lunedì 30 novembre 2009

"Repubblica" comanda, sinistra chiamata a obbedire? Daniele Capezzone

Quando si scriverà, sine ira et studio, con la necessaria distanza temporale ed emotiva, la storia d’Italia degli ultimi trenta-trentacinque anni, sarà impossibile trascurare l’azione, sulla scena e dietro le quinte, del “partito di Repubblica”, e l’interminabile serie di casi in cui Scalfari prima, poi Scalfari e l’editore De Benedetti in tandem, e ora De Benedetti coadiuvato da direttori e scrivani più modesti del vecchio fondatore, hanno cercato di determinare il corso delle cose politiche, economiche e sociali del nostro Paese, non di rado in modo opaco ed inquietante. Lo schema è sempre lo stesso: pretendere di stabilire - sulla base di un’investitura rigorosamente autoassegnata - non cosa sia opportuno o no, ma cosa sia morale o no. È come se a Largo Fochetti tracciassero ogni giorno una immaginaria riga sul campo, squalificando sul piano etico chiunque osi oltrepassarla. Gli ultimi giorni ci hanno offerto almeno tre esempi di questo “metodo”.

Primo. Si intervista il solitamente silenzioso Carlo Azeglio Ciampi, da molti mesi assente dal dibattito pubblico, e ne viene fuori, in modo inusitato per perentorietà di toni e anche per mancanza di riguardo nei confronti del suo successore al Quirinale, una specie di grido contro un’eventuale firma presidenziale in calce alla legge sul processo breve. Il sasso, a questo punto, è scagliato: e, se Napolitano provasse a “disobbedire”, sarebbero già pronte paginate di giornale e arene televisive tutte volte a ricordargli che “Ciampi non l’avrebbe fatto”.

Secondo. Si cerca da settimane, pestando stancamente l’acqua nel mortaio, di inventarsi la fiction sul “Berlusconi mafioso”. Entra in campo, più spompato e incattivito del solito, l’appuntato D’Avanzo, con un suo sodale d’occasione: danno qualche prima indicazione, qualche traccia di lavoro, qualche pista da seguire. Neanche ventiquattr’ore dopo, temendo che qualche sventurato pm possa avventurarsi su un terreno chiaramente incredibile (Berlusconi “bombarolo” e mandante delle stragi del ‘93), correggono il tiro e assegnano un nuovo compito, quello di indagare sulle origini del patrimonio e delle fortune economiche del Cavaliere. Insomma, cari pm, date retta a noi, e vedrete che qualcosa viene fuori.

Terzo. Il Pd bersaniano non sembra convinto di partecipare alla manifestazione contro Berlusconi del 5 dicembre prossimo? Semplice: parte la campagna di colpevolizzazione preventiva. Si arruola perfino Sofri (che pure dovrebbe conoscere e temere la pericolosità - sia quando se ne è autori sia quando se ne è vittima - delle manifestazioni di odio contro una persona) per spiegare che serve lo “sgombero” di Berlusconi, e che è impensabile che il Pd non partecipi alla piazzata. Puntuale, il giorno dopo, viene convocato (o intervistato?) il povero Bersani, costretto a tramutare il suo “timido no” in un “quasi sì”.

È troppo chiedere che qualcuno, a sinistra, trovi il coraggio per disobbedire a ordini di questo tipo? (il Velino)

Seguendo la stampa. Lodovico Festa

“Siamo costretti a stare sempre insieme con forcaioli, violenti, reazionari, comici diventati messia, gente che starà bene solo quando vedrà tutti in galera, altri che fanno una satira di serie C e altri ancora che mandano mail a tutto il mondo con barzellette su Berlusconi o sull’altezza di Brunetta”. Dice Francesco Piccolo sull’Unità (30 novembre).
Ecco un’attenta analisi delle varie correnti del centrosinistra. (l'Occidentale)

venerdì 27 novembre 2009

Razzismi immaginari. Davide Giacalone

Per ragioni di pura propaganda la politica s’industria, sempre più spesso, a far sembrare razzisti gli italiani. Che non lo sono. Sia che si ascoltino sparate a protezione della presunta “italianità”, o dell’ambito vernacolare, sia che si mettano in scena scontate e melassose difese dello “straniero”, il risultato è sempre a somma zero: non si affronta alcun problema, ma se ne inventa uno pur di avere spazio sui mezzi di comunicazione.
A questo si aggiunga che si tralasciano quelli veri, che ci sono e li vedremo, per cui si parla sempre delle stesse cose, pestando l’acqua nel mortaio, senza che nulla cambi.
Gli immigrati sono una risorsa. I residenti in Italia sono all’incirca il 7% della popolazione e contribuiscono per quasi il 10% al prodotto interno. Non rubano il lavoro a nessuno, perché svolgono mansioni, e con retribuzioni, non appetibili per la gran parte degli italiani. Un Paese civile ha leggi che regolano l’afflusso degli immigrati. Un Paese saggio fa di più: incentiva l’arrivo di quanti sono maggiormente utili.
Un Paese che tollera l’immigrazione clandestina, quindi la violazione delle proprie leggi, invece, è non solo scassato, ma sta anche gettando legna sul fuoco del rifiuto e dell’intolleranza. Non è difficile capire il perché. La clandestinità, con l’inevitabile corollario dell’illegalità, si scarica sui quartieri meno ricchi, dove vivono gli italiani meno protetti, cui si prospettano altri due svantaggi: il senso di degradazione sociale e la convivenza con il disadattamento dei nuovi arrivati. A questo s’aggiunga, inutile tacerlo, che l’impossibile integrazione dei clandestini porta a fenomeni di prepotenza, quando non di criminalità, ancora una volta gettati sulle spalle dei deboli. Insomma, i travestiti battono per le vie notturne ed offrono i loro servizi ai passanti, ma poi vanno a vivere nei luoghi che la televisione ci ha abbondantemente mostrato. Come credete che stiano le famiglie italiane che ancora si trovano da quelle parti? Pensate siano partecipi del dramma familiare di chi è stato scoperto a pagare migliaia di euro per prestazioni mercenarie, o, piuttosto, siano intenti a fare i conti con i centesimi, sperando di potere portare i propri figli il più lontano possibile? L’ultima cosa che si può dire, a quelle persone, è che siano dei razzisti. Anche perché, qualche volta, sono loro ad essere etnicamente in minoranza.
Dire che i clandestini devono essere respinti non significa affatto sostenere che gli stranieri debbano essere messi alla porta, perché, all’opposto, è razzista pensare che i due gruppi di persone stiano sullo stesso piano, che la devianza debba essere tollerata, compreso il commercio di droga, sol perché praticata da un nero anziché da uno slavato. Noi abbiamo convenienza a che ci raggiunga chi intende lavorare, meglio ancora se qualificato (non ci trovo niente di male in una politica dell’immigrazione che sappia scegliere, come avviene in altri Paesi civili), ma per quelli che intendono delinquere no, ci bastano già i nostri, che non sono pochi.
La tragica condizione della nostra giustizia, la sua incapacità di destinare i colpevoli alla giusta pena, non fa che moltiplicare i disagi ed i drammi. Anche a carico degli immigrati, i quali, se onesti (e lo sono in gran maggioranza), soffrono la presenza di loro connazionali che sono qui per rubare, prostituirsi, spacciare, commerciare illegalmente e variamente industriarsi al servizio del crimine. Ne soffrono perché accomunati a costumi che non sentono affatto propri. Date loro il voto, e state certi che vi ritrovare con una valanga di consensi nel segno di “legge e ordine”.
Il diritto di voto è giusto darlo, ma assieme ai doveri della cittadinanza. Ci sono migliaia d’italiani che studiano e lavorano negli Stati Uniti, come in altre parti del mondo, senza che per questo qualcuno pensi di doverli far votare per scegliere i rappresentanti di un popolo che è tale non solo per nascita, ma per riconosciuti doveri e per avere onorato gli obblighi fiscali. Nessuno di questi italiani si sente discriminato, nessuno solleva problemi di razzismo. Ciascuno, però, se crede, può chiedere la cittadinanza, ottenendone, se ricorrono le condizioni (una delle quali è dimostrare di sapersi e potersi mantenere), anche il passaporto e la scheda elettorale.
In tutti i Paesi civili, Italia compresa, è riconosciuta la libertà di culto, ma in nessuno si piega la vita collettiva ai tempi della ritualità. Anni fa ebbi da ridire con una confessione religiosa (che rispettavo e rispetto) in cui si riconoscevano degli italiani, i quali pretendevano di sospendere il lavoro pubblico quando il loro credo prevedeva di non doversi far niente. No, non si può. Certo, so anch’io che la domenica è festiva (si fa per dire, perché siamo in tantissimi a lavorare anche quel giorno), che ci sono altre ricorrenze a sfondo religioso e che questo è legato al calendario della cristianità, ma è anche legato alla nostra storia, come negli Stati Uniti si festeggia il giorno del ringraziamento o quello di Colombo. Ciascuno ha le proprie, e non possiamo scambiarci le storie. Se sono ospite, insomma, rispetto quelle degli altri, senza per questo sentirmi minimamente coinvolto nella loro presunta sacralità.
Questo è un modo razionale di affrontare la questione, solo che non fa scena, non attira pubblico, richiede più freddezza e ragionamento che accalorati schiamazzi. Non sollecita le tifoserie, ma impone di fare i conti con la realtà. Troppo, me ne rendo conto, per certa politica.

giovedì 26 novembre 2009

Io, accusato di essere mafioso, vi dico che Silvio è in pericolo. Vittorio Sgarbi

La mafia c’è. E ci sono soprattutto i mafiosi. Ma non c’è niente di peggio che cercare la mafia dove non c’è. E chiamare mafiosi quelli che non lo sono. Talvolta soltanto chiamarli, per sfregio, per rabbia, per inadeguatezza, come è capitato a me. Lo hanno dimenticato tutti e forse è persino inopportuno che io lo ricordi qui. Ma è una parabola esemplare. Con essa si può anche capire cosa abbia ispirato, in tante occasioni, il mio furore nei confronti dei magistrati che sbagliano. Così non ho mancato di ricordare, ogni volta che vengo provocato dagli integralisti che vengono ai miei incontri ispirati da una fede cieca in Grillo, Travaglio e il più modesto Pietro Ricca, le sfrontate imprese del loro idolo Caselli.
Che a parte la vicenda Andreotti, da me definita «processo politico» (con relativa condanna, per me, definitiva perché nessuno, neppure un parlamentare può osare dirlo e perfino pensarlo, dell’azione di un magistrato) concluso con la più pilatesca che salomonica sentenza di assoluzione con prescrizione per i reati commessi fino al 1980, sui quali peraltro - e Travaglio non lo dice - insiste soltanto la tesi dell’accusa senza un dibattimento fra le parti, vi sono altri episodi che segnalano la pericolosità del magistrato. Se nel caso di Andreotti ha ottenuto la soddisfazione, anche per non dichiarare vana un’inchiesta durata più di dieci anni e costata allo Stato qualche decina di miliardi di lire, di lasciare l’odiato nemico infangato (mafioso fino al 1° luglio 1980, non lo era più il 2) non ha peraltro dato segni di pentimento rispetto agli arresti di innumerevoli innocenti fra i quali il presidente della Provincia di Palermo Musotto, il padre francescano Mario Frititta, mostrato in manette fra due carabinieri perché aveva osato confessare un mafioso peccatore ma non pentito, il potente ministro democristiano Calogero Mannino tenuto in galera quasi tre anni, per essere poi assolto e senza che l’indagine sfiorasse il suo capo corrente De Mita, il grande magistrato Luigi Lombardini di cui tutti ricordano la probità ma che fu incriminato da Caselli e interrogato da un pool di magistrati arrivati con aerei di Stato e scorta a Cagliari umiliando il collega che, prima della loro partenza, cioè subito dopo l’interrogatorio, si suicidò. Non abbiamo per nessuno di questi casi segnali di ravvedimento da parte di Caselli, in compenso abbiamo tutte le querele che lui mi ha fatto per averlo criticato. Per il suicidio di Lombardini e per la carcerazione ingiusta di Calogero Mannino nessuno, tanto meno lui, ha pagato. Se dovesse essere riconosciuto il danno, a pagare sarebbe lo Stato. Fatta questa lunga premessa devo dire perché io non ho mai ritenuto che le ragioni dell’accusa, non sufficientemente fondate o basate sulle parole dei pentiti dovessero essere rispettate a priori. Sono «sparate» che fanno colpo, e oggi ne abbiamo la prova nella diffusa presunzione di colpevolezza del sottosegretario Cosentino, non in base ai fatti, ma in base al rango dei camorristi che parlano di lui. Considerati autorevoli, avvalorano le accuse. Ma le prove? E il rischio diffamazione? Quando è così forte l’accusa si pensa che sia fondata e viene sopraffatta la presunzione di non colpevolezza. Toccò anche a me, ma la forza della mia reazione non ha lasciato traccia dell’inevitabile diffamazione. Il 2 novembre 1995 ero a Spalato, partito il giorno prima con l’inseguimento dolce, di cui non avevo valutato il rilievo, di un colonnello dei carabinieri (un colonnello, non un maresciallo) che mi doveva consegnare un documento riservato. Poteva anche essere come in altre occasioni per le innumerevoli querele un avviso di garanzia, ma non gli avevo dato particolare peso. Senza dunque che io ne fossi a conoscenza la mattina del 2, verso le 11, mentre ero in riunione con il sindaco di Spalato, vengo informato che, sulle prime pagine di tutti i giornali, a otto colonne, era apparsa la notizia che insieme all’amica e collega Tiziana Maiolo, eletta come me al Parlamento in Calabria, ero indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo stesso reato che nei prossimi giorni i pm di Palermo potrebbero contestare a Berlusconi.
Nel giorno dei morti ero diventato mafioso. La mia reazione fu furibonda e il Parlamento presieduto da Giorgio Napolitano manifestò una pressoché unanime solidarietà, sfiduciando i magistrati. L’indagine continuò con le dichiarazioni di un pentito, tale Pino, che diceva cose insensate sui voti di evidente consenso che io avevo ottenuto con la mia popolarità, magari manifestando anche posizioni non diverse da quelle di Pannella sul regime del 41 bis. Per le quali i nomi di 52 deputati furono pubblicati in prima pagina di Repubblica come «infami» per avere pubblicamente espresso una posizione non politicamente corretta. Le accuse erano insensate e prive di qualunque riscontro che non fossero le mie parole nei comizi perfettamente corrispondenti a quelle in ogni altra sede e ancora oggi espresse. Ricordo i nomi di due dei quattro pubblici ministeri che si erano applicati a rendere credibili le parole del pentito: Tocci e Chiaravalloti. Come in altre occasioni, in Calabria, i magistrati si erano mossi con molta fantasia e suggestioni del genere: chiunque faccia politica in Calabria, dai vecchi notabili, a due new entry come Sgarbi e la Maiolo, è mafioso o colluso. Così si era avvalorato il reato, inesistente ai codici, di concorso esterno. Una insensatezza giuridica e uno strumento per colpire nemici ideologici. Per dare loro una lezione. Come era nel nostro caso. L’accusa resse per otto mesi, quando il procuratore capo Anfimafia Pierluigi Vigna, diede, con sensibilità e intelligenza, una strigliata ai quattro pm e al loro parzialmente dissociato capo Lombardi, e li indusse alla archiviazione. Ma l’obiettivo era stato raggiunto. Era quello di avere diffamato, in nome del popolo italiano, due politici del tutto estranei alle accuse, ma pericolosi per le loro posizioni di principio. Da quel momento io so che ogni accusa può essere infondata e che è diritto dell’accusato ribellarsi se conosce, diversamente dai magistrati, la verità. (il Giornale)

mercoledì 25 novembre 2009

Faccia parlare i dati ufficiali. Paolo Pillitteri

E meno male che si è corretto, il Cav. Avrebbe voluto, fortemente voluto, parlare agli italiani di Giustizia col classico meneghino “Adès ghe pensi mi!”, ma poi ha cambiato target, l’ha allargato: parlerà agli italiani, non appena rientrerà dal tour arabo. Meglio così. E, visto che siamo in argomento, ecco un’idea, un’ideuzza: invece che il Premier, parlino, di (mala)giustizia, i dati, le cifre ufficiali, i servizi dei suoi (cioè del Cav) potenti canali televisivi che spesso imperversano sui processi in fieri, da Cogne a Garlasco a Gradoli e altrettanto spesso si affidano al doppiaggio interpretativo - copiando male Santoro&Ballarò&Vespa - delle intercettazioni. Già, che fine ha fatto la legge? Le cose sono ancora come prima, come ai tempi di De Magistris/Woodcock, o no? Ebbene, basterebbero delle puntate Tv, svelte e realistiche, informate senza sbavature iniziando non dall’inizio (un quindicennio di persecuzioni, vere, dei Pm, i pentiti contro il Cav ecc.) ma dalla fine: dalle carceri, dall’inferno carcerario di cui i Radicali, e Radio Radicale, sembrano rimasti gli unici, valorosi, solitari testimoni a denunciarne l’apocalisse quotidiana come risultato dello sfascio generale della giustizia. Abbondano i casi, purtroppo. E intanto, sulle immagini del povero Cucchi, morto “misteriosamente” in quelle carceri dove i tossici sono quasi la metà della popolazione, e invece dovrebbero starsene fuori, in una comunità di recupero, si fanno scorrere i dati, le cifre nude e crude: nove milioni di processi da smaltire, l’Italia peggio dell’Angola, Gabon e Guinea. Per recuperare un credito in un processo civile occorrono 1210 giorni rispetto ai 331 di Francia. Le prescrizioni fatte dai Pm sono 170 mila all’anno, un’amnistia di massa ma solo per chi può pagarsi l’avvocato (il processo breve va bene se lo decidono lor signori Pm). Il costo processuale da noi è il più caro d’Europa. I giudici lavorano in media quattro ore al giorno, la produttività cala di anno in anno, i loro stipendi sono più o meno gli stessi dell’Europa e il loro numero è nella normalità, di poco superiore alla media. Fine prima puntata, che annuncia gli interventi dei Pm Ingroia, Spataro e Palamara, contro il processo breve e contro il Cav, e altre cifre da capogiro. Nella seconda puntata, premesso che per i giudici tutti la colpa della crisi e dei ritardi della giustizia è sempre del governo e mai loro, un bravo doppiatore rilegge, comme il faut, le dichiarazioni di Ingroia: “Le istituzioni sono state occupate dagli interessi privati. Tra la prima e la seconda Repubblica, quindi, è saltato qualsiasi ruolo di mediazione.

Mi allarma e mi preoccupa. Ci troviamo di fronte ad una sistematica demolizione dello Stato...In Italia c’è un’emergenza democratica...”. Mentre sfuma la voce, emergono altri dati e cifre: cause penali giacenti in primo grado per omicidi, rapimenti, criminalità organizzata, traffico di stupefacenti: 1.204.151, in Spagna 205.898, in Germania 287.223 ecc. Si spende per il nostro sistema giudiziario oltre 4,08 miliardi di euro contro i 3,35 della Francia e i 2,98 della Spagna, in Italia il 70 per cento della spesa per la giustizia va in stipendi....Risale la “voce”, sempre più drammatica di Ingroia (in un intervento all’Idv): “In Italia c’è un’emergenza democratica, si va verso una soluzione finale contro gli unici presidi di controllo rimasti, la magistratura e la libera informazione...”. Appare la copertina di Micromega e la voce s’impenna: “E’ possibile dunque sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale, cioè il bene della generalità contro la stessa volontà della maggioranza”. Il conduttore prosegue ironicamente: non eravamo a Teheran ma a Palermo. Spostiamoci ora dalla nostra Annunziata di domenica scorsa....Si vede e si sente l’intervento di Spataro, sintetizzato e, se del caso, ben doppiato con di fronte la giornalista in estasi e prona. Era Spataro che conduceva, non lei: “non credo alla repubblica dei ricatti e guardiamoci dai facili complottismi, attenzione a generare allarmi (Maroni dice l’opposto), il terrorismo si può combattere con i codici applicando a tutti, compresi i terroristi, i diritti (magari inviando un avviso di garanzia, un invito a presentarsi). Quanto all’Alfano del processo breve, ”il suo principio non è compatibile con il principio di uguaglianza...E’ una giustizia di tipo aziendale (magari!). Ha ragione Napolitano: basta con le riforme dettate dalle esigenze di poche persone...“. Appaiono di nuovo le cifre: l’Italia dispone di 1292 tribunali, la Spagna di 703, la Francia di 773, per una sentenza di primo grado occorrono 960 giorni e altri 1509 per l’appello. I rinvii processuali colpiscono 7 procedimenti su 10. In Francia un processo penale si chiude i 120 giorni...Esistono in Italia undici giudici per 100 mila abitanti,come negli altri paesi,il Csm autorizza 2000 incarichi extragiudiziali a 1044 magistrati, il numero degli avvocati di Roma è lo stesso di tutta la Francia ma le spese per il patrocinio gratuito sono le più basse del mondo ecc. ecc. Infine appare Palamara, capo dell’Anm, la casta: non ci faremo intimidire, emergenza democratica, attacco all’autonomia, abbasso il processo breve, il governo ci sentirà, anche con uno sciopero.....Riappare il volto del povero Cucchi. Con la scritta: alla prossima(vittima). Della malagiustizia. (l'Opinione)

martedì 24 novembre 2009

Alfano bacchetta i pm in tv, ma propone tre tavoli di confronto. Federico Punzi

È un duro atto d'accusa quello del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nei confronti dei pm ospiti troppo fissi nei talk show televisivi e dei loro capi ufficio che non "contengono" il loro presenzialismo: "I procuratori capo dovrebbero contenere le attitudini cinematografiche di alcuni sostituti e se non lo fanno vuol dire che non hanno l'attitudine a dirigere il loro ufficio", ha detto il ministro intervendo al seminario del Csm sull'organizzazione delle procure. "I vari presidenti della Repubblica, da Pertini in poi, hanno sempre richiamato l'obbligo della magistratura non solo a essere imparziale, ma anche a non apparire parziale". Alfano ha tuttavia sottolineato di non conoscere dal piccolo schermo "la maggior parte dei presenti", a "riprova che la maggior parte dei capi degli uffici requirenti svolge la sua attività nella riservatezza". Ma il ministro ha anche teso la mano ai magistrati, avanzando tre proposte: un tavolo di confronto sulle sedi "disagiate", un altro per valutare i bisogni di risorse e mezzi delle procure nell'ambito dei fondi aggiuntivi per la giustizia che potrebbero arrivare dai beni sequestrati alla mafia, e un terzo tavolo per dar modo a "chi lotta in trincea" di contribuire al "piano straordinario che il governo intende lanciare contro la mafia". Riguardo le riforme allo studio in materia di giustizia, Alfano ha assicurato che per il governo indipendenza e autonomia della magistratura sono "sacre" e che "nessuno vuole sottomettere il pm all'Esecutivo: "Lo riterremmo sbagliato". Si tratta di un'ipotesi che non c'è nel programma di governo e "non intendiamo procedere, neanche surrettiziamente, in questa direzione". Tuttavia, ha poi precisato, "è sacra anche la rivendicazione di autonomia del Parlamento".

Rivendicando di non aver mai avviato scontri istituzionali tra ministero e Csm, e facendo notare le "tracce di norme emendate proprio sulla base dei pareri" forniti da Palazzo dei Marescialli, il ministro ha però difeso il ruolo del legislatore: se "si legge che il Csm ha bocciato un provvedimento che sta ancora seguendo il suo iter alle Camere, il legislatore ha una qualche forma di reazione, perché tiene al fatto che fare la legge spetta a lui". Promettendo di "battersi per avere più risorse per il settore giustizia" e impegandosi a "studiare con il Csm il problema delle piante organiche", e a fornire "risposte concrete e rapide", il ministro ha parlato delle risorse aggiuntive che dovrebbero arrivare dai beni sequestrati alla criminalità organizzata. Grazie alle ultime norme antimafia sono stati sequestrati circa 1 miliardo di euro e beni immobili per circa 4-5 miliardi, mentre bisogna ringraziare anche i pm, ha riconosciuto Alfano, se negli ultimi 15 mesi, a legislazione invariata, sono stati risparmiati 70-80 milioni di euro rinegoziando i costi dei servizi di intercettazione.

A margine dell'incontro con i capi delle procure, il ministro è poi tornato sulla guerra di cifre che si è scatenata tra Ministero e Anm sul numero dei processi che cadrebbero in prescrizione per effetto della legge sul "processo breve": la "difformità di analisi" dei numeri è "plateale". Per questo, il ministro non crede che l'Anm "abbia potuto davvero dire queste cose in questi termini, cioè che si prescrivono su 3 milioni 300 mila procedimenti pendenti, circa la metà, ossia 1 milione 700 mila". Una stima che il ministro giudica "talmente iperbolica e infondata" che è sicuramente dovuta a un "cortocircuito di comunicazione". "I numeri né si inventano, né si esasperano, né si sottovalutano", ha commentato invece il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, ammettendo che le cifre sono in effetti "discordanti", ma ricordando che oggi la sesta commissione ascolterà presidenti e procuratori capo dei nove più importanti uffici giudiziari del Paese per avere un quadro più preciso, "anche se - ha avvertito - la statistica che verrà fuori sarà parziale". Appuntamento, dunque, alla conferenza stampa fissata per questo pomeriggio. (il Velino)

lunedì 23 novembre 2009

Tribune Rai per pm e ex pm all'attacco di premier e maggioranza. Maurizio Marchesi

Giovedì Antonio Ingroia prima a Rainews24 ospite di Corradino Mineo la mattina e poi in prima serata da Michele Santoro. Luigi De Magistris il giorno dopo in seconda serata da Daria Bignardi. Antonio Spataro nel primo pomeriggio di domenica da Lucia Annunziata. Giancarlo Caselli un po’ di qua e un po’ di là, sulle reti pubbliche e su quelle private, il pomeriggio e anche la sera. Procuratori ed ex procuratori diventati parlamentari mobilitati per una campagna di interdizione contro le misure annunciate dalla maggioranza di governo per sveltire i processi e per trovare una via d’uscita all’assedio giudiziario nei confronti del premier (anche con un nuovo lodo come vorrebbe Pierferdinando Casini o imboccando altre vie, compresa quella costituzionale che potrebbe ripristinare l’immunità parlamentare - non l’impunità). Ne scaturisce un’immagine devastante della magistratura e la conferma della validità dell’allarme di chi denuncia l’alterazione ormai patologica degli equilibri che dovrebbero regolare i rapporti tra politica e magistratura. Non solo. Considerate certe risposte e certi accostamenti e certe richieste, compresa quella delle dimissioni del premier, si pone anche il problema di capire perché non venga garantito un adeguato contraddittorio. Magari interno alla corporazione. Possibile che tra gli ottomila e passa magistrati non ce ne sia uno disposto a contraddire le tesi e le accuse e le intemerate dei soliti noti? Perché non farli confrontare tra di loro? Ma forse sono proprio i magistrati gelosi dell’immagine super partes che tutti dovrebbero avere a non prestarsi, chissà. Bisognerebbe chiedere ai conduttori dei talk se li hanno mai invitati.

A questo punto comunque una domanda, a nostro avviso legittima, si impone: perché il servizio pubblico radiotelevisivo offre spazio a magistrati con l’evidente finalità di contestare maggioranza e premier non essendo peraltro neppure chiaro a quale titolo esprimano questi giudizi? Per esprimere valutazioni, che dovrebbero comunque essere sempre espressa con sobrietà, dovrebbero bastare e avanzare gli organi legittimati a farlo dell’Anm. Il Csm non ha niente da dire? (il Velino)

Far carriera, why not. Davide Giacalone

Quando, nell’estate del 2007, Romano Prodi finì indagato nell’inchiesta denominata “Why not”, la cosa fu strillata a lungo, sulle prime pagine dei giornali. Ora che è stato prosciolto, si deve cercare la notizia fra le cronache. Ed è fortunato, che almeno ci arriva. Dal 2007 ad oggi non si è tenuto alcun processo, sono le indagini che si sono trascinate ben oltre la ragionevolezza. Più di due anni dopo, insomma, sappiamo quel che ne pensa il primo giudice incaricato d’esaminare le carte: non c’è lo straccio di una prova. Gli stessi indizi, sostiene, non erano utilizzabili, perché tutti “de relato”. Chiacchiere, dicerie, insomma.
Chi è che le aveva utilizzate per indagare il presidente del consiglio? Ci arrivo.
Il governo Prodi cadde per intrinseca debolezza, ma sarà bene non dimenticare quale fu la causa scatenante: le indagini che coinvolgevano la famiglia dell’allora ministro della giustizia, Clemente Mastella. Cadde per mano delle procure. Lo stesso Mastella fu coinvolto nell’inchiesta “Why not”, anche lui prosciolto, già un anno fa. Anche in questo caso con la notizia passata in sordina. Prodi, in sintesi, era accusato d’essere a capo di una loggia massonica, ovviamente segreta e deviata, con sede a San Marino, che utilizzava come comitato d’affari. Tutta roba campata per aria. Di vero c’erano alcune schede telefoniche, intestate ad un imprenditore, ma utilizzate da uomini vicini a Prodi. Poteva essere una pista, ma non ha portato da nessuna parte.
O, meglio, non del tutto, perché qualcuno, invece, ha fatto strada. Segnatamente il pubblico ministero che aprì quell’indagine e la portò all’attenzione generale, un pubblico funzionario (perché tali sono, i magistrati) che una volta trasferito urlò che si era messa a tacere la sua fondamentale inchiesta. Quel signore oggi lo si può chiamare “onorevole”, perché Luigi De Magistris s’è candidato alle elezioni europee (senza lasciare la magistratura) ed è stato eletto, nelle liste dell’Italia dei Valori. Questi ed altri clamori giudiziari, quindi, qualche cosa di buono lo hanno portato, ma solo a lui, che ha conquistato la notorietà sufficiente a fare il salto verso il seggio, e da qui a svolgere attività politica.
Ritengo che sia un costume patologico, del tutto inconciliabile con la dignità e la preziosità dell’essere magistrati. Penso, però, che certe cose non sarebbero possibili, certe storture non durerebbero a lungo, se non disponessero di forti complicità. Anche culturali. Mi riferisco a giornali e giornalisti, che oggi accettano, con cinica indifferenza, di mettere la storia in cronaca. Prodi non era un privato cittadino, e anche se lo fosse stato avrebbe diritto a veder proclamata la propria innocenza con lo stesso spazio e lo stesso clamore della presunta colpevolezza. Prodi era presidente del Consiglio, e quei fatti influirono sulla vita del governo. Chi paga, adesso? Nessuno, anzi, c’è chi incassa.
Ove mai si mettesse mano ad una riforma seria della giustizia, anche questo sarebbe un capitolo da affrontare: chi sbaglia deve pagare, altrimenti a pagare sono sempre e soltanto i cittadini e la collettività.

domenica 22 novembre 2009

Clima. E se i buoni fossero i cattivi? Carlo Stagnaro

Nel dibattito sul clima una cosa è certo: i buoni sono loro, i cattivi noi. I buoni sono scienziati disinteressati pronti al sacrificio umano e personale per salvare il mondo, i cattivi sono le industrie e i loro tirapiedi o utili idioti, che negano l’evidenza. I buoni sono onesti ricercatori, i cattivi parte di un complotto. Le informazi0ni trapelate con la diffusione di una banca dati immensa, zeppa di scambi privati di email tra superstar del clima politicamente corretto, cambia tutto. Qui la ricostruzione di Andy Revkin. Qui Julie Walsh per la Cooler Heads Coalition. Qui Claudio Gravina e Guido Guidi, e qui Guidi, su Climate Monitor. Qui Piero Vietti sul Foglio.

Intendiamoci: la diffusione di scambi privati di email è un fattaccio di cui non possiamo essere contenti. Di questo bisogna tener conto. Così come bisogna tener conto del fatto che il linguaggio colloquiale è diverso da quello formale, ha le sue regole, per cui espressioni che in altri contesti suonerebbero come una “pistola fumante”, qui sono più o meno innocenti. Quindi, non cerchiamo e non troviamo smoking guns. Resta però il fatto che diversi scienziati, alcuni tra i più reputati autori dei rapporti Ipcc, discutono tranquillamente di quali “trucchi” utilizzare e di come “nascondere i dati”.

Io non mi scandalizzo. Il mondo è fatto così. Certo, però, tutti quelli che hanno fino a oggi tagliato la realtà in due col coltello, dovrebbero fare un esame di coscienza. Scienziati, giornalisti, politici e semplici cittadini che hanno sempre pensato che la buonafede stesse di là e la malafede fosse di qui, oggi hanno la prova provata che così non è. E soprattutto hanno la prova provata che i documenti che, per convenzione, prendiamo per buoni, sono in realtà opera di esseri umani, con tutte le loro debolezze e tutte le loro tentazioni. Il mondo reale è complesso, e la storia che oggi emerge ricorda la storia, sicuramente più estremizzata, tessuta dal compianto Michael Crichton nel suo splendido Stato di paura.

Tutto questo, va da sé, non mette in dubbio le conoscenze sul clima, né l’esistenza del “consensus”. Mette in dubbio, però, l’onestà intellettuale di molti generali dell’esercito allarmista. E quindi, sulla validità dei documenti da essi redatti, come i famosi “Summary for Policymakers” dell’Ipcc, che oltre a essere le uniche parti realmente lette da opinion- e policy-makers, non sono opera dei 2500 scienziati che vengono spesso sbandierati, ma di una cinquantina di essi. Quando si vedono le teste d’uovo lamentarsi del fatto che il clima non segue i loro modelli, e dunque interrogarsi su come far scomparire la realtà tra le pieghe dei loro risultati allo scopo, si presume, di non ridurre la pressione sull’opinione pubblica, viene da chiedersi su cosa poggino le costose politiche che l’Unione europea ha adottato, e che altri nel mondo vorrebbero adottare.

Non si tratta di negare il global warming o la sua componente antropogenica. Si tratta di chiedere, agli esperti, onestà e chiarezza, inclusa la necessaria trasparenza rispetto ai punti ancora incerti del dibattito. E poiché l’incertezza non può essere ignorata, essa pure va considerata nelle politiche. Se le certezze ostentate dagli uomini politici, e la sicumera di certi scienziati che fanno politica, cederanno il passo a un atteggiamento più umile e razionale, anche questa (di per sé brutta) vicenda sarà servita a qualcosa. Dal male, a volte, può sorgere il bene. (Chicago-Blog)

Sciascia e Camilleri (e Ingroia). Lino Jannuzzi

Andrea Camilleri, l’inventore del commissario Montalbano, non ha trovato di meglio per celebrare il ventennale dalla morte di Leonardo Sciascia che raccontare al cronista del quotidiano delle questure “Il Fatto” che “Leonardo non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’”: “Non si può fare di un mafioso un protagonista - afferma Camilleri - perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del ‘Giorno della civetta’ giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini - ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ’ n culo e quaquaraquà - la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue. Questi sono i pericoli che si corrono quando si scrive di mafia. La letteratura migliore per parlare di mafia sono i verbali dei poliziotti e le sentenze dei giudici”. Camilleri non è il primo a fare a Sciascia questa accusa. L’aveva già fatta anni fa Pino Arlacchi, un altro famoso “esperto” di mafia, ma che almeno non andava in giro a raccontare di essere un grande amico di Sciascia.

Il fatto che Sciascia fa dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare: “Anche lei è un uomo”, è la dimostrazione - diceva Arlacchi - che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima. In effetti, ne “Il giorno della civetta” è il capomafia don Mariano Arena che, dopo aver diviso l’umanità in quelle cinque categorie, dice al capitano dei carabinieri Bellodi,che è andato ad arrestarlo: “Ma lei è un uomo”... Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo. lei è un uomo...”. E il capitano Bellodi gli dice: “Anche lei”. E glielo dice - scrive Sciascia nel libro - “con una certa emozione”. E aggiunge: “E nel disagio che subito sentì di quel saluto delle armi scambiato con una capo mafia, a giustificazione pensò di avere stretto le mani, nel clamore di una festa della nazione, e come rappresentanti della nazione circonfusi di trombe e bandiere, al ministro Mancuso e all’onorevole Livigni: sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo... E quale altra nozione poteva avere del mondo don Mariano se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida?”.

Il capitano Bellodi del “Giorno della civetta”è un emiliano di Parma sceso dal nord in Sicilia per combattere la mafia e riesce ad arrestare il capo mafia come mandante di un omicidio, ma gli intrighi dei politici e degli stessi magistrati gli fanno saltare l’inchiesta e tutta la sua accurata ricostruzione dei fatti, il capo mafia torna in libertà e il capitano viene ritrasferito al nord. Nella realtà al capitano dei carabinieri Sergio De Caprio, il famoso “Capitano Ultimo” che ha arrestato il capo della mafia Totò Riina, è capitato di peggio: è stato accusato e processato dalla Procura di Palermo, in prima fila da quel pm Antonio Ingroia che spiega in televisione che bisogna anche processare tutto il governo della Repubblica, per concorso esterno in associazione mafiosa. Ed è indagato e processato per favoreggiamento della mafia e peggio da quindici anni il comandate di De Caprio, il generale Mario Mori, e sempre da Ingroia e dalla Procura di Palermo. E lo stesso autore del “Giorno della civetta”fu pubblicamente processato dagli adepti di Leoluca Orlando, grande amico da sempre dei “professionisti dell’Antimafia”. Come meravigliarsi se a vent’anni dalla morte Sciascia viene processato da Camilleri per aver scritto “Il giorno della civetta”? (il Velino)

sabato 21 novembre 2009

Cicchitto e il calabrone. Pasquale Annichino

Mentre l’ornitorinco di Montezemolo distribuisce sonaglini e cotillon, idee niente costano troppo, si accende il dibattito sul “tempo delle fondazioni”.

L’ultima nata è REL (Riformismo e Libertà). Ne è promotore il deputato del PDL Fabrizio Cicchitto. L’articolo di Mattia Feltri su La Stampa riassume bene per gli interessati lo stato dell’arte (vedi anche Il Foglio).L’aspetto interessante, da segnalare per i lettori, è che con la caduta del muro di Berlino e il lento declino dell’egemonia culturale marxista, la destra avrebbe una naturale vocazione allo sviluppo di una contro-egemonia. Certo, le sacche di resistenza ci sono. Berlusconi in una famosissima puntata di Ballarò fece riferimento alle “scuole elementari, alla magistratura e alle università”. Prendiamo il prendibile, ma è impossibile negare che in alcune parti della società la cultura di sinistra è ancora dominante. Per carità nulla di strano, solo il risultato di un graduale processo gramsciano di conquista e seduzione.

Tutto il contrario di quello che avviene ora all’interno del centrodestra italiano. Fondazioni temporanee che nascono legate ad esigenze del breve, brevissimo, periodo senza un progetto. Così ogni capo corrente crea la sua creatura. Produzione d’idee poche, però si fidelizzano le truppe.

Paradossalmente, un “vero” successo politico si può creare solo mediante la competizione al di fuori del ring elettorale e partitico. Per comprenderci, l’attuale nomina di molti giudici conservatori alla Corte Suprema americana non è avvenuta solo per i due mandati di Bush. La doppia elezione di Bush è stata possibile perché istituzioni deputate a produrre una cultura per il movimento conservatore hanno, dagli anni ’80, fatto il loro mestiere investendo nel mercato degli uomini e delle idee. Insomma, per vincere in politica non basta vincere le elezioni.

Tutto il contrario di quello che stiamo vedendo in Italia. Il centrodestra d’altronde non si fida degli intellettuali.

Come il calabrone che per il suo peso, la sua forma e le caratteristiche fisiche dell’aria non potrebbe volare, l’apparato di fondazioni che gravita attorno al PDL sembra destinato ad una sicura implosione futura. Eppure come il calabrone per ora il PDL vola. Chissà fino a quando. (Chicago-Blog)

venerdì 20 novembre 2009

Le due magistrature. il Foglio

Più che il caso in sé, nella vicenda giudiziaria del sottosegretario Cosentino interessa osservare la reazione generale del ceto politico. La frenesia colpevolista di alcuni finiani oltrepassa il confine del buon senso, che in ogni caso sconsiglia a Cosentino d`insistere per candidarsi alla guida della Campania, mentre l`indifferenza e il silenzio prevalgono sul ragionamento. Si distinguono invece il radicale Maurizio Turco e pochi altri interpreti di una cultura solidamente garantista, attenta all`esame delle carte giudiziarie e all`autorappresentazione della classe politica, che è l`idea di sé, delle proprie prerogative e dei propri diritti/doveri. Fra questi ultimi c`è o dovrebbe esserci la facoltà preventiva di controllo, protezione e disciplina verso l`esercizio delle proprie funzioni. Ciò che oggi è soltanto parzialmente garantito dal Tribunale dei ministri e dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere. Ma può bastare? In un regime costituzionale di separazione dei poteri, com`è quello vigente in Italia, alla magistratura è consentito amministrare la giustizia interna perimetrandone i confini e consegnandone la rigida custodia al Csm. Alla nomenclatura politica, fino alla stagione perigliosa di Mani pulite, veniva offerta in contraccambio la possibilità di un salvacondotto immunitario (l`articolo 68) sancito dalla Carta dei padri fondatori con l`obiettivo di mantenere in equilibrio l`assetto istituzionale. Sottotraccia, in tali requisiti, si poteva individuare l`idea che due magistrature parallele e potenzialmente confliggenti, i giudici e i parlamentari o i governanti, dovessero essere messe in condizione di non ostacolarsi a vicenda in corso d`opera: al Parlamento la facoltà di riformare il sistema giudiziario, ma entro la cornice costituzionale e senza il diritto di giudicare i giudici; alle procure la facoltà inquirente e giudicante anche nei confronti dei politici, ma entro la cornice di una forte limitazione nella pratica restrittiva della libertà. Rotto l`equilibrio, impazzite le magistrature.

Appello a Lula. Orso Di Pietra

Questo è un appello al Presidente brasiliano Lula. Un appello a proposito della estradizione del terrorista Cesare Battisti. “Caro Presidente, ci faccia un favore grande come una casa. Si tenga Battisti, non conceda l’estradizione, se lo abbracci stretto insieme al suo ministro della Giustizia e lo spedisca in un qualsiasi posto che non sia, ovviamente, la spiaggia di Copacabana o una villa di Bahia ma qualche prigione carioca. Non si faccia condizionare dalle pressioni del governo italiano. Che deve farle per dovere d’ufficio. Se ce lo rimanda nessuno ci salverà dalle manifestazioni di solidarietà per il martire, dalle proteste per la sua inevitabile detenzione da ergastolano, dalle petizioni e dai manifesti per la immediata liberazione, dalla sicura campagna in favore dell’amnistia ad personam. Caro Presidente, ci liberi da questa prospettiva. È meglio che Battisti se ne stia in Brasile circondato dal disprezzo dei più, piuttosto che in Italia con la testa avvolta dall’aureola del santo compagno che aveva sbagliato e che si è redento. Pronto, non appena tornato libero sull’esempio della Baraldini, ad essere invitato in tutti i talk-show delle reti televisive nazionali e diventare protagonista dell’ ”Isola dei famosi“. Dopo il danno, per cortesia, ci risparmi la beffa!”. (l'Opinione)

Psiche e magistratura. Davide Giacalone

Per diventare magistrato, in Francia, si dovrà superare non solo un concorso, ma anche un test psicologico, destinato a mettere in evidenza l’eventualità che il candidato abbia studiato bene, ma non sia dotato dell’equilibrio necessario per svolgere quella funzione. Fra le domande del primo test ce n’è una significativa: “ti senti superiore agli altri?”. Sarebbe stato interessante rivolgere quel quesito anche a chi voleva “rivoltare l’Italia come un calzino”, riteneva rilevanti i processi fatti in piazza, era affascinato da quelli negli stadi cinesi, o voleva esportare nel mondo il modello investigativo del pool milanese.
Non solo da noi quei test non si fanno, ma il Consiglio Superiore della Magistratura assolve anche i magistrati che vanno a fare gli esibizionisti ai giardini pubblici, sostenendo che si tratta di momentanei ed isolati episodi di smarrimento. Chi è privato della libertà in via cautelare (quindi da innocente), chi è giudicato in tribunali che possono cambiargli la vita, come la collettività che a quei tribunali affida il rispetto della legge, preferirebbe evitare che sotto la toga si celi chi, anche se momentaneamente, smarrisce la ragione.
E c’è di più: quando furono proposti, in Italia, si sollevò un’ondata di critiche, come se la loro esistenza fosse un implicito giudizio di follia, o di demenza, in capo all’intera categoria. Servono, invece, ad evitare che degli squilibrati possano accedervi. Aggiungo: a giudicare da diverse dichiarazioni che leggo, rilasciate da magistrati in servizio, si tratta di qualcosa più che non una mera ipotesi.
Anche altre categorie di lavoratori sono sottoposte a questi accertamenti, senza che, per questo, taluno supponga siano matti i piloti d’aereo. Semmai, appunto, si cerca di evitare che degli sbullonati, dei depressi o degli esaltati prendano in mano quei comandi.
Non è questo, lo sappiamo bene, il solo e neanche il principale problema della giustizia italiana. Ancora ieri si è suicidato un detenuto che, semplicemente, non doveva trovarsi in carcere, visto che la scarcerazione era già stata disposta ma nessuno, con un imperdonabile ritardo di un’intera giornata, glielo aveva comunicato. La nostra malagiustizia genera morti, ma anche un esercito di disgraziati che ogni giorno ciondola fra le aule di giustizia, anche solo per testimoniare, e si vede rubate giornate inutili, spesso concluse con rinvii annuali che promettono altre giornate perse. I numeri dello sfacelo gridano la necessità di riforme profonde, che restituiscano giustizia all’Italia e consegnino i colpevoli alla giusta pena. Fra queste riforme, però, non guasterebbe affatto una revisione radicale del mondo in cui i magistrati sono selezionati e di come si dipana la loro carriera.
Siamo convinti che il difficilissimo compito di giudicare merita rispetto e, naturalmente, la tutela dell’indipendenza. Sono cose, però, che bisogna meritare, anche individuando, possibilmente fin dall’inizio, chi non ha i numeri per vestire quella pesante toga.

giovedì 19 novembre 2009

Quando Pannella urlava al "golpe giudiziario". Massimiliano Parente

Immaginate se Silvio Berlusconi dicesse non che i magistrati sono comunisti, o ideologici, ma che sono una casta di «privilegiati, banda di sovversivi, con il linguaggio rivoluzionista delle borghesie estremiste, militanti dei cazzi vostri, nemici del diritto, della legge, della Costituzione». E se aggiungesse «i pm hanno fatto più danni del Duce»?
Sarebbe fascista? Un dittatore? O starebbe solo citando le parole di Marco Pannella di qualche anno fa? Nel 1994 Pannella affermava: «Denunciai in un discorso alla Camera del 1991 il pericolo che gli avvisi diventassero formidabili armi sovversive, usate in primo luogo contro il capo dello Stato e il capo del governo». Era inoltre «urgentissimo passare a riforme che tutelino le masse dei singoli magistrati capaci e onesti dai magistrati politici. E di questi ultimi ve ne sono ovunque, al Csm soprattutto...». Il Csm soprattutto? Non sarà per caso lo stesso Csm che ha premiato, con un tempismo ovviamente del tutto «casuale», il giudice Mesiano, dopo la condanna in primo grado inflitta a Berlusconi per il Lodo Mondadori? È curioso perché oggi, spesso, quelli di sinistra dicono cose di destra solo perché le dici tu che non sei di destra ma neppure di sinistra, piuttosto perché non sposi l’antiberlusconismo obbligatorio in chi nel cervello ha solo l’ossessione di Berlusconi. Molti mi chiedono «ma tu non eri radicale?». Rispondo «sono i radicali a non esserlo più, ora sono solo parentiano». E però sì, dove sono finiti i miei amici radicali, quelli che ho votato da sempre, perfino quando si sono intruppati con Romano Prodi (ma poco tempo prima Marco dichiarava «se vince la sinistra di Prodi fuggirò dall’Italia»), e votandoli speravo fossero una spina idealistica nel fianco nel Pd? E la Corte costituzionale, oggi intoccabile e sacra, me la ricordo eccome, definita dal leader radicale «la grande cupola della mafiosità partitocratica», i cui giudici erano «un gruppo di fuoco per cercare di salvare fino in fondo il regime e le sue nequizie».
Se lo dicesse Berlusconi, oggi che la Corte costituzionale sembra il Fronte di liberazione nazionale, sarebbe il regime o un rivoluzionario contro il regime? Qualcuno, quelli che leggono solo la Repubblica o Il Fatto, e quindi ogni giorno leggono sempre le stesse cose, obietterà che Berlusconi deve salvarsi dai suoi processi, gli stessi processi che, tuttavia, erano l’arma sovversiva di una «masnada di procuratori» quando i pannelliani si allearono con Silvio, in nome, tra l’altro, del presidenzialismo e dell’antigiustizialismo, e contro i poteri forti, da cui Berlusconi era stritolato. È sempre lo stesso scontro, sempre gli stessi magistrati, sempre lo stesso Berlusconi. Com’è possibile che oggi, proprio su quei temi, Berlusconi incarni «un folle, criminoso, disegno eversivo da generale Pinochet»? Cos’è cambiato? Com’è possibile che Pannella si ritrovi a genuflettersi a un Beppe Grillo qualsiasi? E però, una volta scelta la strada della dissoluzione nel Pd, nella scorsa legislatura, hanno forse fatto fuoco e fiamme per far passare almeno uno straccetto di unione civile etero-omo-trans? Macché. Neppure sulla legge 40, né sul testamento biologico, e Emma era perfino un ministro molto invitato in televisione e ad Annozero, ora forse la piazzeranno al posto di Marrazzo e festa finita. Dal partito transnazionale e transpartitico al post-trans-scandalismo.
E la legge elettorale, la «porcata», ve la ricordate? Neppure quella. I radicali che, insomma, erano per un governo che governasse, per dare più poteri al premier che in Italia non riesce mai a governare, e quindi presidenzialismo all’americana e maggioritario secco e separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati «nemici del diritto», i radicali duri e puri, di un garantismo così spinto da portare in Parlamento Toni Negri, di un antibigottismo così spinto da portare in parlamento Ilona Staller, quei radicali avrebbero sparato contro i polveroni sollevati su escort e trans, ma scherziamo. Quei radicali, i quali parlavano di «golpe» della magistratura e perfino di «golpe» della Corte costituzionale. Erano radicali per questo, mica perché mettevano radici negli ulivi e nelle margherite e si mettevano in coda da Veltroni per prendere i ticket dell'I care. Contrari inoltre, sulla legge elettorale, quando erano nel Polo, a qualsiasi accordo con l’Ulivo, quando il messaggio del Polo era «ci metteremo d’accordo» con l’opposizione, e Pannella si incazzava: «Ma siamo matti? Sarebbe il trionfo della partitocrazia, il ritorno al proporzionale puro». E i referendum per la responsabilità civile dei magistrati, e per la ricerca sulle cellule staminali embrionali, così embrionali da essere subito dimenticate appena fatta l’alleanza con la sinistra cattocomunista a sua volta alleata con il Di Pietro fasciogiustizialista.
Insomma, chi ha ucciso i radicali, i miei amati radicali? Li ha uccisi la loro antitesi, alla lunga li ha uccisi l'Italia che sfianca chiunque. Il loro funerale è stato l’ingresso organico in uno schieramento, e proprio in quello schieramento da sempre combattuto, ipersindacalizzato, antiliberista, antigarantista, e quindi la fine dei tavoli nelle piazze, della militanza democratica extraparlamentare, degli scioperi della fame contro tutto e tutti in nome di principi alti perché radicali. Come può conciliarsi Marco Pannella con Bersani, con la farsa delle primarie, con il giustizialismo sovversivo di Di Pietro e De Magistris, con il moralismo ipocrita della sinistra? Dove sono finiti i radicali, quelli laici, quelli liberali, libertari, liberisti, quelli il cui compito era, secondo Pier Paolo Pasolini, di «opporsi a ogni governo e a ogni opposizione»? Dove sono finiti quelli per cui la Corte costituzionale era il simbolo del regime e volevano rivoltare la magistratura e Pannella era definito «l’alleato di ferro» di Berlusconi? (il Giornale)

mercoledì 18 novembre 2009

Inizia la guerra dell'acqua. Carlo Lottieri

C'è una vera ossessione della sinistra italiana. Alcune settimane fa, sul Corriere della Sera, la scrittrice Dacia Maraini - che solitamente non si occupa di servizi "in rete" - ha portato un durissimo attacco al governo Berlusconi, accusato di sottrarre un bene tanto primario come l'acqua al suo legittimo proprietario, il popolo. Toni perfino più accessi ha usato uno dei campioni della sinistra no-global, padre Alex Zanotelli, che quando parla di questo tema sembra davvero perdere la testa. In una lettera sempre al Corriere, il padre comboniano ha chiesto il massimo dell'impegno di «tutti, al di là di fedi o di ideologie, perché "sorella acqua", fonte della vita, venga riconosciuta come diritto fondamentale umano e non sottoposta alla legge del mercato». Amen.

In realtà, purtroppo sta succedendo ben poco su questo delicato tema, e quindi non c'è davvero ragione di scaldarsi in questa maniera. Il progetto governativo firmato da Fitto e Calderoli non prevede alcuna privatizzazione dell'acqua - il che vorrebbe dire, ovviamente, dei sistemi di gestione e distribuzione - e non è in alcun senso rivoluzionario. Ma è di questo che bisognerebbe lamentarsi. Come qualunque altro servizio, la distribuzione dell'acqua può essere meglio realizzata quando si abbandonano le logiche di monopolio e si entra in un quadro competitivo. Nella Sicilia di oggi l'acqua sarà anche pubblica, cioè gestita da enti in un modo o nell'altro controllati da burocrati e uomini di partito, ma questo non impedisce alla rete di essere un colabrodo. Perché in tali ambiti si possa avere un vero mercato bisognerà fare molti passi: e se nel 2008 qualcosa si è iniziato a fare con la legge 133, il cammino è ancora lungo. Basti pensare al problema dei prezzi e al fatto che le tariffe sono decise dagli Ato, che sono in sostanza soggetti politici, cui è affidato il compito di regolare la gestione dell'acqua e che hanno quindi anche il compito di determinare i costi che devono gravare sui cittadini. Un'autentica privatizzazione e liberalizzazione dell'acqua, insomma, è ancora lontana: e non in primo luogo per ragioni tecniche, ma per le fortissime resistenze che l'idea incontra.

Per giunta, quello di cui si discute in Italia è solo se la gestione di acquedotti e reti debba essere lasciata in mano ai monopolisti attuali oppure se essa debba essere affidata tramite gara. Si tratta insomma di vedere se quello che c'è oggi va bene (come sembrano dirci i difensori dello status quo), oppure se non vi siano imprese disposte a farsi avanti per proporre una gestione dell'acqua potabile e delle fognature con standard qualitativi più alti e prezzi inferiori. Il contrasto è essenzialmente culturale, ma rinvia a enormi resistenze, dato che se davvero ci si aprisse, anche timidamente, al mercato si finirebbe per mettere in discussione una serie di situazioni cristallizzate. L'acqua di Stato garantisce ai politici un bel numero di posti nei consigli d'amministrazione, insieme a notevoli opportunità di clientelismo. Senza dimenticare ciò che è già successo, negli anni scorsi, ossia che la costituzione degli Ato abbia finito per espropriare della loro autonomia decisionale una serie di realtà, anche molto piccole, che si erano attrezzate per amministrare in maniera autonoma la gestione dell'acqua.

In verità, e una volta di più, ci si trova schiacciati tra un ideologismo vetero-collettivista che giunge a definire l'acqua un "diritto umano" (cosa vuol dire? serve a far gestire meglio le reti idriche? aiuta ad assicurare che i costi non saranno esorbitanti?) e la furbizia di chi vuole aprire il mercato, ma solo in parte, perché ha già i propri progetti e intende cogliere in tal modo la facile opportunità di costruire una rendita: usando il privato per fare i profitti e la regolazione pubblica per evitare la competizione. Padre Zanotelli e Dacia Maraini possono evitare di agitarsi: in un modo o nell'altro, l'acqua resterà gestita dal grande Soviet di Stato e da tutte le sue articolazioni. Al massimo vedremo apparire qualche "oligarca" locale che si appoggerà al Pubblico per realizzare, alle solite, privatissimi guadagni. C'è anche chi, nella Puglia di NichiVendola, sta pensando di tornare all'antico: rimunicipalizzando l'importante acquedotto regionale, che era stato trasformato in una società per azioni. Quanti amano l'acqua di Stato, insomma, possono dormire sonni tranquilli.

Quelli che però dovrebbero preoccuparsi sono i cittadini, dal momento che in tal modo è difficile che si possano avere investimenti, ristrutturazioni e l'adozione di migliori tecnologie, e che quindi insomma si possa avere una qualità migliore a un prezzo più basso. In questa situazione, la cosa probabile è che molti rubinetti, anche la prossima estate, continueranno a restare del tutto asciutti. (Ibl)

martedì 17 novembre 2009

Fao, fame e libertà. Davide Giacalone

Se le belle parole fossero commestibili i vertici della Fao (Food and Agricolture Organization, che fa capo all’Onu) sarebbero utili a sfamare i denutriti. Invece, capita che a Roma siano esaurite le suite negli alberghi di lusso, e cortei di macchine scortano signori con un girovita incontenibile, intenti ad occuparsi di una cosa che non conoscono: la fame. Se leggete i vari comunicati ufficiali, i messaggi di buon lavoro e gli interventi in assemblea, invece, la fame vi passa, perché ottusa da una valanga di parole uguali e rimbombanti di vuoto. Tutti per lo sviluppo, ma sostenibile, tutti per l’intervento rapido, ma pensato, tutti a definire “drammatica” la realtà e nessuno che possa sentirsi “indifferente”. Commovente, ma anche tendenzialmente inutile.
Ci sono tre aspetti che, ogni volta che si riuniscono questi tripudi del buonismo alimentare, tendono ad essere occultati. Uno politico, il secondo commerciale ed il terzo economico. Quello politico è semplice: ci sono molti popoli aiutare i quali significa aiutare i loro governanti, che non mancano di ferocia sanguinaria e bramosia furfantesca. La politica non si ferma davanti ad un bimbo che muore di fame, né quella povera vittima è rappresentata da organizzazioni burocratizzate, colme di politici trombati nel bel vecchio, grasso e satollo mondo.
L’ipocrisia di questi incontri è tale da non consentire di additare i singoli dittatori, contro i quali, del resto, non si muove alcuna protesta di piazza, riservata, invece, ai leaders del mondo democratico. Sicché ci becchiamo pure il mitico “er monnezza”, che nei panni del capo libico riunisce le nostre ragazze per spiegare loro quanto maschio possa essere il mondo degli attendati. O ascoltiamo le parole della moglie di Ahmadinejad, che non avendo trovato Biancaneve, per darle la mela, si rivolge alle altre mogli dei capi di stato e di governo (che razza di consesso è?), parlando dei bambini palestinesi e tacendo di quelli ebrei, che il marito vorrebbe cancellare.
Mentre noi ci pieghiamo al rito, non avendo la banale sincerità d’indicarne il vuoto, i cinesi, grazie ai soldi che noi spendiamo per acquistare i loro prodotti, comperano pezzi sempre più grandi d’Africa e d’Asia. E non certo per ragioni umanitarie. Naturalmente, nessuno s’azzarda a dire che questo è colonialismo e, anzi, Obama vola dalle loro parti per assicurare che le convenzioni sul clima resteranno lettera morta, potendosi continuare ad inquinare a piacimento. Potenza del debito pubblico statunitense, per la gran parte nelle casse dei cinesi.
E veniamo alle questioni commerciali. Un’arancia o un mandarino di Palermo costano di più dei frutti che arrivano da lontano. In compenso hanno il sapore degli agrumi, mentre le insalate che comperiamo al supermercato sanno di confezione: puoi aprirle o leccare la busta, tanto il sapore è lo stesso. Ci sono due strade: la prima consiste nel far valere le regole della sana coltivazione in tutti i Paesi da cui s’importano prodotti, la seconda nel proteggere la nostra agricoltura. Nel primo caso occorrono autorità internazionali e capacità coercitiva fuori dai confini nazionali, nel secondo (che è quello praticato) si finisce con il colpire gli interessi di quegli stessi Paesi che nella stanza accanto si afferma di volere aiutare. Il che serve a capire che i vertici contro la fame sono tempo perso, perché quelli che contano sono dedicati al commercio internazionale.
Infine, c’è il politicamente scorretto anche in campo economico, perché tutti s’affannano a raccontare quel che deve essere fatto, ma nessuno osa dire quel che è già successo: la povertà, nel mondo, è diminuita, come sono significativamente diminuiti i morti di fame. Non è avvenuto, però, grazie alla bontà governativa organizzata, ma grazie alla globalizzazione dei mercati. Che è un fenomeno grandemente positivo, anche perché spinge allo sviluppo ed alla distribuzione della ricchezza, così premendo sugli argini di regimi oscurantisti e dittatoriali. La bestialità del mercato ha fatto annusare a molti il profumo del benessere e della libertà, laddove la carità governativa serve all’esatto contrario, conservando in vita sistemi politici che meritano d’essere travolti.
A questo aggiungete il tema della demografia, con un mondo che invecchia e si stabilizza (il nostro), accanto ad un altro sempre più giovane ed in crescita esplosiva, e chiedetevi se questo approccio parrocchiale al tema della povertà ha qualche cosa di sensato.
Pertanto, profondamente convinto che gli esseri umani abbiano tutti eguali diritti e tutti debbano potere aspirare alla libertà “di” (quindi politica) ed alla libertà “da” (quindi economica, dalla fame e dalla miseria), mi punge vaghezza che democrazia e ricchezza collettiva viaggino sullo stesso binario. Che va sgomberato dai suoi nemici.

lunedì 16 novembre 2009

Le nostalgie di Napolitano per la Prima Repubblica. Marcello Veneziani

Presidè, io vi capisco assai ma veramente dobbiamo difendere i politici di professione e associarli alla nobiltà e alla moralità della politica? Mi rivolgo proprio a Voi, Presidente Giorgio Napolitano, e lo faccio col deferente e antico voi, tipico di noi meridionali. Vi ho sentito ieri a Napoli, vostra città onomastica e natale, elogiare il sindaco comunista Maurizio Valenzi. Vi ho sentito, politico di antico pelo, e comunista dell’era ideologica, commuovervi al ricordo del vecchio compagno di partito e di Vesuvio. E da meridional-sentimentale quale sono, rispetto i vostri affetti, le vostre nostalgie, la vostra età grave, perfino i vostri vintage, come si dice delle vecchie e amabili cianfrusaglie del passato. Però lasciatemi dire due o tre cose.

Voi parlavate col cuore in mano e la boccuccia a forma di babà. Però si capiva che non stavate parlando solo di Valenzi e nemmeno solo della bella politica di una volta. Parlavate di voi, difendevate la vostra biografia. E parlavate della casta, difendevate la casta di cui fate parte, a sinistra come a destra. E naturalmente sparlavate anche di lui, il non politico che guida l’Italia, Berlusconi. Quando avete detto che si può essere di destra o di sinistra ma l’importante è difendere la nobiltà e la moralità della politica come professione, si poteva facilmente tradurre con: potete essere con Fini o con Bersani, e se proprio vi scappa con Casini, ma non con l’antipolitico Berlusconi, col suo affine Bossi o con il suo rovescio Di Pietro.

C’era un’invisibile lavagna dietro le vostre parole dove erano visibili i nomi dei buoni e dei cattivi. Ma per carità, neanche di questo mi sorprendo e vi biasimo. In loro vi rispecchiate Voi, che siete nato alla politica e per sessant’anni o centoventi, non lo so, l’avete praticata. È stata la vostra professione, a tempo pieno, e per oltre quarant’anni da dirigente del partito comunista. Avete maturato il massimo della pensione di comunista; e infatti avete smesso di dichiararvi comunista dopo che è caduto il Muro di Berlino e avete raggiunto l’età classica della pensione. Un errore di gioventù, il comunismo, durato fino alla tenera età di sessantacinque anni.

Io già mi ero messo scuorno nell’anniversario del Muro di Berlino, quando avete parlato del nazifascismo, presente il vostro aiutante Fini, ma avevate dimenticato che quel Muro era stato eretto dal comunismo, col consenso di voi comunisti italiani. Ma oggi che siete tornato a difendere la politica di professione e la sua moralità, vi vorrei ricordare che fu proprio per l’immoralità dei politici di professione che nacque Tangentopoli e crollò il vecchio sistema politico.

Forse ce ne dimentichiamo, ma le inchieste di Mani pulite non riguardarono i Berlusconi ma proprio i vecchi partiti corrotti e ridotti ad una ignobile vecchiaia con i loro apparati di professione. Alcuni poi furono sciolti a suon di arresti e condanne, come il Psi, il Psdi e la Dc; gli altri, come il Pci, si sciolsero a suon di muri e Unioni sovietiche caduti. Ma erano tutti invischiati in una rete di potere che passava dai comitati d’affari alle cooperative, dalla lottizzazione alle spartizioni di poteri e soldi pubblici.
Vuol difendere quella storia, quei governicchi che duravano in media nove mesi, come una gravidanza senza figli, e si sbrodolavano nel politichese? C’era nobiltà e moralità in quella politica? Via, Presidè, non prendiamoci per i fondelli. E se proprio vogliamo separare la politica dalla moralità, allora dobbiamo dire che l’ultimo gran politico di quel tempo si chiamava Bettino Craxi, e voi Presidè, e qui non uso il voi rivolto al notabile del sud, ma proprio il voi plurale, riferito all’ex Pci, eravate contro di lui e con i magistrati. Anzi, a proposito, vogliamo dire un’altra cosa? A delegittimare la nobiltà e la moralità della politica di professione avete concorso pure voi che avete invocato la supplenza dei giudici e avete fatto patti e alleanze con poteri economici, mediatici, oltre che giudiziari.

Siete stati voi ad evocare il mostro dell’antipolitica, perché una volta finito il Racconto ideologico del comunismo, avete puntato sul diluvio e giocato questa partita allo sfascio. Finito il compromesso storico con la Dc, avete cercato un compromesso storico con la Confindustria, con i poteri finanziari, siete anzi andati all’estero a piatire coperture e sostegni. E avendo abolito i voli diretti per Mosca, siete andati a supplicare appoggi a New York o alla City londinese. Lì è finita la sovranità della politica, non con Berlusconi. Quando è arrivato lui, la politica puzzava già di cadavere, non suscitava più passioni ideali e civili, non aveva nulla di nobile ma solo scheletri da chiudere negli armadi.

Presidè, quant’è vero Iddio, io non sono nemico della Politica Alta, anzi io la sostengo da una vita. Ma quella che è rimasta è la ciofeca, anzi è la posa del caffè, il rimasuglio di una grande e tragica storia. Non ci sono i De Gasperi, i Togliatti, i Craxi, gli Almirante, ma i loro meschini succedanei. Vorrei pur’io che rinascesse la Grande Politica, che si curasse davvero di interessi generali e di valori, divisi e condivisi. Ma questi no, si fanno battere anche sul loro terreno dagli antipolitici.

Vi dice niente Presidè che i più premiati alle ultime elezioni sono stati proprio Berlusconi, Bossi e Di Pietro e che sono scomparsi dalle Camere gli ultimi brontosauri del comunismo e dintorni? Presidè, non vi pigliate a male, ma ieri a Roma siamo passati al digitale e voi state ancora all’analogico, versione bianco e nero. Non voglio rovesciare la vostra predica e dire che i buoni sono gli antipolitici e i cattivi sono i politici, non sia mai; dico che quando parlate a Napoli di nobiltà della politica ricordatevi che quei nobilissimi politici di professione si sono arresi nella vostra città alla camorra e al malaffare; e ci è voluto un ignobile, immorale antipolitico per liberarla almeno dall’immondizia e avvicinarla in treno a Roma di un altro quarto d’ora. E allora, Presidè, ricordatevi almeno di Totò e parlate più onestamente di Miseria e Nobiltà della politica. Nobiltà di casato, miseria del presente. (il Giornale)

Meglio mafiosi che carabinieri. Davide Giacalone

Meglio fare il mafioso, piuttosto che il carabiniere. Lo Stato ti tratta con più riguardi. Visto che la giustizia è tornata di moda, attiro l’attenzione su questioni minori, bazzecole per fissati, relative alle schifezze che la malagiustizia produce. Se fai il mafioso ti godi il potere e i soldi. La cosa che più devi temere è che una cosca avversaria ti spari, ma, fatta salva questa ipotesi, assai più probabile fra gente senza regole e rispetto, come i camorristi, l’altro pericolo, quello che a prenderti sia la giustizia, non è poi così spaventoso. Se è possibile, si limitano i danni: te ne stai zitto, lasci che il processo scorra e se c’è da fare qualche anno di galera, pazienza, poi passa. Se, invece, le cose si mettono davvero male, se le accuse assommano a numerosi omicidi, allora è il momento di rilanciare ed uscirne alla grande, facendo il pentito.
Da quel momento, ti trattano con tutti i riguardi. Un po’ pendono dalle tue labbra e un po’ ti corteggiano, affinché tu dica cose utili a questo o a quello. Partecipi al concorso per riscrivere la storia. Che è divertente, per quel che può fregartene. Confessi tutti i tuoi reati gravi, ammetti di avere ammazzato, scannato e sciolto nell’acido, perché questo aumenta sia la tua credibilità che il tuo peso criminale, sicché più le tue mani sono sporche di sangue più è verosimile che tu stessi personalmente trattando con i capi dello Stato, e forse anche con qualche pontefice. Taci, invece, su reati e aspetti legati ai piccioli, alla munita, ai soldi che hai messo da parte in anni di disonorato servizio. Quelli servono, a te, alla tua famiglia e agli amici. Se proprio devi, ti fai sequestrare qualche campo d’ulivi, o qualche vecchia casa, tanto è evidente che non ci tornerai più.
Ah, dimenticavo, da pentito ti è assicurata la protezione e la scorta, in modo da proteggerti dai tuoi colleghi, ma non è escluso che tu possa frequentarli, adeguatamente spalleggiato. Quando il lavoro sarà finito, come capitava a quel fimminaro di Tommaso Buscetta, potrai accedere al chirurgo estetico, ti saranno forniti documenti compiacenti e potrai andartene in crociera con la tua bella. Se sei carabiniere, invece, sono cavoli tuoi.
Sergio De Caprio, noto come “Ultimo”, creò unità operative dei Ros e, nel 1993, arrestò Totò Riina. Per questa ragione la cupola mafiosa lo condannò a morte, mentre la procura tentò di condannarlo alla galera, assumendo che sia stato, assieme a Mori, un complice di Riina medesimo, non avendogli subito perquisito la casa. Lo assolsero, ma, nel frattempo fu spedito a prestare servizio presso il Noe di Roma: Nucleo Operativo Ecologico. Funzione utile, non ne dubito, ma leggermente diversa da quella che gli aveva permesso di rendere preziosi servizi allo Stato.
Siccome, di tanto in tanto, deve tornare a Palermo, per testimoniare in alcuni processi, è evidente che a proteggerlo non basta il fatto che si occupi d’ecologia, perché anche i mafiosi hanno una loro teoria, circa l’ambiente. Ma al carabiniere De Caprio non danno la scorta. Il mafioso si presenta scortato, il carabiniere abbandonato a se stesso. Hanno rimediato, si fa per dire, i suoi colleghi del servizio scorte: lo proteggiamo noi, quando non siamo in servizio. Bello, non vi pare?
Trattamento non meno riguardoso è stato riservato a Carmelo Canale, il carabiniere che Borsellino chiamava “fratello”, il quale prima è stato accusato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, ed è stato assolto. Poi, dovendosi discutere l’appello, la procura ha pensato bene di accusarlo direttamente d’essere mafioso. E anche questa volta è stato assolto, con motivazioni che stracciano la pelle agli accusatori e polverizzano le loro teorie e supposizioni. Anzi, nelle motivazioni hanno proprio scritto per quale motivo s’è beccato anni d’inquisizione: ha un cattivo carattere. E, adesso, cosa fa la procura? Non paga degli anni passati, e non dovendo pagare le spese, ricorre in cassazione, allungando l’agonia di un processo infondato e inutile, e prolungando le sofferenze di un innocente.
Anche qui, non si trascuri un particolare: i pentiti che accusano Canale, già sbugiardati in tribunale e dai giudici, continuano a essere protetti, mentre il carabiniere è solo, ma anche senza la pensione che gli spetta, perché la sua carriera è stata bloccata dalle accuse e dai processi, e tale rimane, visto che la procura non sente il peso dell’ulteriore grado di giudizio.
Morale della favola: meglio fare il mafioso che il carabiniere. Se alla politica restano cinque minuti di tempo, ove mai l’universo non si esaurisca in un paio di processi con i quali fucilare il capo del governo e in leggi che servano a bagnare le polveri di quelle cartucce, ci sarebbe un dettaglio di cui occuparsi: i servitori dello Stato presi a pernacchie dallo Stato.

venerdì 13 novembre 2009

Mills, corruzione postdatata. Il giallo del reato che non c'è. Claudio Borghi

La corte di Appello di Milano che ha condannato l’avvocato Mills per corruzione in atti giudiziari ha regalato su un piatto d’argento a Berlusconi la soluzione per liberarsi in modo semplicissimo di un processo che, a rigor di logica, non avrebbe dovuto nemmeno cominciare. In mezzo alle mille anomalie che hanno caratterizzato la vicenda giudiziaria (ad esempio la totale mancanza di prove contabili che il denaro incamerato da Mills provenisse proprio da Fininvest e non dal suo cliente, l’armatore Attanasio) la nuova sentenza, dopo un dibattimento a velocità da record mondiale, si caratterizza per aver stabilito che l’ipotetica corruzione di Mills fosse avvenuta in un momento successivo alle sue deposizioni in aula come teste dell’accusa in alcuni processi.
Sorvolando sull’ennesimo salto della logica, che fa il paio con l’attribuzione a Mills, cittadino inglese, della qualifica di «pubblico ufficiale» (senza la quale non ci sarebbe corruzione) e con la decisione di fissare il momento del reato non al momento del supposto pagamento ma al giorno in cui Mills ha prelevato il denaro (per non far scattare la prescrizione), il decidere che l’eventuale corruzione sia avvenuta dopo la deposizione di Mills in aula ha importanti conseguenze. Si tratta infatti di una fattispecie di reato che non è prevista dal nostro ordinamento, dal momento che l’articolo 319 ter del codice penale che delimita la corruzione in atti giudiziari esplicita che la corruzione deve essere tesa a favorire o a danneggiare una parte del processo, intendendo quindi un’azione attuata in vista di uno scopo futuro ed escludendo quindi la fattispecie della «corruzione susseguente».
Il fatto che non abbia senso prevedere un pagamento senza l’obiettivo di far succedere qualcosa in un processo (dato che il processo si è già tenuto) è stato confermato a chiare lettere, per un curioso caso del destino, proprio dalla Corte di Cassazione nella sentenza Imi-Sir/Lodo Mondadori dove si dice che si «esclude la configurabilità della corruzione susseguente in atti giudiziari». Tutto finito, dunque? Mills processato per un supposto reato che non esiste e certa bocciatura della sentenza in Cassazione? Non è così semplice, il fatto è che vi è stata un’altra sentenza della Suprema Corte in un caso in cui a un giudice furono fatti dei regali (e non era Di Pietro), che, invece, smentendo se stessa, sostiene che la corruzione susseguente possa esistere. Questa disputa però apre la porta ad una soluzione semplice, corretta ed elegante di questa spiacevole pagina giudiziaria: basterebbe un’interpretazione autentica della legge da parte del Parlamento che ribadisca il testo dell’articolo 319 ter, escludendo la possibilità di altre letture differenti da quella già analizzata dalla Cassazione nel 2006 per chiudere la partita. Niente corruzione susseguente, niente processo, tutti a casa molto più sereni, per lavorare ad una vera riforma della giustizia, necessaria come l’aria e l’acqua ai cittadini e alla credibilità del sistema economico. Semplice, veloce, legale. (il Giornale)

giovedì 12 novembre 2009

2x3 giudiziario. Davide Giacalone

Un processo che dura sei anni non è un processo breve, è un processo lungo. Troppo. I guasti della malagiustizia si mescolano alla superficialità della politica, fino a corrompere anche il vocabolario. Mi spiace disturbare tanto idillio, ma ho l’impressione che con idee di questo tipo non si risolva nulla e neanche si facciano gli accordi. Si naviga a vista, ma nella nebbia.
Sei anni sono lunghi, già sopra la media europea. Inoltre, il conteggio dei tempi decorre, secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che continua giustamente a condannare l’Italia per denegata giustizia, dal momento in cui un cittadino riceve l’avviso di garanzia, da quando l’indagine che lo riguarda è avviata. Se, invece, si toglie tutta la parte precedente all’udienza preliminare, si finisce con l’accettare che il cittadino possa passare una decina d’anni a fare l’indagato e l’imputato. Non è solo troppo, è incivile.
Il 2x3 giudiziario (due anni per ciascuno dei tre livelli di giudizio) non risolve il problema della celerità, né, come detto, rende eurocompatibili i tempi del nostro processo penale. Ma neanche risolve il problema della prescrizione e, quindi, tanto per non girarci attorno, non risolve quelli del presidente del Consiglio imputato. Per quel che riguarda i tempi, pur non rinunciando alle altre, indispensabili, riforme della giustizia, comprese quelle costituzionali, basterebbe considerare perentori, quindi non eludibili, tutti i termini temporali previsti dal codice di procedura penale. Oggi sono “ordinatori” quelli che competono alla magistratura, vale a dire che si possono anche non rispettare. Esempi: motivazioni delle sentenze depositate dopo anni, richieste di rinvio a giudizio, o proscioglimento, che non arrivano dopo la chiusura delle indagini, ma dopo mesi e mesi.
E veniamo alla prescrizione. Sarebbe giusto accorciarla, ma se, in realtà, si agisce sul processo, stabilendo che non può durare, in ciascun grado, più di due anni, e se ne stabilisce l’efficacia anche per quelli in corso, capiterà che alla data d’ingresso in vigore della legge ci saranno processi cui restano solo quindici giorni, o poche ore, poi svaniscono. In quel caso non si applica il “favor rei”, che stabilisce la prevalenza del criterio più favorevole all’imputato, ma ci si schianta sull’incostituzionalità. E’ una sorte annunciata, ammesso che una cosa simile si trovi scritta in una legge.
E, allora, che razza di accordo hanno fatto? Poca roba, neanche utile. Di fatto, oggi si presenta una proposta, poi si aprirà la corrida degli emendamenti. Su quelli gli accordi pregressi cascheranno e l’arena s’inzacchererà di sangue. Dopo poco tempo, come in un dannato gioco dell’oca, risaremo tutti alla casella di partenza.

mercoledì 11 novembre 2009

Puzza, camorra e doppio taglio. Davide Giacalone

I processi non si fanno sui giornali, vale per l’accusa e vale per la difesa. Il guaio è che non si fanno neanche in tribunale, o li si avvia dopo anni, quando l’accusato è già stato cancellato dalla vita pubblica. La procura di Napoli accusa l’onorevole Nicola Cosentino d’essere un concorrente esterno della camorra.
Accusa gravissima. A noi piacerebbe dire che la giustizia deve fare il suo corso, ed in quella sede auguriamo a Cosentino, come a qualsiasi altro imputato, di potere far trionfare la propria innocenza. Sappiamo, però, che le cose andranno diversamente.
Ci sono molti problemi, assai delicati e complessi, che questo ennesimo caso mette in luce. Ciascuno di questi problemi, come vedremo, è un’arma a doppio taglio. A cominciare dal reato presupposto, come detto: concorso esterno in associazione di tipo camorristico. Reato che ha un difetto, non esiste. L’articolo 416 bis, del codice penale, definisce l’associazione di tipo mafioso (per estensione anche camorristico), della quale o fai parte o non fai parte, o sei mafioso o non lo sei. Combinando, però, questo articolo con il 110, che definisce il concorso, si ottiene un prodotto giurisprudenziale che non ha fonte di legge: il concorso esterno. Ciò capita perché il diritto sa bene cosa sia un concorso, presupponendosi che il concorrente abbia agito per concretamente aiutare il criminale nel commettere un determinato reato. Ma se s’ipotizza il concorso non con una singola persona, ma con un’associazione delinquenziale non dettagliatamente definita, ne vien fuori una cosa elastica che, al tempo stesso, può colpire chiunque e mal si presta ad una dimostrazione processuale. Detto in altri termini: è facile accusare, assai più difficile dimostrare.
Ed ecco la lama a doppio taglio: la giusta voglia di colpire il mondo attorno alla delinquenza organizzata spinge ad utilizzare un’arma imprecisa, un fucile a pallettoni anziché una carabina per tiratori scelti, ma l’imprecisione si riflette sulla successiva discussione processuale, dove si riproporrà il problema di stabilire cosa è stato concretamente fatto, da chi ed a favore di quale reo, e siamo punto e a capo, dovendosi stabilire se dell’associazione a delinquere l’accusato ha fatto parte o meno. Lo sfregio è provocato da ambo i fili del coltello, perché l’innocente sarà trascinato a lungo in un processo infamante, mentre il colpevole guarderà con gioia i salti mortali di chi non riesce a circoscrivere e dimostrare il reato contestato.
Seconda pugnalata, la richiesta di arresto. Il gip, su richiesta della procura, chiede la carcerazione cautelare di un parlamentare, sapendo già che il Parlamento la rifiuterà. Ciò avverrà perché la non flagranza del reato presuppone che la detenzione sia funzionale alle indagini, e ben difficilmente, un qualsiasi Parlamento democratico, consegna un proprio membro a tali condizioni. Ma avviene anche perché la richiesta diventa automaticamente irragionevole, giacché un cittadino può essere privato delle libertà, in assenza di una condanna definitiva, solo se ricorrono i rischi d’inquinamento delle prove, reiterazione del reato (nel caso in cui sia violento e pericoloso) o fuga all’estero. E’ chiaro che se me lo dici settimane prima, che mi vuoi arrestare, o tali pericoli non esistono, oppure quel che dovevo fare lo faccio nel frattempo.
Ecco, ancora, il doppio taglio: da una parte si vuole affermare l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, dimostrando che anche un parlamentare potrebbe finire in galera, dall’altra si formula la richiesta in modo tale che sarà rigettata, finendo con il suggerire la totale disuguaglianza.
Il terzo sfregio è esemplificato dalle parole di Gianfranco Fini (che, in questa occasione, parla da capo partito, non certo da presidente della Camera, e ciascuno dovrebbe decidere, una volta per tutte, che parte recita in commedia). Egli ha detto che Cosentino non si può più candidare. Tutto sta in quel “più”. Fini sostiene che vale la presunzione d’innocenza (e vorrei vedere, visto che è scritta nella Costituzione), ma osserva quel che è abbastanza evidente: l’essere indagati per avere agevolato la camorra esclude che ci si possa candidare a governare la Campania. Con ciò, però, la procura se proprio non può scegliere chi candidare, può, almeno, scegliere chi non candidare. E non è mica normale. O, meglio, sarebbe normale, in un Paese sano, dove gli indagati si fanno da parte e tornano sulla scena da innocenti. Solo che il nostro non è un Paese normale, la giustizia non funziona, quello d’indagato ed imputato può essere un destino a vita, perfino in galera più della metà degli ospiti sono innocenti e, quindi, ciascuno si regola come crede, senza che nulla abbia più valore.
Di nuovo, il doppio taglio: i cittadini vogliono che si faccia giustizia, ma accusando e cancellando dalla vita pubblica chi si dimostrerà innocente non si fa che moltiplicare l’ingiustizia. Talché chiedo giustizia, ma non credo di ottenerla dai tribunali. Una catastrofe.
Il più inquietante, però, è il duplice sfregio generale. Troppa parte del nostro Paese non è sotto la sovranità della legge, ma è governato dalla criminalità. L’economia illegale cresce e si struttura, cancellando progressivamente lo Stato. Nel caso della spazzatura napoletana le accuse di collusioni con la camorra, in capo ai governanti locali, sono venute anche dai loro compagni di partito (mi riferisco a Vincenzo De Luca, parlamentare ds e sindaco di Salerno, uno dei possibili candidati per succedere ad Antonio Bassolino). Sono state accuse pubbliche e chiare. Nessuno si è dimesso, nessuno è stato indotto a farlo. C’è la camorra che si è arricchita, con i soldi pubblici, stoccando il pattume su terreni propri, e c’è, con ogni probabilità, la camorra che ha fatto soldi anche nel far sparire la spazzatura. Si potrebbe sostenere, in queste condizioni, che ovunque colpisca la giustizia farà centro, ma il guaio è che non sembra cieca, la giustizia, ma guercia.
Ogni volta si solleva una puzza che non sai mai esattamente da dove arriva, ma lascia la sensazione che tutto olezzi.

martedì 10 novembre 2009

Quando il Muro crollò addosso al Bottegone. Fabio Martini

Era tutto il giorno che il Muro veniva giù, sbrecciato dalle mani e dai picconi. Poi si era fatta sera, a Berlino ma anche a Botteghe Oscure, il palazzo dove abitava il Pci, il più forte partito comunista d’Occidente. Al Bottegone le luci sono ancora tutte accese. Il segretario Achille Occhetto è a Bruxelles, ma i giovani rampolli che forse un giorno si faranno - D’Alema, Veltroni, Fassino - da ore sono davanti al televisore. Ad un certo punto Claudio Petruccioli si alza, si avvia lungo il corridoio, va a cercare lo sguardo e il pensiero di Alessandro Natta.

Nella stanza dell’ex segretario «la luce non è accesa, domina la penombra», racconterà Petruccioli nel suo libro Rendi conto. «Che facciamo?». E Natta: «Ma caro Petruccioli, cosa volete fare!». Petruccioli: «Ma come cosa vogliamo fare? Telefonano da tutta Italia, non possiamo star zitti! Con quel che sta succedendo, come facciamo ad andare in giro con questo nome...». E Natta: «Vedi, io non considero intoccabile il nome... ma cosa volete fare... Qui crolla un mondo, cambia la storia... ha vinto Hitler... Si realizza il suo disegno, dopo mezzo secolo».

Parole memorabili. Da compagno a compagno. Pronunciate al crepuscolo di una giornata che sta chiudendo un’epoca. Parole che illuminano l’anima di un comunista italiano. Natta ha 71 anni, è stato segretario del Pci subito dopo la morte di Enrico Berlinguer, è un uomo colto, antidogmatico, cultore dell’illuminismo. E come tutti i comunisti della sua generazione - e non solo - pensa che senza il sacrificio dell’Armata rossa, i nazisti sarebbero diventati i padroni d’Europa.

E però dalla battaglia di Stalingrado sono passati 45 anni, decenni nei quali tutti - non solo gli anticomunisti - avevano scoperto quanti milioni di russi fossero morti - in tempo di pace - per le angherie del compagno Stalin. Ebbene, in quelle ore, il pensiero di Natta va a Hitler, quasi che il vincitore di quelle giornate fosse lui e non, per esempio, quei ragazzi in festa.

In quegli stessi momenti, a Bruxelles Achille Occhetto sta incontrando Neil Kinnock, leader dei laburisti inglesi. Che ad un certo punto chiede: «Non pensi che ora il Pci dovrebbe cambiare nome?». E a quel punto, come Kinnock racconterà anni dopo, Occhetto rispose con una litania: «E’ molto difficile... è molto difficile... è molto difficile». E invece, 48 ore più tardi, il segretario del Pci troverà il coraggio. Senza avvertire i giornalisti, in modo da mettere i dirigenti del Pci davanti al fatto compiuto, alla Bolognina il segretario parla davanti ad un drappello di ex partigiani: «Gorbaciov ha incontrato i veterani della seconda guerra mondiale e ha detto loro...».

Il «titanico» Achille sta per annunciare il cambio del nome, ma - ecco un dettaglio rivelatore - il suo modello è pur sempre il segretario generale del Pcus. L’addio al Pci viene preannunciato alle 12,45 del 12 novembre ‘89: sono trascorsi 33 anni dall’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest e sono passati persino 3 giorni dalla caduta del Muro. Aveva scritto il «Times»: «Da sostenitore del movimento riformatore, il Pci rischia di trasformarsi in spettatore del collasso comunista». Già. Dopo aver vissuto dal 1945 in democrazia, come mai il Pci non solo non anticipò gli eventi ma li dovette inseguire? Come mai alla fine il Muro gli cadde addosso?

Certo, il Pci era un prototipo unico in Europa: aveva accettato la Nato, con Berlinguer aveva platealmente strappato da Mosca, aveva consolidato il consenso, predicando la democrazia. Eppure, l’identità comunista restava. In quel nome c’era una concezione del partito (era «vietato» prendere pubbliche decisioni a maggioranza) e della politica. Come sostiene Iginio Ariemma, ultimo portavoce del Pci, «permaneva la presunzione di verità di chi si sente determinante nell’ambizione di raggiungere la Terra promessa». E dunque l’addio al nome fu come cancellare l’utopia mentale di un approdo palingenetico.

È anche così che si spiega lo smarrimento di milioni di comunisti subito dopo la svolta. Sotto il Bottegone si affollarono militanti che, dopo decenni di disciplinato rispetto verso i propri dirigenti, ora li aggrediscono. Luciano Lama viene accolto da grida belluine: «Mafioso!» La Jotti: «Sto’ partito t’ha fatto magna’ e mo’ je vorti le spalle?». Si lacerano le famiglie, qualcuno arriva a divorziare. Nel fondo del cuore, il legame sentimentale con la patria del socialismo, non si era mai spezzato. Quasi che i sovietici fossero dei compagni che sbagliavano?

Dice vent’anni dopo Piero Fassino, uno dei giovani innovatori di allora: «A tenere i militanti legati c’era la speranza che Gorbaciov potesse «riformare» il comunismo. E poi c’era una frase che sentivamo in quelle settimane: che c’entriamo noi con quei regimi?». In realtà ancora nel 1987, Natta (da segretario) aveva accettato il premio Marx nella Rdt di Honecker, ma anche l’onorificenza dal Pcus per i 70 anni dalla Rivoluzione. E nel 1986 quando gli esuli ungheresi decisero una commemorazione di Irme Nagy a Parigi, il leader del Pci consigliò a Fassino: «E’ bene andare, ma forse non è utile parlare».

Anche se l’affresco più potente lo ha scritto, nel suo 1989, Enzo Bettiza che nel marzo di quell’anno si trovò a guidare la prima delegazione dell’Europarlamento in visita al Soviet supremo. In un incontro con altissimi dirigenti sovietici, il vecchio Giancarlo Pajetta, «pallidissimo», chiese di parlare subito, «contro ogni regola di protocollo». Fu contentato: «Io ho dedicato tutta la mia esistenza a sfogliare le pagine bianche della vostra storia, come un cieco che le riteneva immacolate», «però oggi vedo che erano insanguinate», «dovevate aspettare» tanto tempo «per aprirci gli occhi?». Era «l’ultimo urlo del ragazzo rosso in terra sovietica». I dignitari di Mosca «guardavano il soffitto». (la Stampa)

Crocifisso e Stato laico. Davide Giacalone

La sentenza che obbliga a staccare il crocifisso, dalle aule pubbliche, resterà nella storia del diritto, perché dimostra come si possa applicare un principio giusto ottenendo una sentenza sbagliata, e pericolosa. Sono un laico, non ho il dono della fede. Sono convinto che lo Stato laico, casa comune per uomini con fedi ed idee diverse, sia la più grande conquista della cultura occidentale.
Ho anche dedicato un libro all’importante lavoro della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea, e svolge un ruolo importante condannando, giustamente e reiteratamente, la nostra malagiustizia. Quindi: viva la laicità dello Stato, viva la Corte, abbasso la sentenza.
Il tema è estremamente delicato e complesso, ed una colpa di quella sentenza è di averlo affrontato con la mannaia. Il crocifisso è certamente un simbolo religioso, destinato a ricordare il sacrificio di un uomo che, per i credenti, è divino. Segna una rottura con l’ebraismo, perché l’avvento del Cristo chiude la vecchia alleanza ed apre la nuova. In passato, con le crociate, e non solo, è stato anche simbolo di guerre. La cultura occidentale, però, ha saputo imparare dai propri errori, ed oggi non si conoscono, se non del tutto marginali, casi di fondamentalismo cristiano. La fede, ovviamente, influenza l’azione politica. Un cattolico è ragionevole che sia contrario sia al divorzio che all’aborto. Ma, come si sa, la grande maggioranza degli italiani seppe distinguere, e noi abbiamo leggi che regolano entrambe le cose. La laicità, insomma, abbiamo imparato a praticarla. Con alti e bassi, come sempre.
Lo Stato laico, però, non è lo Stato ateo. Il secondo nega la fede, il primo nega che possa essere imposta. Il primo è virtuoso, il secondo sanguinoso. Nello Stato laico non si stabilisce una fede per nascita, ma si difende il diritto alla fede ed a praticarne i riti. Purché compatibili con la legge, giacché se taluno volesse fare sacrifici umani finirebbe all’ergastolo, in un manicomio criminale.
Il crocifisso, da noi, non è un obbligo di legge, ma un’abitudine, progressivamente sempre meno significativa. Capisco il lettore che ha scritto: siamo noi cattolici, che dovremmo staccarlo. Egli intende dire, credo: non possiamo sopportare che sia “normale”, vogliamo che sia “significativo”. Eppure, è normale. Se, come la sentenza rischia di fare, gli tolgo quella caratteristica, non faccio un passo in avanti verso la laicità, ma rischio di rinfocolare roghi del passato. Non assecondo la secolarizzazione della società tutta, ma indico come modello (sebbene negativo) il fondamentalismo islamico. E’ come se dicessi: i veri fedeli sono i fondamentalisti, che sono intolleranti ed escludenti, quindi non vogliamo i loro simboli. Ma, da noi, quella roba non esiste, e si rischia di crearla.
La Corte Europea ha eccepito che la presenza del crocifisso toglie ai genitori il diritto di educare la prole alla propria religione. Concetto illogico e, al tempo stesso, pericoloso. Siamo tutti, ovunque, circondati da simboli religiosi. Siamo, per ciò stesso, coartati nella nostra volontà? Ed i genitori, hanno diritto di educare i figli a quel che pare a loro, razzismo e martirio compresi? La cosa paradossale è che, per affermare una presunta libertà, si difenda una specie di “proprietà” parentale. Che, grazie al cielo, ci sarà ancora in talune tribù, ma da noi i ragazzi fanno proprie scelte assai prima della maggiore età.
Ho visto con sospetto, infine, la reazione di quasi tutto il mondo politico. A parte la deplorevole e ricorrente ignoranza su quale sia l’Europa di cui stiamo parlando, mi è parso che un po’ tutti abbiano strizzato l’occhio alle gerarchie cattoliche, come a dire: ci pensiamo noi a difendervi. Ma quello che va difeso è, invece, lo Stato laico, quindi il diritto alla fede che non sia diritto all’imposizione.
Da laico, i simboli religiosi non mi hanno mai offeso o disturbato. Nessuno. Da laico, mi danno fastidio le feste per rallegrare ragazzi che si sono comunicati o cresimati senza sapere cosa sia la cresima e la comunione. Nel senso che mi da fastidio l’ignoranza. Di certo, però, non sarà un bel giorno quello in cui lo sapranno solo i frequentatori di scuole religiose, perché le madrasse vorrei chiuderle anche per i musulmani, non aprirle per i cristiani.
Meglio tenerci il nostro equilibrio, aiutando gli studenti, fra l’altro, a capire i simboli dell’architettura nella quale sono immersi, la storia della cultura che, si spera, sapranno evolvere, e, già che ci siamo, anche l’indirizzo della loro casa, scuola o discoteca. San Benedetto, insomma, non è un’acqua minerale. Pretendere di laicizzare con le sentenze, invece, non solo rischia di riconfessionalizzare molti, ma è un assai poco laico modo di procedere.

lunedì 9 novembre 2009

L'evoluzione politica di Gianfranco Fini: da John Wayne a vietcong. Lodovico Festa

“Mi disturba l’aria da caserma” Dice Gianfranco Fini alla Stampa (9 novembre). John Wayne, adieu! Adesso si sta con i Vietcong?

“In alcune zone d’Italia, penso al Sud, l’immagine del Pd è gravemente lesa” dice Ivan Scalfarotto alla Repubblica (9 novembre). In altre parti, penso al Nord, è leggermente lessa.

“Un modello parlamentare certamente più sobrio di quello attuale” Dice Bruno Tabacci al Corriere della Sera (9 novembre). Vuole sobrietà, ha sete di giustizia, si sente un po’ confuso. Bacco, Tabacci e Venere mandano il centrista in cenere. (l'Occidentale)

domenica 8 novembre 2009

C'era un muro a Berlino. Christian Rocca

Il 9 novembre 1989 è caduto il Muro di Berlino, una data simbolica della storia recente e numericamente speculare – 9/11 e 11/9 – al giorno più importante di questo scorcio di secolo, quando tre aerei di linea sono stati dirottati da diciannove terroristi islamisti per attaccare l’America. Il 9/11 del 1989 è finita la Guerra fredda, ma non la storia – al contrario di quanto aveva previsto lo studioso Francis Fukuyama. Tanto che l’11/9 del 2001, dopo dodici anni di autocompiacimento, è brutalmente cominciata la nuova era.In questi giorni il mondo occidentale festeggia con gioia e passione il ventennale della caduta del Muro e la fine della Guerra fredda, ma la prima, inaspettata, contrastata – e per questo ancora più visionaria – picconata alla barriera di divisione fisica e ideologica tra l’est e l’ovest è stata assestata due anni e mezzo prima. Era il 12 giugno 1987, il giorno in cui è stata pronunciata la frase simbolo della fine della Guerra fredda: “Mr. Gorbachev, tear down this wall”, signor Gorbachev tiri giù questo muro. Quel giorno il presidente americano Ronald Reagan era volato di prima mattina a Berlino ovest, partendo da Venezia, dove la sera prima si era concluso il vertice del G7. Poco dopo le due del pomeriggio, Reagan è salito sul palco montato davanti alla Porta di Brandeburgo, chiusa dal muro che divideva l’ovest dall’est. Subito dopo l’intervento del cancelliere tedesco Helmuth Kohl, Reagan ha preso la parola. Era il 1.279esimo discorso della sua presidenza, è diventato il più importante e decisivo.
Il grande comunicatore, così lo chiamavano i media americani, era al termine della sua presidenza, all’ultimo anno e mezzo del secondo mandato. A quel punto aveva già pronunciato due grandi discorsi che, assieme a quello davanti al muro, resteranno nella storia della Guerra fredda. Reagan, come oggi Barack Obama, credeva molto nella forza della parola e spesso diceva che, in fondo, il vero compito del presidente è parlare. Alle parole, però, faceva seguire i fatti. Con i discorsi pubblici fissava i paletti e con la più prosaica azione politica cercava di trovare soluzioni compatibili con i principi e i valori americani.
Nel 1982, Reagan aveva parlato a Westminster, nel primo discorso di un presidente americano di fronte al Parlamento inglese riunito in seduta plenaria. Scritto da Anthony Dolan, quel discorso è diventato il manifesto politico della superiorità del modello democratico e liberale rispetto al sistema comunista sovietico. Le parole di Westminster sono entrate nell’epica della Guerra fredda soprattutto per la frase, in realtà una citazione di Leon Trotzky, con cui Reagan spiegò che la marcia della libertà e della democrazia avrebbe portato il marxismo e il leninismo nella “pattumiera della storia”.
Qualche mese dopo, sempre nel 1982, Anthony Dolan scrisse l’altro testo decisivo per la definizione reaganiana dei termini della Guerra fredda. Rivolto alla platea dell’Associazione nazionale degli evangelici, a Orlando, in Florida, Reagan coniò l’espressione “evil empire”, impero del male, per descrivere il comunismo sovietico. Il discorso scatenò la reazione costernata degli editorialisti liberal e di gran parte del corpo diplomatico americano, tutti convinti che un linguaggio così provocatorio avrebbe innervosito Mosca. Erano gli anni in cui il vantaggio geopolitico e militare sovietico sembrava inattaccabile.
I presidenti americani sono ricordati e spesso anche idolatrati per una frase decisiva pronunciata nel corso della loro presidenza. La frase di Franklin Delano Roosevelt è “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, pronunciata nel pieno della crisi economica degli anni Trenta che ha causato la Grande depressione. Quella di John Fitzgerald Kennedy, “ask not”, è stata pronunciata il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, nel gennaio 1961: “Non chiederti che cosa può fare il paese per te, chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese”. Il povero Bill Clinton sarà ricordato per aver detto “non ho fatto sesso con quella donna”, anche se non era vero, mentre a seconda di come la storia giudicherà il suo operato George W. Bush potrebbe essere ricordato per il fallimentare “missione compiuta” sull’Iraq o per il visionario e idealistico obiettivo di “porre fine alla tirannide nel mondo” pronunciato il giorno dell’inaugurazione del secondo mandato.
La frase di Reagan è “Mr. Gorbachev, tiri giù questo muro”.
L’appassionante storia di questa frase, e di questo discorso, è raccontata da Romesh Ratnesar, vicedirettore di Time, in un libro pubblicato in America con il titolo “Tear down this wall – A city, a president and the speech that ended the Cold war”. Oggi sembra scontato che il presidente americano avesse pronunciato quelle parole, ma allora non era affatto così.
Il muro era solidissimo e nessuno, nemmeno i più falchi ideologi della superiorità occidentale sul modello comunista, pensava seriamente che potesse crollare né da un momento all’altro, né mai. Il New York Times e il Washington Post, il giorno dopo il discorso di Reagan a Berlino, non misero la notizia in prima pagina. Il settimanale Time scrisse che la performance di Reagan era stata buona, anche “se non sufficiente a cancellare l’impressione che stia perdendo l’iniziativa a vantaggio del rivale sovietico”. Henry Kissinger commentò che Mosca non avrebbe mai abbattuto il muro. Lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale di Reagan, Frank Carlucci, disse che la frase era buona, ma che non si sarebbe mai realizzata. L’unico che ogni tanto diceva che prima o poi il Muro sarebbe caduto era Reagan, ma era più una speranza dettata dal suo indomabile ottimismo, dal suo idealismo misto a ingenuità e arroganza da cowboy, che il prodotto di una strategia politica.
Il discorso era stato assegnato al vice speechwriter della Casa Bianca, Peter Robinson. Le indicazioni del presidente erano state vaghe: c’era da celebrare il 750esimo compleanno di Berlino e da evitare il confronto con il famoso intervento di Kennedy “Ich bin ein Berliner”. L’advance team della Casa Bianca è volato a Berlino per scegliere il luogo dell’evento. I tedeschi e il dipartimento di stato non volevano la Porta di Brandeburgo, perché avevano paura di provocare il regime dell’est e i sovietici. Erano i mesi in cui America e Unione Sovietica, grazie alle riforme annunciate da Mikhail Gorbachev e alla disponibilità di Reagan, avevano cominciato un percorso di intesa politica e di rapporti personali che prometteva molto bene. A Reykjavik, qualche mese prima, i due leader erano quasi arrivati a eliminare gli arsenali nucleari, ma l’accordo è saltato perché Reagan non era disposto ad abbandonare il piano di difesa spaziale.
Gli uomini di Reagan si imposero e la scelta della Porta di Brandeburgo è stata decisiva, non solo simbolica. Una cosa è stata dire Mr. Gorbachev butti giù “questo” muro, trovandoselo alle spalle e con cinquecento tedeschi orientali disposti a rischiare la carica della polizia per ascoltare a distanza le parole del presidente americano, un’altra sarebbe stata chiedere di abbattere “quel” muro a qualche chilometro di distanza.
La scrittura del discorso è stata un processo lungo e faticoso che ha coinvolto Consiglio di sicurezza nazionale, dipartimento di stato, Cia, Pentagono e staff della Casa Bianca, come accade sempre con gli interventi presidenziali che riguardano la sicurezza nazionale. La prima bozza di Robinson conteneva la richiesta a Gorbachev di abbattere il Muro, in quelle successive la frase era da pronunciare in tedesco. Ogni volta che il testo veniva sottoposto a una revisione c’era sempre qualcuno, in particolare al dipartimento di stato e al Consiglio di sicurezza nazionale, che chiedeva di cancellare la richiesta a Gorbachev. Era, a seconda di chi parlava, sbagliata, non presidenziale, pericolosa e arrogante. Uno dei più attivi era Colin Powell, allora viceconsigliere della sicurezza nazionale. A un certo punto è cominciato a circolare un discorso alternativo, scritto dall’ambasciatore americano a Berlino e privo di toni che avrebbero potuto compromettere i rapporti con Mosca. Robinson non cedeva e nelle innumerevoli revisioni successive lasciava sempre la frase, anche se in tedesco (è stato il suo boss, Anthony Dolan, a imporre la formulazione in inglese). Il tira e molla per fermare Reagan in nome della realpolitik è durato fino alla mattina del 12 giugno sull’aereo da Venezia a Berlino. Diplomatici, consiglieri per la sicurezza e staff hanno provato per l’ultima volta a convincere il presidente. Reagan si è fidato del suo istinto. Pochi giorni dopo i servizi americani hanno intercettato una comunicazione da Mosca a Berlino: il Cremlino chiedeva al governo tedesco orientale di allentare le misure di sicurezza sul Muro. (il Foglio)