lunedì 30 agosto 2010

Il Cav. sempre sul banco degli imputati, Fini sempre libero di spargere veleni. Giuliano Cazzola

Chi ha avuto la cortesia, la pazienza e l’opportunità di leggere quanto ho scritto dopo la crisi del PdL sa che non ho condiviso affatto la decisione di arrivare al redde rationem con Fini e i finiani.

Nei giorni che hanno seguito la nascita di un nuovo gruppo parlamentare non mi sono piaciute le esibizioni di quanti reclamavano, alla stregua di un’ordalia, le elezioni anticipate il più presto possibile, addirittura durante le feste natalizie.

Allo stesso modo ho trovato esagerata la campagna di stampa condotta contro il presidente della Camera, nei confronti del quale nutro sentimenti di stima e di amicizia, anche perché ero amico di suo padre. Sono pertanto compiaciuto per il prevalere di toni più sereni negli ultimi giorni anche se credo che, nella vicenda del PdL, si giochi una partita molto più complessa, condotta da tanti protagonisti e destinata a nuovi sviluppi fin dai prossimi mesi; una partita che mira ad una sorta di "soluzione finale" dell’esperienza di Silvio Berlusconi.

Tutto ciò premesso, non posso non rimanere allibito di fronte ad una precisa circostanza: a Gianfranco Fini sono stati permessi atti e comportamenti che nel caso di Silvio Berlusconi hanno costituito oggetto di polemiche velenose ed inquietanti.

In sostanza, dall’inizio della legislatura Fini ha ricevuto un "salvacondotto di regime" soltanto perché la sua azione politica entrava quotidianamente in contrasto con quella del Cavaliere. Non si è mai visto un Presidente della Camera gettarsi a gamba tesa nel dibattito politico fino al punto di fondare ed orientare un proprio gruppo parlamentare, avendo così la possibilità di condizionare la maggioranza e il Governo, sia dirigendo i lavori della Camera, sia attraverso il ruolo determinante dei deputati (e dei senatori) che a lui fanno riferimento. Certo, anche nel caso di Berlusconi ci sono delle anomalie (il potenziale conflitto di interessi), ma a lui non si perdona niente di ciò che ad altri si perdona con tanta pelosa generosità.

Nel corso dell’ultimo anno la vita privata del premier è stata saccheggiata da ogni punto di vista dai media. Sono state violate le amicizie, le abitazioni del Cavaliere. Si è promossa una campagna contro le "veline" premiate con un seggio parlamentare, salvo rendersi conto che le deputate elette a Strasburgo nelle liste del PdL erano brave, serie e preparate (oltrechè avvenenti) e capaci di conquistare decine di migliaia di preferenze. Nel Pd è bastato che una suffragetta del "io sono il nuovo che avanza" facesse un bel discorso per trasformarla in una Giovanna D’Arco in sedicesimo.

C’è stato poi lo "scandalo" di Noemi. Un quotidiano scoprì che Berlusconi partecipava ad una festa nel napoletano e subito andò alla ricerca del "gatta ci cova" (Veronica Lario, in verità, ci mise del suo). Per settimane si perseguì ogni possibile ipotesi, si rintracciarono fidanzatini pronti ad ammettere tutto e il suo contrario, si dedicarono al caso migliaia di righe, si sguinzagliarono giornalisti che avevano dei rapporti confidenziali con i servizi segreti, ma alla fine, non si arrivò a capo di nulla. Poi venne il momento delle escort che si facevano fotografare nei bagni di Palazzo Grazioli. E di nuovo pagine e pagine, interviste, memoriali, libri di confessioni. Emersero forse stili di via discutibili, ma niente di più. Anche questa campagna fu presto archiviata. Anzi il suo risvolto giudiziario rischiò di rivolgersi bruscamente contro la sinistra pugliese.

Cominciò allora una nuova strategia. Quella di colpire e banalizzare i maggiori successi del Governo a partire dalla ricostruzione in Abruzzo e dal suo uomo simbolo, Guido Bertolaso, di cui vennero intercettate e copiosamente diffuse alcune conversazioni telefoniche che gettavano un’ombra di dubbio sulla natura dei "massaggi" a cui il sottosegretario si sottoponeva. Sappiamo tutti che, grazie alle intercettazioni, rimase nella rete qualche pesce grosso, di cui Berlusconi chiese ed ottenne subito le dimissioni.

In ogni caso, è bene ricordare che ognuna di queste vicende, nonostante il clamore prodotto, è finita ben presto in un vicolo cieco. Eppure chi poteva parlare (e in altri più recenti casi ha parlato a piena copertura di una personalità sotto il tiro - un po’ sgangherato ma non privo di sostanza - di taluni giornali) si è guardato bene dal profferire una sola parola in difesa del presidente del Consiglio, fino a prova contraria anch’esso riconducibile all’elenco delle istituzioni.

Ma ciò di cui non riusciamo a capacitarci ci riporta alla querela di Silvio Berlusconi nei confronti dei quotidiani che lo avevano attaccato più a lungo, senza prove e con più veemenza. La Fnsi in quella circostanza proclamò una giornata di lotta in difesa della libertà d’informazione e insieme ad altre sigle di regime promosse a Piazza del Popolo a Roma una manifestazione in cui fu oratore un ex presidente della Consulta. L’accusa di intimidire la libera stampa arrivò persino al Parlamento europeo.

In questi giorni Gianfranco Fini ha ritenuto di querelare i giornali che continuavano ad insistere sulla vicenda monegasca. Era suo diritto. Ma nessuno si è sognato di invocare la libertà di stampa. Fini si è dato da solo delle spiegazioni in otto punti molti dei quali erano evidentemente sottoponibili a smentite. Ma non ha subito l’accanimento con cui la Repubblica ha insistito con le dieci domande a Silvio Berlusconi. In ogni caso, meglio così. Due torti non fanno mai una ragione.

E’ ora di finirla con la politica del buco della serratura e con l’uso delle intercettazioni ai fini dello "sputtanamento" della personalità degli avversari. Ma quando il Pd costruisce la sua politica delle alleanze con la rappresentazione di due circonferenze concentriche (quella più larga per abbattere Berlusconi, quella più stretta per governare) c’è da chiedersi in quale Paese viviamo. (l'Occidentale)

giovedì 26 agosto 2010

Anche a Repubblica hanno scoperto "l'Hamastan".

Conosciamo fin troppo bene la retorica su Gaza, la Striscia sotto assedio, il "campo di concentramento" a cielo aperto più grande del mondo dove gli israeliani tengono "prigionieri" un milione e mezzo di persone, "senza luce né acqua", dopo averla "rasa al suolo" con l'Operazione Piombo Fuso del 2008. Abbiamo ascoltato le grandi narrazioni sulla "nakba" e l'olocausto del popolo palestinese, ma anche quelle secondo cui Hamas sarebbe un governo democraticamente eletto che assicura al suo popolo un minimo di welfare state.

Tutte descrizioni che si rinverdiscono grazie alla grancassa dei media occidentali che pendono per i palestinesi e avversano la destra "fondamentalista" di Bibi Netanyahu e del suo ministro degli esteri Liebermann. E apparentemente, leggendo l'incipit del reportage apparso oggi su Repubblica non scopriamo niente di nuovo: "l'Operazione Piombo Fuso ha intaccato le strutture, disarticolato un territorio urbano, distrutto un'economia", se non fosse che subito dopo all'autore sfugge un inedito "l'incapacità di Hamas di essere partito di governo ha fatto il resto", che non ci saremmo aspettati e ci ha spinto a proseguire nella lettura.

Così Repubblica 'scopre' che a Gaza c'è un "regime", che "la democrazia non abita da queste parti", che "qui si impone col pugno di ferro, soffocando anche nel sangue ogni opposizione e restringendo anche la libertà di espressione". E ancora, che "gli estremisti bocciano il dialogo con Obama", che c'è una guerra civile fra Hamas e l'ANP, che "l'islamizzazione forzata della Striscia va avanti senza leggi ma a colpi di minacce, intimidazioni, piccole e grandi vendette". Conclusione: la vita nella Striscia è un incubo, "e questo incubo si chiama Hamastan".

Visto che queste cose le scriviamo non da oggi ma da anni, non possiamo che apprezzare la resipiscenza del quotidiano di Largo Fochetti, il fatto che abbia capito che quello al potere a Gaza sia un regime, anche se ancora non riesce a chiamarlo per nome: fascista, stragista, terrorista. Ma viene da chiedersi se d'ora in poi sarà questa la linea seguita da Repubblica oppure il reportage sia stato un caso fortuito, rapsodico, e magari abbia un'altra spiegazione. Forse i responsabili degli esteri di Repubblica sono ancora in ferie ed è così che in redazione è sfuggito un pezzo che, per una volta, dice le cose come stanno. La verità sull'Hamastan. (l'Occidentale)

Sentenze e ingerenze. Davide Giacalone

Negli Stati Uniti la Fiat riceve i ringraziamenti e gli incoraggiamenti del Presidente, Barak Obama, e la visita, in uno stabilimento, del vice Presidente, Joe Biden. In Italia tutti pretendono di darle lezioni di diritto, il Presidente della Repubblica l’ammonisce severamente e non manca nemmeno la predica della Conferenza Episcopale. Negli Usa ha appena messo piede, cercando di rilanciare nello sviluppo quello che, altrimenti, era un fallimento annunciato, mentre in Italia rischia di trovarselo in qualche trappola, il piede. La differenza è, prevalentemente, questa: gli americani ragionano avendo in mente le regole della competizione in un mercato globale, molti italiani, invece, hanno la testa inceppata sui classici della lotta di classe, discettando ancora di “operai” e “padronato”.
Colpisce, inoltre, quanto l’assenza di cultura del diritto sia capace d’invadere la vita civile. “Le sentenze si rispettano”, è stato autorevolmente detto. Per esprimere questo concetto Giorgio Napolitano ricorre anche ad una forma espressiva cui i costituenti non avevano immaginato: la risposta alle lettere dei cittadini, in questo caso dei tre interessati al giudizio. Subito plaudente la stampa che non ha il coraggio di descrivere l’evidenza, ovvero che il Presidente della Repubblica è, ancora una volta, uscito dal seminato. Immediatamente presente anche il monsignore di complemento che, per la verità, inguaia Napolitano, visto che manifesta la sua gioia per il fatto che dei tre operai si tuteli non solo il reddito (come stabilisce la legge ed è loro diritto), ma anche la funzione interna alla fabbrica, supponendo questa abbia a che vedere con la “persona” e con “l’ambiente” (accidenti, il sociologismo esonda anche nei seminari). E in tanto tripudio sfuggono due cosette: a. la sentenza definita non c’è, semmai è in corso un processo; b. nessuno, ma guarda un po’, si pone il problema dell’indirizzo politico fornito al giudice di secondo grado, la cui autonomia di giudizio si dovrà, eventualmente, solo al suo personale coraggio.
Il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha dovuto far osservare che la Fiat ha già rispettato la sentenza di primo grado, eseguendo il reintegro. Ma non può essere un giudice, né un politico, né una carica istituzionale a dire chi deve fare cosa dentro una fabbrica. Se questa fosse la dottrina nazionale la conseguenza sarebbe una sola: chiudere le fabbriche italiane e riaprirle in Polonia, Serbia, o altrove.
Osservammo qui che, con il referendum a Pomigliano d’Arco, non si poteva scaricare sulle spalle di quegli operai l’onere di rispondere alle conseguenze della globalizzazione. E scrissi che il licenziamento dei tre operai di Melfi era troppo vicino a quel referendum per non essere la risposta di una direzione aziendale che intendeva riaffermare la propria sovranità sugli stabilimenti. Era tutto chiaro, fin da principio. Proprio per questo, però, è scioccamente ipocrita questa specie di giostra anti Fiat, animata da gente che è rimasta alla prima metà del secolo scorso e non ha capito un accidente di quel che accade e di quel che può accadere. Qui non si tratta di parteggiare per il “padrone”, né di schierarsi con il sindacato (cosa oltre tutto impossibile, visto che è spaccato e poco rappresentativo degli operai), si tratta di prendere atto che i termini della discussione sono diversi, riguardano l’insieme delle relazioni industriali, la natura e la forza di chi rappresenta i lavoratori, così come l’atteggiamento da tenersi nei confronti d’industriali che non intendiamo più mantenere a spese della collettività.Un tempo si diceva alla Fiat come comportarsi con il sindacato e dove impiantare gli stabilimenti, in cambio della perdita di competitività si regalavano soldi pubblici (buona parte dei quali finivano nei conti esteri della proprietà). Avendo smesso, più per bisogno che per virtù, di praticare quell’andazzo, si devono creare le condizioni affinché un’azienda prosperi in Italia. Oggi non ci sono. Una di queste è la certezza del diritto, che è l’esatto contrario dell’ingerenza politica e istituzionale nel fare la ola ad una sentenza di primo grado, ipotecando quella di secondo. Chi dice, prima che un procedimento sia concluso, che “le sentenze si rispettano” o dice una gran banalità o s’ingerisce nel procedimento, in modo niente affatto neutrale.
Tutto ciò è folcloristico, perché non sfiora neanche il centro del problema: la perdita di competitività che ci affligge da quindici anni.

sabato 14 agosto 2010

Il partigiano Giorgio difende tutti tranne il Cav. Giancarlo Perna

È un Giorgio Napolitano pimpante quello dell’intervista all’Unità, il giornale del suo partito. Ritemprato dalla vacanza a Stromboli, il presidente ha difeso con fermezza istituzioni e legislatura. Ci mancherebbe che il capo dello Stato non tenesse a entrambe. L’istituzione in questione è la presidenza della Camera, incarnata da Gianfranco Fini. C’è contro di lui - ha detto l’intervistato - «una campagna gravemente destabilizzante. È ora che finisca». Piglio affascinate con uno spruzzo di gollismo. Ricorda «la ricreazione è finita», l’interdetto del Général contro i moti del ’68. Ma ci sono alcuni però.
Come molti in questo strano Paese, il Presidente considera istituzioni degne di tutela Camera, Senato, Csm, ecc. Tutte, salvo la Presidenza del Consiglio del Cav. Oggi, infatti, si erge severo in difesa di Fini e la sua carica ma l’anno scorso non gli uscì un fiato quando il premier Berlusconi fu crocifisso su «papi» e l’escort. Vi ricordate la grancassa? E chi voleva sapere se aveva colto le grazie della pubere Noemi, chi esigeva particolari della notte con Patrizia, chi insisteva per un ricovero del Cav in una clinica del sesso. L’avventura privata divenne una sordida epopea internazionale che mise sotto assedio Palazzo Chigi. Anche nell’agosto scorso, Napolitano andò a Stromboli e ritornò rinvigorito. Ma prima e dopo fu indifferente agli sberleffi di Repubblica, ai proclami dell’immobiliarista Di Pietro, alle vesti stracciate della vergine Bindi. In una parola, al massacro dell’«istituzione». Perché questa su Fini sarebbe «una campagna destabilizzante» e quella sul Berlusca un’inezia su cui sorvolare? Forse che fare giochi d’alcova in camera propria è più grave che le tre carte sulla casa del partito finita nella disponibilità del cognatino monegasco? Delle due l’una: o Napolitano è reattivo a estati alterne per ragioni meteoropatiche; o pensa che il Cav sia un corpore vili sui cui fare impunemente tiri al bersaglio, intollerabili invece su altri che non sia lui. Se le cose stanno così, Giorgio non è credibile né ieri, né oggi.
Personalmente mi sarei aspettato che il capo dello Stato convocasse riservatamente il Presidente della Camera per suggerirgli di fare chiarezza. O, se non ama gli incontri segreti, che attraverso l’intervista gli ingiungesse di dire la verità per rispetto dell’istituzione che rappresenta. Vedo già l’obiezione. Può l’inquilino del Colle mettere platealmente in riga un così esimio collega? Entrare nel merito è contro l’etichetta e Giorgio, signore d’altri tempi, tiene al galateo istituzionale. Ma allora perché un mese fa ha pubblicamente sbugiardato il neo ministro Brancher il quale, per evitare il processo, invocava il legittimo impedimento con la scusa che era occupato organizzare il ministero? Di che cianci?, replicò con una nota ufficiale Napolitano, «non c’è nessun ministero da organizzare in quanto Brancher è stato nominato semplicemente ministro senza portafoglio». Insomma, quando vuole, Giorgio non le manda a dire. Ma lo fa solo se di mezzo c’è un uomo del Cav, salvo mummificarsi se deve tirare le orecchie al suo avversario. Conclusione: i silenzi nel 2009 per l’attacco al Berlusca e la loquacità quest’anno per puntellare Fini, sono perfetti esempi di partigianeria. E questo da un capo dello Stato, tra i migliori degli ultimi lustri, è un’autentica delusione. Di colpo, riaffiora l’opportunismo dell’antico militante del Pci.
Nell’intervista all’Unità, Napolitano fa capire di essere contro le elezioni anticipate. Nessuno gliele ha chieste - anche se il Cav ci pensa - ma mette le mani avanti. Non ci vedo, per ora, dell’antiberlusconismo preconcetto. È piuttosto il riflesso di un uomo della prima Repubblica per il quale il Parlamento è sovrano e gli elettori molto meno. Lo stesso che spinse Scalfaro - corroborato nel suo caso da dosi cavalline di odio per il Cav - al ribaltone del 1995. Non credo che Napolitano arriverà a tanto. Dopo anni di bipolarismo, è patrimonio comune che la scelta del capo del governo sia affare dell’elettore, non del trasformismo parlamentare. La cautela di Giorgio è il frutto di innato timore, al limite della pavidità, per le decisioni secche. Anche nel 2007 quando Prodi, col suo governo alle corde, andò al Colle per dimettersi, Napolitano lo rinviò alle Camere e lo costrinse a vivacchiare tra i marosi. Poi, prese atto della sciocchezza e indisse le elezioni. Farà la manfrina pure col Cav ma finirà per arrendersi.
È stato detto che Giorgio è strutturato su tre livelli. Se pensa, lo fa con coraggio. Se parla, è a mezza bocca. Se deve agire, si blocca. Da comunista, dopo la sbornia giovanile che gli fece applaudire l’occupazione sovietica dell’Ungheria, Napolitano si occidentalizzò e divenne un moderato. I suoi lo consideravano un «destro» e lo chiamarono con disprezzo «migliorista». Aveva il coraggio delle idee, non delle decisioni e al primo ruggito dei fanatici si ritraeva. Faceva coppia, come Bibì e Bibò, con Giorgio Amendola, napoletano pure lui. Per districarsi dall’omonimia, li chiamavano «Giorgio ’o sicco», alludendo al longilineo Napolitano, e «Giorgio ’o chiatto», parlando dell’armadiesco Amendola. Dodici anni dopo il plauso per l’Ungheria, ’O sicco dissentì dall’aggressione alla Cecoslovacchia. A esporsi però furono altri, tra cui il responsabile Pci degli Esteri, Carlo Galluzzi, incoraggiato da Napolitano. Ma quando Breznev alzò la voce e chiese la testa dei dissenzienti, Galluzzi fu rimosso e dalla bocca timorosa di Giorgio ’o secco non uscì un fiato. Idem a metà degli anni ’70, quando il leader Cgil, Luciano Lama, in piena crisi economica, sproloquiava sul salario come «variabile indipendente». I miglioristi la pensavano all’opposto. Toccò ad Amendola prendere Lama per il bavero e spiegargli che anche il sindacato doveva imparare a fare i conti. La teoria, in quell’ambiente, era però impopolare. E puntualmente, ’O sicco si defilò, lasciando solo ’O chiatto nella sua battaglia. Oggi, Napolitano difende - sia pure strabicamente come abbiamo visto - le istituzioni. Ma quando nel 1978 Berlinguer, l’onesto, volle la defenestrazione di Giovanni Leone dal Quirinale per colpe mai commesse, ’O sicco si mise obbediente dalla parte dei golpisti. Giunto Craxi al potere, i miglioristi - Chiaromonte, Macaluso, Colajanni, ecc - si prodigarono per avvicinare il Pci al riformismo del Cinghialone. Ma il grosso del partito non ci stava e ’O sicco, spaventato, si mimetizzò in quelle frasi buone per tutte le interpretazioni di cui è maestro. Poiché Colajanni continuava ad agitarsi, lo mollò dicendo: «È un cane sciolto». L’altro replicò: «E tu sei un cane da grembo». Aggiunse: «Sei un vile». E uscì dal Pci dove invece, adattabile come una gommapiuma, Napolitano è sempre rimasto.
È fatto così: mette la vela dove tira il vento. (il Giornale)

mercoledì 11 agosto 2010

Anomalia a sinistra. Davide Giacalone

Non c’è politico, opinionista o sondaggista che, in queste settimane di crisi politica e indebolimento del centro destra, abbia preso in considerazione, anche solo come ipotesi, la possibilità che la sinistra vinca le elezioni. Anzi, le urne sono vissute come una via per consentire a Silvio Berlusconi di vincere nuovamente. La cosa è considerata talmente pacifica e scontata, in barba al fatto che lievita il numero di cittadini che esprimono nell’astensione la loro insoddisfazione, da essere in sé un’ineludibile anomalia. Perché la sinistra è considerata incapace di battere il berlusconismo? Credo che la risposta consista nella ragione stessa per cui è morta la seconda Repubblica: perché la sinistra è berlusconizzata. Essendo un’imitazione, naturalmente, è meno convincente e attraente dell’originale.
La sinistra non può vincere perché non esiste, essendo solo il contenitore dell’antiberlusconismo. Nella smania di galleggiare senza sapere dove andare, di sopravvivere senza esistere, di cancellare l’avversario senza saper cosa fare al suo posto, la sinistra imbarca di tutto, compreso ciò che è d’estrema destra. Facendolo imita il Berlusconi del 1994, inventore di una formula inedita, che allora fu eretica: mettiamo assieme i diversi pur di battere gli avversari. Da allora in poi la sinistra lo scimmiottò, e anche quando vinse, con Romano Prodi, conseguì il risultato con metodo berlusconiano. Non occorre essere dei geni per capire che adottando il modello e il linguaggio altrui se ne resta prigionieri.
Ho incontrato, in un pubblico dibattito, un esponente giovane e intelligente del Partito Democratico. Sostiene, in tema di giustizia, tesi ragionevoli, benché, a mio avviso, minimaliste e inadeguate. E’ un interlocutore interessante, uno di quelli con cui sarebbe possibile costruire un dialogo politico. Quando gli ho detto, pubblicamente, che devono sbrigarsi a liberarsi di Antonio Di Pietro, che è l’antitesi di quella cultura giuridica di sinistra che, prima di Luciano Violante, era garantista, egli non mi ha risposto. Credo di sapere il perché: detesta il dipietrismo e, se fosse per lui, lo avrebbe già scaricato. Poi, però, nel chiacchierare senza pubblico, ha osservato: non esistono disarmi che non siano bilaterali. Vuol dire che la sinistra non può rinunciare a Di Pietro se Berlusconi non rinuncia a qualche cosa, magari alla Lega. Ecco, questo è l’errore: Di Pietro non è un’arma nelle mani del Pd, ma una pistola puntata alla testa del Pd. E in quel partito della sinistra c’è gente che non vede l’ora di tirare il grilletto.
Credono che sia un’alleanza utile, per quanto la guardino con non celata ripugnanza, perché si sono berlusconizzati. Non hanno capito che questo modo di procedere è esattamente la ragione per cui nessuno scommetterebbe un tallero sulla loro vittoria. Che, aggiungo, in queste condizioni sarebbe una tragedia.
Il berlusconismo è un fenomeno solido, con profonde radici sociali, capace d’interpretare il sentire di una vasta parte del Paese, anche se legato ad una sola persona. Nulla a che vedere con il “partito di plastica”, di cui la sinistra farneticò. La trappola del berlusconismo, per i suoi avversari, consiste nell’illudere che basti plastificarsi per competere. Errore, la sinistra deve essere del tutto diversa, deve essere un’alternativa, se spera di giocare un ruolo che non sia quello dell’altalena elettorale. Avrebbe bisogno di fare l’esatto contrario di quel che fa: a. rigettare, con vergogna, il passato comunista; b. darsi un profilo programmatico snello, ma anche netto e moderno; c. elaborare una strategia delle alleanze sociali che non sia quella, asfittica e autolesionista, dell’alleanza con le escrescenze dell’epidermide malata. Inseguire Berlusconi nell’alterazione dei toni è un contributo alla campagna dell’avversario, laddove la sinistra dovrebbe divenire riformista e moderata, capace di rassicurare i ceti che sono il midollo spinale di un Paese con la colonna vertebrale storta.
La sinistra, invece, va a rimorchio di quelli che campano d’antiberlusconismo, a cominciare da quei gruppi editoriali che vendono copie mettendo in evidenza le foto delle escort (riuscendo anche a intervistarle, assumendo l’opinione di puttane, in quanto tali, a tema di dibattito!), così come i rotocalchi scandalistici campano grazie ai presunti scoop sulla vita privata delle attricette o dei bellimbusti, meglio se corredati con foto che sarebbero state giudicate volgari nelle caserme d’un tempo. Facile che, in quel modo, non si spreme una goccia di politica, così come non si cava il sangue dalle rape.
Tutto questo m’induce a porre una domanda, che contiene la risposta: non è che, per caso, la vera anomalia italiana non è il berlusconismo, ma una sinistra incapace di cultura di governo, condannata al gretto populismo per mancanza di coraggio nel fare i conti, morali e materiali, con la sua componente storicamente più forte, quella comunista? Non è che il sistema-Italia mostra la sua arretratezza più profonda proprio sul suo lato sinistro? Credo che le cose stiano proprio così, il che, naturalmente, nulla toglie ai guasti e alle insufficienze del centro destra (che qui esaminiamo e mettiamo in luce con una severità di cui altri sono, anche tecnicamente, incapaci).
Siccome le menti raffinate e le coscienze sensibili sono, per definizione, di sinistra, ne deriva che quest’umanità insipida e spiantata ritiene che sia sanamente democratico cercare di svellere e silenziare il giudizio popolare, espresso con il voto. E basta questo per considerare opportuna ogni loro sconfitta.

venerdì 6 agosto 2010

Capolinea. Davide Giacalone

La legislatura è al capolinea. Può restarci settimane, mesi, o addirittura (il cielo non voglia) anni, ma è al capolinea. Prima di riprendere la corsa, prima di rifare il concorso per chi deve guidarla, sarà bene interrogarsi sul tragitto assegnato. Fin qui, da anni, si va avanti e indietro in un vicolo cieco. Le elezioni anticipate sono necessarie, ma non sufficienti. Non si può evitarle, ma non saranno risolutive. Di ciò deve rendersi conto il Presidente della Repubblica, che dovrebbe impegnarsi ad accorciare l’agonia, non ad allungarla. Come devono capirlo anche le forze politiche, perché un altro giro a vuoto sarebbe esiziale, sfiancante, capace di aprire la strada alla disaffezione elettorale o all’avventura.
Per curare un male occorre prima conoscerlo, diagnosticarlo con precisione, altrimenti si leniscono, inutilmente, solo i sintomi. Il primo fatto da cui partire è il seguente: il governo è finito in minoranza, ma sul niente. Tutta la storia di Giacomo Caliendo e della mozione di sfiducia, a sua volta originata dalla presunta P3, è fuffa, è il nulla, sono solo sintomi. Attenti, allora, a non confondere la tubercolosi con la bronchite. Il quadro clinico non è imperscrutabile, anzi è talmente chiaro che noi ne scriviamo dall’autunno scorso. Non eravamo matti a sostenere che sarebbe stato saggio immaginare le elezioni politiche assieme alle regionali (prospettiva cui il Quirinale si sarebbe opposto, sbagliando), perché già vedevamo quel che sarebbe successo. Non eravamo disfattisti, ma semplicemente realisti.
Guardavamo e guardiamo in faccia la realtà: a. la legislatura è cominciata con la più vasta maggioranza parlamentare (non elettorale, attenti a non confondere) della storia repubblicana; b. le elezioni intermedie hanno confermato quella maggioranza, al contrario di quel che è avvento nel resto delle democrazie occidentali; c. il nostro debito pubblico non è finito sotto gli attacchi speculativi, segno che la politica del governo non lasciava spazi a equivoci ed era considerata forte; d. la crisi ci ha colpiti, naturalmente, ma i suoi effetti sono stati ritardati e attutiti dagli ammortizzatori sociali. Non eravamo nel migliore dei mondi possibili, ma eravamo in condizioni di forza ed equilibrio. Eppure tutto era destinato a venire giù. Perché?
Perché la debolezza era ed è interna al sistema. Osserviamo come i fatti economici, strutturali e quelli politici si tengono: 1. la nostra debolezza non è la disoccupazione, ma il calo, che continua da molti anni, della produttività; 2. quel che allarma non è la recessione, che è stata dura, ma la lentezza della ripresa; 3. l’instabilità politica non deriva dall’indecisione o mobilità dell’elettorato, che, al contrario, è determinato e stabile, ma dallo sgusciare delle forze e componenti politiche; 4. il governo non è debole nella sua maggioranza parlamentare (ha cominciato con la più vasta, come appena ricordato), ma nella sua determinazione politica e nella sua consistenza istituzionale, tanto che, ancora una volta, come già accadde nel 2001, i mesi decisivi della legislatura, i primi, sono passati con il governo dell’esistente e senza l’impostazione del futuro.
Mettete assieme gli elementi del primo elenco con quelli del secondo e avrete la prima conclusione utile: il nostro è un Paese ancora forte e stabile, roso da arretratezze strutturali e depotenziato da un sistema politico che non ingrana la marcia del cambiamento, avendo serie difficoltà anche solo a controllare sé stesso. In queste condizioni possiamo votare anche ogni sei mesi, assegnare al vincitore maggioranze parlamentari sempre più ampie, comporle con soldatini sempre meno adeguati e, quindi, sempre più rissosamente acritici, ma il risultato non cambierà. Quindi le elezioni anticipate sono necessarie, ma non sufficienti.
Ne volete la controprova, come si faceva a scuola per controllare l’esattezza del risultato? Guardate l’opposizione: in tutte le democrazie al venir meno del governo gli oppositori chiedono che gli elettori gli diano il colpo di grazia, in modo da sostituire la vecchia maggioranza con una nuova, da noi, invece, sono pronti a tutto pur di non passare la palla agli italiani. In questa condotta, che di suo racconta la storia di un tragico fallimento politico, c’è del razionale, c’è del metodo, in questa follia, perché così ragionano: noi non vinceremmo, se vincessimo non saremmo capaci di governare, quindi, meglio giocare in eterno la stessa partita piuttosto che cambiare campionato, con il rischio di finire nella serie inferiore.
Il capolinea, pertanto, non è solo quello di questa legislatura, ma di tutta intera la seconda Repubblica. Basta, non ha altro da dare. L’ultima cosa utile che può fare consiste nel lasciare spazio alla terza Repubblica. Non tornare alla prima, che è impossibile, non tornare al proporzionalismo, che è inutile, ma spezzare le catene di una faziosità senza contenuti, nata dal colpo allo Stato con il quale siamo usciti, rovinosamente e come peggio non si poteva, dagli anni della guerra fredda. Silvio Berlusconi seppe deviare quel colpo, ora deve saper interrompere una gara elettorale che non porta alla governabilità. Ha i numeri per vincere ancora, li abbia per dare un senso alla vittoria, impostando non un governo eguale agli altri e come gli altri condannato, ma rendendo possibili le riforme costituzionali fin qui mancate, indispensabili per far nascere una nuova Repubblica. Non un passo indietro, come si dice in modo scontato e quasi offensivo, ma un serio e decisivo passo in avanti.
Si voti, al più presto, ma sapendo che occorre avviare una rifondazione istituzionale. Senza la quale non solo il voto sarà inutile, ma inutile verrà considerato tutto intero il mondo politico che calca la scena: i capi incapaci di parlare il linguaggio della realtà, le comparse sempre più debosciate, i cortigiani tutti, insopportabili come sempre, ma oramai giunti ad una miserabilità che sollecita i forconi.

Condannati dall'età. Irene Tinagli

Che effetto avrà il rallentamento demografico sul futuro dell’Europa? Numerosi centri di ricerca se lo chiedono da tempo, visto che il tasso di natalità continua a scendere in molti Paesi e che con la crisi anche i flussi migratori sono diminuiti e non sembrano più sufficienti a invertire il trend. Il timore principale, soprattutto per i politici, è che un’entità come l’Europa, che conta appena mezzo miliardo di persone, scompaia in termini di influenza globale di fronte a giganti come la Cina o l’India che hanno alle spalle popolazioni che superano, ciascuno, il miliardo di persone.

La popolosità ha certo una sua rilevanza: un presidente che rappresenti un miliardo di persone ha un peso diverso rispetto ad uno che ne rappresenti solo una piccola parte, anche perché popolazioni numerose alimentano mercati e consumi, attraggono investimenti etc. Ma è evidente che il numero di cittadini, da solo, non basta a fare una potenza né politica né economica. Non è solo una questione quantitativa, ma anche qualitativa, che riguarda la struttura demografica, così come la struttura economica e sociale di un Paese. Da questo punto di vista non è il mero calo demografico a dover preoccupare, ma l’invecchiamento progressivo della popolazione. La grande potenza dell’India non sta solo nel miliardo e centottanta milioni di persone, ma nel fatto che il 50% di questa popolazione ha meno di 25 anni, e il 65% meno di 35. In Cina l'età mediana è 34 anni. Per fare un confronto, l’età mediana in Italia è 43 anni, in Germania 44, e in Francia, uno dei Paesi più «giovani» d'Europa, 40.

L’invecchiamento della popolazione europea non ha soltanto, come spesso e giustamente si ricorda, conseguenze gravose sul sistema pensionistico e di spesa sociale. Ma ha effetti rilevanti anche sul fronte della produttività, della capacità innovativa e di produzione di un Paese. Su tutti questi aspetti si riflette troppo poco. Si pensa sempre a cosa significhi avere tanti vecchi, ma cosa significa, per contro, avere pochi giovani? Una popolazione più giovane significa innanzitutto avere una forza lavoro attiva, con istruzione e competenze fresche, recenti. Un giovane di 25 anni avrà un titolo di studio fresco alle spalle, saprà usare tutte le nuove tecnologie, mentre una persona di 45 o 50 anni avrà, nel migliore dei casi, una laurea vecchia più di vent’anni, probabilmente presa battendo la tesi su una Olivetti. Un giovane sotto i trent’anni tipicamente lavora più ore e con stipendi non ancora gonfiati da anni di anzianità e carriera. Vale a dire: produce di più e a costi inferiori, ha più voglia di affermarsi, di imparare, e in generale aiuta il sistema a muoversi più velocemente, a produrre ed innovare a ritmi più elevati e costi più contenuti. E questo è tanto più vero nelle economie più dinamiche, in cui gli «investimenti» in istruzione e lavoro premiano di più. Tornando al caso dell’India, per esempio, non solo la sua popolazione è per la maggior parte giovanissima, ma queste nuove generazioni hanno livelli di istruzione relativamente elevati, il 100% parla fluentemente inglese, e molti di loro sono laureati, professionisti e ingegneri di prima generazione, che non hanno alle spalle esperienze e patrimoni di supporto; hanno tutto da costruire, tutto da guadagnare. In altre parole: hanno sete di crescere, di affermarsi, di mettersi in gioco. In un’Europa in cui la classe media è esplosa ormai decenni fa, ed in cui le famiglie producono sempre più figli unici, le nuove generazioni tendono ad avere spalle più coperte rispetto ai loro colleghi cinesi ed indiani e meno incentivi a mettersi in gioco. Tanto più che i giovani europei si trovano di fronte ad economie che crescono assai più lentamente ed in cui le prospettive di riscatto e crescita economica e sociale sono, in termini relativi, assai modeste. Sono questi gli aspetti su cui l’Europa dovrebbe riflettere.

Sono la presenza, l’energia e le opportunità di crescita delle nuove generazioni a fare davvero la differenza sul futuro e l’influenza globale di un Paese, perché i giovani non solo danno un contributo chiave alle innovazioni tecnologiche ma anche ad un maggior dinamismo culturale. D’altronde i grandi trend globali, le nuove frontiere dell’arte, della scienza e anche della cultura di massa hanno più probabilità di venire da giovani artisti ribelli, scienziati emergenti e più in generale da nuove generazioni desiderose di crescere che non da ormai affermati cinquantenni e sessantenni.

La questione demografica in Europa è certamente un problema da affrontare senza ulteriori ritardi, ma prima ancora di pensare a come aumentare il numero assoluto di cittadini europei, nella speranza un po’ ingenua che aumentando il peso demografico si possa mantenere il peso politico globale, l’Europa dovrebbe concentrarsi sulla creazione di una realtà economica e sociale più fluida, dinamica e attrattiva per i giovani di tutto il mondo, con meno burocrazie e meno patrimoni e più stimoli per le attività produttive, per l’innovazione e l’imprenditorialità. Insomma, cercare di fare del Vecchio Continente un Paese per giovani, che generi quell’influenza sociale e culturale che è condizione necessaria per una vera influenza globale. (la Stampa)

giovedì 5 agosto 2010

La sinistra impose in tv la sottocultura. Marcello Veneziani

C’era una volta un’Italia bella che viveva all’ombra dell’egemonia culturale della sinistra. Poi arrivò la destra neoliberista e il popolo passò da Gramsci al gossip, e si abbruttì sotto l’egemonia sottoculturale del berlusconismo. Dall’intellettuale collettivo la bella Italia degradò al regno delle veline, dei tronisti, delle iene, dei grandi fratelli. Questa è la favola che ci viene raccontata ogni giorno dai piangenti cantori della barbarie italiana, di cui è uscita di recente anche una summa intitolata appunto L’egemonia sottoculturale di Massimiliano Panarari, edito da Einaudi (che, guarda un po’, è di proprietà berlusconiana).
È una favola reazionaria per nostalgici progressisti che vagheggiano un mondo che non c’è mai stato. Perché l’egemonia culturale della sinistra c’è stata e c’è ancora, ma non è mai stata egemonia della cultura popolare. È stata ed è un’egemonia che esercita il suo dominio nell’ambito delle minoranze intellettuali e dei poteri culturali; ma non ha mai pervaso il sentire comune. E quando dominava il gramscismo nella cultura, al potere c’era la Democrazia cristiana, il capitalismo degli Agnelli e dei Cuccia, la protezione della Nato. Quando Gramsci andava forte, la cultura popolare del nostro Paese era nelle mani di Mamma Rai di Ettore Bernabei, dei suoi sceneggiati e del suo intrattenimento, di Santa Madre Chiesa con le sue parrocchie e i suoi oratori, e del fantastico mondo di Sanremo, un disco per l’estate, Canzonissima, Miss Italia, tutto il calcio minuto per minuto, la Lotteria e il Lotto. Quando non c’era ancora la De Filippi con la tv berlusconiana c’era la Carrà sulla tv di stato, nel suo viaggio dal tuca tuca a Carramba che sorpresa. Se la tv è oggi quella corrida a cui l’avrebbe ridotta il berlusconismo, secondo Umberto Eco, è perché c’era in Rai la Corrida di Corrado che coglionava i dilettanti allo sbaraglio, alimentando narcisismo e derisione. Quando in tv non c’era Zelig berlusconiano, in Rai c’erano Franco e Ciccio; erano forse più colti e gramsciani? Se la De Filippi evoca in Panarari addirittura Nietzsche, allora Fantozzi è l’erede di Marx. E poi che senso ha attribuire questo mondo alla destra neoliberista: il Gramsci dell’egemonia sottoculturale è stato Maurizio Costanzo, nato e cresciuto in Rai e sdoganatore di opinioni, vizi e gusti «de sinistra», salvo l’ossequio all’editore. Simona Ventura, «la protovelina» per eccellenza secondo Panarari, veicola una sottoideologia antiberlusconiana, vagamente sinistrese. E molti comici e cineasti dell’era volgare berlusconiana sono succedanei gramsciani da sballo.
Alberto Asor Rosa scorge nel Grande Fratello l’ideologia dominante dell’Italia berlusconiana: chi glielo dice al Professore che il format è stato importato dalla progressista Olanda e ha fatto il giro del mondo? Chi glielo dice ai predicatori dell’Italia perduta che Amici, il becero format di Maria De Filippi, non nasce dalle viscere del berlusconismo ma è un format inglese, Pop Idol, importato in tutto il mondo, che va forte anche nell’ex sovietico Kazakistan? O che le telenovelas, la tv dei palestrati e delle rifatte, non vengono fuori dal lifting berlusconiano ma dalla tv sudamericana, colombiana e brasiliana in particolare? E quanto viene attribuito al berlusconismo, da Drive in alle sit com e ai reality, è in realtà made in Usa, cioè figlio dell’internazional-popolare?

Ma poi vi ricordate quante canzoni stupide, quanti filmazzi idioti, quanta comicità demente c’erano nell’Italia «gramsciana» degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta? Non era anche quella egemonia sottoculturale di massa? E quando Pier Paolo Pasolini voleva spegnere la stupida tv e piangeva le macerie morali e spirituali non c’era ancora la tv commerciale e Berlusconi andava ancora per crociere. E quando Eco scriveva la fenomenologia di Mike Bongiorno non c’era ancora il biscione ma la sua tv era la Rai di Stato. Quanto al gossip il nome è nuovo ma la molla è antica: si chiamava pettegolezzo e una volta si applicava al condominio o al villaggio locale. Ora si applica a internet e al villaggio globale. C’è un degrado? Sì, lo credo anch’io, ma perché discendiamo da quei presupposti e in discesa tutto acquista velocità.

Allora riassumiamo: l’egemonia sottoculturale accompagna la società consumistica di massa dal suo nascere e non è un frutto dell’anomalìa italiana e del berlusconismo. È piuttosto legata al sorgere e allo svilupparsi della tv, all’americanizzazione del mondo, al primato assoluto del vivere e del piacere, del divertirsi e dell’apparire. Sul caso italiano sono anch’io convinto che le tv commerciali abbiano contribuito a involgarire i gusti e i linguaggi, in una gara al ribasso. Ma l’egemonia sottoculturale della volgarità è descritta da Ortega y Gasset, già nel 1930, ne La ribellione delle masse.

Sul caso italiano vorrei infine che fossero considerate tre cose. Uno: quanto ha contato in questa trivializzazione di gusti e linguaggi, l’orda liberatoria del Sessantotto, e il passaggio dalla società inibita e pudica alla società esibizionista e volgare? Due, il Panarari rimpiange il Pci che «teneva sveglia la ragione»; ma quanto ha contato sull’edonismo degli anni Ottanta la voglia di fuggire dagli anni di piombo, dai totalitarismi, i gulag e le persecuzioni, il manicheismo cupo e intollerante degli anni settanta? Non fu una liberazione Drive in, Quelli della notte e loro succedanei, dal peso funesto della storia? E infine: parlate di egemonia sottoculturale; ma la cultura dov’è, come reagisce a questa egemonia, che opere sforna, come sa parlare alla gente, cosa indica di positivo oltre la dissoluzione, il nichilismo, la morte di Dio, della filosofia, della tradizione, della famiglia e della comunità? Non offre nulla. E poi non lamentatevi se qualcuno quel nulla poi lo vuole perlomeno divertente. (il Giornale)

La grande palude. Ernesto Galli Della Loggia

Tra le tante anomalie della politica italiana di questi giorni ce n’è una più «anomala» delle altre. Di fronte a una maggioranza parlamentare spaccata, che non si sa neppure se esista ancora come tale, che cosa fa l’opposizione, che cosa chiede la sua stampa più autorevole? Tutto tranne la sola cosa a cui in qualunque sistema parlamentare si penserebbe subito, e cioè il ritorno alle urne. Elezioni anticipate? Per carità, si dice: inutili, pericolose, un’autentica sciagura per il Paese. Piuttosto, invece, al posto della vecchia, una nuova grande maggioranza «chi ci sta ci sta», un governo «tecnico» ma non proprio, comunque «larghe intese», le più larghe possibili, in cui alla fine potrebbero entrare tutti, da Bossi, a Fini, a Tremonti, a Casini, a Rutelli, a Bersani, a Vendola, in teoria anche Di Pietro e Beppe Grillo se volessero. Purché ovviamente ne stia fuori uno solo: Lui, l’Orco.

E’ nota la ragione di questa bizzarria: il principale partito d’opposizione, il Pd, non si sente pronto per una competizione elettorale, anzi la teme. Lo stesso vale più o meno per l’intero schieramento di centrosinistra (esclusa forse l’Italia dei Valori). Ma se questa è l’apparenza, dietro di essa si cela un dato ben più importante. Si cela il vero dato di fondo del quadro politico italiano nel momento in cui esso è costretto a prescindere da Berlusconi, in cui esso si pensa e si proietta oltre Berlusconi. Il dato di fondo è l’evanescenza, la virtuale dissoluzione di tutte le forze che compongono lo schieramento che sta tra Bossi e Di Pietro. Dopo Berlusconi, e senza di lui, in questo grande spazio non rimane più alcuna vera distinzione, alcuna appartenenza legata realmente a un passato, alcuna solida identità politica, alcun vero legame con referenti sociali. Oggi, in Italia, senza Berlusconi non ci sono più partiti, non c’è più nulla. C’è solo una grande palude parlamentare. Ed è perciò che a quel punto il solo governo a cui si riesca a pensare è, come accade oggi, quello dentro il quale ci siano tutti o quasi.

In questo modo la società italiana ritorna a un suo carattere originario dei tempi normali: la propensione a produrre un sistema politico-parlamentare in cui la tendenza a confluire, a convergere, la tendenza all’amalgama, se si vuole al trasformismo, prevale di gran lunga sulla tendenza alla divisione per parti nettamente contrapposte. Le cose sono andate in modo davvero diverso solo quando sul sistema si sono abbattute le conseguenze di grandiosi sconvolgimenti esterni, in particolare le due guerre mondiali. La prima delle quali ha voluto dire la dittatura fascista e dunque la nascita inevitabile nel nostro universo politico della contrapposizione fascismo/ antifascismo; la seconda l’introduzione obbligatoria nel sistema della contrapposizione est-ovest, nella figurazione comunismo/anticomunismo.

Ma vale la pena di notare come anche in queste due condizioni di antagonismo estremo le tendenze inclusivo-amalgamatrici siano sempre rimaste forti. Facendo del fascismo una dittatura largamente aperta all'accesso di forze e personalità d'origine diversa, e nel secondo caso creando con il «cattocomunismo » e il «consociativismo » due contrappesi importanti alla divisione radicale del sistema.

In Italia, insomma, i due totalitarismi del Novecento hanno subìto, non a caso, una particolarissima declinazione «nazionale» che ha fatto dell'uno un totalitarismo «imperfetto », e dell'altro un partito comunista «liberale». Così rimettendo a nuovo, in qualche modo, quel modello che potrebbe dirsi di «giolittismo inclusivo»—prodotto dall’incontro tra notabilato tradizionale e nuove identità cattolica e socialista — che è stato storicamente, ed è, la vera forma originale che ha preso la nostra autoctona modernità politica. È questo il modello che ogni volta tende a riproporsi. E che per l'appunto si stava riproponendo anche all’indomani di «Mani Pulite», nel 1993-94, cioè nel momento in cui venivano finalmente cancellate le conseguenze prodotte nel nostro sistema politico da fascismo e comunismo, e perciò si poteva tornare al consueto. Se solo, però, non ci fosse stato Berlusconi. Cioè, di nuovo, se non ci fosse stato qualcosa di radicalmente estraneo alla dimensione politica nostrana, così estraneo da essere addirittura proclamato sul campo come il simbolo vivente dell'antipolitica.

Solo grazie all’anomalia berlusconiana il sistema politico italiano fu costretto allora a organizzarsi in due schieramenti contrapposti, e così è rimasto per quindici anni. E' la presenza di Berlusconi che ha tracciato la linea dell’«o di qua o di là». E in tal modo ha neutralizzato il «centro». «Centro» che nella nostra tradizione politica può essere luogo di effettiva consistenza politica, di vera, autonoma identità, solo se si contrappone alla sinistra, e cioè inglobando e in un certo senso surrogando la destra. O altrimenti è destinato a divenire il semplice luogo «tecnico» dell'amalgama trasformistico, dove si incontrano le burocrazie dei partiti e le grandi oligarchie della società. E proprio questa, forse, è oggi l'alternativa che sta di fronte al Paese. (Corriere della Sera)

lunedì 2 agosto 2010

Strage Bologna, ecco perché l'inchiesta deve ripartire da zero. Il Velino

L’anniversario della strage di Bologna - il trentesimo - è ancora occasione di polemiche e scontri politici. Dopo tre decenni la verità non è stata accertata e molti come in questi giorni ritengono a causa del "segreto di Stato". Quasi un ritornello. In realtà il “segreto di Stato” non è mai stato posto e non ve n’è traccia negli atti dei processi. A chiarire l’equivoco sul “segreto” fu per primo, nel 2001, il ministro Franco Frattini. Alla Camera dei deputati era stata presentata una interrogazione parlamentare di tre deputati del gruppo dei Verdi, Mauro Bulgarelli, Paolo Cento e Marco Boato, con la quale si chiedeva “se il presidente del Consiglio e i ministri interpellati non reputino necessario mettere in atto, ognuno per la propria competenza, ogni iniziativa anche di carattere normativo, volta a promuovere e sostenere l’abrogazione del segreto di Stato nelle indagini sulle stragi e i delitti di terrorismo". Frattini, allora alla Funzione pubblica, rispose sciogliendo ogni dubbio: “Posso senz’altro dire che nel procedimento penale relativo alla strage di Bologna, in nessuna fase dell’indagine, è stato opposto il segreto di Stato; infatti, esiste già una norma processuale che stabilisce che non possono essere oggetto del segreto fatti, notizie e documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale. Quindi, in realtà, spetta al giudice, nelle sue attribuzioni, definire la natura eversiva del reato per cui si procede secondo quanto stabilito dal codice di procedura. In sostanza, l’opposizione del segreto di Stato in base alle norme vigenti - mi riferisco in particolare all’articolo 204 del codice di procedura penale - è già esclusa in tutti i processi in materia di stragi, delitti di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale, e quindi anche in quello relativo alla strage di Bologna”. Frattini aggiunse: “Se atti segreti sono stati rinvenuti, si tratta certamente di segretazioni dovute ad interventi della magistratura e non dei governi che dal 1980 in poi si sono succeduti”.

Sul segreto di Stato anche Cossiga (il 2 agosto del 1980 ricopriva l’incarico di presidente del Consiglio, il ministro dell’Interno era Virginio Rognoni e quello degli Esteri Emilio Colombo), ha ribadito più volte di non averlo mai posto, semmai, ha consigliato di indagare "politicamente" più a fondo sul “lodo Moro”. “Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna - ha sostenuto più volte il senatore a vita - è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’ che, autorizzata dal ‘lodo Moro’ a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche”. Fatto sta che i magistrati bolognesi ritennero responsabili due neofascisti, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che si sono sempre proclamati innocenti, pur avendo ammesso le loro gravi responsabilità per altri attentati neofascisti. In realtà le indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 dovrebbero ripartire da zero. Troppe le omissioni riscontrate, prima dalla commissione d’inchiesta sulle stragi, presieduta dal senatore diessino Giovanni Pellegrino, e poi dalla Mitrokhin guidata due legislature fa da Paolo Guzzanti di FI. A confermare che sul fronte delle inchieste giudiziarie ci sia qualcosa che non va è stato perfino il senatore a vita Giulio Andreotti, quando era componente della commissione Mitrokhin: “Mi domando se non si debba riflettere sull’opportunità di dare al prestigio della magistratura un colpo come questo”. Dalla lettura di migliaia di documenti relativi all’operato della procura di Bologna, infatti, si evinceva che agli atti della magistratura c’erano già sin troppi elementi che avrebbero dovuto determinare un indirizzo diverso dell’inchiesta giudiziaria che, invece, percorse soltanto la pista del neofascismo".

Basti pensare a una delle lettere inviate da Aldo Moro durante il suo sequestro a Erminio Pennacchini, presidente del Comitato parlamentare per il controllo sui servizi segreti; nel ricordargli come non fosse vero che lo Stato non aveva mai trattato con i terroristi, Moro si riferiva agli “accordi”, ancora oggi sottoposti al segreto di Stato, fra il governo italiano dell’epoca e i palestinesi. Accordo che da una parte garantiva all’Italia che non ci sarebbero stati attentati terroristici da parte di mediorientali; dall’altra assicurava i palestinesi che avrebbero potuto godere nel nostro Paese di una certa libertà di spostamento. Una ipotesi accreditata anche da Rosario Priore nel libro scritto recentemente con il giornalista Giovanni Fasanella. Tutto, comunque, si trova già negli archivi del Parlamento, perché era già stato ricostruito da due consulenti della commissione Mitrokhin, il magistrato Lorenzo Matassa e il giornalista Giampaolo Pellizzaro, che in 180 pagine hanno monitorato “la rete Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto del 1980”. La direttiva del governo italiano era di “non trattenere” terroristi palestinesi anche in presenza di gravi reati. Non sono soltanto le analisi sull'attività di Separat a giustificare una nuova inchiesta giudiziaria sull’attentato alla stazione, ma la relazione di Guzzanti si soffermava anche sulla risposta data ad alcune interrogazioni parlamentari dall’ex sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Valentino di An. Al ministro della Giustizia era stato chiesto perché il terrorista Tomas Kram, braccio destro di Carlos lo Sciacallo, non fosse stato indagato per ben due volte dalla procura della Repubblica di Bologna. La magistratura bolognese, a tal proposito, ha sempre sostenuto che sul terrorista tedesco, presente a Bologna nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti la strage alla stazione, la Digos - ministro dell’Interno era Virginio Rognoni, molto vicino a Romano Prodi - non fornì elementi tali da insospettire. In realtà il sottosegretario alla Giustizia sconfessò la procura, accusandola di aver iscritto Kram a “modello 45”, con la dizione “indagini sull’eversione di destra e sui reati di strage commessi in Bologna e nel Distretto nel 1980”; e non visto le “già conosciute generalità nel registro cosiddetto modello 21, ossia dei soggetti sottoposti a indagine per il reato di strage. L’iscrizione era resa ancor più necessaria a causa dell’esistenza di provvedimenti custodiali internazionali, emessi da autorità giudiziaria di altro stato, da eseguirsi in Italia e che, nei predetti atti giudiziari, veniva sottolineata l’estrema pericolosità del Kram, qualificato, in particolare, esperto di armi ed esplosivi”. “La mancata iscrizione costituisce - sosteneva Valentino - una grave violazione delle norme. Il fascicolo iscritto a modello 45, sulla base della pronuncia della suprema Corte di Cassazione a sezioni riunite resa il 15 gennaio 2001 con il n. 34, doveva essere sottoposto al vaglio del giudice per le indagini preliminari che, solo, avrebbe potuto decidere la fondatezza della mancata iscrizione a modello 21 ed, eventualmente, rigettare l’archiviazione amministrativa, dare comunicazione della procedura al procuratore generale e delegare al pubblico ministero temi di nuova indagine da svolgere”.

Chi si occupò di Kram e delle indagini italiane sul tedesco furono anche i magistrati francesi. Il giudice istruttore Jean-Louis Bruguière lo aveva inserito tra gli organizzatori di un gruppo terrorista filopalestinese che faceva capo a Carlos “lo sciacallo”. Nell’inchiesta parigina fu inserita fra i tanti documenti anche una lettera firmata dall’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, datata 8 marzo 2001, destinata alla magistratura tedesca. Scriveva De Gennaro: “Risulta (Kram, ndr) essere arrivato a Bologna l’1 agosto 1980, aver preso alloggio presso l’Albergo Centrale, stanza 21, ed essere ripartito il 2 agosto”. De Gennaro dispose pure che la copia della lettera fosse trasmessa anche alla Procura di Bologna, per verificare eventuali collegamenti con la strage. Nella risposta ai tedeschi, De Gennaro inserì anche le segnalazioni, pervenute al Viminale proprio dalla Germania tra il 1979 e il 1980, perché gli italiani controllassero da vicino Thomas Kram, definito pure portaordini del terrorismo filopalestinese. De Gennaro li informò, inoltre, che Kram era stato individuato al momento del suo ingresso, in treno, in Italia il 31 luglio 1980: fu pedinato, fermato e perquisito. Un dettaglio singolare di un “compagno”, infatti, aveva parlato Carlos in una intervista dal carcere francese, dove è detenuto dal ‘94 con un ergastolo sulle spalle: “Un nostro compagno si accorse di essere pedinato, uscì dalla stazione di Bologna di corsa, e pochi istanti dopo ci fu l’esplosione”. Insomma Carlos e De Gennaro hanno raccontato la stessa cosa: quel giorno, a Bologna, alla stazione, c’era un “compagno”. “La strage di Bologna opera degli americani”. “Lo sciacallo” recentemente nel corso di una intervista ha parlato anche della strage di Bologna, ma non furono né i fascisti né i comunisti. “È opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio”, ha detto Carlos. L’ipotesi dell’ex terrorista a 28 anni di distanza, è che siano stati agenti occidentali a far saltare, con un piccolo ordigno, un più rilevante carico di esplosivo trasportato da palestinesi o uomini legati all’Flp e destinato alla sua rete terroristica. L’intento sarebbe stato quello di far ricadere la responsabilità della strage sui palestinesi.