giovedì 29 settembre 2011

Revisione del processo per Contrada. Andrea Marcenaro

Ognuno ha le sue fissazioni, cosa volete farci, e una delle mie, dormiente, ma alquanto titillata dalla lettura di un titolo di qualche giorno fa, “Revisione del processo per Contrada”, si è risvegliata. Mica ci ho creduto, intendiamoci bene. Nemmeno un allocco come me è così ingenuo da credere che la magistratura italiana, vale a dire l’unica spazzatura verso la quale ci si ostini a non praticare la differenziata, possa trovare in se stessa gli anticorpi adatti a cancellare una porcata come quella commessa nei confronti del dottor Contrada. Ma concedendo che mi sbagli. Concedendo che i giudici di Caltanissetta si scoprano attraversati da un frisson di dignità. Che la quantità di balle conclamate, e giostrate con pentiti alla Scarantino e alla Ciancimino, vengano cioè per l’appunto revisionate e classificate come tali. Concedendo, insomma, che la Corte nissena possa prendere in considerazione l’idea di concedere a Contrada una possibilità di avere indietro quell’onore che meriterebbe (ciò che costituirebbe un miracolo), voi che pensate? Pensate che, contemporaneamente, potremmo forse assistere anche al miracolo della liquefazione del sangue di De Gennaro? © - FOGLIO QUOTIDIANO

martedì 27 settembre 2011

Non ci voleva un genio. Bartolomeo Di Monaco

Non serviva Poirot per intuire che a Napoli i pm stavano tendendo il trappolone a Silvio Berlusconi.
Giuliano Ferrara lo aveva invitato ad andare, sbagliando. Aveva visto giusto Berlusconi, invece, che diffidava.

Quando i pm si sono visti scippare l’inchiesta dal gip di Napoli, hanno maldestramente svelato il piano, mettendo in chiaro, pur di mantenerla, il tipo di reato che già avevano in mente di attribuire con un sapiente interrogatorio a Berlusconi, ossia: Berlusconi ha istigato Tarantini a mentire.

E così, anche gli increduli hanno potuto constatare che proprio di trappolone si trattava.

Infatti, come si legge sul Corriere di stamani, Berlusconi da teste si è visto trasformato in imputato. Mi domando chi ancora possa nutrire dubbi sulla politicizzazione della magistratura. Milano e Napoli in modo particolare sono pieni di esempi che sotto questo profilo rappresentano uno scandalo.

Questo tipo di magistratura spregiudicata è ormai fuori controllo.

Nessuno ha il coraggio di fermarne il corso pernicioso.

C’è un bubbone putrescente e nessuno di coloro che dovrebbero eliminarlo interviene. Dal presidente Napolitano al Csm.

Della vicenda, che si è talmente complicata che sarà difficile venirne a capo, è interessante registrare non tanto l’impreparazione degli addetti (i coniugi Tarantini sono stati arrestati e non si doveva, la competenza non è né di Roma né di Napoli, ma di Bari), bensì lo sforzo, al limite del lecito, che i pm napoletani hanno fatto e stanno facendo per poter mantenere l’inchiesta e mettere così, loro e non altre procure, gli artigli sulla preda Berlusconi.

È un modo selvaggio di agire, come si vede, degno più del mondo animale che della nostra civiltà.

Troppe teste presuntuose e arroganti stanno mettendo a rischio (ma il processo è già in stato avanzato) tutta l’impalcatura della nostra giustizia.

Non vi è dubbio che le resistenze ad una sua profonda riforma dovranno essere spazzate via al più presto, vengano esse dall’opposizione, vengano dall’Anm o dal Csm.

Tali resistenze sono unicamente interessate a mantenere lo status quo. Nessuna indulgenza, dunque. (Legnostorto)

mercoledì 21 settembre 2011

Chi paga? Noi tutti. Davide Giacalone

Non è elegante ricordarlo, ma noi lo abbiamo detto e scritto in tutte le salse: la competenza della procura napoletana, per il reato presupposto di estorsione, era assai dubbia e, nel dubbio, l’intero procedimento proseguiva a beneficio dello spettacolo (desolante). Ora arriva la decisione del giudice delle indagini preliminari, che conferma le nostre riflessioni e stabilisce che la competenza, ove mai il reato esista, è di Roma. Come volevasi dimostrare. Siamo soddisfatti? No, all’opposto, siamo indignati che una simile evidenza sia stata ignorata dai magistrati della procura e dai tanti pensosi scandalizzati, per i quali frugare nelle mutande di uno ha valore e interesse superiore allo sfogliare, leggere e rispettare le leggi di tutti.

Siamo arrivati al punto di una procura che si esprimeva con ultimatum, che fissava il giorno e l’arco temporale entro cui esigeva una risposta. Ma dov’è, nella legge, la pezza d’appoggio di una simile condotta? Siamo arrivati all’orrore di giuristi che impartivano lezioni sul dovere di testimoniare, laddove era solare che il tentativo era solo quello di verbalizzare un indagato facendo finta che sia una parte lesa. Ma se ti dicono che sei parte lesa e tu non ti senti leso, non sorge il dubbio che qualcuno stia barando? Se bara il cittadino lo si coinvolge nell’indagine, senza star lì a cincischiare. Ma se bara la procura? E vabbé, sento dire, ma non è che la condotta dell’intercettato fosse poi ammirevole. No che non lo era, ma le cose non stanno, neanche lontanamente, sullo stesso piano.

Ieri ricordavo che l’inchiesta “Cassiopea”, meglio nota per avere fatto da spunto a Gomorra, è finita in udienza preliminare, con le prescrizioni. In qualsiasi Paese sensato, in qualsiasi sistema di diritto, se ne chiederebbe conto ai magistrati, non agli imputati. Ma anche senza voler sofisticare sul fatto che con la metà di quelle intercettazioni telefoniche Napoli sarebbe oggi priva di spacciatori e contrabbandieri, anche senza uscire dall’esame specifico di questa inchiesta, è evidentissimo che tutto il danno possibile è già stato provocato, salvo che la giustizia, quali che saranno i suoi esiti, è rinviata a data da destinarsi. Si sono rivelati fatti personali di decine di persone, s’è aperta la sentina di un guardonismo che pretendeva di vestire i panni della morale, s’è giunti a provocare guasti internazionali pur di pubblicare quel che sarebbe dovuto servire ad ottenere risultati politici, il tutto per riuscire ad accusare la presunta vittima, salvo accorgersi di quel che noi poveri analfabeti, che ancora cerchiamo i vocaboli nel dizionario e le leggi nel codice, avevamo detto subito: l’inchiesta è radicata in modo illegittimo.

Questa farsa giudiziaria ha perseguito due fini: il processo in piazza e la caduta del governo. E, si badi, il fine politico, ovvero la caduta del governo, è in sé legittimo. Ma cercare di giungervi in quel modo è un crimine contro la democrazia.

Domanda: ora, chi paga? So quel che vi siete già risposti: nessuno. E vi sbagliate. Questa giustizia alla deriva del giustizialismo, queste procure trasformate in set di “saranno famosi”, questi tribunali che agguantano le sentenze in tempi buoni per la storia, li paghiamo tutti, trasformandoci in un vero paradiso dei colpevoli, in un’eterna pacchia per gli irresponsabili, nella gran festa degli intoccabili. Ieri abbiamo saputo che una signora giudice delle indagini preliminari, amante della vela e che faceva il giro nel mondo nel mentre si faceva versare lo stipendio e mancava dal lavoro presentando certificati falsi, ha subito le seguenti, pesantissime sanzioni: a. il trasferimento; b. una multa di valore pari a una mensilità. La prima dal Consiglio superiore della magistratura, la seconda dalla Corte dei conti. E una simile vergogna passa in cavalleria, quasi una normalità. E se noi reclamiamo, come abbiamo sempre fatto, che i magistrati siano responsabili delle loro azioni, ci sentiamo rispondere: volete controllarli. No, vogliamo poterci fidare. E oggi non ci fidiamo.

Chi pensa che tutto questo succede solo perché Berlusconi è un crapulone, o solo quando ci sono interessi politici, faccia un giro in tribunale, guardi i dati sulla durata dei procedimenti, s’informi su quanti innocenti si trovano in galera, e prenda atto che questa macchina infernale massacra, ogni giorno, diritto e diritti, nelle carni dei cittadini. Compresi, ovviamente, quelli che reclamano giustizia.

Berlusconi ha delle colpe? Tante, ma la prima, in materia, è quella di avere lasciato scorrere due legislature senza affrontare seriamente il problema della giustizia. Non ha potuto, dicono i suoi. No, troppo comodo: non è stato capace. S’è fatto inchiodare dalle sue debolezze, ha subito il ricatto, ha tentato di sfuggire i giudizi e non s’è reso conto di quanto popolare, oltre che giusta, sarebbe stata la ripulitura di una piaga che nausea e affligge tutti. Questa è la sua colpa politica, assai più grave di quel che il moralismo senza etica ha messo sulla bocca di tutti.

martedì 20 settembre 2011

A tempo perso faccio il direttore di giornale, stronzetti. Giuliano Ferrara

Berlusconi deve chiedere scusa per i contanti, per i telefonini peruviani, per gli aerei di stato, per le piccole intermediazioni da salotto, e contrattaccare, ma chi chiederà scusa per i titoli di Repubblica e degli altri giornali? La verità è la verità, è una e indivisibile, non la si può sottomettere alla logica del Vernacoliere (con tutto il rispetto per la satira). Ora invece la verità diventa interpretazione faziosa: "Faccio il premier a tempo perso". Il titolo campeggia, e il gioco è fatto. Se ti costringono a guardare dentro le intercettazioni, supremo atto di pornopolitica e di onanismo editoriale, poi devono rispettarle, gli eminentissimi neopuritani. Rispondendo alle insistenze di una ragazza, che lo accusava di trascurarla, con encomiabile autoironia e mettendosi fuori dalla farragine del protocollo, Berlusconi si discolpa al telefono in modo galante e aggiunge che "a tempo perso faccio il primo ministro", e ride, il che è traducibile in un unico modo sensato: cara, so di averti trascurata, ma capirai bene che ho anche degli impegni pressanti, impegni di stato, e non posso sottrarmi.

In mancanza di meglio, mi è successo di respingere richieste di attenzione di seccatori o di ansiosi dicendo loro che "a tempo perso mi tocca di dirigere un giornale", e immagino che a Mauro, a Calabresi e altri confezionatori di titoloni sarà successo lo stesso, sebbene loro abbiano una segreteria che fa le loro veci. Le intercettazioni sono così, riflettono il modo di districarsi nella vita privata e riservata di persone che sono molto altro rispetto a quanto riversato nei nastri, e qualche volta lo sono molto onorevolmente.

Non è grave la manipolazione editoriale e politica. E' grave la completa caduta del sense of humour, l'idea che gli italiani lettori siano così imbecilli da cascarci. Oh, che scandalo, Berlusconi guida il governo nei ritagli di tempo, e per il resto fa bagordi con le belle donne. E qui sta il sale della feroce caccia all'uomo, che è una caccia a una certa idea di come si possa e debba essere nella vita privata e nella vita pubblica. Sono molte le cadute di spirito. Rossella e Del Noce vanno bene in un contesto da "Amici miei", monicelliano, non in un contesto criminale. Un mio caro amico, che stimo da anni, il Francesco Merlo, si è fidato per esempio di scrivere che se ti presenti con cento dollari in un negozio americano, chiamano la polizia. Vabbè l'iperbole, ma a me l'FBI non ha mai fatto alcuna osservazione quando mi sono presentato al supermercato di New York con cento dollari. E quanto ai contanti, che sono un serio punto debole del quale il premier deve scusarsi, bisognava ricordare, caro Francesco, che il contante più grave della storia è quella famosa caduta di stile che portò il Grande Giustiziere della Repubblica, il Tonino Di Pietro che aveva detto "io a quello lo sfascio", a riconsegnare un prestito a tasso zero in una scatola di scarpe al businessman inquisito nel suo distretto, il Gorrini. Dimenticanza, ma soprattutto mi colpisce la scomparsa della voglia di sorridere, di vedere, nonostante tutto, nonostante la gravitas dei tempi, eccetera eccetera, i due lati della medaglia nazionale, sempre sospesa tra tragedia e melodramma, sempre in bilico tra epurazione accigliata e carte non in regola per eventuale moralizzazione.

Se Berlusconi si volatilizzasse e arrivasse questo benedetto 25 luglio con il suo Dino Grandi, questo è il dramma, resterebbero non già un governo serio e responsabile, una maggioranza coesa e capace, non un paese che ha assorbito una lezione di vita e di etica, come pensano le Spinelli e i Viroli, ma un paese davvero rincretinito, che può pensare ai divertimenti serali di un uomo imprudente e di un impresario estroso e pazzo, ma votato tre volte come nostro capo del governo, come a dei marchi di infamia da apporre alla più alta istituzione esecutiva del paese. Dopo 45 giorni arriverebbe l'8 settembre del carattere nazionale al suo meglio. "Faccio il primo ministro a tempo perso": mi viene da ridere e anche da piangere davanti a simili buffonate. (il Foglio)

lunedì 19 settembre 2011

La falsa verità. Davide Giacalone

Ora si torna a parlare di mafia, dell’omicidio Borsellino, della trattativa. Se ne sentiva il bisogno. Lo scrivo in modo serio, sebbene temo sia letto in chiave amaramente ironica. Mi accingo a ragionarne avvertendo la stanchezza e mettendo nel conto quella dei lettori. Ma coltivare la memoria è importante, se non si vuole abbandonare ai disonorati il racconto della nostra storia. Quindi partiamo da un fatto: avevamo ragione noi. Quel che scrivemmo era esatto.

La “vera” storia d’Italia, certificata in ben undici processi e sentenze passate in giudicato, definitive, era una balla. Dai processi agli organizzatori ed esecutori della strage di via D’Amelio (19 luglio 1992, due mesi dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, due fatti indissolubilmente connessi), si era passati al processo ai mandanti. Ora si dice: quel procedimento va avanti. No, quel procedimento muore, assieme al riconoscimento che sia la procura che i tribunali, che le Corti d’assise, che la Corte di cassazione, hanno sbagliato tutto. E ripetutamente. Noi lo avvertimmo, ma c’è mancato poco ci accusassero d’essere complici dei mafiosi. Ora avverto: non ci sarà alcuna verità se non si avrà il coraggio di entrare dentro il mondo della procura di Palermo. Lì si trova il nodo. La gran parte dei politici sono solo pupi.

La precedente “verità” era tutta basata sulle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, che si accreditava come mafioso, partecipante ai summit della (dis)onorata società, nonché esecutore di atti materiali, destinati alla strage. Scrivemmo: ma come fate a credergli? E’ uno spiantato, un mezzo demente, un drogato, un appassionato di transessuali (la sua preferita aveva un significativo nome di battaglia: la “sdillabbrata”). Per carità, libere scelte. Diciamo che la privacy di Scarantino fu protetta assai meglio di quella di altri. Ma non mi pare il profilo del perfetto mafioso. C’è di più: la moglie di questo galantuomo lo smentì, perché nelle ore in cui sosteneva di star lì a macellare il giudice era, invece, a letto. E si smentì anche lui stesso, affermando in udienza di avere mentito e di essere stato indotto a dire quelle cose, anche mediante apposite “pillole della memoria”, che gli avevano somministrato. Ma quando mai! dissero procuratori e giudici, la verità è quella detta prima, ora mente, quando dice di avere mentito. Bravi.

Poi venne Salvatore Spatuzza, ‘u tignusu. Arrestato nel 1997 se ne è stato zitto per nove anni. Poi ha avuto una crisi mistica (che il cielo lo perdoni, ma spero non lo faccia) e ha cominciato a parlare. Nello smentire la procura e i tribunali si è dimostrato formidabile: quel che diceva era riscontrabile, ma il contrario di quel che era stato sentenziato. Puntuale arriva la santificazione a “pentito”, quindi il riconoscimento d’intrinseca credibilità, quindi l’autorizzazione a dire qualsiasi cosa gli passasse per la mente, o che altri mettevano nella sua testa di assassino. Ed ecco la trattativa, che i suoi padroni, i Graviano, avrebbero intessuto con il potere politico, nella persona di Dell’Utri, quale tramite con Berlusconi. A quel punto la decisione: sacrifichiamo i processi già fatti e allestiamone uno sui mandanti.

Che si scoprano e processino i mandanti è cosa buona e giusta, ma Spatuzza ha detto spropositi. Fu prontamente smentito dai suoi padroni, che sul resto lo lasciano dire. Graviano avrebbe trattato per evitare di scontare una pena durissima, salvo il fatto che Graviano era condannato a soli tre mesi. Graviano gli avrebbe detto che “quello di canale 5” (sottilissima allusione mafiosa, in un codice segretissimo) gli aveva “messo l’Italia in mano”. Ma dovevano fare le stragi. Solo che poi si sostiene che le stragi furono fatte per alleggerire il carcere duro, cosa che fu effettivamente decisa, e proprio dopo le stragi, che effettivamente cessarono, e che neanche erano stragi, dal governo di Carlo Azelio Ciampi, ad opera del ministro della giustizia, Giovanni Conso, cui lo aveva suggerito il capo del dipartimento carceri, Alberto Capriotti, voluto in quel posto da Oscar Luigi Scalfaro. Berlusconi, a quel tempo, si divideva fra la tv e il kit del candidato, che ci fece sorridere non poco.

Arriviemo alla prima conclusione: la teoria per cui un pentito che dice cose vere deve essere creduto per qualsiasi altra cosa dica è una baggianata. Con Giovanni Falcone vivo una cosa simile non sarebbe mai passata. E qui siamo al dunque: perché Falcone e Borsellino sono stati eliminati? Certo, non erano simpatici alla mafia e la loro condanna a morte era già scritta. Falcone lo sapeva, e lo diceva. Ma il fatto notevole è che i due muoiono quando non contano più nulla, quando sono degli sconfitti. Falcone mandato in esilio e Borsellino impedito d’indagare, per ordine del capo della procura. E quando Borsellino muore e il suo braccio destro, il carabiniere Carmelo Canale, che lui chiamava “fratello”, non si rassegna a stare zitto, anche perché gli hanno suicidato in diretta televisiva il cognato, il Carabiniere Antonino Lombardo, accusato da Leoluca Orlando Cascio ospite di Michele Santoro, finisce anche lui inquisito per mafia. Sicché dovremmo credere che Borsellino si affidava a un mafioso, essendo criminale o cretino. Canale è stato poi assolto, con formula piena, ma meriteremmo noi d’essere condannati se non lo ricordassimo ogni volta che sorge il sole.

Nel processo di revisione si sosterrà che ad ordire il depistaggio fu l’allora capo del pool investigativo, Arnaldo La Barbera, e tre suoi collaboratori (oggi uno è questore di Bergamo, uno capo della squadra mobile a Trieste e uno poliziotto a Milano). Ecco la seconda conclusione: può darsi, non lo so, ovviamente, ma so che nessun depistaggio sarebbe stato possibile, con quei mostruosi e multipli effetti processuali, se i depistati non fossero stati attivamente partecipi, quindi, se si vuol ragionare seriamente, si deve indagare sulla procura che emarginò Falcone e Borsellino. E la politica? Anche, naturalmente. A cominciare dagli avversari di Falcone, da quelli che non gli vollero dare il potere per fare quel che sapeva fare, a cominciare da Luciano Violante. Da quel voto del Csm in cui le correnti di sinistra ritennero Falcone indegno di assumere la direzione delle investigazioni antimafia. Anche altri? Tutti, se volete, ma se si continua a falsificare la storia, pendendo dalle labbra di pentiti e procuratori, il solo punto d’arrivo possibile sarà il più totale falso, la più totale menzogna. Come fin qui è stato. Come non ci siamo stancati di ripetere.

venerdì 16 settembre 2011

Giustizia è fatta? Mario Giardini

L’incidente al volo Itavia accadde il 27 giugno ’80. La sentenza di rinvio a giudizio (non degli autori della strage, che fu attribuita ad ignoti) è del 1999.

L’ultima perizia tecnica (ultima di 103 o 106 perizie di vario genere, non sono sicuro di averle tutte ) fu consegnata al magistrato nel 1997. E fu da questi ritenuta “non conclusiva”.

Il disastro di Lockerbie (il 747 della Pan Am fatto saltare dai servizi di Gheddafi) avvenne la sera del 21 dicembre del 1988. Il rapporto della commissione investigatrice è del 6 agosto del ’90. 17 anni e 106 perizie, non conclusive, contro una sola, consegnata in 20 mesi.

Il numero totale di pagine delle perizie fatte per Ustica mi è ignoto. Io ne ho contate (quelle pubblicate e quelli di cui si conosce “la consistenza”) più di 10.000. La sola relazione Misiti (1994) constava di 1280 pagine. Il rinvio a giudizio del giudice Priore era costituito da 5468 pagine. In totale si stima che si siano prodotte oltre 2.000.000 di pagine comprese le verbalizzazioni dei processi.

E’ ovvio che in due milioni di pagine c’è tutto ed il contrario di tutto. E la verità, ammesso che vi sia contenuta, diventa irrintracciabile.

La perizia per Lockerbie è pubblica, si trova sul sito della AAIB britannica, consta di un rapporto principale fatto di 66 pagine, più 97 di allegati. In tutto, 163 pagine. E’ scritta in un linguaggio chiaro, semplice, che tutti possono comprendere. E sì che c’era da ricostruire e provare la distruzione in volo, causa ordigno, di un 747. Nessuno, fra l’altro, si è sognato di contestarla.

In Italia perfino il giudice istruttore ha contestato i suoi periti. Gli hanno fatto buona compagnia giornalisti, politici, parenti delle vittime, e varia umanità. Se dovessimo giudicare alcuni di costoro tramite ciò che ha detto e/o scritto, da lungo tempo sarebbe ospite permanente di un qualche manicomio.

In Gran Bretagna l’ente deputato alle indagini tecniche sugli incidenti aerei è l’AAIB (Air Accident Investigation Board). Il suo progenitore nacque nel 1915. In America è il National Transportation Safety Board, anno di fondazione 1967 (sotto l’attuale nome e trasformato in ente indipendente), ma costituito nel 1926 dall’Act of Commerce come branch del Ministero del Commercio.

L’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo è stata istituita in Italia nel… 1999. In obbedienza a una direttiva comunitaria del 1994, se ricordo bene. Settantatrè anni dopo l’ente americano; ottantaquattro dopo quello britannico. La BEA francese fu costituita nel 1946, cinquantatré anni prima.

In America la perizia del NTSB non può essere utilizzata in tribunale, nè dall’autorità giudiziaria nè dalla difesa di eventuali imputati. Accusa e difesa dovranno cercare indipendentemente le prove a carico o discarico di persone eventualmente rinviate a giudizio. Il perché di questa norma è ovvio. L’NTSB non deve cercare il colpevole di una catastrofe, ma di capire come la catastrofe sia avvenuta. E lo scopo è semplice: imparare a correggere i nostri errori, umani e/o tecnologici che siano.

Se un aereo esplode in aria, si vuol sapere se fu bomba, missile, o altra causa. Ad esempio, il Volo 800 della Pan Am, esploso nel cielo di New York, fu attribuito inizialmente ad un missile scappato a qualcuno. Si scoprì dopo un lungo lavoro di altissima qualità che invece era stata l’esplosione dei vapori di combustibile in uno dei serbatoi alari a far disintegrare l’aereo.

Torniamo a noi. Il processo per la strage di Ustica vide imputati generali, ufficiali, e sottufficiali dell’Aeronautica militare. La sentenza di rinvio a giudizio venne depositata il 31 agosto 1999. Il processo iniziò nel settembre del 2000. Fu subito rinviato ad ottobre. Finirà dopo 4 (quattro) anni. Gli imputati principali erano persone intorno o sopra gli 80 anni: forse si sperava che morissero, così sarebbe rimasto il dubbio sulla loro colpevolezza. Come se ci fosse bisogno di questo per alimentare l’italica propensione alla dietrologia.

Gli imputati furono tutti assolti sia in primo grado che nei gradi seguenti. Vediamo come. Gli imputati di alto tradimento Bartolucci e Ferri furono assolti per “intervenuta prescrizione”. Il reato era già prescritto all’epoca del rinvio a giudizio, ma fu comunque contestato. Perché? Il giudice che rinvia a giudizio ignora forse che una sentenza di assoluzione per prescrizione condanna gli imputati al sospetto perenne? In altri paesi non si contestano reati prescritti.

Le formule di assoluzione per gli altri reati contestati furono: Ferri, Melilo e Tascio (omesso riferimento all’autorità dei tracciati radar): “per non aver commesso il fatto”, Melillo e Tascio (per avere fornito informazioni errate a politici) “perché il fatto non costituisce reato” e Bartolucci, Ferri, Melillo e Tascio per tutte le altre imputazioni “perché il fatto non sussiste”.

La sera stessa della lettura della sentenza, il Tg3 intervista la Sig.ra Daria Bonfietti (all’epoca senatrice Pds) e la sua prima frase è: “Dunque una sentenza di condanna…”. La Sig.ra Bonfietti conferma: “Certamente, e siamo tutti soddisfatti.” Seguono dieci minuti di non contenuta soddisfazione (sic!) per l’esito del processo. Appello e Cassazione confermeranno.

Giova ricordare che la Sig.ra Bonfietti è una insegnante elementare sorella del Bonfietti redattore di Lotta Continua, perito nell’incidente. La Sig.ra Bonfietti divenne presidente del Comitato vittime di Ustica e fu eletta, per tre volte, al Parlamento italiano, come senatrice del Pds. Non è la prima volta nella storia della Repubblica che una carriera politica si costruisce a partire da una tragedia.

Adesso si apprende che un giudice civile di Palermo “rende giustizia per l’ultratrentennale tortura che i parenti delle vittime hanno dovuto subire ogni giorno della loro vita anche a causa dei numerosi e comprovati depistaggi di alcuni soggetti deviati dello Stato”, stabilendo un risarcimento milionario.

Chi sono i colpevoli, trentun anni dopo? Due ministeri. Non si sono trovati soggetti responsabili, perché tutti assolti, ma il giudice civile scova i colpevoli che devono risarcire il danno. Del tutto inopinatamente, e contro una sentenza passata in giudicato, a 26 anni dal fatto.

Leggendo quanto pubblicano i giornali, pare che il giudice civile faccia riferimento, nell’emettere la sentenza, e dunque consideri come prova, la sentenza di rinvio a giudizio del giudice Priore. Ignorando tutto il resto: i due milioni e passa di pagine di atti. Ma se davvero fosse così, se nei nostri tribunali si arriva ad assumere quale prova ciò che afferma una sentenza di rinvio a giudizio; se ci si permette di ignorare ciò che tre gradi di giudizio e sei anni di dibattimento hanno stabilito, non ci resta che bruciare tutti i codici, civili e penali, ed emigrare nel Burundi. (the FrontPage)

Obbligo d'accusa. Davide Giacalone

Riuscire a farsi processare per rivelazione di atti coperti da segreto istruttorio, in Italia, non è cosa da tutti, considerato che i giornali, praticamente non contengono altro. Ma non è questa la sola cosa che colpisce, nella decisione del gip milanese che impone la richiesta di rinvio a giudizio in capo a Silvio Berlusconi. Ci sono almeno tre elementi che si devono considerare e che hanno valenza generale.

1. Nel nostro sistema di procedura penale è la procura a gestire le indagini e sostenere l’accusa. Tocca a questo ufficio, una volta conclusa l’inchiesta, chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione del caso. Ma tale decisione non è definitiva, perché tocca ad un giudice, gip o gup, quindi nel corso delle indagini o al momento dell’udienza preliminare, convalidarla. E questo è singolare, perché se l’accusa ritiene di non dovere (c’è ancora l’obbligatorietà dell’azione penale) accusare in base a cosa il giudice la pensa diversamente? O ritiene il collega (sono ancora colleghi) incapace o lo ritiene troppo buono. E’ ben strano il sistema in cui il giudice, terzo e imparziale, considera troppo buono l’accusatore.

Di processi nati in questo modo ce ne sono molti, non solo quello che ora coinvolge Berlusconi, e la gran parte si conclude con l’assoluzione o l’estinzione del procedimento. Quindi è tempo e denaro perso. (Siccome tutto si riduce sempre a parlare di una sola persona, ricordo che in modo analogo la procura di Palermo fu costretta a sostenere l’accusa contro il capitano Ultimo, quello che arrestò Riina, con il risultato che Ultimo è innocente e l’infamia s’è protratta nel tempo).

2. Nel caso specifico Silvio Berlusconi fu considerato, all’inizio dell’indagine, parte lesa. Vi ricorda qualche cosa? Esatto. L’imprenditore che gestiva le intercettazioni, in appalto dalla procura (il che non è affatto normale, e i cittadini non sanno che ogni procura, quando non ogni procuratore, si sceglie l’appaltatore di fiducia), è già stato condannato. Inizialmente l’accusa per Berlusconi era di ricettazione, ma non stava in piedi, giacché si sarebbe trattato di ricettare un’informazione. Quindi si è giunti all’attuale.

Il cavillo che salva le altre pubblicazioni, a valanga, è il seguente: gli atti non erano stati ancora depositati. Come a dire che da quel momento in poi la riproduzione è libera, anche se infama innocenti. Basterebbe questo per concludere che una nuova e restrittiva legge è urgente.

3. Dice il gip che la pubblicazione di quella telefonata (nella quale Fassino gioiva con Consorte per la conquista di una banca) serviva a danneggiare un leader politico avversario. Acuta conclusione, cui nessuno aveva pensato. Le altre pubblicazioni, invece, suppongo servano a consolidare l’amor proprio di Berlusconi, sebbene si tratti più di acquisti che di conquiste.

A me le pubblicazioni delle conversazioni non piacciono. Anzi, le detesto. Capisco che è il mestiere del giornalista, ma temo che si finisca con il fare i copisti. In quel caso, però, oltre che fastidiosa fu dannosa, perché la sostanza di quella faccenda era già più che grave: una banca veniva scalata a cura di soggetti che già avevano scalato Telecom Italia, con la doppia benedizione del partitone di sinistra, ricavandone grandiose ricchezze personali, non dichiarate al fisco, e associandosi con altri, non privi di guai giudiziari.

I leaders politici protagonisti di quella faccenda sono ancora ai loro posti, cercando di farsi passare per vittime. A processo ci va Berlusconi, le cui telefonate pubblicate sono talmente tante che probabilmente non ha fatto altro per anni. Gli scandali non hanno prodotto che paginate e procedimenti inutili. Forse è davvero un Paese di m…armellata.

martedì 13 settembre 2011

L'euromasochismo. Giuliano Ferrara

Berlusconi dovrebbe distribuire a Strasburgo fotocopie dell’articolo comparso ieri sul New York Times a firma Paul Krugman (purtroppo il grande economista è anche premio Nobel, ma nessuno è perfetto).
E` una splendente intemerata contro gli euroallarmisti, i custodi miopi della stabilità dei prezzi che abitano alla Banca centrale di Francoforte, i masochisti che non comprendono la necessità urgente di foraggiare e promuovere la crescita e il lavoro, stregati come sono, in una logica piccolo-bottegaia, dalle frescacce che loro stessi ci hanno ammannito tutta l`estate sulla grande crisi da debito. Krugman è un keynesiano ultraosservante e un liberal di quattro cotte, ma questo non gli impedisce di essere intelligente, eloquente e libero nel giudizio. La sua tesi è questa. Finché gli europei si agitano dentro la crisi con mezzi solo fiscali, e stangate dietro stangate, e finché la Banca centrale continuerà a comportarsi da ragioniere generale della moneta, applicando una politica della lesina e della castrazione dell`economia reale, punitiva verso il debito e disastrosa per la crescita, l`Europa non uscirà da una spirale negativa generatrice di possibile recessione.

Con la conseguenza, sostiene l`economista americano, che il bank run dei bilanci statali, cioè la corsa degli investitori a disìnvestire dai titoli pubblici e a far salire gli interessi da pagare sul mercato, diverrà sempre più convulsa e realizzerà una perfetta self-fulfilling prophecy, cioè un comportamento predittivo che realizza il peggio dei suoi stessi incubi. Mai letta una così chiara confutazione dello stupido e interessato allarmismo finanziario che ci ha rovinato gli ultimi mesi, e in particolare questa estate di follia e di imprevidenza nelle Borse, nelle banche e sui mercati dei titoli.

I tedeschi in particolare, dice Krugman, agiscono come se il problema dell`euro e dell`Europa fosse una storia moraleggiante di debiti e di cinghie dà tirare per pagarli:

"Gli stati hanno preso troppo denaro in prestito, ora ne pagano il prezzo, e l`austerità fiscale è l`unica risposta".

Sounds familiar, questa balla? E` l`unica scemenza che tutti non cessano instancabilmente di ripetere, destra sinistra e centro.

E` la versione alla quale purtroppo, almeno in parte, anche il governo Berlusconi alla fine ha dovuto piegarsi, sotto la sferza dell`offensiva politica domestica, combinata con le lettere della ragioneria generale di Francoforte firmate da Trichet e da Draghi. Questo delirio debitorio da curare con l`austerità fiscale più rigorosa vale invece solo per la Grecia, dice l`economista americano, perché Spagna e Italia hanno situazioni debitorie e patrimoniali e di deficit sostenibili. La differenza è che non hanno una moneta, e non possono finanziare il loro debito, come fa regolarmente la Gran Bretagna con la sua sterlina. E questo accende il bank run di stato, l`assalto sfiduciato agli sportelli dei bilanci pubblici, si ripercuote sulle banche che hanno ovviamente in pancia questi titoli, e rischia di portare situazioni greche tra gli spagnoli e tra gli italiani, che avrebbero ben altre vie per fronteggiare crisi e speculazione di mercato. Invece di essere esitante e moralistica e punitiva, ciò che porta altro panico, come insegna il caso di quel sinistro Herr Stark e delle sue dimissionibomba, la Bce dovrebbe virilmente affrontare il rischio, peraltro lontano vista la depressione economica, di un po` di inflazione, e dovrebbe comprare a piene mani i titoli italiani e spagnoli.

L`incentivazione dello sviluppo e la creazione di lavoro sono i veri problemi delle economie europee, come dimostrano i drastici deprezzamenti di Borsa nel settore manifatturiero e i dati, quelli sì parecchio allarmanti, sul calo della produzione in luglio.

Berlusconi aveva fatto un appello pubblico e politico a frustare da subito il cavallo dell`economia nello scorso mese di gennaio, e aveva esplicitamente ammonito questo establishment imprenditoriale e finanziario pigro e sottomesso agli euroragionierí e ai manovratori di palazzo della crisi politica infinita del sistema italiano. Il debito si cura con il lavoro, non con le patrimoniali che producono altro debito e deprimono gli investimenti, non con le austerità e i rigorismi insensati. Le riforme strutturali liberalizzatrici e privatizzatrici devono servire alla crescita, non ad accompagnare il declino o la stagnazione con buone intenzioni fiscali. Si capisce perché un inconsapevole Krugman italiano come Giavazzi abbia definito morfina gli acquisti di bond italiani da parte della Bce, si capiscono le sue buone intenzioni riformatrici. Ma è uno sbaglio. Il mancato appoggio alla battaglia per lo sviluppo, che attraversa anche il governo Berlusconi, è stato l`atto di rassegnazione che ha preparato l`estate da lupi che abbiamo appena vissuto. Non basta dire che ci vuole la crescita, bisogna rischiare un po` di inflazione e sostenere i bilanci europei contro la corsa agli sportelli.

Put your money where your mouth is. Mettici i soldi, se ci credi. (il Foglio)

A sinistra. Davide Giacalone

Il partito democratico è finito, ammesso che sia mai nato. Non crediate sia un’invettiva partigiana, perché a tenere assieme il partitone della sinistra era il berlusconismo, e nel momento in cui il perno della seconda Repubblica cigola pericolosamente, il pd schiatta. C’è chi legge la vicenda di Penati con la soddisfazione derivante dal mal comune mezzo gaudio. Della serie: il più pulito ha la rogna. Capisco, ma non apprezzo. Mi pare più interessante un altro punto di vista: colpendo i canali di finanziamento, quei soldi culturalmente affini alle scalate Telecom e Bnl, quel tessuto di potere fatto da cooperative, imprenditori paganti e amministrazioni pubbliche compiacenti, si strangola quel che resta della vecchia struttura comunista. E si asfissia il pd. Perché le altre componenti, da sole, non contano e stare assieme ha un senso solo finché si tratta di combattere Berlusconi. Poi si prende a combattersi in casa. Quindi, è finita.

Che ne sarà, della sinistra? E chi se ne frega, risponderanno non pochi lettori. Sbagliato, è assai rilevante. Perché una delle ragioni della stagnazione politica italiana risiede nei difetti genetici (difetti, non superiorità) della sinistra. Una volta esploso il falso partito unico a sinistra resterà una sinistra-sinistra: antiamericana (bevendo coca cola, vestendo i jeans e chiamando “gay” gli omosessuali), antisraeliana, quando non direttamente antisemita, antagonista e anticapitalista. Una congrega di relitti, la cui età non veneranda dimostra l’intramontabilità dell’ebete estremismo.

La componente cattolica potrà ricongiungersi ai suoi simili. Togliete dal conto Berlusconi e poi spiegatemi come si fa a vedere la differenza fra Alfano e Casini, togliete di mezzo il pd e provate a vedere quella fra Casini e Fioroni. Non sforzatevi, fanno confusione anche le loro mamme. Certo, c’è la Bindi. Vero, ma mi pare di avere già descritto la sua casa: la sinistra-sinistra. Così imparano.

Gli intramontabili apparatnik del pci, interpreti di quella scuola che si vergognano a nominare e si offendono a sentirsela ricordare (veltronianamente procedendo: comunista io? badi come parla), dopo averla trasformata in un’accademia della lobby, potrebbero pure accomodarsi alla maison. Peccato per la troppo ricca pensione, giacché non sarebbe male, prima del trapasso, provare l’ebrezza di fare i lavoratori. Dopo tanto averne parlato.

Il punto è: come si fa ad evitare che in quello spazio elettorale s’insedino i protagonisti della destra reazionaria e qualunquista, che i sinistri odierni hanno allevato come alleati, vale a dire i giustizialisti, i manettari, i falsi e i moralisti senza etica alcuna? Ecco la sfida: far esistere, anche in Italia, una sinistra seria, di governo, occidentale, riformista. Una sinistra che capisca la scempiaggine d’opporsi al capitalismo, ma i pericoli della sua versione finanziaria (non è un caso che i comunisti se ne siano innamorati). Una sinistra che non consideri la spesa pubblica la divinità e lo stato sociale la sua incarnazione. Ci fu e c’è, questa sinistra. Solo che è sempre stata minoritaria. La sinistra più forte considerava fin troppo evoluto il pensiero socialdemocratico, la sinistra occidentale sa che anche quello appartiene al passato. L’Italia è cresciuta, s’è laicizzata e se oggi dal suo intestino non sorge solo il rumore sordo della rabbia cieca, che spera di allontanare da sé il mondo lanciando su altri, su nemici immaginari o miserabili, l’anatema, allora può prendere forza quel che nel dopoguerra è mancato: una seria alternativa di governo, a sinistra. Alcuni li vedo. Quel Matteo Renzi non è male, se non provvedono i suoi compagni a sopprimerlo. Sono persone con cui si possono riscrivere le regole istituzionali. Raddrizzare l’Italia. Perché rappresentano interessi e convinzioni, non blocchi sociali e ideologie.

Dite che ho bevuto troppo? Può darsi. Ma, ogni tanto, è sempre meglio che trangugiare la solita sbobba.

lunedì 12 settembre 2011

La bella addormentata nel losco. Marcello Veneziani

Ma vi pare normale che se siamo davvero come voi dite sull’orlo di una catastrofe economica, se davvero il Paese è ostaggio della criminalità orga­nizzata e della politica disorganizzata, che dobbiamo affrettarci ad appurare i confini licenziosi o illeciti della vita ses­suale di Berlusconi? Vi pare normale che se il Paese è in gi­nocchio, se siamo in emergenza, come scrivono stampa, jettatori e oppositori, la magistratura deve trovare con la mas­sima urgenza le pro­ve che il gatto e la vol­pe ricattavano il Cavaliere su piccole por­cate domestiche e deve affrettarsi a tro­vare una data per convocare il premier su queste puttanate? Vi pare normale che con una giustizia incapace di garantire il diritto, con la de­linquenza che cresce impunita, noi dob­biamo occuparci non del Tarantini che ha danneggiato la salute degli italiani ru­bando sulla pubblica sanità ma del Ta­rantini che ha portato qualche mignot­tella a Berlusconi?

Ma non vi accorgete che la prima, grande anomalia del Paese è questa, che la maggiore irresponsabilità in questa si­tuazione è giocare al massacro su risvol­ti privati? Sul piano politico capisco e spesso condivido i giudizi più severi su questa fase e ritengo concluso un ciclo, opposizioni incluse; condivido sul pia­no morale e civile la condanna di questi costumi e di queste corti indecenti, ma vi pare normale che in piena crisi mon­diale dobbiamo occuparci della Dolce Vitola, di Lele Mosina, di Gianpi e Patty, più contorno di zoccole e papponi? A volte ho l’impressione di vivere non in un Paese ma in una fiaba: Italia, la bel­la addormentata nel losco. (il Giornale)

domenica 11 settembre 2011

E dopo? Davide Giacalone

Mercoledì sarà approvato definitivamente il decreto che riprende le indicazioni della Banca Centrale Europea e punta a stabilizzare i conti pubblici. Cosa succede, dopo? I fautori della crisi di governo aumentano, ma anche la confusione delle loro idee. Valutando le forze in campo, e mettendo nel conto la debolezza, indotta da attacchi ed errori, del presidente del Consiglio, Maurizio Belpietro osservava ieri che “non ci resta che sperare”, salvo aggiungere: “in che cosa non lo sappiamo”. Appunto, è il ritratto di un passaggio che conduce alla fine di un’epoca, ma all’inizio di non si sa cosa.

Quel che il governo dovrebbe fare lo abbiamo già suggerito: rivolgere, subito, un invito agli altri governi dell’Unione monetaria, sollecitando rimedi alle deficienze strutturali dell’euro. Si ha un bel prendersela con Juergen Stark, il tedesco dimissionario dalla Bce, per dissensi sull’acquisto di titoli italiani, ma non si può negare l’indeterminatezza istituzionale in cui si muovono le autorità monetarie europee. Se, forte di avere svolto il compito assegnato, il nostro governo saprà portare il problema nella sua sede naturale, quindi fuori dai confini italiani, avrà creato un buon motivo per continuare il lavoro e un ostacolo a chi ne chiede la caduta. In caso contrario ce la si vedrà tutta in casa, con l’incancellabile corredo d’inchieste penali e ricatti corporativi.

A parte il ritornello insulso, e senza speranza, che chiede a Berlusconi di fare “un passo indietro”, quel che si muove e si prospetta è piuttosto singolare. Enrico Letta sostiene che se si facesse un bel governo d’emergenza nazionale già solo per questo lo spread con il bund calerebbe di cento punti. E perché? Ovvio, si risponde, perché quel governo saprebbe fare ciò che all’attuale non riesce. Splendido, e come? C’è un solo fesso, in Europa e nel mondo, capace di credere che se si portano al governo quelli che sfilavano con la Cgil, mettendoli assieme con quanti hanno premuto da dentro il governo per non toccare le pensioni, ne risulterebbe un esecutivo rigoroso e risanatore? Sempre Letta dice: non c’è motivo che un governo di quel tipo sia presieduto da Alfano, ma chiunque è comunque meglio di Berlusconi. Raffinato ragionamento. Ma, al netto di una condotta privata che è divenuta oggetto di discussione pubblica, cos’ha di così ripugnante, il citato Berlusconi? Ha preso e minaccia di volere ancora prendere voti. Questo è il punto: non hanno in mente un governo di risorgenza nazionale, ma di nazionale commissariamento, per la qual cosa è necessario sospendere le regole democratiche.

Andare al voto è la via opposta. Anche qui, dicono: gli spagnoli le hanno convocate e la speculazione s’è placata. Primo: è tutto da dimostrare. Secondo: in Spagna si sa già chi le vincerà e che cosa farà. In Italia no. Se Berlusconi riuscisse a convincere gli elettori che lo hanno abbandonato a non disertare le urne il risultato non sarebbe scontato. E se anche il centro destra perdesse, come dimostrano le ultime elezioni amministrative, non vincerebbe il pd, ma un’accozzaglia d’antagonisti e giustizialisti. Con quella roba si governa? Ci vuol fantasia, per crederci.

Chiedono il “passo indietro”, perché conoscono la loro infinita debolezza e il pericolo delle urne. Per propiziarlo sembrano anche disposti a una specie di salvacondotto, un’immunità personale per Berlusconi. Il che non solo viola la nostra Costituzione, ma sarebbe il trionfo delle leggi “ad personam”. Secondo il latinorum per analfabeti. Eppure tale ipotesi circola, a conferma della disperazione di un sistema senza uscite, incapace di calcolare altro che il crollo. E se non si riesce a stabilire cosa sperare è perché non si vede altro che il crollo.

Lo si deve all’inadeguatezza della classe dirigente (mica solo politica), all’esaurirsi di un ciclo e al continuo sollecitare ogni forza, ogni gruppo, ogni camarilla che sappia opporsi ai cambiamenti necessari. Di questo siamo prigionieri. Tale gabbia si può rompere, ma solo a condizione che non ci si dimentichi la collocazione internazionale dell’Italia e che si sappia porre il tema delle regole istituzionali. Il problema italiano è prima di tutto di governance. La nostra Costituzione appartiene ad un mondo che non c’è più. Se non vogliamo condannarci alla limitatezza suicida di immaginarci crollanti o commissariati cominciamo a ragionare, senza distinzione di schieramenti, su come conservarne il buono abbandonando il morto.

Gli allarmisti. Ecco la lobby degli anti-italiani. Giuliano Ferrara

È stata l’estate dell’allarmismo. Gli incendia­ri si sono lavorati ben bene le Borse, la quota­zione dei titoli pubblici, i rating dei bilanci statali,compresa l’inedita svalutazione del­la tripla A che l’agenzia globale Moody’s aveva sem­pre attribuito al tesoro pubblico del Paese più ricco del mondo, gli Stati Uniti. L’allarmismo è una brutta bestia. Diffonde insicurezza e paura, smobilita risor­se utili, deprime i consumi, diffonde sfiducia, deprez­za il valore di imprese e banche, induce a comporta­menti volatili i legislatori, impedisce il varo di strate­gie per la crescita e per il lavoro, disincentiva gli inve­stimenti e la ricerca, crea agitazione, odio e invidia so­ciale. L’allarmismo fa guadagnare alcuni, pochi, e fa perdere altri, molti. È uno strumento di destabilizza­zione politica ad alto rischio, induce comportamen­ti estremisti, si muove a slavina ingrossandosi a ogni passo. Appena possono, gli allarmisti diventano de­cisamente e cinicamente catastrofisti, allora il mon­do in cui viviamo appare un’immensa minaccia che insidia la coscienza individuale e di gruppo, si comin­cia a vivere l’invivibile, ogni sforzo pare inutile, ogni strumento di reazione inservibile, lo spread sugli in­teressi dei titoli di Stato si fa orco, il calo in Borsa si fa declino ineluttabile, i mercati sembrano belve affa­mate pronte a divorare i risparmi e il frutto del lavoro, il futuro immaginario e tenebroso si mangia il presen­te e le mille lezioni del passato.

Allarmismo e catastrofismo non sono solo noti mezzi per arricchirsi rapidamente a spese dell’inge­nuità pubblica e privata, non si limitano a funziona­re come arnesi di scasso politico al servizio di lobby astute e irresponsabili, sono qualcosa di più grande e perfino tremendo: sono ideologia corrente, una fal­sa coscienza della realtà, un modo di essere o una se­conda pelle che indossa da decenni l’Occidente, con le sue fonti di informazione globalizzate, con i grup­pi di interesse che spingono per la diffusione del ter­rore negli ambienti dell’economia, della ricerca & previsione scientifica, delle agenzie internazionali che aspirano al governo del pianeta. Un mondo impaurito, che assimila i luoghi comuni sulla salute, le sciocchez­ze sulla prevenzione sistematica come forma di vita, le immagini della natura come incombente di­sastro di ogni giorno, è un mondo più facilmente asservibile a quei meccanismi irriflessi che genera­no nuovi poteri e permettono un esercizio più disinvolto di vecchi poteri. La cultura apocalittica, che abbiamo assaggiato questa estate in una forma estrema, e che ora ci mette le mani in tasca e tra­sforma un debito ampiamente ga­rantito e variamente gestibile in una potenziale insolvenza, e l’Ita­lia in un ammalato speciale den­tro­ una corsia d’ospedale in cui so­no ricoverati praticamente tutti, è il sostituto della lotta di classe no­vecentesca, dell’utopia regressi­va dell’eguaglianza universale, un vero attentato alla libertà civile e alla libertà di pensiero.

Non è facile, ma Berlusconi do­vrebbe cercare di sottrarsi alla te­naglia che vuole fare di lui un im­putato in servizio permanente ef­fettivo e adesso anche il cerbero che è delegato a gestire a colpi di tasse e patrimoniali un’emergen­za dopo l’altra. La battaglia contro il declinismo, contro l’avvilente rappresentazione confindustria­le e sindacale di un Paese in perico­lo, dovrebbe stare al primo punto della sua agenda liberale. Come si è visto a Francoforte, un aspetto decisivo della famosa crisi da debi­to, che partendo dall’Europa ha contaminato mezzo mondo, è la grave divisione della Germania sul da farsi, l’irresolutezza politi­ca pronta a tutto e a niente con la quale si affronta l’ovvio problema di un’Europa monetaria unica pri­va di un serio cointeressamento dell’unione a un destino economi­co e istituzionale comune, priva di un centro di comando sottratto a miopie ed egoismi nazionali. Ma la guerra contro i catastrofisti interessati al ribasso finanziario si può combattere e vincere solo se si associa alla campagna contro l’ideologia del declino universale e della paura verdeggiante, ecolo­gica, sanitaria, previdenziale, tut­ti aspetti decisivi di un modo di vi­ta fondato su un’ingenua inconsa­pevolezza della contingenza del mondo. (il Giornale)

venerdì 9 settembre 2011

11 settembre 2001, dalla parte giusta della storia. Christian Rocca

Dieci anni dopo, i due obiettivi strategici degli attacchi dell’11 settembre 2001 sono falliti. Osama Bin Laden ha colpito il cuore finanziario e militare degli Stati Uniti, New York e Washington, per dimostrare alla umma, alla comunità musulmana, che l’America non era lo squadrone che tremare il mondo fa, ma una tigre di carta, un paese di codardi, fiacco e senza Dio che sarebbe scappato con la coda tra le gambe appena un’avanguardia di martiri islamici avesse mostrato il coraggio di aggredirla e mortificarla, come peraltro lasciavano intendere gli infamanti ritiri successivi alla strage dei marine a Beirut (1983) e all’abbattimento degli elicotteri Black Hawk a Mogadiscio (1993). Il secondo obiettivo strategico di Bin Laden era quello di mobilitare le piazze arabe e di sollevare le masse islamiche contro i regimi locali cosiddetti laici, ma in realtà alleati con l’estremismo radicale e non sufficientemente pii, devoti e fanatici per il terrorista saudita. La potenza geometrica dell’attacco all’America avrebbe dovuto liberare l’orgoglio represso del Grande Medio Oriente e scatenare il senso di rivalsa antioccidentale delle comunità musulmane, fino a creare un grande movimento popolare capace di cacciare gli infedeli dalle terre coraniche, di distruggere Israele e di instaurare un nuovo califfato islamista dall’Andalusia all’Afghanistan.
Il piano di Bin Laden non poteva finire in modo peggiore, non solo perché alla fine il suo autore è stato ucciso, cremato e gettato in mare dalle Squadre speciali di Barack Obama. Il progetto è fallito perché Bin Laden ha sottovalutato il carattere e la forza morale degli americani e ha male interpretato la rabbia e la voglia di riscatto del mondo arabo e islamico.
Dieci anni dopo, l’America non si è ritirata dal Medio Oriente. I soldati americani sono ancora dov’erano prima dell’11 settembre e, pagando altissimi costi umani e finanziari, si sono installati anche a Baghdad e a Kabul. I corpi d’elite fanno incursioni letali in Pakistan e in Yemen senza chiedere il permesso a nessuno. I droni della Cia bombardano il Waziristan e la Somalia, uccidendo invece che preoccuparsi di rinchiudere a Guantanamo i potenziali nemici. Il Pentagono controlla i cieli libici e il Golfo Persico, mentre la Casa Bianca ai nuovi padroni di Tripoli concede con parsimonia i fondi sottratti a Gheddafi.
La tigre di carta si è dimostrata più felina che cellulosica. L’America è in difficoltà economiche anche perché in questi dieci anni la sua priorità è stata la sicurezza nazionale e non il commercio o lo sviluppo come per i suoi concorrenti. Ma in terra islamica non è mai stata così presente e influente.
In dieci anni ha cambiato sulla punta della baionetta tre regimi mediorientali suoi nemici, ma anche reali o potenziali alleati di Osama nella guerra santa contro il Grande Satana: la teocrazia talebana di Kabul, la dittatura saddamita di Baghdad e il dispotismo tribale di Gheddafi a Tripoli.
Le piazze arabe e le masse islamiche si sono ribellate ai loro despoti, ma nel senso opposto a quello sperato da Bin Laden, alla ricerca confusa di una terza via tra dispotismo islamo-nazionalista e teocrazia musulmana.
Le primavere arabe non si sa ancora che cosa siano, non sappiamo che cosa diventeranno ed è improbabile che in nel giro di poco tempo la regione si trasformi in una filiale mediorientale di Westminster. Il ruolo degli islamisti e della Fratellanza musulmana nel migliore dei casi è ambiguo. L’Iran e l’Arabia Saudita sono ancora potenti. Settori dei vecchi regimi difficilmente si faranno da parte. Eppure dopo sessant’anni di repressione, in Medio Oriente è emersa un’opposizione anti autoritaria e in alcuni casi liberale, in grado anche di abbattere pacificamente le violenze dei tiranni. Per la prima volta si discute apertamente di istituzioni e di regole democratiche, peraltro già operative in Iraq e con più difficoltà in Afghanistan. Le piazze chiedono diritti, non sottomissione. Invocano una società libera, non un califfato. C’è un’atmosfera di libertà, decisiva per la diffusione delle idee democratiche e liberali di convivenza civile.
Alcune dinastie dispotiche sono state abbattute dall’intervento armato degli Stati Uniti e degli alleati. Altre sono andate in frantumi grazie alla mobilitazione di movimenti autoctoni senza legami diretti con l’America, ma che hanno beneficiato del cambiamento di strategia politica deciso da George W. Bush e da Tony Blair l’indomani dell’11 settembre.
Quella mattina di dieci anni fa, il presidente conservatore americano e il premier di sinistra britannico hanno elaborato una risposta politica, culturale e ideologica capace di generare una potenza dimostrativa superiore agli attacchi terroristici. Bush e Blair hanno deciso di porre fine allo status quo dispotico mediorientale che per mezzo secolo ha illusoriamente garantito la stabilità nella regione e il regolare flusso di petrolio, convinti dall’idea rivoluzionaria che la democrazia e la libertà non fossero esclusive occidentali, ma aspirazioni universali.
L’America ha cambiato con la forza alcuni di quei regimi mediorientali e ha abbandonato con juicio quelli che non hanno garantito riforme, maggiore libertà e lotta al terrorismo. I gruppi di opposizione hanno ricevuto finanziamenti, i dissidenti sono stati ricevuti alla Casa Bianca, il rispetto dei diritti umani è diventato un costante argomento di pressioni diplomatiche. I raid aerei, le incursioni delle forze speciali e la guerra segreta di Bush e di Obama hanno fatto il resto.
L’epocale svolta strategica ha resistito agli errori macroscopici compiuti sul campo, ai costi ultra miliardari, all’impopolarità diffusa, ai passi indietro di Bush alla fine del suo secondo mandato, all’uscita di scena di Blair e alle promesse non mantenute di Obama di tornare a una politica estera pragmatica, vecchio stampo, meno idealista e più conservatrice.
Dieci anni dopo l’11 settembre, quell’intuizione strategica di Bush e Blair – regime change e freedom agenda – si è radicata nella politica estera occidentale, ha indebolito i dittatori locali e ha aperto un varco ai primaveristi araba.
I protagonisti sono diversi, i metodi sono stati perfezionati, la tattica è stata ricalibrata. Ma, 10 anni dopo, la formidabile idea di sostituire lo status quo con la promozione della democrazia costituzionale è rimasta l’unica strategia possibile contro la cultura dell’odio. È una politica che fa coincidere interessi nazionali e grandi ideali, adatta a sconfiggere il progetto islamista di Bin Laden e, come ama dire Obama, capace di rimettere l’America dalla parte giusta della storia. (Camillo blog)

mercoledì 7 settembre 2011

Il favoloso mondo di Amélie. Eisenheim

Ha ragione Silvio Berlusconi. Siamo veramente un Paese di merda. E ogni italiano lo dice, o lo pensa nella sua testa, almeno una volta al giorno: quando la mattina aspetta l’autobus che non passa e rischia di fare tardi a lavoro, mentre piove e non c’è un taxi nemmeno a pagarlo oro, quando prima di entrare alla posta si fa il segno della croce oppure quando vede il suo vicino che gira in Ferrari e per il fisco è nullatenente. Lo pensa un ricercatore quando si deve pagare le provette altrimenti non può fare il lavoro per cui altrove sarebbe pagato a peso d’oro e quando non riesce ad arrivare in ufficio perché un sindacato autoreferenziale e obsoleto fa finta di venire incontro alle esigenze dei lavoratori bloccando inutilmente intere città. Queste, e altre mille situazioni, ci fanno pensare che il nostro Paese fa schifo, che nulla funziona, che stiamo andando alla deriva ma non facciamo nulla per salvarci.

Ma quello che veramente ci fa capire che siamo un Paese di merda, è vedere le foto di Dominique Gaston André Strauss-Kahn, l’ex direttore generale del Fondo monetario internazionale, che torna in Francia come un eroe. I suoi concittadini si fermano a stringergli la mano, a fargli le foto, gli rivolgono complimenti mentre gli elargiscono affettuose pacche sulle spalle. Lui è un francese che ce l’ha fatta, ha dimostrato contro tutto e tutti di che pasta sono fatti i galletti. È vero, le accuse che gli sono state rivolte si sono rivelate insussistenti, ma anche quando per tutto il mondo era un feroce maniaco sessuale che aveva stuprato una povera cameriera, i francesi stavano dalla sua. “Quella disperata sta provando a incastrarlo”, hanno pensato e detto tutti.

Se fosse accaduto a una personalità di spicco del nostro Paese, tutti avremmo pensato: “Che figura di merda, dobbiamo sempre farci riconoscere”. E anche dopo un’eventuale assoluzione il poveretto non avrebbe avuto certo vita facile nella nostra Italia. Probabilmente i giornali di una o dell’altra parte si sarebbero rincorsi a cercare scheletri nell’armadio o a fare interviste a chi, in fondo in fondo, “l’aveva sempre sospettato”.

Questa è la differenza fra un Paese di merda e un popolo che fa della mentalità vincente il proprio orgoglio e la propria fortuna. I francesi hanno la grandeur, gli americani si nutrono del sogno, inglesi e tedeschi ancora devono capire come spartirsi il mondo. Noi andiamo avanti con il nostro chiagne e fotte e ci meritiamo Filippo Penati e il presidente del Consiglio che dice che siamo un Paese di merda. C’est la vie. (The FrontPage)

martedì 6 settembre 2011

Luca Sofri, Pigi Battista e il politicamente corretto. Christian Rocca

Sono anni che discuto con Luca Sofri di politicamente corretto. Alla fine non ci capiamo mai. Da qualche tempo Luca se la prende con Pigi Battista esattamente su questo punto, ma secondo me non ci capiamo mai e non si capisce con Pigi perché il politicamente corretto non è la cosa che intende lui. Luca scrive che se uno aiuta una vecchietta ad attraversare la strada magari c’è qualcuno, un adepto del politicamente scorretto, pronto a dire che aiutare ad attraversare una vecchietta è cosa che non si fa, troppo buona, perché magari impedisce l’efficace e libero dispiegarsi del traffico automobilistico.

Ora, a parte che non esiste nessuno al mondo che sostenga una cosa del genere (straw man argument anyone?), il punto che secondo me sfugge a Luca è che il politicamente corretto non è la stessa cosa del buonismo, non è compiere un’azione buona, non è la buona educazione.

Il politicamente corretto è un’altra cosa. La political correctness è una dottrina totalitaria che cerca di definire la realtà non per quella che è, ma in base ai desideri del pensiero dominante.

L’obiettivo, per quanto conformista, è nobile perché nasce dall’illusione di poter mutare la realtà semplicemente chiamandola in un altro modo (ipovedente anziché cieco, diversamente abile anziché handicappato, Islam religione di pace anziché fonte di violenza familiare, sociale e globale). Ma la sua attuazione può essere devastante per la società democratica, fino al punto di negare la libertà di espressione.

Un’eroina moderna come Ayaan Hirsi Ali non può dire quelle cose che dice contro la religione islamica oppressiva delle donne perché altrimenti passa per una pazza che i guai se li va a cercare (Ian Buruma, tra gli altri). Una sera, a Capri, una rockstar che stimavo molto, David Byrne, ha detto che Ayaan Hirsi Ali era andata oltre nel denunciare le violenze della società musulmana nei confronti delle donne. Byrne ha detto che Ayaan Hirsi Ali era una «provocatrice». Un musicista rock che invita a non provocare, a restare tranquilli, a non denunciare le ideologie più oscurantiste. Wow. Altro che Asor Rosa.

Questo è il politicamente corretto: un linguaggio, un’idea, una politica, un comportamento che cerca iprocritamente di minimizzare la realtà per non mostrare un pregiudizio nei confronti di un determinato contesto razziale, culturale, sessuale, religioso o ideologico.

Il politicamente corretto è mischiare la realtà con un giudizio di valore. Orwell lo chiamava Neolingua. Philip Roth lo ha raccontatato in La Macchia Umana. Il mio amico Franco Zerlenga lo spiega con un esempio terra terra: il politicamente corretto è quel medico che al paziente invece del cancro diagnostica un raffreddore per evitare che ci rimanga male. Al paziente non fa un favore. Il danno, alla fine, è irreparabile.

Per restare agli esempi citati da Luca, in quanto tratti dall’articolo di Pigi, è ovvio che nessuno dirà mai che «denunciare un padre che picchia la figlia è fomentare lo scontro di civiltà». Ma se quel padre è musulmano il riflesso politicamente corretto scatta subito: meglio non dire che quella particolare religione impone comportamenti retrogradi e va sempre ricordato che ogni cultura ha le sue tradizioni giuste o sbagliate che siano ma sempre da rispettare.

Negare la realtà non aiuterà la prossima figlia picchiata sulla base di un sistema di valori diverso dal nostro. Accettare l’esistenza del problema, e far rispettare le regole di convivenza civile anche a chi ha tradizioni culturali diverse, magari sì.

Il politicamente corretto non è un riflesso condizionato che scatta solo nei ristoranti blasé della Maremma, all’Ultima Spiaggia di Capalbio o a casa di Furio Colombo. C’è in tutti gli articoli di Repubblica, per dire. E anche nelle posizioni ufficiali del Pentagono.

Il ministero della Difesa americano, così come i grandi giornali Usa, è tuttora incapace di dire apertamente che il maggiore Malik Nadal Hasan, autore un anno e mezzo fa di una strage di soldati nella base di Fort Hood, è un jihadista. Non è sufficiente sapere che si dichiara un fondamentalista islamico, che non si voleva fare vedere né fotografare accanto a una donna, che cercava moglie in moschea e la voleva che pregasse 5 volte al giorno. Per paura di far valere un pregiudizio religioso, l’esercito americano non l’aveva allontanato nemmeno quando è venuto a conoscenza dei rapporti di Hasan con un terrorista islamico in Yemen, né quando giustificava con i commilitoni le azioni dei kamikaze. Nemmeno l’aver urlato "Allah Akbar", Dio è grande, quando ha ucciso 13 soldati è bastato a sottolineare ufficialmente il movente.

Anzi la prima reazione dei giornali è stata di segno opposto: il povero cristo aveva paura di andare in guerra, aveva sentito racconti terribili, la colpa della strage non poteva che essere della guerra. Mica della religione di pace. (Camillo blog)

Il governatore

Ma Nikita Vendola, che è sempre dappertutto tranne che nella sua regione, riesce a trovare il tempo per "governare" la Puglia?

lunedì 5 settembre 2011

Silvio, Lavitola, Tarantini & inquirenti: una mediocre commedia e personaggi modesti. Pietro Mancini

Per una sorta di nemesi, nel bel Paese – dove molti fili, quelli più delicati, del “teatrino della politica” sono manovrati, o comunque condizionati, dagli interventi a gamba tesa delle toghe – Silvio Berlusconi, che a Napoli, nel '94, ricevette dal pool milanese di Borrelli e Di Pietro l' avviso di garanzia fatale al suo primo governo, tornerà, nei prossimi giorni, sotto il Vesuvio, come testimone. Stavolta è atteso nel tribunale di Napoli e si troverà faccia a faccia con John Woodcock, che a Potenza spedì in cella Vittorio Emanuele di Savoia e che, 2 mesi fa, ha chiesto e ottenuto il trasferimento dalla Camera dei deputati a Poggioreale del suo collega e parlamentare PDL, Alfonso Papa.

Per non alimentare la sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, mi auguro che Woodcock non sia – come ha scritto Sallusti, direttore de il Giornale – un sostituto procuratore che starebbe commettendo delle illegalità, «non contento di aver già incarcerato, in passato, persone, che poi sono risultate, completamente, estranee ai fatti e risarcite dallo Stato».

Certo, se sembra esagerata la notazione di un parlamentare del partito del premier, Osvaldo Napoli («Le intercettazioni contribuiscono a sconfiggere i clan criminali, ma sono la tomba della democrazia!»), tuttavia, non ci si può non interrogare sulla “stranezza”e sui non pochi aspetti oscuri dell'ennesimo “caso B.”.

Infatti, nell'istruttoria di Napoli, Berlusconi, pur essendo parte lesa, come presunta vittima di un tentativo di estorsione – che egli nega di aver subito – viene esposto alla gogna mediatica, con la pubblicazione integrale, sui giornali, delle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura partenopea.

E non ha torto l'ex senatore campano della Margherita, Antonio Polito, che sul Corriere della Sera ha rilevato : «In questo caso, vien forte il sospetto che l'intercettazione non sia parte essenziale dell'inchiesta su un reato, ma il fine stesso dell'inchiesta».

Anche noi bocciamo, con la giusta severità, i modesti personaggi ai quali il Presidente del Consiglio ha aperto un credito, finanziario e di stima, immeritato. Tra costoro, il barese Tarantini che, in perfetto stile bipartisan, avrebbe infilato le esose escort tanto nel lettone berlusconiano di Palazzo Grazioli quanto in quello di un albergo di Bari, occupato dal dalemiano Frisullo, all'epoca vice-presidente della giunta di Nichi Vendola. Adesso è finito in cella, con la moglie – da sabato ai domiciliari – che lo avrebbe tradito con Lavitola. "Giampi" e avrebbe ricevuto dal suo "benefattore" di Arcore, nell'ultimo anno, 800 mila euro: 20 mila euro di stipendione mensile.

E proprio il furbo giornalista, editore e imprenditore ittico napoletano, Lavitola, definito dagli inquirenti "informatore riservato", e che millanta contatti con la CIA e odia Bisignani, quanto è affidabile? Certamente, l'ex militante del Psi non ci azzecca nulla con la storia, gloriosa della testata, da lui diretta, l'Avanti!, in passato guidato da leader del calibro di Nenni e Lombardi e, prima della fondazione del partito nazionale fascista, da Benito Mussolini.

Noi comprendiamo quanti, oggi, fanno del facile sarcasmo sul declino di Silvio, vittima sia dei “processi ad orologeria” – che, secondo voci captate nella ambasciata USA a Roma, lo hanno indebolito, ma non sconfitto – sia della sua incontinenza, sessuale e verbale, a notte fonda, che danno l'immagine di un leader assediato, indeciso e cupo.

Ma, in una fase politica molto delicata, con prospettive incerte della nostra economia, e caratterizzata dalla espansione della “questione immorale”, nella maggioranza e nell'opposizione, con gli inflessibili censori della morale altrui – Travaglio e Di Pietro che, quotidianamente, bacchettano i capi del PD –, non va respinto l'invito a diffidare di coloro che, calpestando la privacy dell'inquilino di Palazzo Chigi, esultano per lo sputtanamento di Berlusconi e dei suoi fantozziani interlocutori. In quanto sperano che questa commedia, tra Pirandello, "Totò e 'a mala femmina" e Boccaccio, ponga fine al suo traballante esecutivo.

Stavolta, non possiamo dar torto a Casini quando, bocciando come “incivile” la diffusione “urbi et orbi” delle registrazioni di quei cellulari bollenti, ricorda a tutti, in primis ai magistrati, le regole della democrazia liberale. Che non dovrebbero, mai, esser piegate alla convenienza politica, come fanno i regimi, secondo cui il fine giustifica ogni mezzo. E, pertanto, non cestiniamo la saggia osservazione di Antonio Polito: «Lo Stato di diritto è forma. Da tempo, nel bel Paese, somiglia a uno sformato». (Legnostorto)