinese sul clima e vicepresidente della commissione sviluppo e riforme.

Connie: Pronto Xie?
Xie: Pronto Connie. Come stai?
Connie: Qui a Bruxelles non smette di piovere e fa un freddo cane. Comunque abbiamo un nuovo rapporto che dimostra che questo è l’inverno più caldo degli ultimi centomila anni, il clima si è ormai tropicalizzato.
Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì, lo penso anch’io.
Connie: Il nostro rapporto dimostra che la colpa è anche delle vostre emissioni.
Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì, giovedì.
Connie: Come scusa?
Xie: Eh? Ah scusa, mi ero distratto un attimo. Temo anch’io. Bisogna fare qualcosa.
Connie: Un altro rapporto dimostra che con le fonti verdi creeremo sei miliardi di posti di lavoro, taglieremo i costi energetici del settemila per cento, e vivremo in un mondo ecocompatibile e senza più guerre.
Xie: Sì sì.
(cade la linea) tu… tu… tu…
Connie (ad alta voce): CHE CAZZO E’ SUCCESSO? PERCHE’ NON C’è PIù LUCE? CHIAMATE SUBITO QUEL CAZZO DI CINESE!
(voce fuori campo): SCUSA CONNIE, NON SOFFIA PIù IL VENTO IN NORDEUROPA. MA IL METEO DICE CHE TRA POCO DOVREBBE TORNARE, APPENA ABBIAMO LA CORRENTE RISTABILIAMO LA LINEA.
Connie: Pronto Xie? Scusa, abbiamo avuto un inconveniente tecnico.
Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì… (ad alta voce) CAZZO, HU, MI HAI MANGIATO LA REGINA! (torna normale) Ehm, scusa Connie, una cosa urgente. Dicevi?
Connie (irritata): Dicevo che bisogna fare qualcosa sul clima. Noi taglieremo le nostre emissioni del 99% entro il 2099. E voi?
Xie: Anche noi, figurati.
Connie: Bene. E abbiamo un target intermedio del 50% entro il 2050. E voi?
Xie: Anche noi, come no. (ad alta voce) MERDA, IL PEDONE NO! (normale) Ehm, sì, il 50%, sicuramente.
Connie: Il primo irrinunciabile target deve essere però del 20% entro il 2020. Firmate l’accordo?
Xie: Connie, lo sai, lo penso anch’io, dobbiamo farlo, fosse per me anche subito… Ma in questo momento non posso impegnarmi formalmente, sai, devo vedere Hu e Wen la settimana prossima, abbiamo una riunione e la riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020 è proprio il primo punto all’ordine del giorno. Intanto però voi andate avanti, che poi noi vi seguiamo.
Connie: Bene, allora do subito l’annuncio a tutto il mondo. A presto. Buona giornata.
Xie: ok ok. Ciao. (ad alta voce) BASTARDO, E ORA CHE SEI SENZA TORRE COSA MUOVI?
- clic –
Connie (ad alta voce): CONVOCATE SUBITO UNA CONFERENZA STAMPA! TITOLO: EUROPA E CINA CONCLUDONO UN TRATTATO PER LA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI. E PERCHè FA COSì FREDDO?
(voce fuori campo): SCUSA CONNIE, è DI NUOVO NUVOLO, MA IL METEO DICE CHE TRA POCO SMETTE DI PIOVERE E TORNA IL SOLE, UN PO’ DI PAZIENZA CHE BASTA UN RAGGIO E I PANNELLI SI METTONO SUBITO A PRODURRE, AVREMO DI NUOVO IL RISCALDAMENTO. GUARDA COMUNQUE CHE NELL’ARMADIO C’è UNA PELLICCIA BIOLOGICA.
(intanto a Pechino…)
Xie: Questa volta ti è andata bene, ma solo perché dovevo parlare al telfono.
Hu: Chi era?
Xie: Quella tizia europea, quella del clima.
Hu: E che voleva?
Xie: Le solite robe, le ho detto di andare avanti che noi faremo la nostra parte.
Hu: Ah, vabbé. Settimana prossima ricordati la riunione, che dobbiamo parlare del nuovo programma nucleare e di quel progetto di gasdotto.
Xie: Sì sì, non dimenticarti di far scrivere nel comunicato stampa che siamo sensibili al clima eccetera.
Hu: Certo, ho pronta la solita dichiarazione. Tra l’altro hai sentito di quell’altra grande industria italiana che vuole delocalizzare da noi perché da loro l’energia costa troppo? Sai, quella che recentemente ha fottuto anche Obama con le auto elettriche, i camion a gpl, o che cazzo era. Proprio bravi quelli, dovremmo studiare il modello. Noi con gli americani ci abbiamo sempre smenato, ci hanno riempiti di bond che non valgono più un cazzo. Comunque, prima della riunione la rivincita a scacchi?
Xie: Guarda, proprio non ce la faccio. Devo inaugurare la nuova centrale a carbone. (Chicago blog)

Chi dà i voti (e li sbaglia). Massimo Gaggi

«La grande crisi della finanza globale? Il frutto dell’esplosione di un sistema finanziario- ombra cresciuto come un gigantesco party alcolico senza regole» pieno di ragazzi ubriachi «fatti entrare dalle agenzie di "rating" che all’ingresso distribuivano carte d'identità false». Così Paul McCulley di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, descrive le genesi di una tempesta che, nel 2008, ha portato l’intero sistema creditizio mondiale sull’orlo dell’autodistruzione. I colpevoli sono molti, ma un ruolo particolare l’hanno avuto strane creature private con una funzione pubblica: le agenzie che con i loro voti decretano l’affidabilità di un titolo obbligazionario emesso da una società, ma anche dei titoli del debito pubblico di decine di Stati sovrani. Dovevano essere giudici competenti e imparziali e invece hanno promosso (a raffica) e bocciato (quasi mai) sulla base più della loro convenienza privata che di valutazioni oggettive. Due anni fa, concedendo il massimo dei voti alle obbligazioni-salsiccia di moda a Wall Street, hanno aperto la strada verso il disastro. Oggi, con bocciature intempestive del debito di alcuni Paesi europei, rischiamo di rendere ingestibile una crisi che da Atene si sta già propagando fino alla penisola iberica. Bocciature, peraltro, dettate più da una volontà di autoconservazione e dal timore di essere accusati di inerzia che dal cambiamento di dati che erano e sono sotto i loro occhi.

Un downgrading ha senso se l’agenzia, grazie alla sua professionalità, a una superiore capacità d’analisi, capisce in anticipo che la posizione di un Paese si sta deteriorando. Intervenire quando i numeri sono già noti in tutta la loro gravità e il mercato ha già reagito, chiedendo maggiori interessi sui titoli di Stato emessi da Paesi con conti pubblici in disordine, aumenta solo la confusione e rischia di vanificare i tentativi dei governi di correre ai ripari. Un giudizio competente e indipendente sull’affidabilità degli investimenti sicuramente serve, ma si può continuare a lasciare una funzione pubblica tanto delicata nelle mani di società private che le gestiscono in modo così irresponsabile? Non è certo il caso di nazionalizzare questa funzione, ma non conforta di certo vedere le banche centrali o agenzie federali come la Sec (l’istituto che vigila sulla Borsa Usa)—che sicuramente dispongono di professionalità interne e autorevolezza superiori a quelle delle agenzie di «rating»—affidarsi a loro per i giudizi sulla base dei quali vengono selezionati gli investimenti più rilevanti. Certo, lo fanno in base alle regole che i governi si sono dati e che sono rispecchiate anche dagli accordi di Basilea. Forse è ora di prendere atto che non è più possibile tenere in piedi un sistema di «rating » diffusosi a partire dagli anni 70, limitandosi a piccoli correttivi.

Da anni si discute dei conflitti d’interesse che affliggono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, i tre oligopolisti del «rating». All’inizio di questo decennio la legge americana Sarbanes-Oxley ha cercato di regolarli più strettamente dopo lo scandalo Enron i cui titoli venivano ancora giudicati un buon investimento quattro giorni prima della sua bancarotta. Correttivi inutili, vista la facilità con la quale l’aurea «tripla A» è stata concessa ancora nel 2006-2007 a una marea di emissioni di titoli basati su mutui «subprime», ad alto rischio. La Commissione del Congresso Usa che venerdì scorso ha «torchiato» in un’audizione i capi di queste agenzie, accusati di aver anteposto il profitto e il volume del giro d’affari delle loro società al rigore delle analisi, ha accertato che il 93 per cento dei titoli che avevano ricevuto il massimo voto di affidabilità, sono stati declassati a «spazzatura». La gravità della crisi del debito sovrano di un numero crescente di Stati richiede un monitoraggio serio e azioni di stabilizzazione, non l'agitazione di agenzie che sembrano muoversi, ormai, come variabili impazzite. (Corriere della Sera)

giovedì 29 aprile 2010

Torpori e colpe. Francesco Giavazzi

Il re è nudo. Per quattro mesi i governanti europei si sono illusi che bastassero le parole per convincere gli investitori a continuare a sottoscrivere i titoli di Atene. Hanno negato che i trattati europei, o più semplicemente i cittadini tedeschi, avrebbero, alla fine, reso impossibile un salvataggio. Non hanno avuto il coraggio di dare una risposta politica forte alla crisi.

Hanno impedito al Fondo monetario internazionale di intervenire ed organizzare una soluzione ordinata. Le loro bugie hanno fatto perdere quattro mesi, ma non hanno cambiato la realtà: ne hanno solo reso più traumatica la soluzione. Atene non rimborserà i propri debiti anche se un aiuto europeo potrebbe spostare in là il default. Rimane l’incertezza se sia preferibile che ciò avvenga con la Grecia dentro o fuori dall’euro. Perché Atene ha due problemi distinti: uno fiscale e uno di competitività che si manifesta in un disavanzo nei conti esteri pari al 10% del Prodotto interno lordo. Riportare in equilibrio i conti pubblici non basta; occorre anche abbassare i salari del 30% circa. Ciò che non è in dubbio sono invece le perdite delle banche francesi e tedesche che in questi anni hanno acquistato titoli greci per circa 100 miliardi di euro.

Berlino non salverà Atene, ma dovrà salvare (ancora una volta) le sue banche. L’Europa esce a pezzi da questa vicenda, altro che un modello per la governance del mondo! Le difficoltà vere cominciano ora. L’epilogo della crisi greca ha rotto un tabù, l’illusione che nell’Unione monetaria tutti i debiti fossero uguali, i titoli tedeschi e finlandesi identici a quelli greci e portoghesi. Non era colpa della miopia dei mercati, semplicemente del fatto che il maggior acquirente di titoli pubblici europei, la Bce, non ha mai distinto fra i titoli dei diversi Paesi. Così facendo ha illuso gli investitori che, se mai ci fosse stato un problema, qualcuno sarebbe intervenuto. Spezzato l’incantesimo, gli investitori hanno aperto gli occhi. Il declassamento, prima del Portogallo, poi della Spagna, gli spread sui titoli di Stato italiani saliti ieri oltre quota 100 ne sono il segnale.

La preoccupazione più grande, ciò che accomuna questi Paesi, è la mancanza di crescita, perché senza crescita è impossibile ripagare i debiti. Da qui bisogna cominciare. Chiedendosi che cosa si deve fare per far ripartire la crescita. La risposta è semplice: non andare in pensione a 60 anni, non proteggere le rendite di qualche corporazione potente che opprime i cittadini, aprire i mercati alla concorrenza per creare più occasioni di crescita alle imprese. Non mi sembrano le priorità del nostro governo. Chissà che lo spavento greco e il rischio che prima o poi gli investitori perdano fiducia anche nei nostri titoli, non ci aiuti a uscire dal torpore. (Corriere della Sera)

mercoledì 28 aprile 2010

Bocchino ha dato le dimissioni. Ma di Cicchitto. Lodovico Festa

“Cosa c’è oltre il Pd? L’area degli ex rutelliani in sofferenza”.
Dice un titolo di Europa (28 aprile)
C’è chi proprio se le cerca: già essere rutelliano fa soffrire, figurarsi essere un ex rutelliano. Se poi in questo stato ti metti anche a pensare a che cosa c’è “oltre il Pd”, allora sei proprio un masochista.

“Ci sono molti preconcetti su di me, ma non voglio fare la vittima”.
Dice una dichiarazione raccolta dalla Stampa (28 aprile)
Trattasi di personalità anche lei interamente ricostruita: ma non è Fini, è Demi Moore.

“E’ un provvedimento in puro stile sovietico”.
Dice Gian Antonio Stella al Fatto (28 aprile)
Per dire che limitare le intercettazioni selvagge sia una scelta in puro stile sovietico, ci vuole tutta la intelligenza e lucidità di Stella.

“Il mio destino è legato a quello del capogruppo Cicchitto”.
Dice Italo Bocchino alla Stampa (28 aprile)
Contrordine compagni! Bocchino aveva sì dato le dimissioni, ma quelle di Cicchitto. (l'Occidentale)

martedì 27 aprile 2010

L'albero della bugia. Davide Giacalone

Alcuni vandali hanno spogliato l’albero antistante l’abitazione che fu di Giovanni Falcone, a Palermo, ma ben altri, e assai più oltraggiosi, sono gli sfregi che quel servitore dello Stato ha subito. In vita e in morte. Su quell’albero s’erano accumulati messaggi generici, attestazioni di stima tardive, frutti di compiti scolastici, per poi invecchiare nell’indifferenza. Come la garitta blindata dentro cui si trovava la guardia armata incaricata di sorvegliare l’ingresso: monumento all’inutilità, incapace anche d’arrugginire, poi dimenticata lì. A imperitura memoria del fallimento. Chi ha strappato quei fogli è un nessuno che tenta di mettersi in luce, magari agli occhi di un fesso che si sente importante, perché lecca il sedere a uno che bacia i piedi a un altro che fa da cameriere ad un ultimo cretino, che girando armato si sente potente. Ma chi isolò e affondò l’opera di Giovanni Falcone, impedendo poi il lavoro di Paolo Borsellino, non è un nessuno: è una politica che oggi si nasconde.

Falcone fu l’esatto contrario di quel che i procuratori della Repubblica poi divennero, degenerando e, oggi, difendendo quel poco commendevole risultato. Accettò subito il nuovo processo, di tipo accusatorio, mentre gli altri si opponevano in coro. Capì la conseguente e necessaria separazione delle carriere, contro la quale, ancora oggi, a dispetto dell’esempio portato da tutto intero il mondo civile, i suoi avversari d’un tempo si battono. Fu accusatore implacabile e documentato, mai dipendente dalle parole dei pentiti. Non credette mai a nessuno di questi individui, giungendo ad accusarli di calunnia laddove non trovava i riscontri, le prove. L’esatto opposto di quel che accade oggi, con il delirio mandato in mondovisione. Per tutti questi motivi, e altri ancora, fu avversato da quanti vedevano nell’azione giudiziaria una continuazione della politica con altri mezzi. Si trovò contro Luciano Violante, capo della corrente giudiziaria comunista, ed Elena Paciotti, capo della corrente di Magistratura Democratica. E perse, fu sconfitto, isolato, costretto alla fuga.

Gli diedero lezioni d’antimafia, fino all’infamia di descriverlo connivente con i mafiosi, come si permise di fare Leoluca Orlando Cascio. Sono tutti alleati, oggi, i nemici di Falcone, e si trovano tutti nella sinistra. Il che non significa affatto che nella destra ci siano solo persone ammirevoli e coerenti, ma significa che la sinistra deve ancora fare i conti con quelle colpevoli miserie.

Paolo Borsellino era uomo diverso, per cultura, per preferenze politiche, per stile di lavoro, senza che questo, pur con qualche episodio polemico, abbia mai compromesso il legame con Falcone. Morto il quale, quel collega ritenne doveroso prendere in mano l’inchiesta “mafia-appalti”, costruita dai ros dei carabinieri secondo i dettami della tecnica falconiana. Il valore di quell’inchiesta stava tutto in un punto: saper valutare tanti singoli fatti con una visione d’insieme. Che fine fece, l’inchiesta, quando Borsellino fu spedito a raggiungere Falcone? Fu smembrata per competenza territoriale, quindi distrutta.

Se prendete la cronologia di questi fatti e la mettete a fianco di quella relativa alla presunta trattativa fra la mafia e pezzi dello Stato scoprite, senza molta sorpresa, che coincidono. Posto che Falcone e Borsellino erano, già in vita, dei perdenti, e posto che il mondo politico con il quale lavorò Falcone (chiamato al ministero della giustizia da Claudio Martelli, durante il governo di Giulio Andreotti) era stato cancellato, secondo voi, ove mai la mafia stesse trattando, lo faceva con gli sconfitti o con i vincitori? E i vincitori erano quanti avevano isolato e neutralizzato Falcone e Borsellino.

Ci torno, su queste storie archiviate nella menzogna, e lo faccio con tutta la rabbia di cui sono capace, perché viene il voltastomaco a leggere l’indignazione provocata da uno o più mezze seghe che strappano quattro fogli ingialliti, accompagnata dal quasi ventennale depistaggio sul lavoro e sul martirio dell’uomo la cui memoria si finge di tutelare. E lo faccio perché ci sono tanti giovani, a Palermo e in Italia, che magari rivolgono un pensiero affettuoso e riconoscente, a quei due magistrati, ma lo fanno dopo avere bevuto il latte rancido della loro riduzione a icone svuotate, illuminate dai ceri insinceri, accesi da mani mendaci. Abbiamo il dovere, davanti a quei ragazzi, per quello che possono intendere e potranno capire, di non lasciare mai passare nel silenzio l’ennesima offesa a quei due Uomini.

lunedì 26 aprile 2010

"Test d'italiano" per gli immigrati che vogliono aprire un esercizio commerciale. Alberto Mingardi

Ma si può veramente pensare che le Regioni debbano introdurre un "test d'italiano" per gli immigrati che vogliono aprire un esercizio commerciale? Davvero la Lega pensa di consolidare consensi con uscite di questo genere? Per Cesare Pambianchi, presidente della Confcommercio di Roma, quella dell'onorevole Silvana Comaroli è "una proposta ridicola". Ridicola è l'aggettivo giusto.
Riflettiamo un secondo. L'immigrazione crea problemi nella misura in cui è legata a fenomeni criminosi. Il guaio è che ognuno ha gli immigrati che si merita. A Montecarlo non se ne lamentano. Un Paese produttivo e dinamico, nel quale i diritti di proprietà sono severamente garantiti, il crimine non paga, e in cui cultura e istituzioni incentivano l'imprenditorialità, tenderà ad attrarre persone motivate, "rusconi" pronti a impegnarsi in un ambiente severamente competitivo. I cervelli che fuggono, da qualche parte arrivano - e quelli da cui arrivano, son ben contenti che vada così.
Un Paese invece insofferente nei confronti della cultura del mercato, dove uno è tanto più socialmente apprezzato quanto meglio riesce ad "infrattarsi", a trovare rifugio dal gioco concorrenziale grazie a questa o a quella camarilla, e per giunta un Paese in cui la criminalità organizzata è radicata e quella disorganizzata è sovente tollerata, "chiamerà" gente di altra risma. Parliamoci chiaro. É probabile che gli immigrati che vivono bordeggiando la legge siano gli stessi che desiderano aprire una attività commerciale alla luce del sole? Direi di no. Certo, ci può essere il riciclaggio. Se quello però è il caso, gli strumenti legali per perseguire chi delinque ci sono tutti. E vero che Al Capone è stato mandato in galera per evasione fiscale, ma pensare di fermare il candeggio di soldi poco puliti col patentino del congiuntivo sarebbe da neuro. Né crediamo sia questo il tentativo di chi ha proposto questa norma. Che ha solo giocato il più vecchio dei trucchi della politica: facciamo a chi la spara più grossa.
É talmente ovvio che uno si vergogna a scriverlo: gli imprenditori e i commercianti, di norma, non sono accademici della crusca. E va benissimo, perché non è quello il terreno su cui provano il loro valore. Il loro mestiere consiste nell'intercettare i bisogni delle persone, nel servire i consumatori al meglio delle loro capacità. Molto spesso, nel lavorare come dei matti. Il commercio al dettaglio è una attività massacrante, fatta di sveglie all'alba, di magazzini da riordinare, di lotte con i grossisti, di schermaglie infinite con il fisco. Da questi mestieri, spaventati dalla concorrenza della grande distribuzione, gli italiani si ritraggono sempre di più, fanno fatica a stare nei margini, preferiscono lavori più tranquilli e meno incerti.
Gli emigranti devono affrontare le pene dell'inferno per approdare nei nostri porti. A lasciare i Paesi d'origine sono spesso i migliori, quelli che si sentono più forti, quelli che sperano di potercela fare in un luogo che non conoscono, quelli che sanno che le loro competenze e la loro voglia di fare potranno trovare mercato anche lontano da casa. La vita dell'emigrante è fatta di amarezze, di incomprensioni, di fatica. Non è vero che gli elettori della Lega non lo capiscano. Nel loro privato, fra loro sono tantissimi ad avere collaboratori provenienti da altri Paesi, amici con la pelle più scura, badanti che assistono i loro vecchi. Gli elettori della Lega sono più sensibili ai temi della sicurezza, temono che certi sobborghi siano bombe ticchettanti, intuiscono che dire integrazione è una cosa, realizzarla è un'altra. È proprio perché queste questioni sono serie, che fa rabbia la tendenza di parte della dirigenza leghista a buttarle in pulcinellate. Gli immigrati regolari costituiscono un problema? In tutta evidenza, no. Soprattutto: quegli immigrati che non solo sono in regola, ma addirittura vogliono avviare un'attività imprenditoriale, costituiscono un problema? No. E' necessario che sappiano l'italiano? Capperi. Ma un edicolante che non distingue "L'Espresso" dal "Corriere dello Sport" avrebbe vita breve, e così un fruttivendolo che vende pere per carciofi. O impara in fretta, o chiude. La Lega ha anche proposto di "vietare le insegne nelle lingue extracomunitarie", concetto poroso che include, stando a quanto hanno scritto ieri i giornali, arabo e cinese. Né l'una né l'altra sono lingue periferiche nel mondo, ed è probabile che le insegne in arabo e cinese si moltiplicheranno negli anni a venire anche in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, o in via Condotti a Roma. Il turismo arabo e cinese è indubbiamente lucroso, e proprio come il cinese a Milano che impara l'italiano per vendere, così i commercianti da che mondo è mondo s'ingegnano per comunicare coi loro potenziali clienti. Che facciamo, vietiamo le scritte in cinese a tutti, inclusi Prada e Vouitton, o solo a chi il cinese lo ha imparato da bambino?Vogliamo che le Regioni facciano attività di formazione a vantaggio dei nuovi commercianti? Può finire in una mangiatoia della specie peggiore, ma in linea di principio sarebbe una richiesta comprensibile. Sicuramente è pericoloso indebolire l'attività economica e allontanare nuovi imprenditori, di cui abbiamo disperatamente bisogno, per lo sterile esercizio di immaginare la più surreale delle barriere all'entrata. La sbarra abbassata del parlar forbito, come se da un dettagliante quello volessimo, e non merci buone e prezzi bassi. (IBL)

domenica 25 aprile 2010

Liberazione dalla mistificazione. Davide Giacalone

Anziché la storia s’è a lungo raccontata la leggenda, con il risultato che, a sessantacinque anni dal 25 aprile 1945, ancora si può litigare cancellando la realtà. Furono le truppe statunitensi o la Resistenza a liberare l’Italia dal fascismo e dall’occupazione nazista, ponendo fine alla seconda guerra mondiale e consentendo la nascita della Repubblica e l’avvento della democrazia? Questione oziosa ed insulsa, che, però, nasconde un problema di ben più grande rilevanza: è la Resistenza, quindi l’antifascismo italiano, la radice della nostra Costituzione, con ciò significando che la nostra libertà ha natura nazionale, o furono le condizioni internazionali a consentirci da uscire dalla guerra civile entrando nel paradiso delle democrazie occidentali? La mia risposta è questa: la nostra democrazia, la nostra libertà, nascono fra il 4 e l’11 febbraio del 1945, quando ancora si moriva sotto le bombe e per mano di eserciti rivali. Questa risposta non riscrive la nostra storia, ma cancella la leggenda.

La liberazione militare dell’Italia si deve alle truppe statunitensi. Portiamo i nostri giovani a visitare gli immensi cimiteri dove ancora giacciono i loro coetanei americani, giunti qui per combattere il nazifascismo. Il fascismo era caduto prima, ma l’occupazione nazista era feroce e non intenzionata a mollare. A quell’esercito di americani, dove molti erano gli originari italiani, dobbiamo la fine dell’orrore. Un ruolo importantissimo lo ebbe la Resistenza, ovvero l’opposizione armata e belligerante d’italiani che si batterono contro il fascismo. Ma non dobbiamo dimenticare due cose, decisive: a. si trattò di una minoranza, in un Paese dilaniato dalla guerra civile; b. fra i resistenti ve ne furono molti che si batterono e persero la vita sperando di trascinare l’Italia da una dittatura all’altra, dal fascismo al comunismo. I resistenti tutti furono degli eroi, alla loro memoria ancora c’inchiniamo, ma con la loro sola forza staremmo ancora a Piazza Venezia, ad ascoltare Mussolini come i cubani ascoltano Castro.

La falsificazione avvenne immediatamente dopo, quando si chiuse il pozzo di sangue della guerra civile (con molti morti che si devono a vendette che nulla ebbero a che vedere con l’antifascismo). Prese piede una storiografia che puntava a negare che gli italiani fossero stati fascisti, affermando che la Resistenza fu movimento di tutti e che nella Resistenza il ruolo dominante fu svolto dai comunisti. Tre bugie, cui si aggiunse la quarta, determinante: alla Resistenza dobbiamo la Costituzione. Invece no, perché anche i polacchi o gli ungheresi ebbero la resistenza, la rivolta degli uomini liberi contro la dittatura, ma non ebbero né la democrazia né la libertà. La differenza sta nella conferenza di Yalta, terminata, appunto, l’11 febbraio 1945. Qui si divise il mondo, con i vincitori, fra i quali la dittatura sovietica, a dettare le condizioni. Noi siamo stati fortunati, finimmo dalla parte americana. I popoli dell’est Europa furono fra i condannati, finiti dalla parte della dittatura e della fame. La nostra Costituzione fu scritta dai nostri giuristi, l’Assemblea Costituente animata dalle nostre forze politiche, ma nulla di tutto questo sarebbe mai stato possibile se ci fossimo trovati dall’altra parte della cortina di ferro.

Ignorare ciò significa falsificare la storia, costruire sulla bugia e, oltre tutto, offendere quei popoli che non ebbero la nostra fortuna. Nessuno di loro scelse di stare dalla parte dei comunisti, e chi si ribellò a quella sorte dovette vedersela con i carri armati sovietici, sotto i cui cingolati fu massacrata la libertà, e sulla cui torretta gioivano gli stessi politici italiani che, da noi, si millantavano padri della democrazia.

La strage ignorata del ’45: sette fratelli massacrati. Giordano Bruno Guerri

I sette fratelli Cervi, antifascisti convinti e attivi, vennero fucilati dai fascisti nel novembre 1943, al poligono di tiro di Reggio Emilia. I sette fratelli Govoni si interessavano poco o niente di politica, soltanto due erano aderenti alla Repubblica Sociale Italiana. Per di più la guerra era finita quando, nel maggio del 1945, insieme ad altre dieci persone, furono uccisi a freddo da ex partigiani.
La ferocia della vendetta superava quella della guerra. E prosegue, nella dimenticanza, ancora oggi. Provate a fare una semplice ricerca su Internet. Per i fratelli Govoni troverete 12.500 fonti, in gran parte di nostalgici; per i fratelli Cervi ne troverete 121.000, fra cui musei, associazioni, scuole, istituti a loro dedicati.
Se poi andiamo a vedere la storiografia, non c’è libro sul periodo 1943-45 che non si diffonda sui Cervi, mentre i Govoni sono ricordati degnamente in tre volumi: Il triangolo della morte di Giorgio Pisanò (ristampato da Mursia nel 2007), Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa (Sperling & Kupfer, 2003) e Vincitori e vinti di Bruno Vespa (Mondadori, 2005). È facile dedurre la spiegazione di una simile differenza proprio dal titolo di Vespa: la storia la fanno i vincitori, e guai ai vinti.
Fausto Bertinotti, non molti anni fa, ha invece voluto dire qualcosa di diverso: «Come vittime i sette giovani Cervi e i sette giovani Govoni, per me sono uguali; come vittime! La differenza consiste che i primi hanno costruito la Repubblica italiana e perciò vanno onorati non come morti, ma come attori di quel cambiamento. Gli altri non hanno fatto niente, sono vittime, ma non come attori della storia. Ci sarà pure una differenza, o no?». Un discorso che non farebbe una piega, se non suscitasse orrore proprio quell’essere stati uccisi benché non avessero «fatto niente». Forse, la loro colpa fu proprio essere sette, come quegli altri fratelli che dovevano essere onorati con una vendetta a freddo.
Il 10 maggio del 1945 - a Pieve di Cento, non lontano da Campegine, paese dei fratelli Cervi - degli uomini armati bussarono alla porta degli anziani coniugi Govoni, contadini da generazioni, e prelevarono sette dei loro figli; l’ottava si salvò perché, sposata, si era trasferita altrove. Soltanto Dino (41 anni) e Marino (33) avevano aderito alla Rsi, senza peraltro essersi macchiati di delitti o soprusi. C’erano poi Emo (32 anni), Giuseppe, padre di un bambino di tre mesi (30), Augusto e Primo (di 27 e 22 anni). Venne presa anche Ida, che aveva vent’anni e stava allattando un bambino di due mesi. Gli uomini con il mitra dissero che si trattava soltanto di un breve interrogatorio, per raccogliere delle informazioni.
La vecchia madre, anni dopo, chiedeva ancora disperatamente notizie dei figli a un amico degli uomini che li avevano prelevati. Si sentì rispondere: «Cercali con un cane da tartufi».I sette giovani Govoni erano stati buttati in una fossa comune, ad Argelato, insieme ad altre dieci vittime. Quando i cadaveri vennero ritrovati, sei anni dopo, si scoprì che uno solo aveva ferite di arma da fuoco. Portati in un magazzino, tutti erano stati presi a calci, pugni e bastonati per tutta la notte; la mattina dell’11 maggio, sull’orlo di una fossa anticarro, erano stati finiti per strangolamento con un filo del telefono, oppure a colpi di roncole, vanghe e zappe.
Finora ho usato la parola vendetta, ma la vendetta c’entra poco: il progetto politico dei partigiani comunisti era seminare il terrore per continuare ad avere il controllo della situazione, anche a guerra finita, almeno nelle zone più «rosse».
Gli autori dell’eccidio, la «Brigata Paolo» venivano da formazioni partigiane comuniste. Il processo, in seguito si concluse con quattro condanne all’ergastolo: ma i quattro erano già stati messi al sicuro, oltrecortina. Cesare e Caterina Govoni, i due genitori, ricevettero dallo Stato una pensione di 7000 lire, mille lire per ogni figlio. Non mi serve fare il conto del corrispondente in euro dei nostri giorni. Sono dolori che niente può pagare.
Ma, forse, oggi, un rimedio c’è. Si continui a dare il giusto onore ai fratelli Cervi, giustiziati in base a una legge di guerra – un’atroce guerra civile - perché ospitavano in casa soldati stranieri, sbandati o fuggiti dai campi di prigionia. Ma si onori anche la memoria di chi è stato ucciso – senza «avere fatto niente» - per un motivo più abietto: spargere il terrore in tempo di pace. (il Giornale)

sabato 24 aprile 2010

Saviano e Strada gli intoccabili. Paolo Pillitteri

Inutilmente andiamo supplicando una moratoria per alcune parole il cui uso e abuso ci sta affliggendo. Per il bene della politica e, in primis, della nostra lingua, sarebbe salutare che termini come territorio, identità, gente (il terno vinto al lotto dalla Lega) prendessero un anno sabbatico. Anche la parola casta, attribuita essenzialmente ai politici, dovrebbe andare in sonno, apparendo usurata al punto che per dire di uno dei tanti suoi privilegi “intollerabili” si cita (accade a Milano) l’esempio della élite (casta) dei consiglieri comunali - con gettoni irrisori, roba da paria, la casta di infimo livello - che godono del biglietto omaggio a San Siro. E si fanno pure i calcoli sul risparmio di questi omaggi, a livello di mancetta, fingendo d’ignorare che comunque quei biglietti sono omaggiati da un altro gruppo sociale privilegiato che conta davvero, la casta di patron di squadre, sponsor, banchieri, dirigenti da stock option....Sparlare della casta politica è come sparare sulla Croce Rossa. Parliamo invece della categoria degli intoccabili, aggettivo ben s’attaglia ad una (super) casta che non è politica ed eppure la fa, che non siede in parlamento ma è come se vi sedesse, che non è insediata a Palazzo Chigi ma spesso gli spara contro, come e più di un partito d’opposizione. Due nomi a caso: Saviano e Strada. Recentemente al centro di polemiche che hanno mostrato, in tutta la sua geometrica potenza, il peso dell’aggettivo intoccabili, che ben s’addice ai due seppur coraggiosi personaggi. In India, per intoccabili veri e propri si intendono gli appartenenti alle caste inferiori, i paria, appunto, ritenuti impuri (untouchable) perché si cibano di carne. Da noi l’aggettivo ha subito una metamorfosi all’insù, tanto che, sia Saviano (Gomorra) che Strada (Emergency) sono assurti a vette altissime, irraggiungibili, intoccabili. Altro che casta, una casta super. Di Saviano, buon autore mondadoriano - in effetti assai poco prolifico avendo scritto praticamente un unico bestseller, il libro-saggio sulla Camorra da cui l’omonimo film “Gomorra” - non è possibile avanzare una critica, sia di contenuto che di forma, altrimenti si rischia l’accusa di autoritarismo e/o di concorso esterno in associazione camorristica. Non è sempre colpa dei protagonisti, intendiamoci, finire iconizzati in una immaginetta, prigionieri del mito, tanto più che Saviano gira con la scorta da anni.
E tuttavia, il maltrattamento subito da Berlusconi - ben soccorso dalla figlia Marina di Mondadori - che aveva sottolineato come l’enfasi eccessiva su “Gomorra” rischiasse di promuove proprio la camorra (era la stessa tesi di Giovanni Falcone a proposito della “Piovra” sulla mafia), è una clamorosa conferma del teorema dell’intoccabilità. Ogni critica diventa un’offesa, ogni appunto si trasforma in censura. Cosicché, Saviano e i suoi amici possono gridare alla libertà concussa, al diritto di pensiero negato, al regime (berlusconiano) in corso. Il caso di Strada è ancor più emblematico e, se possibile, ancora più politico-ideologico. L’altro giorno un notissimo anchor man ha criticato su un giornale un nostro sottosegretario perché aveva fatto presente che alcune frasi “politiche” di Strada non aiutavano la vicenda dei tre arrestati, poi finita bene grazie soprattutto al nostro ministro degli esteri Franco Frattini, peraltro bistrattato dallo stesso Strada quasi come Karzai (“conta come il due di picche”). Strada, dunque, intoccabile, chi lo critica è subito bacchettato. Come icone ideologichee innalzate su un piedistallo da cui non riescono più a scendere, questi personaggi, ancorché coraggiosi, non trovano, né cercano, la forza di demitizzarsi, non riescono a fuoriuscire dall’aura mistica creatagli intorno dalla militanza antiamericanberlusconiana, nemmeno all’indomani di un’iniziativa decisiva dell’aborrito inquilino di Palazzo Chigi. Eppure, qualche critica, fuori dal coro mediatico, si sente, a proposito di “angoli inquietanti e strane circostanze”. Valga per tutte quella richiamata da un lucido e appassionato Toni Capuozzo (sul Foglio), a proposito dei rapporti dell’Ong Emergency, rimasta comunque in Afghanistan in pieno regime talebano (1999-2000), in una “Kabul da cui erano scappati persino il direttore del museo e dello zoo, in cui si nascondevano persino i cantanti e i fabbricanti di aquiloni”. (l'Opinione)

venerdì 23 aprile 2010

Lo scontro c'è, le idee no. Davide Giacalone

Gianfranco Fini è un professionista della politica, ed è per rispetto a questa sua caratteristica che avevo osservato, prima che altri lo sollecitassero in tal senso, l’incompatibilità fra la presidenza della Camera dei Deputati e il ruolo che ha deciso di svolgere. Non si tratta di un’incompatibilità istituzionale, ma, appunto, politica. Quel ruolo, del resto, non può essere invocato per sottrarsi agli oneri dello scontro con gli avversari e poi ignorato quando si decide d’ingaggiare duello con i compagni di partito.

Nel suo discorso di ieri, Fini ha sollevato questioni reali, accompagnandole, però, con affermazioni generiche, quando non del tutto sbagliate. E’ vero che la nostra crescita economica è più lenta di quella di altri Paesi europei, ed è indubbio che a determinarla concorre la strutturazione della spesa pubblica, largamente improduttiva. Ma è anche vero che fu proprio Alleanza Nazionale, da lui guidata, nella legislatura 2001-2006 a difendere quel tipo di andazzo. Ed è singolare che egli scelga, come argomento polemico nel mentre decide di prendere le distanze dalla Lega, il tema delle pensioni, dimenticando che l’introduzione degli scaloni, colpevolmente cancellati dalla sinistra, porta il nome di Roberto Maroni, allora ministro del lavoro. Ed è paradossale che fra le riforme costituzionali da farsi voglia anche quella del titolo quinto, dove una sciagurata sinistra introdusse un federalismo sgangherato che minaccia di distruggere lo Stato, dimenticando che quella riforma già si fece, con il voto favorevole della Lega, ma fu poi cancellata da un referendum che andò deserto, anche per colpa di chi non combatté a sua difesa. Come è incredibile che voglia ricordare oggi quanto la scuola sia un interesse nazionale e non regionale, visto che questo (come per i trasporti e l’energia) era uno dei contenuti della ricordata riforma, affossata da quella stessa sinistra con cui oggi considera indispensabile dialogare. Quella cui Fini ha dato voce, insomma, è una politica per smemorati.

Senza contare la temeraria puntata sul tema dell’immigrazione. L’attuale legge porta il suo nome, quello di Fini, e non prevede affatto che un immigrato che perda il lavoro divenga per questo clandestino. Dove lo ha letto? Né quell’evento comporta l’allontanamento dei suoi figli da scuola, che sarebbe mostruoso. Al contrario, invece, pretendere di sanare la clandestinità in caso di presenza dei minori significa incentivare la tratta dei bambini. E in quanto ai medici, che a suo dire diverrebbero spie ove segnalassero dei clandestini, gli faccio osservare che già oggi sono tenuti alla denuncia, ma nei confronti dei cittadini italiani: se mi presento senza documenti, chiamano i carabinieri, se mi ritrovo una coltellata nel fianco, fanno denuncia, anche se ho determinate malattie infettive, sono tenuti alla segnalazione. Lo trova sconvolgente? A me sembra normale.

Aveva buone ragioni, Fini, nel rivendicare la libertà di pensiero e di dissenso, ma non ha saputo dare corpo alla richiesta, o l’ha immiserita su questioni assai mal poste. Ciò non toglie il suo diritto di continuare la battaglia intrapresa, come il diritto del Parlamento di non essere oggetto di una contesa interna ad un partito. Al confronto delle idee si deve andare portando delle idee, che ieri sono mancate. Anzi, ha lasciato l’impressione che le idee si cambino come le cravatte, a seconda del colore dell’abito. Le idee presuppongono coerenza, scarseggiando entrambe, nella politica italiana. Ieri, però, non s’è arricchita.

Ragazzi. Jena

Fini conta i suoi voti: «Andiamo ragazzi, e qualcuno porti il pallone...». (la Stampa)

mercoledì 21 aprile 2010

Marrazzo ("il ritorno") e una strana idea di verità. Federico Zamboni

Ecco fatto. Sono bastati sei mesi, e una sentenza della Cassazione che come vedremo si presta agli equivoci, per dare modo a Piero Marrazzo di rialzare la testa, tornando a indossare i panni della vittima. Gli stessi che aveva cercato di vestire subito dopo che si erano diffuse le prime voci sulle sue assidue frequentazioni di prostitute transessuali e che, ben presto, era stato costretto ad abbandonare sotto l’infuriare dello scandalo.

Andiamo a rileggerle, quelle dichiarazioni iniziali che vennero pronunciate col tono indignato di chi non c’entra nulla e si vede coinvolto suo malgrado in una brutta, bruttissima storia alla quale è completamente estraneo. Quelle frasi che cercavano di schivare qualsiasi addebito riconducendo tutto a un’odiosa macchinazione ai suoi danni, approntata allo scopo di costringerlo ad abbandonare il posto di governatore del Lazio. E, soprattutto, a non potersi ricandidare alla guida della Regione, spianando così la strada alla vittoria del centrodestra.

«Mi vogliono colpire alla vigilia delle elezioni. Sono amareggiato e sconcertato per il tentativo di infangare l’uomo per colpire il Presidente. Quel filmato, se davvero esiste, è un falso. È stato sventato un tentativo di estorsione basato su una bufala. Non ho mai pagato, nego di aver mai versato soldi. Bisogna vedere se l'assegno che dimostrerebbe il pagamento l’ho firmato io. Occorrerà attendere l'esito delle perizie calligrafiche». E ancora: «Non ero a conoscenza di questa vicenda, quanto sta accadendo non risponde a verità. Quanto è successo, è un atto di una gravità inaudita, e dimostra che nel nostro paese la lotta politica ha raggiunto livelli di barbarie intollerabili. Ma io non mi dimetto e vado avanti». E infine (“visibilmente emozionato”, sottolineava l’articolista del Corriere della Sera): «Ho una famiglia alla quale tengo più di ogni altra cosa e che voglio preservare con tutte le mie forze. Sul piano politico ho risposto, sul piano umano mi faccio delle domande. Da questo momento, di questo argomento parleranno esclusivamente i miei legali».

Sic.

Com’è andata a finire lo sappiamo tutti. Le indiscrezioni sono diventate certezze, con tanto di nomi e cognomi, ricostruzioni circostanziate e testimonianze a non finire. A quel punto Marrazzo non ha avuto alternative e ha dovuto riconoscere che almeno qualcosa di vero c’era. Eccome se c’era. Gli incontri coi trans si erano svolti realmente e a più riprese. All’insaputa dei famigliari e, innanzitutto, di sua moglie. Sul piano giudiziario gli eventuali reati e le relative responsabilità erano tutte da accertare, ma sotto ogni altro profilo la situazione era obiettivamente insostenibile. L’immagine politica e l’integrità personale erano ormai in frantumi. L’unica cosa che restava da fare era cospargersi il capo di cenere e affidarsi alla clemenza altrui.

Piero Marrazzo lo ha fatto. Espressioni contrite, frasi addolorate, addirittura dei periodi di “ritiro spirituale” presso questa o quella comunità religiosa. L’intero ventaglio – o l’intero repertorio – del pubblico pentimento. Salvo poi, però, non rassegnare subito le dimissioni da presidente della Regione, preferendo invece la via della “auto sospensione”, e salvo conservare ulteriormente la carica di consigliere regionale, continuando a percepire i relativi emolumenti. Un miscuglio di atteggiamenti contraddittori, sul doppio binario della depressione e del calcolo, che sollevava non pochi dubbi sulla sincerità di quel “mea culpa”.

Oggi, all’indomani del pronunciamento della Cassazione che riconosce l’esistenza di un complotto ordito dai carabinieri che lo ricattarono e di cui egli fu «chiaramente vittima predestinata», i dubbi escono rafforzati. Marrazzo prende la palla al balzo e si lancia al contrattacco. «Ho sempre detto la verità», afferma risoluto. E già che c’è annuncia che la sua vita professionale potrebbe ricominciare da un momento all’altro: «Sono pronto a rientrare in Rai, sono a disposizione dell’azienda. Tornerò a fare il mio “vecchio” lavoro nella comunicazione».

Ma il punto chiave è nella prima parte. È in quel categorico, e fin troppo orgoglioso, «Ho sempre detto la verità». Che probabilmente si riferisce solo alla questione del ricatto organizzato dai carabinieri infedeli, ma che formulato in questi termini così sommari si espande a dismisura. Fino a suggerire l’idea che il povero Marrazzo sia un esempio di lealtà e che non abbia alcuna colpa in tutto quello che gli è successo. Guarda caso, era la versione iniziale. Guarda caso, è la versione sbagliata. www.ilribelle.com

Il razzismo radical chic è come Gomorra. Marcello Veneziani

Egregio Adriano Sofri, ho letto il suo editoriale di ieri su la Repubblica e mi ha sorpreso la violenza verbale nei confronti di Berlusconi. Lo definisce lupo spelacchiato, lo accusa di non pensare, gli attribuisce una visione cosmetica del mondo, lo tira per i capelli, gioca perfino tra lezioni e lozioni. E gli contrappone, in un corpo a corpo che ricorda gli anni di piombo, l’immagine e la persona di Saviano, l’autore di Gomorra. Giochino facile e un po’ demagogico, lievemente fascista - e glielo dice uno che di fascismo se ne intende - perché oppone la gagliarda giovinezza del «lupacchiotto» Saviano all’età grave e assai provata del «lupo spelacchiato» Silvio. Fu Pasolini - ricorda? - a vedere in lei e in Lotta continua di cui lei era leader, qualcosa che gli ricordava il primo squadrismo.
Curiosamente lei adotta a rovescio la stessa distinzione manichea usata da Berlusconi nel dividere le forze del Bene dalle forze del Male, opponendo, in una forma di implicito razzismo, l’antropologia di Saviano all’antropologia, anzi all’antropofagia, di Berlusconi. Deprecabile manicheismo in ambo i casi, con l’attenuante per Berlusconi che lo ha usato nella guerra politica ed elettorale, mentre lei, Sofri, è un fine intellettuale e lo usa in tempo di pace, fuori dalle urne. Il tema è noto. Berlusconi ha criticato - com’è suo diritto e lo ha ben ricordato la figlia Marina - la riduzione del nostro Paese alla criminalità organizzata; è un’immagine falsa che nuoce all’Italia. La malavita è una delle facce dell’Italia, ma non si identifica con l’Italia. E invece da qualche tempo si tende a vendere, soprattutto fuori d’Italia, l’immagine di un Paese dominato, anzi diciamo pure, governato dalla malavita. Salvo una minoranza di antitaliani puri, puliti e pensanti.
Prima che lo dicesse Berlusconi, in un mio libro di un anno fa avevo criticato anch’io che l’Italia fosse rappresentata con un solo film a Hollywood, il Gomorra tratto da Saviano. E avevo scritto e detto a Napoli che quel film andava proiettato nelle scuole del napoletano e del casertano, a scopo educativo; ma non poteva diventare l’unica sintesi dell’Italia da esportare nella principale vetrina del mondo. È chiaro anche ai cretini che non facevo solo una questione d’immagine, di finzione o di cosmesi. Ma contestavo una falsa rappresentazione dell’Italia, che non corrisponde alla realtà e nuoce agli italiani, soprattutto a coloro che lavorano e studiano all’estero. Invece lei ha ridotto la tesi di Berlusconi a una pura questione di ipocrisia facciale, dicendo che il premier avrebbe esortato Saviano a dire il falso. È vero proprio il contrario, ha respinto la falsa riduzione dell’Italia alla criminalità. Anche per lei Berlusconi ha censurato Saviano e la verità.
Ora si dà il caso che Saviano abbia pubblicato il suo Gomorra proprio da Mondadori, riconducibile a Berlusconi. Non mi pare che Berlusconi abbia soppresso il libro o esortato a boicottarlo. Ha solo criticato l’uso improprio di una piaga verissima del nostro Paese. Non è suo diritto divergere dall’opinione di Saviano o è vilipendio della Repubblica, intesa come quotidiano? Mi pare legittimo dire che la malavita alberga dentro l’Italia a partire dal sud, ma mi pare falso e masochista dire che l’Italia sia dentro la malavita. Non è vero e non è giusto per la grande maggioranza degli italiani. Berlusconi non ha peraltro invocato censure e killeraggi, come accadeva negli anni ’70, ma ha dissentito da una tesi, e lo ha fatto alla luce del sole.
Ammiro Saviano, ha scritto un libro coraggioso e forte, e perciò vive pericolosamente. E anche se non sopporto il suo uso da madonna pellegrina nei manifesti, in tv, in politica e nei giornali, a cui peraltro lui si concede, so distinguere la buccia sgradevole dalla polpa meritevole.
Ma lei, Sofri, si rivela molto più simile all’icona di Berlusconi che lei stesso dipinge e dileggia, quando si sofferma sull’immagine e sulle parole di Berlusconi e non sui fatti e sulle azioni di governo del medesimo: ma è qui che va giudicato un uomo di governo. Lei può fare tutti i paragoni gobbi con Andreotti, ma non può mistificare la realtà. Il governo Berlusconi ha fatto di più contro la malavita rispetto ai governi precedenti. Ha messo in galera più mafiosi e camorristi, ha sgominato più bande, ha minato i racket della monnezza e fermato appalti alla malavita, ha confiscato beni rilevanti. Da una parte ci sono gli ideologi dell’antimafia, dall’altra ci sono arresti, espropri, confische. Se tutto questo per lei non conta, allora è lei a ritenere che conti più la parola, la vetrina, il pregiudizio ideologico, la retorica che la realtà dei fatti. E questo non è un caso, perché lei proviene da un radicalismo che opponeva l’immagine di un mondo migliore alla realtà della storia, che ha sempre anteposto l’utopia ai fatti, che ha sempre preferito i parolai e i professionisti dell’antimafia a chi sul serio l’ha combattuta e magari è morto.
E tra questi ci sono molti uomini «di destra», come lei stesso cita. E i Borsellino che lei ricorda erano della stessa pasta dei Calabresi, che lei non ricorda: ambedue furono uccisi perché servitori dello Stato da criminali comuni o da criminali ideologici (sul piano degli effetti si equivalgono; sul piano delle intenzioni no, riconosco ai secondi un perverso idealismo). Se il paragone non fosse irriverente, direi che la stessa cosa accade con Ratzinger: lui che più di ogni altro papa ha denunciato e condannato i pedofili, e ha sofferto di queste ferite della Chiesa fino alle lacrime, passa per il papa della pedofilia. Così il governo che più ha colpito la malavita passa per un governo mafioso. Perché l’immagine che vi siete costruiti prevale sulla realtà.
Penserà che ho difeso il premier perché scrivo sul Giornale di Berlusconi. No, Sofri, scrivo sul Giornale perché penso queste cose. E converrà con me che è più coerente chi scrive sul Giornale perché preferisce Berlusconi ai suoi avversari interni ed esterni, rispetto a chi, come lei, scriveva su una rivista «di Berlusconi», Panorama - senza peraltro subire censure neanche lei, mi pare - ma poi lo detestava intimamente. E ora che non ci scrive più lo detesta in questo modo plateale e un po’ volgare. Ma siamo abituati allo snobismo incivile, versione aggiornata del vecchio radicalismo chic. Sapendola sprezzante, confido in una sua non risposta. A differenza sua, io invece, le esprimo la mia stima per la sua qualità di scrittura, di lettura e di intelligenza, unita al mio dissenso e al mio civilissimo disprezzo per la sua cecità ideologica e il suo torvo manicheismo che in altra epoca dettero, come lei ben sa, atroci frutti. (il Giornale)

martedì 20 aprile 2010

La nube vulcanica c’è, ma a bloccare gli aerei è più che altro un modello fatto al computer. Il Foglio

La nube di cenere fuoriuscita dal vulcano islandese Eyjafjallajökull ha tenuto a piedi l’Europa per cinque giorni e ha fatto bruciare miliardi di euro portando le compagnie aeree del Vecchio continente a un passo dal collasso economico. Ma davvero la chiusura quasi totale dei cieli europei era l’unica soluzione per affrontare l’emergenza? In questi giorni abbiamo imparato a memoria lo schema della nube nera che piano piano copre la cartina dell’Europa e ci siamo messi il cuore in pace: se è così, volare non ha senso. Effettivamente – lo spiegano da giorni gli esperti – la cenere vulcanica è pericolosa per i motori degli aerei, ma a qualcuno è venuto il dubbio che quella del vulcano islandese non sia così diffusa come ci raccontano. “La chiusura dello spazio aereo è stata decisa sulla base di dati prodotti da una simulazione al computer del Volcanic Ash Advisory Centre di Londra”, ha detto Joachim Hunold di Air Berlin al domenicale tedesco Bild. “Neanche un pallone meteorologico è stato usato per misurare se e quanta cenere si trovi nei cieli”. Così sia Air Berlin che Lufthansa sabato hanno fatto volare aerei senza passeggeri. A Francoforte i tecnici hanno esaminato i velivoli: “Non c’era il minimo graffio sui vetri della cabina di pilotaggio, la carlinga o i motori”.

Le perdite per le compagnie aeree ora raggiungono i 250 milioni di dollari al giorno, con un impatto economico superiore a quello dell’11 settembre del 2001. Per questo ieri la Iata, l’Associazione Internazionale del Trasporto Aereo, ha chiesto di riaprire almeno alcuni corridoi di transito sopra l’Europa criticando il modo in cui i governi stanno rispondendo alla crisi provocata dalla nube di cenere vulcanica. Stesso concetto ribadito ieri da Assaereo, l’Associazione nazionale vettori e operatori del trasporto aereo di Confindustria, che ha definito “devastante” lo stop imposto ai voli: “A seguito dei test svolti in diversi paesi comunitari e dalle ispezioni condotte dalle Compagnie associate dopo i voli operati questa mattina tra le 8.00 e le 9.00 – ha scritto in un comunicato – non è emerso alcun danno da abrasione o altro problema originariamente temuto”. Come sempre più spesso succede quando si parla di meteo, clima e condizioni dei cieli, il metodo scientifico empirico viene completamente dimenticato: lo stop ai voli, per quanto precauzionale, non è basato su dati oggettivi, ma – continua Assaereo – “sulla base di teoriche previsioni di modelli matematici”.

Nemmeno la notizia di un aereo della Nato “danneggiato” dalle ceneri vulcaniche ha tolto il dubbio che l’Europa abbia scelto una soluzione troppo prudente per rispondere a un problema che non si pone certo per la prima volta: che cosa è successo di diverso dal 2004, quando l’eruzione del vulcano Grímsvötn causò l’interruzione dei voli ma in un’area limitata, e qualche cautela sul Mare del nord? D’altronde in Islanda ci sono 130 vulcani attivi che eruttano senza soluzione di continuità. Perché solo questa volta la “controffensiva” è stata così drastica? Queste sono le domande che le compagnie aeree hanno fatto in questi giorni ai governi europei senza ottenere risposte.

La nube prodotta dall’eruzione del vulcano filippino Pinatubo, per esempio, nel 1991 viaggiò per 8 mila chilometri fino all’Africa, arrecando danni non gravi a soli 20 aereoplani. Come spiega anche il portale Climatemonitor, il pericolo esiste, ma basarsi soltanto su modelli matematici per seguire lo spostamento di una cosa reale come una nube può portare a ingigantire il problema. Intanto l’isteria ha cominciato a farla da padrona: un piccolo aereo in Norvegia ha rotto il motore: “Forse è colpa della nube”. Ma qualcuno faceva notare che i computer su cui girano questi modelli sono quelli del Met Office inglese, noto per avere sballare spesso le previsioni.

La cenere vulcanica cosparsa sul capo dell'Unione Europea. Andrea Giuricin

È forse il caso che l’Unione Europea si cosparga il capo di cenere? Questo interrogativo si sta facendo sempre piú insistente dopo che la riunione dei Ministri dei Trasporti della UE, tenutasi ieri in teleconferenza, ha deciso di riaprire parzialmente il traffico aereo europeo.

Da giovedi scorso le compagnie hanno annullato decine di migliaia di voli e le perdite economiche sono enormi. Solamente Portogallo, parte dell’Italia, Grecia e Spagna (i famosi PIGS) hanno avuto la fortuna di non dover chiudere il proprio traffico aereo.

Si calcola che ogni giorno di stop abbia provocato ai soli vettori perdite di 150 milioni di euro, mentre il giro d’affari potrebbe ridursi di quasi 500 milioni al giorno per i giganti del cielo, Lufthansa e AirFrance-KLM.

I diversi vettori, stremati da cinque giorni di stop, hanno cominciato domenica scorsa a far sentire la loro voce. L’amministratore delegato di British Airways ha compiuto uno dei famosi voli di prova nell’area interessata dalla cenere vulcanica, al fine di dimostrare la poca pericolositá della nube.

C’e`stato un eccesso di sicurezza? A questa domanda non è facile rispondere, mentre è molto piú facile notare un altro fatto.

Non è in dubbio che Eurocontrol e le diversi Enti Nazionali di controllo del volo debbano assicurare la sicurezza, ma quel che è certo è che la riunione dei Ministri UE si sia svolta con eccessivo ritardo.

Era opportuno riunirsi venerdi scorso e valutare quali misure prendere. Invece il weekend è trascorso con milioni di persone che non potevano muoversi e che erano costrette a dormire sulle brandine in aeroporto.

Chi è passato dagli scali in questi giorni puó certamente rendersi conto di quel che sia successo. Le persone ammassate su delle brandine da campo facevano apparire gli aeroporti come degli enormi rifugi di sfollati.

Si è arrivati a dei casi limiti come quello italiano e quello spagnolo. Ieri il traffico aereo è stato riaperto nel nostro paese dalle 7 del mattino, salvo che poi, in un’intervista ad una radio, il Presidente dell’Enac abbia annunciato che il traffico sarebbe stato richiuso fino ad almeno alle ore 20.

La notizia è arrivata prima alla radio (commerciale) che sul sito ENAC, su quelli degli aeroporti o alle compagnie aeree stesse (ero in contatto con una compagnia aerea che aveva in programma un volo per il Nord Italia). Questo comportamento sinceramente non aiuta i vettori, che oltre a dover riprogrammare continuamente i propri voli con notevoli difficoltá, si trovano di fronte ad un incertezza dovuta al regolatore.

In Spagna nella giornata di sabato scorso, l’AENA, societá pubblica che gestisce tutti gli scali spagnoli, dapprima ha deciso di bloccare per 12 ore il traffico aereo su 7 aeroporti in un’area di circa 1000 chilometri, per poi revocare la decisione dopo nemmeno un’ora di blocco.

La cenere del vulcano islandese che ha bloccato da giovedi i voli di quasi tutta Europa non è affatto diminuita rispetto ai giorni scorsi, ma la riunione politica ha deciso di istituire tre zone di volo: la prima, vicina al vulcano, totalmente chiusa al traffico aereo, la seconda dove sono permessi voli in determinati corridoi e la terza completamente aperta.

Una tale decisione poteva e doveva essere presa con tre giorni di anticipo.

Il ritardo della Unione Europea è colpevole e i diversi Commissari Europei, invece di promettere aiuti di Stato alle compagnie aeree (con i soldi dei contribuenti) dovrebbero prendersi la responsabilitá della inefficente gestione della crisi.

La sicurezza è essenziale in un settore come quello aereo, ma è altresì importante avere una classe dirigente in grado di gestire le emergenze, o che perlomeno, si assuma la responsabilitá dei propri errori. (Chicago blog)

lunedì 19 aprile 2010

Marina Berlusconi dà lezioni di libertà a Saviano. Luigi Mascheroni

Se c’è una cosa insopportabile in Roberto Saviano, al di là dell’atteggiamento da martire moralista di cui nessuno sente il bisogno, è il savianismo. Cioè quel perverso meccanismo ipocritamente corretto per cui il suo libro Gomorra, qualsiasi suo scritto giornalistico, qualsiasi intervento pubblico, addirittura la sua stessa persona - tutto ciò che ha a che fare con il nome «Saviano» insomma - è diventato intoccabile. La sua verità è sacra, e Saviano quindi è tabù.

È eccessivo il fatto che uno scrittore si ponga come colui che deve accollarsi da solo il peso sovrumano della lotta alle mafie. È intollerabile che ogni critica nei suoi confronti venga fatta passare come un gesto di ostilità, ammettendo soltanto l’adulazione e gli osanna. È disonesto che il valore «civile» del suo romanzo-inchiesta crei tutto attorno al libro una zona inviolabile alla critica, per cui qualsiasi recensione anche solo tiepida trasforma chi l’ha scritta nel migliore dei casi in un invidioso, nel peggiore in un fiancheggiatore della camorra. Ed è fastidiosa infine quell’aurea di retorica e divismo che aleggia attorno allo scrittore napoletano, rendendolo di fatto inattaccabile.

E tutto questo per ragioni morali (Saviano combatte il Male, e se sei contro Saviano allora stai con il Male), per ragioni politiche (Saviano è uno dei personaggi prediletti dal popolo della Sinistra come possibile leader in funzione anti-Berlusconi), e per ragioni commerciali (Saviano, come tutti sussurrano in Mondadori pur senza dichiararlo, vale così tanto economicamente che nei salotti letterari l’ordine è: vietato parlarne male, e meno che mai ricordare le cause di plagio intentate da più di un cronista che ha visto i propri pezzi finire nelle pagine di Gomorra).
Saviano è un best-sellerista planetario, candidato persino al Nobel, un mostro sacro, un guru. Solo pochi possono permettersi di mettere in discussione la sua opera.

Lo ha fatto due giorni fa Silvio Berlusconi, criticando il «supporto promozionale» dato alla mafia da serie tv come La Piovra e da libri come Gomorra. E si è scatenato l’inferno. Roberto Saviano, che come è noto pubblica per Mondadori, casa editrice dello stesso premier, con un indignato articolo su Repubblica ha ribattuto offeso, si è scandalizzato, ha intimato a Berlusconi di chiedere scusa agli italiani e infine ha chiesto in tono «camorristico», absit iniuria verbis, di incontrare subito i vertici della casa editrice per avere chiarimenti e risposte: non so se Mondadori è ancora adatta a me, ha detto. Cos’è? Una minaccia?

A dimostrazione che per affrontare un uomo irreprensibile, come Roberto Saviano, serve una donna irremovibile, come Marina Berlusconi, ieri la presidente della Mondadori è scesa sul campo di battaglia spedendo alla stessa Repubblica una lettera, per lo meno inconsueta, nella quale risponde con freddezza e senza sconti al «suo» autore. Toccando l’Intoccabile. Proprio nel momento in cui si rincorrono i rumors sul possibile abbandono della corazzata Mondadori da parte di Saviano e tutti i grandi gruppi editoriali, a partire da Feltrinelli, sognano il colpo del decennio, Marina Berlusconi interviene dura. Sottolinea che quella di suo padre non è stata affatto una censura ma una critica, che «può anche non essere condivisa ma che, come tutte le opinioni, è più che legittima» (aggiungendo subito, peraltro, che è una critica con la quale concorda) e assesta una sonora lezione di libertà intellettuale e di coerenza morale a Saviano e a tutti i suoi amici scrittori - la cui lista è lunghissima, da Fabio Fazio all’ultimo degli Starnone - che predicano a sinistra e razzolano per il gruppo Mondadori: «Silvio Berlusconi - domanda Marina a Saviano - non può permettersi di criticare un’opera edita dalla Mondadori, la quale naturalmente continua ad avere la più totale e piena libertà di fare le scelte editoriali che ritiene più opportune? Questo non è forse un bell’esempio di dialettica democratica?».
Un bell’esempio di come in nome dell’affetto filiale, in nome della difesa delle proprie idee e in nome del diritto di critica - che deve valere per tutti - si può essere disposti a sacrificare sull’aia commercial-editoriale anche la gallina dalle uova d’oro. Alla quale ogni tanto piace fare il galletto.

Saviano, al netto del talento letterario che ognuno può giudicare da sé, vale attualmente qualche decina di milioni di euro: Gomorra ha venduto sei milioni di copie, è tradotto in 43 Paesi, è da poco uscito anche nei tascabili, la cui pubblicità campeggiava anche ieri sulla prima pagina di Repubblica sotto la firma dello scrittore (splendido esempio di cortocircuito mediatico-ideologico per cui Berlusconi come editore paga la pubblicità al suo avversario De Benedetti per il libro di un autore che lo critica come politico), ha ceduto i diritti per un film che era in odore di Oscar, ha fatto da traino editoriale ad altri prodotti collaterali di Saviano come la raccolta di articoli La bellezza e l’inferno o il cofanetto con il dvd dei suoi interventi televisivi...

A suo modo l’autore che ha firmato il «Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra» è diventato, a sua volta, un impero e un sogno per molti. Eppure la famiglia Berlusconi, alla quale certo non fa difetto il senso per gli affari, ha dimostrato di essere disposta anche a perdere un business gigantesco pur di mantenere il proprio diritto di parola. A dimostrazione che prima della libertà di mercato viene quella di critica. Sia per un imprenditore che per un politico. (il Giornale)

venerdì 16 aprile 2010

1956, i cingoli di Mosca spaventano l'Einaudi. Carlo Fruttero

In anteprima dal nuovo libro quasi autobiografico: i sovietici invadono Budapest, alla Einaudi si preparano le contromosse.

«Quanto alle mutandine, figurano solo nel titolo, cui non ho saputo rinunciare. Nel libro non ce ne sono, non c’è gossip, non ci sono rivelazioni piccanti né ricordi maliziosi (anche se, volendo...)». Carlo Fruttero si schermisce nel risvolto di copertina e si mette a giocare col lettore più meno come il gatto col topo. Ma da un gatto così filosofico sappiamo che cosa aspettarci. «Mutandine di chiffon», il suo libro che esce oggi da Mondadori (pp. 248, euro 18,50), quasi autobiografico (lui dice di «memorie retribuite», perché in parte scritte per i giornali), racconta una lunga storia di cultura, non solo per aneddoti. Comincia, almeno cronologicamente, quando il giovane Carlo scopre che il tetro padrone di casa ha composto canzoni come appunto «Mutandine di chiffon» con lo pseudonimo di Bel-Ami, chissà se davvero in omaggio a Maupassant, e va avanti con esilaranti, forse commoventi, episodi di vita editoriale, libri, Paesi, culture. C’è molta Torino, naturalmente. C’è il lungo e ferreo sodalizio con Franco Lucentini; ci sono gli amici come Calvino o Citati; c’è la casa editrice di via Biancamano, i due Giulii (Einaudi e Bollati), come nel brano che anticipiamo in questa pagina. E c’è lui, Carlo Fruttero, entomologo dei tic, sommelier di grandezze.

Nel 1956 l’Urss mandò i carri armati per reprimere la rivolta scoppiata in Ungheria, Paese comunista, governato da comunisti, abitato da comunisti. E lì da noi, in via Biancamano, fu come se si fosse infilata in corridoio una granata di T-34. Un’esplosione che sbriciolava anni di materialismo dialettico, centralismo democratico, terza via, via italiana al comunismo, aperture e chiusure ai cattolici, sfumature eretiche, temibili deviazionismi e migliaia e migliaia di saggi, studi, articoli interamente dedicati al Paese Guida; miliardi e miliardi di confronti, polemiche, posizioni e distinzioni, conciliaboli, anatemi, riavvicinamenti, una cosmica massa di parole che di colpo suonavano vane, se non peggio, come le chiacchiere dei due meschini che aspettano Godot. Una strage, un massacro polverizzante. In quel corridoio bianchissimo volavano tutte le schegge, le porte si aprivano, sbattevano, volti cupi o arrossati si affacciavano, si fronteggiavano, scattavano verso un nuovo arrivato, sostavano due minuti a gruppetti, si rintanavano in due o tre dentro a un ufficio, ne saltavano fuori per infilarsi nell’ufficio di fronte, le sedie stridevano, le scrivanie si facevano sedili angolosi. I portacenere traboccavano, i telefoni squillavano in continuazione. Non stava fermo nessuno, nessuno lavorava. Le graziose segretarie nei loro grembiulini gialli, rossi, azzurri passavano compunte con in mano cartelline e fogli che nessuno si dava la pena di firmare. – «Dottore, ci sarebbe...», «Fammi il piacere, Cilli, non vedi cosa sta succedendo?» –.

Ma nessuno sapeva cosa stesse succedendo. Qualcuno aveva portato su una radio, ma i notiziari italiani erano insoddisfacenti. Si sparava, c’erano le barricate, ma nessun reporter era lì a farci sentire il crepitio della battaglia in diretta. Fu convocata la signorina Dridso, una delle segretarie. Era russa e non si sapeva bene come e perché fosse arrivata in via Biancamano. Si cercò, tra sibili e disturbi catarrosi, di captare Radio Mosca. Cosa dicevano? La Dridso non ci capiva niente. Ma allora Radio Budapest, il russo non era in qualche modo connesso con l’ungherese? No, per niente; né la Dridso, né nessun altro sapeva una dannata parola di ugrofinnico. L’editore usciva ogni tanto dal suo ufficio, corrucciato, distantissimo, la voce sempre più nasale, strascicata. E tutti: e a Roma, cosa dicono a Roma? La speranza era che Einaudi fosse in contatto con la direzione del partito, che avesse qualche riservatissima primizia. Ma il partito ancora non si pronunciava. Era una rivoluzione? O non, piuttosto, una controrivoluzione? Una sommossa giovanile spontanea e casuale? O non, piuttosto, un’operazione sovversiva, fomentata e manovrata da traditori al servizio di potenze straniere? La tensione montava, vibrava, qualche finestra veniva aperta, e perché non facciamo un salto a prenderci un buon caffè da Platti, un ricco panino semidolce? Chiedevano un parere anche a noi agnostici o comunque scettici sul paradiso sovietico. Ti rendi conto, carri armati comunisti che stritolano un Paese comunista! Compagni massacrati da compagni, è incredibile, è pazzesco! Ma no, non è affatto pazzesco, è normale, rispondevamo noi da vere carogne. [...]

Era autunno, il buio scese presto, le castagne d’India cadute dagli ippocastani del corso brillavano nella luce dei lampioni. Chissà se anche nei viali di Budapest...? Bollati e sua moglie Graziella, io e mia moglie Maria Pia andammo a cena in collina nella bella villa di un’amica che, senza fare un vero e proprio salon, ospitava volentieri diverse «personalità» eminenti, emergenti o quantomeno decenti, di stanza o di passaggio a Torino. Nello sfondo c’era una schiera di possibili informatori: Giulio, «il padrone», suo padre, presidente della Repubblica fino a poco prima, tutta una ragnatela tra ministeri, funzionari di partito, alti comandi militari, servizi segreti, giornalisti eccetera, da cui era plausibile aspettarsi notizie fondate, certe. L’idea era che, attraverso la casa editrice, potessero filtrare fino a quegli accoglienti divani informazioni più precise.

Eravamo al dessert quando suonò il telefono. La padrona di casa corse di là, tornò affannata. – «Giulio (Bollati)! Giulio (Einaudi) ti vuole» –. Bollati si precipitò con le sue lunghe gambe, sparì nello studio. Ecco. Finalmente avremmo saputo. Stavamo lì coi nostri cucchiaini in mano cercando di parlar d’altro. Bollati si riaffacciò un istante: carta, gli serviva della carta, la penna ce l’aveva. La padrona di casa sparì con lui, tornò presto al tavolo ma ne sapeva come prima. Caffè, chi prende il caffè? Una grappa di pere? Un armagnac? Passavano i minuti, dieci, venti, mezz’ora. Cosa combinavano di là i due Giulii al telefono? La radio era accesa ma non dava spago a nessuno. Combattimenti, barricate, morti, colonne di profughi e nient’altro. Le signore sussurravano colpevolmente, s’erano cioè ritratte dalla cruenta ma un po’ lunga battaglia di Budapest, scivolando nel sottovoce di figli, vestiti, domestiche, esasperanti artigiani. Ma ti posso dare l’indirizzo del mio, se vuoi. È bravissimo e niente caro.

Infine la porta dello studio si riaprì e Bollati riapparve. Che succedeva? L’America mandava i paracadutisti? I russi erano stati cacciati? S’erano ritirati? E Nagy? E il generale Maleter? E il partito? Cosa diceva il Partito comunista italiano? Bollati aveva in mano dei fogli e senza rispondere guardò me. Un appello all’Onu. Questo era stato deciso da Einaudi e dai suoi consiglieri più fidati. Lui stesso, Bollati, lo aveva messo a punto parola per parola con l’editore e gli altri attorno a lui. Un lungo appello all’Onu che ora io, anglista ufficiale della maison, avrei tradotto in inglese.

Mi sentii morire, lottai disperatamente per evitare quella prova funesta. A cosa poteva mai servire un simile documento? Nella bolgia di una così grave crisi internazionale cosa gliene poteva fregare all’Onu dell’indignazione di una casa editrice torinese, illustre finché vuoi ma insomma... Una goccia nell’oceano, un’iniziativa perfettamente inutile e perfino ridicola, se permetti. Ma loro non la pensavano così, la casa editrice aveva una notevole influenza morale, un alto prestigio etico in Italia e in Europa, la sua voce doveva essere presa in considerazione dal mondo intero. Ma scusa, ma se tutti, proprio tutti, mandavano appelli deploranti e auspicanti, non c’era circolo di bridge, non c’era confraternita di tranvieri che non tempestasse New York di esortazioni urgentissime, drammaticissime... Niente da fare. [...]

L’anglista fu più o meno rinchiuso di là, nello studio, e messo fermamente all’opera. Ora, chiunque abbia non accademicamente ma affettuosamente frequentato la lingua e la cultura inglesi, sa che un appello compilato nel gergo della sinistra italiana, di ieri come di oggi, non ha alcuna possibilità di trasposizione. Non sono le parole, è tutta la secolare storia filosofica, politica, di costume, di civiltà, contro cui vieni a sbattere come contro una porta di ferro. Non so che fine abbia fatto quel documento, forse l’avrò gettato, fatto a pezzetti, forse un giorno salterà fuori in qualche mio cassetto. C’erano le solite cose, «ferma presa di posizione», «fiduciosa speranza», «valori democratici», «ripudio d’ogni violenza», «sangue innocente», «comune sforzo per la Patria», e così avanti da un cliché all’altro. L’aria fritta è intraducibile, ma le tentai tutte. Tagliare, condensare, rifare, fondere, ribaltare. Ma poi arrivava Bollati che di sopra la mia spalla ripristinava la versione base, il «padrone» (ma se non sa l’inglese!) il padrone, ti dico, controllerà, andrà su tutte le furie, devi essere il più letterale possibile. Alla fine mi arresi e composi (a quel punto, anzi, con perversa scrupolosità) un testo di cui ancora oggi ho confusamente vergogna.

E adesso? S’era fatto molto tardi, di là tutti sbadigliavano e si stiracchiavano immersi nelle poltrone, potevamo andarcene a letto? Eh no, la missione non era finita, ancora toccava a noi spedire il telegramma. E come? Alle due passate del mattino? Ma dalla posta centrale, aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, non lo sapevi? Su, presto, non c’è un minuto da perdere, l’Onu freme nell’attesa del nostro appello. Mia moglie accompagnò a casa la moglie di Bollati, Bollati mi prese su sulla sua Volkswagen color bronzo e scendemmo stridendo per le curve della collina, attraversammo la città e arrivammo al palazzo della posta centrale, che era davvero aperta, aveva davvero un impiegato solo e mesto dietro uno sportello. Ecco qui il testo, battuto (da me) a macchina, una bella pagina di belle parole inglesi. Quello lesse, cominciò a contare muovendo le labbra, col dito che correva lungo le righe e alla fine ci disse quanto costava. Fu qui che la farsa entrò nella rivolta di Budapest. Bollati tirò fuori il portafoglio, constatò che i soldi non bastavano, si rivolse con il mento a me che constatai la stessa cosa. Negli spazi eleganti e un po’ algidi della casa editrice circolavano idee, fermenti, sperimentazioni, proposte di altissima, indiscussa qualità intellettuale; ma, di soldi, per qualche ragione ne giravano pochi. Mettemmo insieme le nostre sommette ma nemmeno così si arrivava alla cifra. Pensai di slancio a una soluzione modello Pinocchio: chi c’era di là, al palazzo dell’Onu, che potesse controllare? Nessuno. Il testo italiano dell’appello avrebbe avuto il dovuto risalto su qualche giornale, mentre laggiù nessuno (come ripetevo da ore) ci avrebbe fatto il minimo caso se non arrivava il nostro fottuto telegramma. Quindi stracciamolo e andiamocene a casa.

Ma Bollati, che era un uomo d’onore e non un burattino di legno, rifiutò nettamente. Allora potrei provare a scorciare, riassumere, dimezzare le parole... No, il testo ormai era quello e così doveva arrivare ai massimi livelli del potere internazionale. Ma allora come facciamo coi soldi? È semplice, andiamo a chiederli al «padrone». Lasciammo quel salone pieno di ombre e rimbombi dicendo all’impiegato che saremmo presto tornati e andammo sotto al domicilio del «padrone», che abitava su un corso non lontano a un piano rialzato. Non c’era un’anima in giro, rare automobili frusciavano sotto gli alberi. Ecco, quella è la finestra della sua camera da letto, mi informò Bollati, assiduo frequentatore della casa. Cercammo qualche manciata di ghiaia sul controviale, la tirammo contro i vetri. Niente. Dopo una simile giornata di battaglia, Einaudi doveva essersi addormentato come un carrista sovietico. Altri sassolini, altro silenzio. E le castagne d’India? Meglio di no, rischiamo di spaccare un vetro.

Non restava che il metodo Arsenio Lupin. Bollati incrociò le mani a staffa, io mi tolsi le scarpe, mi issai su quel sostegno, raggiunsi la finestra, cominciai a battere con le nocche. Più forte, diceva Bollati, semistrozzato dallo sforzo. Ripresi a picchiare sempre più rumorosamente e infine la finestra si aprì, Giulio Einaudi apparve con un’aria appena stupita in un bel pigiama celeste. Guardò in giù, ci vide, non disse una parola. Io saltai a terra e Bollati gli spiegò affannosamente la situazione. Il «padrone» non sorrise, non fece il minimo commento; sparì, riapparve coi soldi e, sempre senza pronunciare una parola, richiuse la finestra e si ritirò a letto. Noi due tornammo alla posta centrale, pagammo il dovuto, risalimmo esausti in macchina. Era stato un giorno di troppe parole, dette, gridate, ascoltate, lette, scritte, decifrate, e quel silenzio veniva come un soave soffio di piume. Immaginavo vagamente un remoto impiegato dell’Onu che in questi istanti, cravatta slacciata, stanco quanto noi, registrava il nostro appello a New York. Cosa ne avrebbe fatto? Dove lo avrebbe messo? In archivio? Nel cestino? In quella macchina che trancia i fogli in tante striscioline? Non ne seppi più niente, in ogni caso, e non ne parlai mai più con Einaudi e Bollati. (la Stampa)

giovedì 15 aprile 2010

Elogio della scorrettezza. Tiziana Maiolo

Se qualcuno ti dice che Gino Strada, il fondatore di Emercency che rivendica il suo diritto a fare politica antiamericana e antiNato in Afghanistan, è “politicamente corretto”, sii scorretto.......
Se qualcuno ti dice che è “politicamente corretta” la lobby degli omosessuali che tira la croce addosso al cardinal Bertone perché ha sostenuto che se un prete molesta un ragazzotto di 16 anni è un omosessuale più che un pedofilo, sii scorretto.
Se qualcuno ti dice che è “politicamente corretto” l’imprenditore di Adro che ha staccato un assegno compassionevole per famiglie un po’ bisognose e un po’ furbine che non pagavano la mensa dei bambini, e ha colto l’occasione per farci una predica, a noi razzisti e senza cuore, sii scorretto.
Il tiro allo scorretto sta diventando sport nazionale. Sarà sollevato il premier Silvio Berlusconi, che non è più il bersaglio unico degli squadroni del “politicamente corretto”, cioè di quelli “bravi”, cioè di quelli moralmente superiori, quelli più colti, tanto colti che si fanno riprendere sempre davanti a una libreria. Quelli della doppia morale, una per sé e una per gli altri. Il più scorretto di tutti è indubbiamente oggi il signor Oscar Lancini, sindaco di Adro, paesotto del nord-est “leghista, razzista, ista, ista, ista…”. Già tutte queste desinenze non gli giovano, ma questo sindaco è reo di aver chiesto quell’applicazione delle regole che ai nostri “corretti” politici e giornalisti di sinistra stavano a cuore solo quando per esempio il Pdl doveva presentare le liste alle elezioni regionali. Allora si, che l’osservanza delle regole era fondamentale! Perché, come diceva il buon Benedetto Croce, la forma è sostanza. E questo è vero. E’ tanto vero che se in una scuola o un asilo per fruire della mensa scolastica occorre pagare due euro al giorno, questi due euro vanno pagati. Tutti i Comuni italiani, comunque governati, contribuiscono inoltre in tutto o in parte al pagamento delle quote delle famiglie a basso reddito. Così come contribuiscono per l’affitto della casa, per sostenere anziani e disabili. Perché l’Italia è un paese compassionevole e ad alto livello di welfare. Chi non ha i soldi si rivolga dunque ai servizi sociali. Ma gli altri per favore paghino. Ma che cosa succede se nonostante questa possibilità ci sono famiglie, di italiani e stranieri, le quali prima sottoscrivono l’abbonamento alla mensa e poi si rendono morose? Vediamo come si comporta un grosso comune dell’hinterland milanese amministrato dalla sinistra per come viene raccontato alla trasmissione “La Zanzara” di Giuseppe Cruciani a Radio 24 da un ascoltatore che ha fatto parte, nella sua veste di genitore, della commissione-mensa di una scuola. Che cosa fa dunque la sinistra? Mette i tornelli alla mensa, dice l’ascoltatore, in modo che, quando il bambino striscia con il suo badge, se la tessera è scarica perché la famiglia non ha pagato, il bambino non entra in mensa. Dunque non mangia. La sinistra non mette nessuno “ a pane e acqua”, semplicemente non dà ai bambini neanche il pane e l’acqua. Chiude loro la porta in faccia. Che cosa ha fatto invece il Comune di Adro? Prima ha fatto un censimento. Su 601 bambini iscritti a scuola, 136 vanno a mangiare a casa, non essendo il servizio mensa obbligatorio. I restanti devono pagare. Ma accade che alcuni abbiano fatto i furbi, cioè si sono iscritti ma non hanno pagato: i genitori, ovviamente, non i bambini. Quindi questi sono rimasti senza mensa. La scuola, compassionevole, ha dato loro dei sandwich. Ma le famiglie che, invece di portare i figli a casa a mangiare, li hanno abbandonati a scuola senza cibo, saranno in qualche modo sanzionate dagli squadroni del “politicamente corretto”? Nessuno mette in discussione la loro patria potestà, invece di denunciare il Comune per aver lasciato i bambini a “pane e acqua”? E’ a questo punto che arriva “lui”, un signore che si chiama come il sindaco ma non è parente, che si spaccia per “figlio di un mezzadro” e invece suo padre era un impiegato del settore pubblico, che dice di aver votato Formigoni e invece, a quanto pare, ha sostenuto una lista dell’opposizione al Comune di Adro. Un politico “politicamente corretto”, insomma. Il signore stacca un assegno di 10.000 euro, ma non lo consegna fino a che non ha la garanzia che venga resa pubblica una sua predica in cui taccia di razzismo i suoi concittadini, li divide tra buoni e cattivi, grida al mondo la propria diversità, la propria superiorità. Lui è il “buono” della cultura contadina dell’Albero degli zoccoli, insopportabile film di uno dei più melensi registi italiani, Ermanno Olmi. E’ l’insopportabile “politicamente corretto” che emerge dalle nebbie padane e diventa l’eroe di politici e giornalisti di sinistra. Ma non degli abitanti di Adro, che si ribellano, tanto che 405 famiglie dichiarano che non pagheranno più la mensa, dal momento che ad essere nella legalità e nell’osservanza delle regole si guadagnano solo svantaggi e insulti. Bel risultato, eh? Adesso il signore “buono” pagherà la mensa per tutti, in nome dell’uguaglianza sancita dalla Costituzione?I cittadini di Adro hanno votato al 60% il loro sindaco, proprio come la maggioranza degli italiani, al nord come al centro e al sud ha votato e continua a votare Silvio Berlusconi. Tutti scorretti, e fieri di esserlo. Come noi. (il Predellino)

mercoledì 14 aprile 2010

La Fondazione di Veltroni è un mix di bolliti misti. Lodovico Festa

“Ci saranno scrittori (Umberto Eco, Claudio Magris) giornalisti (Luca Caracciolo, Tito Boeri, Enrico Mentana, Ilvo Diamanti), giuristi (Stefano Rodotà, Augusto Barbera, Gianrico Carofiglio). Ci saranno soprattutto pochi politici di professione. O almeno molto selezionati. Pierferdinando Casini e Roberto Maroni racconteranno la strage di Ustica, il 25 giugno, poi sarà il turno di Gianferanco Fini” dice Francesca Romani sul Riformista (14 aprile).
Imponente lo sforzo veltroniano per la sua nuova fondazione. Ci si chiede, solo, perché presentare a primavera invece che nella più adatta stagione di autunno una simile carrellata di bolliti misti.

“Ad ogni tracollo ci riunivamo” Dice Massimo Cacciari alla Repubblica (14 aprile) E’ la famosa APA: associazione progressisti anonimi.

“Che i circoli diventino luoghi della politica” Dice Andrea Manciulli alla Repubblica (14 aprile) E quelli del Pd i pokerini se li facciano, per favore, a casa loro.

“Cordata con Della Valle per restaurare il Colosseo” Dice un titolo del Corriere della Sera (14 aprile) Non ci metteranno mica su dei pallini?

“Epocale mi sembra la ventata per la quale ci si affida alla furbizia” Dice Bruno Tabacci all’Unità (14 aprile) Basta con le furbizie! Tabacci sembra uno di quelli che dicono di sé e le donne: se trovo quella a cui piace moscio, la faccio impazzire. (l'Occidentale)

martedì 13 aprile 2010

“Professionisti dell’art.21” mobilitati per la Busi, non per Busi. Daniele Capezzone

È toccato a uno scrittore talentuoso e non ortodosso, Massimiliano Parente, porre una questione tanto chiara quanto occultata da una quindicina di giorni: perché, nel Paese delle mobilitazioni compulsive per la “libertà in pericolo”, nella terra dei “professionisti dell’articolo 21”, nessuno sembra farsi carico dell’ostracismo proclamato dai vertici Rai nei confronti di Aldo Busi? Non entro nel merito delle cose dette da Busi in collegamento con Simona Ventura, né della complicata questione delle clausole contrattuali forse accettate dallo scrittore in vista della sua partecipazione all’Isola dei famosi: l’una e l’altra cosa mi sembrano francamente poco rilevanti.

Ciò che conta, invece, è la scarsa lungimiranza di alcune frange del centrodestra (la cui esultanza mi è parsa fuori luogo), che non va sottovalutata, ma che appare comunque assai meno grave dell’ormai cronico doppiopesismo dei manifestanti “de’ sinistra” a gettone: scatenati e ululanti, questi ultimi, se qualcuno osa toccare i privilegi della Busi (Maria Luisa), ma improvvisamente muti se vengono messi in causa i diritti del Busi, che, per inciso, è il più importante scrittore italiano vivente (e l’interessato, ci si può scommettere, contesterebbe il fatto che il suo primato sia circoscritto ai soli italiani, e ai soli viventi).

Tutto torna e ha una sua triste circolarità, del resto: Parente ha potuto sollevare la questione sul Giornale, non su Repubblica. E gli stessi che sono rimasti muti sul caso Busi (Aldo) si sono ben guardati dal dolersi per i recenti provvedimenti dell’ordine dei giornalisti nei confronti di Vittorio Feltri. Solita storia: prima si tratta di stabilire se sei un “amico”, un “nemico” o un “senza patria”. Solo nel primo caso hai diritto al rito della solidarietà; altrimenti, silenzio e indifferenza. Un caso italiano istruttivo: come tanti in passato, e come troppi altri in futuro, c’è da scommettere.

PS: Tra tanti anatemi rispetto a Busi e alla sua ultima performance all’Isola dei famosi, quasi nessuno ha colto un aspetto interessante, ed estraneo alle polemiche sul Vaticano. Aldo Busi, in un monologo vibrante e irresistibile, ha rivolto a Silvio Berlusconi quello che può essere considerato, a seconda dei punti di vista, un incoraggiamento stimolante o una critica appuntita, insistendo sull’esigenza che il governo faccia per davvero la riforma fiscale e la riduzione delle tasse. Ma, anche su questo, silenzio: una destra troppo distratta non ha fatto tesoro della spinta, e una sinistra troppo faziosa non ha saputo valorizzare l’obiezione. Vorrà dire qualcosa? (il Velino)

Un' Italia di scorpioni suicidi. Giampaolo Pansa

Gli avranno fatto il lavaggio del cervello. Devono avergli offerto qualche escort. Questo vecchio stronzo di merda. Vecchio scarpone inutile. Regalategli una tessera del Pdl. Vergogna. Mortacci sua. Uè, Giorgio, mi firmi sta cambiale? Bastardo. Per lui ci vuole il ricovero coatto. Deve crepare nel peggio ospizio. Non so se sia meglio un presidente così o un presidente pedofilo. Lui e altri politici possono governare perché noi italiani non abbiamo il coraggio dei thailandesi di assaltare i loro palazzi. È andato a inaugurare Vinitaly, forse c’è un nesso con il fatto che ha firmato quella legge infame. Abbi un minimo di dignità: dimettiti! Hanno preso la Costituzione e ci si sono puliti il culo: l’unica cosa che mi rallegra è che tra poco glie la faremo mangiare…

Dobbiamo questa antologia di insulti all’accortezza intelligente di una collega del Giornale, Paola Setti. Ha avuto la pazienza di cercare su Facebook e su altri siti internet che cosa diceva il popolo del web contro il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Colpevole di aver firmato la legge sul legittimo impedimento, considerata dai blogger un regalo al Caimano, ossia al premier Silvio Berlusconi.

Dopo aver letto l’articolo di Paola Setti, mi sono congratulato con me stesso. Ho già spiegato in un Bestiario che sto lontano da Internet, non navigo mai, non me ne importa nulla. Per averlo detto, mi sono beccato gli sfottò persino da un collaboratore del Riformista. Ma ho continuato a fregarmi le mani soddisfatto. Per aver deciso da tempo di non partecipare al Festival dello Scorpione.

Qualcuno ricorderà la favola dello scorpione e della rana. Siamo sulla riva di un fiume. Lo scorpione s’imbatte in una rana e le dice: ho bisogno di andare sull’altra sponda, mi porteresti di là? La rana si corica sul dorso lo scorpione e inizia a nuotare verso la riva opposta. Quando sono al centro del fiume, lo scorpione punge la rana e le trasmette il suo veleno. La rana inizia ad affondare e spiega allo scorpione: stiamo per morire entrambi, anche tu annegherai, perché mi hai punto pur sapendo che tirerai le cuoia? Lo scorpione risponde: non posso farci niente, me lo impone la mia natura.

Sono come gli scorpioni coloro che predicano l’odio. Sanno che se la baracca Italia cadrà anche loro ci rimetteranno la pelle. Eppure non rinunciano a spargere veleno. Contro tutto e contro tutti. Sino a ieri, il bersaglio preferito era Silvio Berlusconi, oggi è il capo dello Stato. Non è la prima volta che succede. Negli ultimi tempi della presidenza di Francesco Cossiga, eravamo fra il 1991 e il 1992, anch’io ho partecipato sull’Espresso alla battaglia polemica contro di lui. Lo chiamavamo “il Pazzo del Colle”. In seguito me ne sono vergognato. Potevamo finire in tribunale accusati di vilipendio del capo dello Stato. Ma Cossiga si è dimostrato tanto generoso da non mandarci sotto processo.

Erano altri tempi. Tutto si sfogò nell’inchiesta di Mani pulite contro Tangentopoli. Oggi di sfogatoi non ne vedo. Mi ero illuso che, dopo le elezioni regionali, il clima cambiasse. Ma il cielo sereno è una speranza vana. La piccola Italia che partecipa alla battaglia politica si mostra sempre più avvelenata. Gonfia di odio. Nemica di tutti e dunque anche di se se stessa. Vogliosa di guerra, oggi con le parole, domani chissà.
Il forte aumento delle astensioni è dovuto al rifiuto di una politica stravolta dalla cattiveria. Il cittadino senza potere la respinge, la cancella, non vuole più regalarle il voto. Il buon senso e il desiderio di pace spingono molti a essere refrattari a questo andazzo suicida. Un andazzo che è subito ripreso, con la stessa colpevole arroganza di prima.

Anche le riforme istituzionali stanno diventando un nuovo fronte di guerra. Non parlo soltanto dello scontro fra Berlusconi e Gianfranco Fini. Prima o poi, il duello si concluderà con un divorzio, come succede tra coniugi che le nostre madri definivano con una parola unisex: i malmaritati. Parlo di quanto accadrà dopo. La verità è che non verrà fatta nessuna riforma, se non da un vincitore sulla pelle dello sconfitto.

A volte penso che sia impossibile evitarlo. Un amico, pure angosciato quanto me, mi ha consigliato di dare un’occhiata al mondo. Nei paesi poveri la gente muore di fame. Il terrorismo impazza dappertutto. I kamikaze si fanno esplodere persino nel centro di Mosca. L’Iran minaccia di lanciare missili atomici su Israele. Bin Laden, o chi per lui, dichiara che farà scorrere il sangue ai mondiali di calcio in Sudafrica. I fanatici crescono a vista d’occhio. La grande crisi economica non è per niente superata. E soprattutto viviamo in un’epoca di scorpioni. Come possiamo sperare che in Italia vincano le colombe o almeno le placide rane?

Eppure abbiamo il dovere di credere che la moderazione sia sempre una virtù. Ecco un obbligo per i media. A cominciare dalla carta stampata. Ho l’impressione che la cattiveria non li aiuti più a crescere. I lettori stanno calando per tutti i giornali. Vogliamo domandarci il perché? Chi acquista un quotidiano o un settimanale desidera capire come va il mondo e non essere travolto da un diluvio di carognate.
Mi chiedete un esempio? Come ha rilevato ItaliaOggi, dall’inizio del 2009 alla fine del marzo 2010, un illustre settimanale ha stampato ben ventidue copertine contro Berlusconi. L’ultima prima del voto presentava la faccia del Caimano con il titolo “Stop a Silvio”. Eppure quella testata continua a perdere copie su copie. Vorrà dire qualcosa o no? (il Riformista)

lunedì 12 aprile 2010

Caro Gino Strada, adesso hai capito quant'è forcaiolo e razzista il Times. Carlo Panella

Caro Gino Strada, caro Vauro, cari giornalisti dell’Usigrai e dell’universo politically correct, caro “Popolo Viola”, il brutto pasticcio di Lashkar non è un “complotto” come voi – anche voi! Ma guarda! – sostenete. Ha un altro nome: Nemesi. State provando in queste ore la rabbia, la frustrazione di chi vede persone stimate, o care, addirittura il vostro lavoro, trascinato nel fango dei sospetti, delle insinuazioni, ammorbato da false rivelazioni di autorevolissimi giornali, come il Times, che scrivono falsità, con una superficialità che si accompagna al ghigno forcaiolo e razzista, perché gli accusati sono italiani.

Non è inutile dirvi che per noi Marco Garatti, Matteo Pagani e Matteo Dell’Aira sono innocenti e tali lo saranno, anche se condannati in primo grado – e non ci auguriamo che accada – sino a sentenza definitiva. Non è inutile dirvi che come sempre – sempre, senza eccezioni – siamo emotivamente schierati con chi sta in galera, e non con chi –rispondendo al proprio ruolo e alla propria funzione istituzionale, per carità – ce li ha mandati. E così vorremmo fosse per voi (ma in passato ci avete troppo spesso delusi). Non è inutile dirvelo, perché vorremmo che ve ne ricordaste in futuro, quando altri – magari vostri avversari politici – si troveranno nella stessa scomoda posizione dei vostri tre amici che per principio e sino a schiacciante e definitiva prova contraria riteniamo innocenti.

Non è inutile perché, come finalmente avete compreso, quell’esplosivo, quelle armi, quei giubbotti da Kamikaze pare proprio ci fossero in un magazzino dell’ospedale, ma per noi questo non significa nulla, perché non crediamo alla “responsabilità oggettiva” al “non potevano non saperlo”, che ha riempito le sentenze avverse a vostri nemici politici a cui troppo spesso avete brindato. Non è inutile dirvelo perché Allah misericordioso ha fatto sì che gli inquirenti afghani si siano sinora mostrati ben più corretti e saggi di quelli italiani e sinora non è filtrata nessuna telefonata o intercettazione ambientale che pure sono state alla base di quella perquisizione dopo che tutto quanto avveniva nell’ospedale – e che facevano i tre arrestati italiani – è stato monitorato per un mese. Vi è stata risparmiata quindi la gioia dei vostri avversari, dopo che tanto avete gioito in questi anni nell’indignarvi per altre intercettazioni. Non è infine inutile dirvelo perché voi avete portato spesso ad esempio i linciaggi della stampa britannica sui vostri avversari politici e ora vedete l’ignobile leggerezza di uno dei più autorevoli giornali del mondo come il Times che storpia le parole delle autorità afghane e si inventa una “confessione” che non c’è mai stata.

Infine, ma non per ultimo, vorremmo che invece di gridare al complotto capiste che anche quanto accade in Afghanistan è parte dei rischi che avete preso caratterizzando in maniera politica così forte la vostra Emergency. Parliamoci chiaro, se non da amici, da persone che si rispettano: voi avete fondato Emergency e non avete unito i vostri generosi sforzi a Mèdecins Sans Frontières per una pura motivazione politica. Non c’era nessun bisogno di fare una organizzazione alternativa a Msf – che ha preso il Nobel, non dimentichiamolo, che nasce nell’alveo della gauche francese, non scordiamolo – se non per una discriminate ideologico-politica. Ma qui, barate, cari amici: la parola è proprio questa. Voi continuate a sostenere di “non fare politica”, e parlate di principi e etica. Ma barate, voi fate politica, per la semplice ragione che la politica nasce e cresce attorno proprio al centro del vostro ragionare: la guerra e le sue regole. E non c’è bisogno di scomodare banalmente Von Clausewitz per dimostrarlo.

Avete scelto di intrecciare il vostro ammirevole impegno umanitario con una chiara, netta, ma non ammessa, militanza politica. Le conseguenze di questa vostra scelte sono – purtroppo, anche gli incidenti come Lashkar. Non potete non saperlo e non sarebbe male che ne prendeste atto. In amicizia (che so non corrisposta): Carlo Panella. (l'Occidentale)

Quando parla del Cav., l'Unità ha nostalgia del "Processo Bukharin". Lodovico Festa

“In qualunque altro Paese democratico un uomo politico indagato in una ventina di procedimenti che copre quasi l’intero codice penale non potrebbe essere eletto capo dello Stato”.
Dice Concita De Gregorio sull’Unità (12 aprile).
La De Gregorio si richiama alla grande e nobile tradizione per cui l’avversario politico va indagato almeno con una ventina di procedimenti che coprano quasi l’intero codice penale: Bukharin – che ai suoi tempi, su istigazione di Lenin, aveva avuto una mezza idea di fare il capo dello stato Sovietico - nel 1938 nei cosiddetti processi di Mosca fu condannato anche per essere stato una spia dei giapponesi (trattasi di suggerimento per i pm milanesi). (l'Occidentale)

E' morto Edmondo Berselli

Mi dispiace veramente.
Era un ottimo intellettuale, un brillante scrittore ed un fine politologo.
La sinistra ha perso un campione di moderazione ed un punto di riferimento troppo poco ascoltato.
Ci mancherà.

domenica 11 aprile 2010

Anziano sarà lei. Tiziana Maiolo

“Ma ci pensate, nel 2013, un signore di 76 anni che si candida alle elezioni e magari resta in carica per cinque anni, cioè fino a quando ne avrà 81? Ma ci pensate?”. Si fa un po’ paonazzo il viso del giornalista di sinistra che in televisione sbraita contro, indovinate un po’, contro Silvio Berlusconi. Reo, questa volta, di essere “anziano”. Non più puttaniere, non più corrotto, non più in conflitto di interessi. Solo gravemente, inesorabilmente, colpevolmente Anziano.
Spengo la televisione, prendo in mano il Corriere della sera. Gian Antonio Stella è sempre una lettura interessante. Trovo un suo commento intitolato “Lo sviluppo siciliano affidato a un 94enne”. Pare desti scandalo il fatto che il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, abbia attribuito una consulenza sullo sviluppo economico e le politiche industriali non a suo cugino, ma a Domenico La Cavera, presidente onorario regionale di Confindustria. Nell’articolo si racconta anche tutta la storia di questo “anziano”, quella personale ( fu marito dell’attrice Eleonora Rossi Drago ) e quella politica, dalla famosa operazione milazziana e all’avversione nei confronti di Enrico Mattei fino alla scalata di Confindustria.
Ma non c’era un giovane, in tutta la Sicilia, si domanda Gian Antonio Stella, cui affidare quell’incarico? Sicuramente ce ne sarà stato anche più di uno, ma forse non avrebbe avuto le capacità e l’esperienza ( se conta ancora qualcosa ) del signore “anziano” in questione.
Qualche considerazione. La prima è così banale che c’è da vergognarsi a doverla proporre. E’ quella dei due pesi e due misure. Alle ultime elezioni regionali sono stati candidati dalla sinistra Margherita Hack, classe 1922, Dario Fo, classe 1926, Franca Rame, nata nel 1929. Quest’ultima era già diventata senatrice nel 2006, quando aveva 77 anni. Insieme a lei entrò a Palazzo Madama anche Lidia Menapace, nata nel 1924, allora quindi giusto 84enne. Si è mai sentito alzarsi un grido di dolore e di sdegno da parte dei bravi giornalisti di sinistra per questo scandalo? Si è mai pensato che i signori e la signore in questione fossero dei rimbambiti a causa dell’età?
Ma forse il caso più clamoroso fu quello di Enzo Biagi, un altro “ragazzo” nato nel 1920 e considerato uno dei più importanti giornalisti italiani. Biagi ha avuto la sfortuna di diventare suo malgrado un’icona della sinistra italiana che, in nome della libertà di stampa, interpretò come dovuto a una battuta di Berlusconi ( il famoso “editto bulgaro” ) un mancato rinnovo di un certo contratto di conduzione in Rai, contro l’offerta di un rapporto diverso. Era il 2002 ed Enzo Biagi, nato nel 1920, aveva 82 anni quando gran parte della sinistra italiana strillava a gran voce che senza la sua presenza in Tv in Italia non c’era più libertà. Ne aveva 87 quando, cinque anni dopo, accettò comunque un altro contratto in Rai e riprese a lavorare fino alla sua fine, quello stesso anno.
Si potrebbe anche aprire il capitolo dei Presidenti della repubblica. Per sottolineare non solo il fatto che in Italia si arriva a questa carica non prima di “una certa età”, ma anche che, quanto meno da Pertini in avanti, quello di Presidente è diventato un ruolo tutt’altro che “onorifico”. Un ruolo per cui servono intelligenza politica, grandi capacità di mediazione e magari anche un bel fisico tonico per girare l’Italia. Prendiamone due a caso. Carlo Azeglio Ciampi, classe 1920, divenne Presidente nel 1999, quasi ottantenne, e lo rimase fine a che non compì 87 anni. Giorgio Napolitano è nato nel 1925, è un 85enne stimato da tutti, svolge un ruolo indubbiamente politico con grande capacità e viene continuamente tirato per la giacchetta da chi, come Antonio Di Pietro, vorrebbe questo “anziano” ancora più decisionista. Nessuno gli ha mai chiesto di essere “più giovane”.
Così arriviamo al dunque. Essere giovani è forse un merito? Certo che no. E’ niente di più che un accidente della storia. E ogni giovane dovrebbe ben sapere che prima o poi anche lui sarà “anziano”. E’ un merito essere intelligenti, essere capaci, essere colti, essere gran lavoratori, saper far fruttare le proprie esperienze. Non è un merito essere giovani, essere belli, avere gli occhi azzurri e le cosce lunghe. Tutte cose invidiabilissime, ma che fanno parte della natura, o dell’attività del chirurgo estetico. Ma la politica, si dice, ha bisogno di un ricambio “generazionale”. Perché generazionale? Si potrebbe anche decidere che il giovane sindaco di Firenze, per esempio, se dovesse dimostrarsi incapace, possa essere sostituito con uno più anziano e più capace. Il ricambio dovrebbe prescindere dall’età, e anche dal sesso. Se una donna è cretina stia a casa, esattamente come un uomo. E allora, se essere giovani non è un merito, perché Silvio Berlusconi non dovrebbe ricandidarsi fino a che avrà la capacità di farsi eleggere e di governare? Puttaniere, corrotto, configgente, anziano. Che cosa c’è ancora da inventare? Ma mi faccia il piacere! avrebbe detto Totò. Anziano sarà lei. (il Predellino)