venerdì 29 agosto 2014

Vogliono toglierci la libertà di critica. Ida Magli

Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà.
Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme.

Siamo sempre nel campo della psichiatria.

Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo.

È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari?

Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia.

Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.

(il Giornale)

 

giovedì 28 agosto 2014

Diritto di cancellarli. Davide Giacalone


Certo che si deve comprenderli, i terroristi fondamentalisti. Capirne le motivazioni. Indagarne i legami. Misurarne la penetrazione. Bisogna capirli per meglio annientarli. E per quanto la cosa possa sembrare surreale, dedico le righe che seguono allo spiegare perché ritengo sia un mio diritto, un nostro diritto, un diritto del mondo libero e democratico, volerli annientare.

I califfanti dell’Isis o i terroristi di Hamas una cosa la sanno per certa: gli uni non riusciranno mai ad instaurare un duraturo regno dello sgozzamento, gli altri non riusciranno mai a cancellare Israele. Essi agiscono, e a tale scopo vengono finanziati, prima di tutto per usare il conflitto con l’occidente quale sistema per ricattare il mondo del quale sono parte. L’Islam può ben vivere senza scannare gli infedeli, e vi fu un tempo in cui era più pericoloso esserlo nelle terre cristiane che in quelle islamiche, ma la guerra agli infedeli e tagliar loro la gola serve a questi criminali per reclamare il proprio ruolo nel mondo islamico. Per mettere in difficoltà l’Arabia Saudita, che gli infedeli li favorì, quando servirono a fermare l’invasione irachena del Kuwait, e con gli infedeli fanno accordi e affari (da ultimo l’interessante asse con israeliani ed egiziani). Hamas usa i palestinesi come ostaggi, continuando a lanciare missili su Israele e sollecitandone la risposta il più violenta e cieca possibile. La prima cosa da comprendere, quindi, è che questa gente fa, sebbene in modo inaccettabile, politica. la domanda è: la loro politica mi è favorevole o avversa? Posto che è vera la seconda cosa e posto che ammazzano, è lecito ammazzarli.

In base a quel diritto affermo di volerlo fare? In base alla superiorità della mia civiltà. Immagino lo sgomento dei nasucci arricciati. Esatto: per superiore civiltà. So bene che trattasi di giudizi che cambiano nel tempo e nello spazio, ma ritengo che il nostro modello civile sia superiore a quello di tutti i fondamentalismi, per una semplice ragione: nel mio mondo loro possono vivere, nel loro mondo vengo ucciso. Nel mio mondo ogni fede è consentita, purché non prevarichi diritti e dignità altrui. Nel loro mondo fuori dalla fede c’è la morte. Nel mio mondo lo Stato è laico, nel loro s’incarna nella guida religiosa. Siamo superiori. Ernesto Galli della Loggia si è chiesto, retoricamente: ma se accetto di guerreggiare con chi è mosso da ragioni religiose, la mia non è forse una guerra di religione? Domanda che presuppone la risposta affermativa. Invece è negativa: no. I nazisti sterminavano gli ebrei, per ragioni di razzismo, se muovo loro guerra non partecipo a una guerra razzista, ma animo un sano scontro fra la civiltà e la barbarie. La prima si chiama tale, attribuendo alla seconda connotazioni orribili, anche perché ha vinto. Fortunatamente. Non difendo gli Yazidi dall’Isis per ragioni religiose, ma perché per ragioni religiose sono sterminati. Piuttosto diffido dall’armarli a casaccio, perché da quelle parti capita piuttosto spesso che quelli che armo oggi si rivelano i nemici di domani.

Credo, quindi, che si possa esportare la democrazia con le armi? No, non lo credo. Ma con le armi si possono battere i nemici della democrazia e coloro i quali ammazzano pur di contrastare la libertà. La democrazia è un meccanismo complesso e delicato, che prevede l’errore e la caduta anche dove funziona al meglio. In compenso i suoi nemici sono banali e rozzi. Ma non converrebbe convincerli, anziché eliminarli? Certamente. Nello sforzo ci si può anche rimediare qualche ceffone. Ma quando quelli buttano donne e bambini, vivi, nelle fosse, quando sfidano il mio mondo usando la telecamera del giornalismo per trasmettere la condanna a morte del giornalista, non è prevista la trattativa. Solo la punizione.

Ma posso combattere la malvagità ovunque ci sia? e combattendola da una parte lasciandola correre dall’altra, non commetto un’ingiustizia? Queste sono le due domande più difficili, perché alla prima si deve rispondere negativamente e alla seconda positivamente. Ed è doloroso. Ma in mancanza del tutto, qualcosa e meglio del niente.

Infine, il citato professore si pone una seconda domanda retorica: se persone che qui da noi studiato e sono cresciute poi si trovano a militare fra gli scannatori, è un caso o significa qualche cosa? Come a dire: occhio alla superiore forza di quella gente. No, sono degli imbecilli. Ne coltiviamo tanti e alcuni fanno anche carriera. Quando il nostro mondo cresceva, le diseguaglianze diminuivano, la libertà si espandeva, le nostre vie erano solcate da cortei di dementi che volevano la rivoluzione culturale di stampo maoista. Gli anti sistema ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Solo che se sfilano, li si può compatire. Se ammazzano dipende: se li prendiamo qui li arrestiamo e condanniamo, se capitano nel mirino colà, invece, li mandiamo a verificare di persona come stanno le cose, nell’aldilà.

Pubblicato da Libero

Ecco come smascherare i radical chic 2.0 (in 12 punti). Francesco Maria Del Vigo

Qualche giorno fa, sul Giornale, ho pubblicato una lista in nove punti sui tic dei radical chic on line. Questa è la versione integrale:
  1. La foto del profilo non è (quasi) mai una loro foto. Sarebbe troppo nazionalpopolare. Mettono solo frammenti di film di qualche regista polacco mai distribuiti fuori dalla circonvallazione di Varsavia.
  2. Quando scelgono una loro immagine deve essere schermata da almeno cinque o sei filtri, avere delle velleità artistiche e magari ritrarre solo una parte del viso. Espressione sempre preoccupata per i destini del mondo. Il sorriso è bandito come un retaggio del ventennio berlusconiano.
  3. L’oroscopo è un vizio da portinaia. Ma se si tratta di quello di Internazionale no. Lo condividono su tutti i social come se fosse il Vangelo.
  4. Le foto delle vacanze vanno bene solo se si è nel terzo mondo o in un campo profughi. Pose obbligatorie: sguardo corrucciato, camuffati da indigeni e nell’atto di solidarizzare con gli abitanti del luogo. Il colore (degli abitanti del luogo) deve essere intonato alla nuance dei sandali Birkenstock.
  5. Su Twitter parlano tra di loro di cose che capiscono solo loro. Sublimazione del sogno radical chic: l’esposizione mediatica del salotto (ovviamente etnico) di casa propria.
  6. Sì al selfie, ma solo se ha un significato sociale e politico. Possibilmente con un cartello in mano che sostiene la battaglia di qualche gruppo di contadini ugandesi. Ancora meglio se su iniziativa di Repubblica.it.
  7. La Reflex. Più che uno strumento fotografico è un monile, una collana da appendere al collo. Condividono e scattano foto solo con voluminosissime – e costosissime – macchine fotografiche professionali. Preferiscono Flickr a Instagram, troppo plebeo.
  8. Il meteo è il prolungamento della politica coi mezzi della natura. Se piove non è colpa del governo ladro, ma dello scioglimento dei ghiacci dovuto al capitalismo diabolico. Condividere (sui social) per educare.
  9. Il cibo non esiste. Esiste solo il food. Da fotografare e condividere sui social solo a tre condizioni: che sia a km 0 (va bene anche se è stato coltivato nella rotatoria di Piazzale Loreto), etnico o equo e solidale.
  10. La petizione on line è la nuova e comodissima forma di contestazione. Va bene per risolvere tutti i problemi: dal cambio degli stuoini nel condominio (meglio sostituirlo con un piccolo kilim) alla fame nel mondo. Basta un click. Tutto il nécessaire è su Charge.org.
  11. Film, libri, giornali. Tutto in lingua straniera. Molto chic condividere video di serie tv in lingua originale non ancora trasmessi in Italia. Appena oltrepassano le Alpi diventano rigorosamente pacchiane.
  12. Anche Youporn è troppo pop. Forse anche sessista, potrebbe addirittura essere di destra con quello sfondo nero… Meglio ripiegare su siti soft porn o intellettual-erotici. Ammesso anche spulciare tra le pagine osè di Tumblr.
    (il Giornale) 




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venerdì 8 agosto 2014

Orlando e la riforma della giustizia errata. Arturo Diaconale



Ha ragione Carlo Nordio quando sostiene che introdurre la pena pecuniaria nella responsabilità civile dei magistrati non serve a nulla e che l'unico deterrente è la penalizzazione della carriera per le toghe che sbagliano per dolo o colpa grave. Ha sempre ragione il procuratore aggiunto di Venezia quando rileva che per eliminare la piaga della politicizzazione per correnti del Csm l'unica formula da adottare sia quella del sorteggio dei nomi scelti tra i giudici che si sono più distinti nella loro carriera.
Ma sono anni che Nordio predica al deserto. Ed è facile presumere che anche questa volta le sue parole , condivise non da un qualche schieramento politico ma dalle persone di buon senso che hanno a cuore lo stato della giustizia in Italia, cadranno di nuovo nel vuoto. Le prime anticipazioni fatte filtrare accortamente dal Ministero di via Arenula indicano che la strada imboccata dal Guardasigilli Andrea Orlando va nella direzione esattamente contraria a quella indicata da Nordio e dalle persone di buon senso.

Nulla da dire sull'accortezza politica del Ministro. Che per ingraziarsi l'opinione pubblica da sempre favorevole alla responsabilità civile dei magistrati ha lanciato la proposta di aumentare al cinquanta per cento dello stipendio la soglia di rivalsa dello stato nei confronti del magistrato che sbaglia . E lo ha fatto ben sapendo , come ha spiegato Nordio, che la misura non spaventa affatto la corporazione delle toghe pronta ad usare le assicurazioni per coprire gli eventuali esborsi.. Ma tanta accortezza non riesce a nascondere la vera ispirazione di Orlando. Che non è quella di realizzare una riforma capace di correggere le storture del sistema giudiziario provocate da alcuni decenni di cultura giustizialista. Ma è quella di proseguire lungo la strada indicata dai forcaioli e dai manettari in toga ed in borghese realizzando una riforma gattopardesca condivisa con le componenti più oltranziste del giustizialismo giudiziario.

Orlando usa la responsabilità civile come specchietto per le allodole dell'opinione pubblica ma punta ad una riforma concordata con gli esponenti più intransigenti della corporazione dei magistrati . La conferma viene dall'annuncio che ai primi posti della riforma ci sarà l'allungamento dei tempi della prescrizione. Il tutto, ufficialmente, per eliminare le tattiche dilatorie degli avvocati e rendere più certo e breve il percorso della giustizia. I propositi sono sicuramente sacrosanti e condivisibili. Gli eccessi nelle tattiche dilatorie rendono la giustizia incerta ed infinita. Ma tornare per la prescrizione all'heri dicebamus dei tempi lunghi significa ignorare lo strame dei diritti dei cittadini imputati provocato in passato dai giudizi senza precisi limiti di tempo. Non è vero, infatti, che nel 2005 i tempi della prescrizione sono stati accorciati solo per assicurare l'impunità a Silvio Berlusconi. Chi predica questa vulgata sa bene che la misura fatta ad personam per il Cavaliere era in realtà rivolta a risolvere una distorsione di cui era vittima la stragrande maggioranza dei cittadini caduti nel tritacarne giudiziario. Quella rappresentata dalla possibilità offerta dal sistema ai magistrati di portare avanti all'infinito inchieste e processi senza freni e controlli di sorta e senza alcuna garanzia di conclusione certa per gli imputati.

I tempi brevi della prescrizione, in pratica, dovevano porre un freno ad uno strapotere che si scaricava drammaticamente sui diritti civili dei cittadini e che , non a caso, veniva regolarmente contestato e sanzionato dalla Corte Europea. I primi segnali provenienti dal Ministero e dalla stampa compiacente indicano che Orlando, in pieno accordo con l'Anm, vuole tornare al passato. Se è così è bene prepararsi a dare battaglia e ad attrezzarsi per il referendum abrogativo di una riforma regressiva e da stato di polizia!

(l'Opinione)

 

giovedì 7 agosto 2014

Il Cav. e i veri caimani che un dio ha accecato fino al ridicolo. Giuliano Ferrara

 
Silvio Berlusconi (foto LaPesse)

L’accanimento è diventato fissazione, e la fissazione, come dice il mio amico Sottile, è peggio della malattia. La faccenda di Berlusconi è sempre più chiara, ma un dio ha dementato coloro che vuol perdere. Il Cav. non è una vittima, non è uno qualunque in pasto ai cani, ha troppi soldi e troppi avvocati e troppo sense of humour per aspirare al ruolo. Non è nemmeno un Churchill, e lui lo sa, è troppo legato alla dimensione privata, milanese e lombarda, per gareggiare con una figura della parabola imperiale dell’aristocrazia britannica, eppoi la storia nostra di questo tempo è nostra, è più piccola per tutti. Ma anche il più stupido, anche il più prevenuto, anche il più incline a peccare di gola, di interesse privato in atti di informazione, ha capito come stanno le cose, in cuor suo.

Non è una vittima, ma è stato perseguito in giustizia con furia e passione e pregiudizio per vent’anni, da quando entrò in politica, per ragioni politiche e culturali o antropologiche. E’ stato selezionato, messo fuori dal gruppo, e battuto, processo dopo processo fino a quella che sembrò una vittoria o bastonatura finale, la famosa condanna definitiva pronunciata dalla sezione feriale della Cassazione in tutta fretta, e intitolata al giudice Esposito addirittura, e si rivela una mezza sconfitta già da ora. Se questo è vero o verosimile, ed è comunque ciò che appare non solo in virtù dell’assoluzione nel tragicomico processo Ruby, il più grave incidente della magistratura militante dai tempi dell’assoluzione di Andreotti, poi gabellata per condanna (non si è mai vista una condanna senza conseguenze per il condannato), la conclusione è obbligata. Anche senza voler usare parole grosse, è più vero che Berlusconi è stato perseguitato per vent’anni di quanto non sia vero che è un delinquente (il giudizio sui suoi errori, sulle sue leggerezze, sul suo status di imprenditore nell’Italia dei casini borderline, quello è libero per tutti ma non è un giudizio di rilevanza penale e in genere un tale verdetto viene pronunciato dagli elettori e poi dagli storici, non dalle corti).

Seconda questione. Anche gli scemi e i perfidi devono riconoscere in cuor loro che di Berlusconi si era detto, sceneggiando il racconto del Caimano: sarà condannato e metterà l’Italia a ferro e fuoco. Detto mille volte e girato anche al cinema. Ora un Nanni Moretti, se non voglia essere preso per un quaquaraqua, dovrebbe riconoscere di avere sbagliato, di essere incorso in una rappresentazione retorica dell’Arcinemico del tutto grottesca, ma non per lo stile, per il contenuto. La democrazia non fu mai in pericolo, non c’erano Caimani con mascelle di ferro pronti ad azzannare le istituzioni e la libertà. E il fatto, che riguarda quasi tutti i giornalisti italiani, gli scrittori imbelli dell’Italia che piace, i cazzoni di Raitre e altri ridicoli calunniatori, è ormai così pacifico che a negarlo si mostra, appunto, un accanimento diventato fissazione e alla fine degenerato in grave malattia.

Sappiamo in verità che Berlusconi si è dimesso responsabilmente, se non liberamente o spontaneamente, ha avallato l’esperimento Monti, ha rieletto Napolitano dopo le elezioni, ha appoggiato perfino un Enrico Letta, una specie di vendicativo e ingrugnito Prodi senza il minimo charme e senza alcuna competenza politica, per dare stabilità al paese in cui giravano liberi i cani feroci che lo azzannavano, e alla fine ha compiuto e sta compiendo atti politici che fanno scoppiare il cuore e il cervello dei nemici della democrazia italiana, quelli veri, tosti, inorgogliti, incarogniti. E’ all’opposizione ma dà il suo assenso al governo possibile del paese, sostenendo Renzi e il suo esecutivo nelle riforme istituzionali; paga anche pegno elettorale ma si identifica fino a un certo punto con la rivoluzione generazionale in atto e con il nuovo corso riformista, anticlassista e anticorporativo, della politica a sinistra, e fa tutto questo tra una visita e l’altra, mite e ipercorretta e anche ironica, a Cesano Boscone. Non è il comportamento di un uomo di stato, incappato in un’avventurosa inimicizia ma capace per oltre due decenni di fronteggiarla con tenacia e alla fine dei conti senza strafare?

Ecco. Dovrebbero ammettere tutto questo, perché la politica e la vita civile in Italia riacquistasse un minimo di credibilità, gli stessi che invece s’inventano il delinquente che tratta sottobanco, che rimugina il desiderio di vendetta, che pensa solo alle sue aziende, che resta sempre – deve restare pena la sconfessione dell’orda famelica dei suoi aggressori – un soggetto completamente anomalo, un pericolo e un’insidia antidemocratica, un animale dentato pronto a divorarci tutti come prede. Nei titoli di Repubblica, nelle intemerate dei travaglisti, nelle coglionate di Grillo & Casaleggio, nelle narrazioni dello stordito Vendola, negli articoli del professor Asor Rosa, nelle inquietudini antirenziane degli ex terzisti, in tutto questo permane quell’equivoco che non dirò poco liberale, sarebbe un complimento, ma del tutto insensato, invece, e rivelatore: questo sì. Quand’è che uno, dico uno, uno solo, avrà il coraggio, tra i mammasantissima di quell’infelice Italietta tracotante, di dire la verità e riconoscere il dovuto a tutti noi, a questi vent’anni?

© FOGLIO QUOTIDIANO
 
 

lunedì 4 agosto 2014

La faccia tosta e le tante colpe dei maestrini ambientalisti. Franco Battaglia


Fa un poco di pena e molta rabbia ascoltare il presidente onorario di Legambiente, Ermete Realacci, sdottorare sugli eventi tragici. Sui quali plana come fanno gli avvoltoi che, non paghi della carne di cui si sono già saziati, cercano di succhiare altro sangue dalle vittime.
Sentite qua le dichiarazioni che l'onorevole, chili di bronzo sulla faccia, non ha il pudore di risparmiarci: «La bomba d'acqua nel Trevigiano conferma purtroppo tragicamente la necessità di contrastare i mutamenti climatici e gestire bene il territorio.

Una politica utile e lungimirante deve dare priorità alla riduzione dei gas a effetto serra e considerare la manutenzione del territorio la prima grande opera che serve all'Italia. La nostra economia può ripartire anche da qui».

Questo signore è tra i responsabili morali dei fatti, sui quali dovrebbe almeno tacere. Per ben trent'anni è stato cattivo maestro, strepitando che bisognava proteggersi dagli eventi climatici impegnando denaro pubblico con la green economy . Che consiste nel finanziare l'installazione di impianti eolici e fotovoltaici, sui quali quelli di Legambiente devono aver fatto lucrosi affari, come ha denunciato Il Fatto Quotidiano dello scorso 10 giugno: «Legambiente ha quote in società coinvolte negli affari della riduzione della CO2». Una di queste è la Sorgenia dei De Benedetti che, recita il sito web di Legambiente, «sostiene le attività» dell'associazione ambientalista. Già: come la Volpe zoppa sostiene il Gatto cieco.

E cieca è stata l'isteria ambientalista a portare il Paese nel baratro economico e ambientale, inducendolo, prima, a rinnegare la fonte nucleare d'energia, l'unica che avrebbe messo la parola fine ad ogni discussione di politica energetica; e poi a terrorizzare la popolazione con lo spettro dei cambiamenti climatici, inducendo i governi ad affrontare il presunto problema impegnando centinaia di miliardi su presunte soluzioni.

Perché bisogna aver chiaro che il problema della CO2 è finto e, anche fosse vero (ma non lo è), neanche centinaia di migliaia di miliardi impegnati su quelle tecnologie potranno mai scalfirlo. La piovosità del luglio 2014 è del 70% maggiore della piovosità media del periodo 1970-2000. E allora? Chissenefrega! Perché, se è vero quanto appena detto, è anche vero che il luglio 1932 fu il 50% più piovoso del luglio 2014, e dal 1800 a oggi ci sono stati altri 12 luglio più piovosi. Questo luglio è stato più fresco del solito? Chissenefrega: i lugli del 1993 e del 1996 furono ancora più freschi. Alla faccia del riscaldamento globale sul quale quelli di Legambiente hanno costruito la propria fortuna politica ed economica.

Ciò di cui invece non dovremmo fregarcene è che il clima fa i capricci: in ogni stagione di ogni anno v'è sempre stato e sempre vi sarà quel giorno, anche uno solo, in cui quei capricci hanno conseguenze tragiche.

Abbiamo una sola via da percorrere, ed è quella che proprio Realacci - per mettere una foglia di fico sulle proprie vergogne - ha indicato: considerare la manutenzione del territorio una grande opera che serve all'Italia. Ma servono tanti soldi. È cruciale innanzitutto interrompere, anche retroattivamente se necessario, lo sperpero delle sovvenzioni a eolico e fotovoltaico: sono diverse centinaia di miliardi che andrebbero riversate nelle tasche degli ingegneri e dei geologi in cambio della messa in sicurezza del nostro povero territorio abbandonato per troppi decenni. E poi bisogna isolare e mettere da parte gli ambientalisti e togliere dalle loro irresponsabili mani il giocattolo pericoloso di cui si sono impossessati.

(il Giornale)