venerdì 26 giugno 2015

Lo scollamento tra popolo e ufficialità. Gianni Pardo

 
 
Come si risolve il problema dell’immigrazione clandestina?”
“Basta affondare i barconi a cannonate con tutti gli immigranti dentro e l’immigrazione finirà”.
Questo ideale dialogo è quanto di più “politically incorrect” si possa immaginare. È contro il codice penale, contro la legge del mare, contro la morale e contro il buon senso. Non si vede contro che cos’altro debba essere, per dire che non è plausibile: ma ciò non è sufficiente per dire che non bisogna tenerne conto.
I principi che i singoli dicono di seguire dipendono spesso dallo strato della società cui appartengono. Più la società è ricca, più è cortese e, non raramente, generosa. Un cane affamato troverà molto più facilmente chi gli dia da mangiare se il benefattore a sua volta ha già mangiato; se viceversa il possibile donatore ha fame ed ha soltanto un pezzo di pane, il cane non avrà speranze. Ciò si estende all’intera mentalità. Il ricco predicherà la piccola generosità (non la grande) perché può permettersela senza sforzo, mentre il povero ascolterà con fastidio le nobili esortazioni, perché per lui significano o privarsi di qualcosa di cui ha bisogno o essere giudicato egoista.
Un esempio analogo si ha in materia di razzismo. Negli anni in cui i “cafoni” meridionali andavano a lavorare alla Fiat di Torino, era ovvio che cercassero alloggi a basso prezzo. E poiché si comportavano male (a quei tempi c’era un maggiore divario di civiltà, fra Nord e Sud) finivano col rendersi odiosi ai torinesi, i quali dunque reagivano da “razzisti”. Ma quali torinesi? Naturalmente i loro vicini di casa, anche loro poveri. Ecco perché ancora oggi, quando qualcuno predica il massimo di apertura agli immigranti, vien fatto da chiedergli: “Scusi, lei dove vive? Ai Parioli? Quanti vicini immigrati ha?”
In quello specchio del mondo che è Internet, si scopre che la Francia ufficiale è egalitaria e antirazzista, la Francia profonda è esasperata. Si lamenta da un lato delle tasse che è costretta a pagare, dall’altro dei vantaggi che sono concessi a volte agli immigrati a preferenza degli stessi francesi poveri.
In materia di sociologia, come di politica, il moralismo non serve a capire. Per sapere in che misura un Paese sia antisemita, non bisogna guardare le sue istituzioni o le dichiarazioni ufficiali dei suoi rappresentanti, bisogna guardare a quelle oceaniche sedute psicoanalitiche che sono i commenti nei blog. Si scopre così che anche in un Paese come l’Italia, che pure non ha le peggiori tradizioni in materia, l’antisemitismo è ben più diffuso di quanto non risulti ufficialmente.
Per capire qual è la realtà, bisogna innanzi tutto essere disposti a vederla com’è, e non come si vorrebbe che fosse; ed è proprio in questo campo che mentre l’Italia ufficiale parla del dovere di concedere asilo politico, del dovere di accoglienza, del dovere di solidarietà umana, e di altri bei doveri ancora, la base ha tutt’altri sentimenti. Questi doveri non li sente molto. 
Ha ragione? Ha torto? Non è questo il punto. Il punto è che i governanti e i politici devono tenere conto del popolo. Sia perché esso è il nuovo sovrano, come stabilisce anche la Costituzione, sia perché il popolo vota: e se si insiste in una politica nobile e alta che non tiene conto dei sentimenti della gente, il risultato è che qualche demagogo si appropria dei peggiori argomenti per farsene una piattaforma programmatica ed elettorale. In Italia il successo della Lega di Matteo Salvini non ha altra spiegazione. 
La Francia, dopo molti decenni di porte aperte al Maghreb, ha chiuso la frontiera di Mentone; l’Ungheria progetta un muro alla frontiera con la Serbia; la Gran Bretagna è disposta a salvare qualche emigrante ma non ad accoglierlo in Inghilterra. Tutti gli altri fatti di questo genere dimostrano che l’Occidente - innanzi tutto al livello popolare e poi al livello politico - sta prendendo coscienza di un pericolo. Dunque è inutile, come fanno alcuni, parlare dell’ineluttabilità dello spostamento delle grandi masse umane, delle migrazioni che da sempre fanno parte della storia, e soprattutto del dovere dell’Occidente di porre rimedio ai mali dei Paesi più sfortunati. La base su cui si regge tutto l’edificio, il popolo, ha il sentimento d’avere già dato, e chiede maggiore protezione. Ché se poi ci sono risorse per i più deboli, che si cominci dai deboli nostrani.
Non bisogna lasciare spazio a chi predica di affondare i barconi con tutti gli emigranti, ma è necessaria una politica di asilo politico serio, per gli aventi diritto, e di respingimento di tutti gli altri.
pardonuovo@myblog.it
(LSBlog)
 
 

La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Piero Ostellino

 
 
il Giornale - In un Paese civile – e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è – tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati.
Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day – per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender – una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale.
Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro – peraltro per una comprensibile reazione polemica – affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità – che è una scelta di libertà individuale – come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione – salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto.
Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale».
Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto.
Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.
(LSBlog)
 
 

lunedì 15 giugno 2015

Ingannevole e intollerabile. Davide Giacalone

 
 
 
 
Ingannevole e intollerabile. Un Paese ricco abitato da poveri. Queste le caratteristiche del ritratto fiscale, come ogni anno desumibile dalle dichiarazioni dei redditi. Un profilo deformato dal satanismo fiscale, in una gara di disonestà fra l’esattore e l’esatto, il cui esito è l’impoverimento collettivo.
L’Italia è in cima alla classifica europea per il prelievo fiscale sui redditi da lavoro (implicit tax rate). Al secondo per quello sui redditi d’impresa. Al quarto, ma stiamo risalendo, per la tassazione ricorrente sul patrimonio immobiliare. Ha un senso che chi tassa molto il patrimonio tassi meno i redditi, e viceversa, ma noi primeggiamo nel tassare tutto, portando il prelievo fiscale al 43.4% del prodotto interno lordo, nel mentre la spesa per investimenti è crollata, in tre anni, del 27%. In sei anni, dal 2009 al 2014, le entrate fiscali sono cresciute di 55 miliardi.
La media europea del peso fiscale sui ricavi d’impresa (total tax rate) è del 41.8%. Lasciamo nel mondo dei sogni (nostri), il Regno Unito, dove è del 33.7, ma in Germania arriva al 48.8, mentre da noi ha toccato la vetta del 65.4%.
Intollerabile quel che emerge dalle dichiarazioni dei redditi, perché nel mentre si continua a sentir dire che dovrebbe aumentare la pressione fiscale sui ricchi, lasciando perdere le fasce meno abbienti, questa è la realtà (messa bene in luce da Alberto Brambilla e Paolo Novati): lo 0.19% dei contribuenti versa il 6.9% dell’intero gettito Irpef; l’1.2 il 16.3; il 4.01 il 32.6. A questi signori si dovrebbe fare un monumento, invece li si continua a tartassare con la scusa che sono “ricchi”. In realtà non lo sono affatto. Sono solo onesti. Intanto poco più di 10 milioni di italiani, il 25.23% dei contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi (circa 41 milioni), non versa praticamente nulla: 55 euro. Già solo per pagare le loro spese sanitarie si deve ricorrere ai soldi altrui. Mettete questi numeri in relazione con la retorica del dagli-al-ricco e arrivate alla conclusione: intollerabile.
Ma anche ingannevole. Perché l’Irpef è solo l’imposta sui redditi, mica il complesso delle pretese fiscali dello Stato. Martedì 16 si pagano le tasse sulla casa, che sono patrimoniali variamente mascherate. Quest’anno si batterà il record: per la prima volta si sfonda il tetto dei 50 miliardi. Il calcolo fatto dal centro studi ImpresaLavoro è impressionante: nel 2011 gravavano, sulla casa, tasse per 38 miliardi, quattro anni dopo siamo sopra 50. Non so quanti sono in grado di ricordare il balletto delle sigle: Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tari e Tasi. Ogni volta si prometteva che non ci sarebbero stati aggravi, se non addirittura sgravi, il risultato è quello appena descritto.
Già, però abbiamo avuto le semplificazioni. Quali? Le dichiarazioni precompilate si sono rivelate, come qui anticipato, precomplicate. Siamo giunti al punto che quelle già firmate e inviate potevano essere modificate e rispedite, dato che la fonte degli errori era l’amministrazione pubblica. L’introduzione della certificazione unica ha creato un caos pericoloso, anche perché il programma per poterla fare correttamente è stato distribuito pochi giorni prima della scadenza, risultato: ritardi, errori, certificazioni non regolari. Per ciascuna difformità il contribuente dovrebbe pagare 100 euro di multa, salvo l’aggravio d’imposta e relativa maggiorazione. Stanno provando a eliminare almeno la multa, visto che è proprio l’Agenzia a perdonare sé stessa. Per le tasse locali dovevano arrivare i bollettini precompilati, che non solo mancano, nella grande maggioranza dei casi, ma neanche è stata fissata l’aliquota da pagarsi, per cui martedì siamo tenuti a pagare quanto pagammo l’anno scorso, salvo attendere che ci facciano sapere a quanto ammonta la differenza da versare poi. Alla faccia delle semplificazioni.
Il satanismo fiscale, inoltre, ha affondato l’ipotesi di far aumentare la liquidità nelle tasche delle famiglie, quindi la propensione alla spesa, mediante anticipazione in busta paga del Trattamento fine rapporto. Ha aderito all’idea solo lo 0,056% dei lavoratori, mentre il 60% dichiarava di non volerlo fare perché avrebbe comportato un consistente svantaggio fiscale. Ed è così.
Nessuno, che sia serio e abbia sale in zucca, crede che questa sia una materia semplice o che si possa cambiarla con un tocco di bacchetta magica. Ma nessuno, che non sia un propagandista da tre palle un soldo, può sostenere che si siano fatti passi in avanti. Il cappio è invariato: la pressione fiscale quale variabile dipendente dalla spesa pubblica, che nonostante i tagli, il drastico abbattimento degli investimenti e i bassi tassi d’interesse che dobbiamo alla Banca centrale europea, continua a camminare per i fatti suoi. Questo è il quadro in cui si deve inserire l’idea del governo Renzi di tornare al capitalismo di Stato, che nell’illusione di far crescere il pil mantiene altissima una pressione fiscale che lo asfissia.
(LSBlog)
 
 
 
 

giovedì 4 giugno 2015

Chi ha paura di Salvini (e di Berlusconi). Salvatore Tramontano

 

Tutte le volte che la razza degli eletti non capisce, ha paura. E quando ha paura demonizza i nemici

Ci risiamo. Tutte le volte che la razza degli eletti non capisce, ha paura. E quando ha paura demonizza i nemici.
 D'altra parte non poteva certo essere Renzi, che si considera il migliore dei migliori, a rottamare il complesso di superiorità in cui si rifugiano il Pd e i suoi narratori, quando perdono. È successo con Berlusconi, accade oggi con Salvini. I migliori, per autocertificazione, considerano barbari tutti quelli che non accettino passivamente la loro superiorità. Così alla luce dell'indiscutibile successo della Lega, Repubblica non ha perso tempo nel bollare il messaggio di Salvini come estremista e brutale. Per i custodi della verità la campana di Cacciari: «La Lega rappresenta qualcosa di reale, il Pd nulla» suona a vuoto. Peccato che sempre più italiani comincino a pensarla come Cacciari. Meglio un messaggio brutale, ma reale, che continuare ad ascoltare Renzi e i suoi cantori che ci massacrano le scatole con il surreale dibattito se l'Italia debba essere guidata dal Pd o dal Partito della nazione.
Detto questo, bisogna ammettere che - al netto dei pregiudizi - c'è del vero nelle analisi dei «superiori». Non ci riferiamo alla strumentale equazione Lega=M5s, che definisce entrambe forze antisistema, dimenticando volutamente che la Lega non solo governa, ma dove ha governato viene confermata con percentuali bulgare, nonostante l'astensione, come è accaduto in Veneto con Zaia. No, il problema di Salvini non è Grillo, ma Berlusconi. Senza il Cavaliere, le sue possibilità di essere realmente l'anti-Renzi diminuiscono drasticamente. Non è questione di rapporti di forza. Per quanto straordinario, il risultato della Lega rischia di essere ingoiato da due buchi neri: il Sud e l'astensione. Se anche la brutalità del messaggio ha fallito, è perché Salvini non viene ancora percepito come un leader capace di rappresentare tutti. Al di là dei luoghi comuni, «sa parlare solo alla pancia», come se la pancia e la testa non fossero tutt'uno, Salvini per vincere e governare deve allargare il consenso all'intero centrodestra e per farlo non può imporsi sugli alleati, ma unire. E per riuscirci ha bisogno di Berlusconi, l'unico capace di unire i moderati. Ma, come insegnano i casi Tosi e Fitto, unire non significa imbarcare tutti gli Alfano. Meglio fare a meno dell'opportunismo di chi cerca solo una poltrona. Si perde qualche voto, ma si guadagna in chiarezza. Quello che chiedono gli astenuti. La Liguria ha rottamato il mito dell'imbattibilità di Renzi, ora tocca a Salvini asfaltare la leggenda che non sarà mai un leader di governo.
(il Giornale)
 
 

Rispettare i rom non vuol dire tollerare tutto. Piero Ostellino

 

Dalla bella trasmissione televisiva di Paolo Del Debbio apprendo che il ministero delle Pari Opportunità ha bandito dal nostro vocabolario la parola «zingari».

 Non la si può usare, tanto meno in una trasmissione pubblica. È un tipico caso di stupidità burocratica. Quando si incomincia col proibire l'uso di certe parole, la strada che conduce alla morte della libertà si sa bene dove arrivi: a un danno non solo per chi si ritiene di proteggere in nome di una falsa idea di politicamente corretto, ma per chiunque altro viva in un Paese siffatto. La parola è bandita perché è ritenuta una brutta parola o, meglio, perché sarebbe l'espressione che definisce un modo di vivere profondamente diverso da quello comune. Ma il ministero delle Pari Opportunità, tanto sensibile alla parola, è del tutto insensibile e non fa nulla per facilitare l'integrazione degli zingari, o rom che siano, incominciando, ad esempio, col costringerli a mandare i figli a scuola invece di consentire loro di addestrarli a borseggiare i viaggiatori della metropolitana.
Non credo sia una forma di rispetto per i rom lasciare che essi si comportino da noi come non conoscessero, o come non ci fossero, altre leggi e altri modi di vivere se non i loro. L'integrazione dei rom, o zingari che dir si voglia, è diventato un problema perché la «Repubblica fondata sul lavoro» tollera o, addirittura facilita, che ci siano immigrati che non lavorano, che vivono a spese della collettività che li ha accolti, che continuano a comportarsi secondo regole e costumi loro propri. Un Paese normale, che si rispetti, che voglia essere rispettato, e non sia prigioniero dei propri pregiudizi, per quanto nobili essi gli sembrino, dovrebbe dire chiaramente a chi vuol venire da noi quali sono le nostre leggi e quali i nostri costumi e che se vuole vivere in Italia si deve adeguare agli uni (i costumi) e rispettare le altre (le leggi). Chi non si adegua, lo si rispedisce al proprio Paese di origine o dal quale proviene.
Fa parte della cultura nomade degli zingari avere e coltivare propri modi di vita che non sempre, o quasi mai, coincidono con quelli dei Paesi dove si insediano. Un conto è rispettare quei modi di vita e non imporre forme di integrazione che li contraddicano apertamente; un altro è illudersi che chiunque arrivi da noi, da qualunque parte arrivi, si adegui ai primi e rispetti le seconde senza manco conoscerle. Da noi, rubare è un crimine e, in quanto tale, è perseguito, indipendentemente dall'etnia cui appartiene chi ruba. Chi lo fa è fuori dalla nostra legge e, in quanto tale, è fuori dalla convivenza comune a tutti i cittadini italiani. Punto. Il resto sono chiacchiere buoniste o, peggio, è l'alibi col quale si legittima la speculazione di interessi economici e finanziari sui quali campa troppa gente, a partire da quegli scafisti che imbarcano gli immigrati e poi li abbandonano in mare in modo che la nostra Marina militare li salvi e il nostro ordinamento giuridico sia costretto a ospitarli come rifugiati. È inaccettabile consentire a chiunque arrivi di comportarsi come crede in spregio ai costumi diffusi e in violazione delle leggi. Così com'è inaccettabile che lo Stato sia complice dei malfattori o degli speculatori che sull'immigrazione si arricchiscono. È vergognoso, uno dei tanti danni che la sinistra ha fatto al Paese e a chi ci lavora e ci vive onestamente come tanti fra gli stessi immigrati.
piero.ostellino@ilgiornale.it