lunedì 31 agosto 2009

Laici baciapile. Davide Giacalone

Eccoli lì, i falsi laici, pronti a dar prova di pochezza. Ieri tuonavano contro l’asservimento del centro destra ai dettami vaticani, ora sgranano il rosario ad una festa voluta da Celestino V. Cui Dante dedicò una definizione feroce: “colui che fece per viltate il gran rifiuto”, non riferendosi certo alla mancata perdonanza. C’è tanta gente, in giro, che è nata chierichetto, salvo passare la vita a cercare un dio in cui credere ed un parroco da servire.
Quando le gerarchie cattoliche intervengono, sulla procreazione assistita o sul fine vita, scatta subito l’accusa d’ingerenza. Molti democratici confusi sono cultori inconsapevoli della teoria mussoliniana: la chiesa ha diritto ai soldi e all’autonomia, ma non a far politica. La scuola laica, quella vera, con pochi alunni, la pensa diversamente: dicano pure quel che pensano, e cerchino di farlo valere, anche rivolgendosi ai parlamentari che si professano cattolici. Per noi, questa, è l’essenza stessa della democrazia. Del resto, correva il lontano anno 1974 quando la maggioranza degli elettori, in un Paese che si dice quasi tutto cattolico, fece marameo ai dettami provenienti dal cupolone.
Non c’è ingerenza, se i prelati manifestano opinioni, anche con forza. Non c’è offesa alla religione, se si risponde loro dissentendo, anche con forza. L’Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, paragonò la politica verso l’immigrazione alla persecuzione nazista degli ebrei. Un’inquietante cretinata, un’offesa alla storia ed al presente. L’ho scritto, chiaro e tondo, senza tirare in ballo questioni di fede.
In quanto alla privacy, è stata tirata in ballo (da Berlusconi) a sproposito. Se si fosse scritto sui costumi sessuali, di questo o di quello, avrebbe ragione, ma una sentenza, come anche un patteggiamento, non hanno nulla di privato e riservato, sono pubbliche. Per definizione. Può sembrare strano, in questo Paese di trasformisti, ma noi opinionisti siamo tenuti alla coerenza, altrimenti siamo solo sparaballe a pagamento. Se un Tizio tuona per la moralità e poi patteggia per molestie è bene che il lettore lo sappia. Ci guadagna, almeno, il buonumore.
Anche questo (triste) episodio passerà, magari con qualche penitenza, ma resta l’arretratezza culturale di chi credere, a seconda dei casi, che sia laico far tacere i vescovi, e sia segno di moralità baciar loro la pantofola.

Tornano i professionisti della firma anti Cavaliere. Paolo Granzotto

Qualcosa di nuovo, a ben vedere c’è. Il titolo: «L’Appello dei Tre Giuristi». Niente di drammatico, non si sentono digrignare i denti come ai vecchi tempi. «L’Appello dei Tre Giuristi» ricorda piuttosto certi generi di consumo anni Cinquanta, «L’acqua dei Tre Frati», il «Torrone delle Tre Marie». Si vede che a Largo Fochetti la cosa l’ha studiata l’ufficio marketing, scegliendo un brand decoroso e domestico, diciamo pure casereccio. Da ceto medio consapevole. E qui finiscono le novità: siamo un popolo spasmodicamente impegnato nel sociale, ma impegnato in modo sedentario, molto a parole e pochissimo nei fatti. Se dunque si presenta un’occasione facile facile - qualcosa da firmare, ad esempio - per manifestare concretamente l’impegno, si firma. Ancor più oggi che non ci si deve nemmeno scomodare per raggiungere il banchetto. Lo si fa dal tinello di casa, via Internet. Nome e cognome, cliccare su «invia» ed è fatta. La coscienza democratica è a posto e si può tornare a cuor leggero al prediletto Facebook. A Repubblica gongolano: sono già novantamila le firme apposte all’«Appello dei Tre Giuristi» - che sarebbero poi i notori Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky - in difesa della minacciata (minacciata da Berlusconi, e da chi altri, sennò?) libertà di stampa. Come a dire: abbiamo fatto il pieno. Ieri, poi, ci hanno aggiunto un carico da dodici, titolando che ha firmato anche Celentano. Il Molleggiato. Una delle coscienze critiche, par di capire, della nazione. Anche in quel titolo si sente la mano dell’ufficio marketing. Celentano «tira», devono essersi detti, è un buon testimonial. Come specchietto per le democratiche allodole vale mille Rosebindi, diecimila gnagnere alla Ignazio Marino e dunque sfruttiamolo.

Dove non sono state fatte concessioni alla frivolezza è nel testo dell’«Appello dei Tre Giuristi». Roba tostissima che tira in ballo perfino la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Che tira in ballo i «regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso» (cosa non si fa per non nominare il comunismo! Si rinuncia perfino a quell’asso di bastoni che è il nazifascismo). Si arriva ad accusare il Cavaliere di voler isolare Largo Fochetti - dicesi Largo Fochetti - «dalla circolazione internazionale delle informazioni», minaccia che a mio sommesso parere deve aver allarmato in particolar modo Celentano. Si mazzòlano ben bene i «giuristi» che essendo disposti a dare «forma giuridica» alla causa per diffamazione promossa da Berlusconi, non solo non sono nemmeno degni di lustrare le scarpe a Cordero, Rodotà&Zagrebelsky, ma minano «la stessa serietà e credibilità del diritto» medesimo. Perché non si fa causa alla Repubblica e chi la fa lo fa solo per «ridurre al silenzio la stampa libera» (libera da chi?) e per «anestetizzare l’opinione pubblica». Dabbenaggini, ancorché dotte, ancorché di penna dei Tre Giuristi, che probabilmente e salvo Celentano i firmaioli nemmeno hanno letto. I firmaioli, e questo da sempre, firmano senza indugio quel che c’è da firmare e alé (quanti di coloro che sottoscrissero l’appello contro Calabresi dissero poi, molto poi, di non aver capito, di non aver interpretato bene, d’esser allora giovani e quindi bamba?). Quel che lì per lì a loro importa è partecipare al rito collettivo, una sorta di onanismo ideologico di gruppo, probabilmente liberatorio, chissà. In quanto a noi, tocca aspettare fino a domani per sapere se ha firmato anche Pupo. Stiamo sulle spine. (il Giornale)

giovedì 27 agosto 2009

Berlusconi: Ghedini, brani libro Latella privi di fondamento.


Roma, 27 ago. (Adnkronos) - ''Alcuni brani di un libro di Maria Latella, apparsi quest'oggi sul sito di Repubblica e ripresi da molti quotidiani esteri, sono destituiti di ogni fondamento, totalmente inveritieri, scollegati da ogni fatto reale e frutto di valutazioni basate su erronee informazioni. Si diffida percio' chiunque dal riprendere o diffondere tali notizie''. Lo sottolinea in una nota Niccolo' Ghedini (Pdl), avvocato del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
"A tutto cio' -continua Ghedini- si aggiunga l' intervista a Tinto Brass le cui domande e risposte appaiono palesemente diffamatorie e per cui saranno esperite le azioni giudiziarie piu' opportune. Ancora una volta - conclude- si cerca con il gossip, nella totale carenza di serie argomentazioni politiche, di screditare, ancorche' senza successo visto il gradimento dell'elettorato, il presidente Berlusconi".

mercoledì 26 agosto 2009

Dieci (o quasi) domande a Fini. Maria Neve di Sommojano

Avrei voluto intitolare questo pezzo “dieci domande a Gianfranco Fini”. Non so perché, mi piaceva, mi sembrava originale. Poi però mi sono accorto che non arrivavo a fare proprio dieci domande, ma solo qualcuna. Allora ho pensato di lasciar decidere il titolo agli amici de L’Occidentale.

Comunque le domande sarebbero: se un leader del centrodestra finisce per riscuotere ovazioni solo tra la gente del centrosinistra, cosa vuol dire? Se un leader del centrodestra viene accolto come il salvatore della patria alla festa del PD, cosa vuol dire? Se quelli del sinodo valdese dicono che prima invitavano Violante e adesso Fini, cosa vuol dire? Se uno fa il Presidente della Camera, deve per forza di cose dar contro alla maggioranza che lo ha eletto? Vero che una posizione istituzionale ha le sue esigenze di imparzialità, però questo equivale necessariamente, programmaticamente, a mettersi di traverso al Governo? Nessuno pretende ormai da Fini che egli dica cose “di destra”, ma perché – se è neutrale – deve dire cose “di sinistra”? E poi, perché mettersi a ripetere le banalità del politically correct, tipo “i nostri emigrati di un tempo sono come gli immigrati di oggi”? Come se i poveri minatori italiani morti a Marcinelle fossero paragonabili a certi tangheri che vengono da noi a sfruttare la prostituzione minorile.

Insomma, io non ho capito bene: se Fini aspira a prendere la successione di Berlusconi, perché non fa chiaramente politica dentro al pdl? Proprio lui che ha traghettato un partito dal ghetto al Governo dovrebbe sapere che in politica ci si muove “armi e bagagli” e con una certa lentezza, perché si tratta di portarsi dietro la propria gente, che è lenta a capire le evoluzioni della politica e restia a seguirle. Invece tutti questi strappi… Dice che dietro c’è una precisa strategia: puntare al Quirinale.

Ma anche qui non capisco e faccio due domande. Se al momento buono (più lontano possibile, per carità, perché io Napolitano me lo terrei stretto stretto) c’è ancora una maggioranza pdl che lui ha fatto in buona parte incazzare, spera davvero che lo voterebbero contenti? E invece, se ci fosse una maggioranza diversa (tipo D’Alema-Casini, con un trionfante sistema elettorale alla tedesca), perché dovrebbero mandare al Colle quello che resta pur sempre un avversario storico?

Insomma, proprio non capisco. Qualcuno può illuminarmi? (l'Occidentale)

Che ridere la sinistra anti dittatori. Mario Cervi

Esiste, per gli italiani e per il governo italiano, un problema Gheddafi. Giusto affrontarlo, senza reticenze, nelle sedi politiche e nelle sedi giornalistiche. Purtroppo la polemica ha subito preso una brutta piega. In ossequio a una strategia - si fa per dire - tutta fondata sull’attacco a Berlusconi, l’opposizione gli rimprovera la grave colpa d’intrattenere relazioni cordiali con il colonnello libico.
Con un disinvolto «salto della quaglia» - per usare il linguaggio togliattiano - la sinistra italiana diventa paladina della più intransigente moralità internazionale: ossia d’una politica estera e d’una diplomazia che, trascurando esigenze di buon vicinato e rapporti economici di grande rilievo, siano improntate al rifiuto d’ogni contatto con gli «uomini forti».
Possiamo capire queste impennate puriste se vengono dai radicali, che in proposito hanno una tradizione nobile, e che sempre hanno anteposto l’ideale astratto - diciamo pure l’utopia - al doveroso pragmatismo di chi voglia reggere saggiamente le sorti d’un Paese. Ma quando la lezione sulle frequentazioni lecite e su quelle illecite arriva dai pulpiti della sinistra, diventa difficile trattenere l’ilarità, o l’indignazione.
Se la sono presa, da quelle parti, con i pochi dittatori di destra - Franco, Salazar, i colonnelli greci, Pinochet - ma con la numerosissima schiera delle dittature colorate di marxismo è stato ed è tutto un idillio. Da Stalin al tuttora vivente benché poco operante Fidel Castro, non c’è stato leader «rosso» che non sia stato gratificato di elogi sperticati. Un feroce despota come l’etiope Menghistu ebbe apprezzamenti. Durante gli anni in cui la Libia figurava - in prima fila - tra gli «Stati canaglia», la sinistra non si stancava di rievocare atrocità vere e presunte del colonialismo italiano. Fu perfino coniata - per legittimare questi servilismi - la distinzione tra democrazia formale e democrazia sostanziale. La prima vivacchiante in Occidente, la seconda fiorente a Est o nei Paesi africani di nuova indipendenza. Poi s’è visto chi avesse ragione. Adesso nel parterre ideologico che ammirò Ceausescu e Honecker si grida allo scandalo per Gheddafi. «Ma mi faccia il piacere» diceva Totò.
Ci sono molte buone ragioni per non tenere in nessun conto l’ipocrisia di questi sacerdoti della democrazia da nessuno consacrati. E ce ne sono moltissime a conforto della tesi di Berlusconi e dei suoi ministri: secondo cui i gesti d’amicizia verso il raís danno e daranno frutti copiosi in termini di lotta all’immigrazione, di cooperazione economica, di forniture energetiche. L’assicurarci petrolio e gas per i prossimi decenni può ben meritare, si osserva, l’invio delle Frecce Tricolori - molto richieste all’estero - per una esibizione davanti al Colonnello.
Tutto vero. Anche se Gheddafi, diciamolo con franchezza, non fa del suo meglio per agevolare il compito di chi lo ha in simpatia. Non lo fa nel frivolo, eccedendo in smargiassate teatrali; non lo fa nel molto serio, riservando accoglienze trionfali all’attentatore di Lockerbie che gli scozzesi hanno liberato. Berlusconi ha deciso, diversamente dal principe Andrea d’Inghilterra, che il programma già fissato - visita sua a Tripoli e Frecce Tricolori - debba essere onorato. La decisione gli spettava, e l’ha presa secondo coscienza. Ha chiuso, speriamo per sempre, un contenzioso che si trascinava da oltre mezzo secolo, e che i governi di sinistra non sono mai stati capaci di risolvere (e mai hanno pensato di rompere le relazioni con Gheddafi al tempo delle sue minacce antioccidentali, si accorgono di quanto sia infido solo dopo che si è convertito). Gheddafi non è né un campione di democrazia né un campione di simpatia, ma nessuno avrebbe ringraziato Berlusconi se, facendo oggi la faccia feroce, avesse domani lasciato gli italiani senza risorse energetiche. Posso a questo punto esprimere la mia perplessità per l’affermazione di Renato Farina secondo il quale, avendo l’Italia la democrazia ma anche l’aborto, avendo la Libia la dittatura ma non l’aborto, è pari e patta? (il Giornale)

martedì 25 agosto 2009

La forza micidiale del Cav.

Altro che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto del '94. Il duo Maurizio Belpietro (Libero) e Vittorio Feltri (Il Giornale) è una potenza di fuoco che il Cavaliere ha messo in piedi in questa torrida estate per sbaragliare i cosiddetti poteri forti. Primo la famiglia Agnelli, proprio quella di un certo Luca Cordero di Montezemolo che spesso viene indicato come possibile premier di un governo di salute pubblica o bipartisan. Libero ha pubblicato una serie di esclusive che hanno sgonfiato le ruote al Lingotto, tanto che non si sa più chi sia il vero padrone della principale azienda privata italiana.

Seconda bomba. Affidata al bergamasco Feltri, neo-direttore de Il Giornale, che ha messo nel mirino l'Ingegnere per i suoi presunti rapporti con l'Unione Sovietica, tanto da ricevere i complimenti del Presidente emerito Francesco Cossiga. Un uno-due micidiale per mettere al tappeto quei poteri che possono minare Palazzo Chigi. Altro che congresso del Pd... i pericoli per il Cav arrivano da altri fronti. Silvio lo ha capito e ha schierato l'artiglieria pesante...(Affaritaliani.it)

lunedì 24 agosto 2009

Nuova prudenza alla procura di Torino. Davide Giacalone

Secondo la procura di Torino, circa il miliardo e più di soldi che Gianni Agnelli sembrerebbe avere accumulato all’estero, “non si è a conoscenza di ipotesi o elementi di reato”. Il che segna un grande salto, di cultura e prassi, per un ambiente giudiziario fortemente influenzato da uomini e caratteri forti, come quello di Marcello Maddalena, autore di un non dimenticato libro, “Meno grazia più giustizia”, nel quale si tessevano le commosse lodi della galera preventiva, intesa come sistema per sollecitare le confessioni, si descriveva il pubblico ministero come “unico portatore dell’interesse dello stato (…) a vedere scoperti e puniti gli autori dei reati”, e si guarda con tenerezza ai processi in piazza, fatti dalla “gente”, convinta che l’accusato sia effettivamente colpevole, o come quello di Raffaele Guariniello, che si è eletto a vigile guardiano nazionale della sofisticazione e della frode sportiva. Sicché vederli oggi, attestati a difesa della necessità che ci si vada con i piedi di piombo, prima di mettere nei guai un cittadino, chiunque egli sia (spero), desta un certo compiacimento. Ben arrivati.
Gliecché, però, un dubbio ci assale. L’ipotesi che qualcuno stesse facendo sparire una somma gigantesca non è stata formulata da un pubblico ministero, o da un agente del fisco, o da un vicino invidioso, bensì da un legittimo erede, l’unico figlio vivente di colui che ebbe quelle somme nella propria disponibilità. E, stando a quanto abbiamo letto in questi mesi, i curatori fiduciari di quell’esecuzione testamentaria hanno sempre risposto non che la supposizione sia folle, bensì di avere agito secondo le istruzioni ricevute. Ora, pur considerato che si tratta di gente ricca, che, pertanto, l’entità delle cifre deve essere parametrata alla consuetudine nel maneggiare somme considerevoli, resta il fatto che più di un miliardo di euro non si accumula grazie a qualche prestazione professionale non fiscalizzata, o in virtù di qualche generosa liberalità. E visto che il soggetto accumulante aveva cariche di vertice in una società quotata, il minimo della fantasia accusatoria suggerisce diversi reati, relativi alla trasparenza del bilancio ed alla regolarità dei rapporti con il mercato. Maneggiando quel tir di denaro, inoltre, si fa fatica a parcheggiarlo senza dare nell’occhio, spendendo il necessario per qualche umano vizio ed accumulando il resto per i posteri (ma non per gli eredi, la qual cosa, già di suo, sollecita qualche sospetto).
Diciamo che, in altre circostanze, con altri soggetti e con altri poteri la procura avrebbe fatto sapere all’universo mondo di avere, nel più sereno e pacifico dei casi, “acceso un faro”. Più probabilmente avrebbe chiesto lumi, già abbagliata dall’evidenza che i conti non tornano.
Naturalmente può ben darsi che sia tutto a posto e che l’amministrazione aziendale non abbia alcunché da rimproverarsi. Ne saremmo felici. Però, in questo caso, si dovrebbe presentare il conto all’erede esoso ed azzardoso, che con le affermazioni fatte ha lasciato intendere che potevano essere state sottratte ingenti ricchezze ad una società quotata in Borsa e utilizzati per fini d’arricchimento illecito gli aiuti di Stato (quindi con i soldi dei cittadini) forniti ad una nota impresa.
A ben vedere, pertanto, qualche “ipotesi” e qualche “elemento” su cui ragionare non mancano. Magari manca l’entusiasmo popolare che tanto giovò all’umore di certi procuratori, ma troveranno ugualmente la forza, ed il senso del dovere, per pensarci.

Le falsità dei moralisti da pantano. Vittorio Feltri

Addirittura due pezzi in prima pagina su altrettanti quotidiani, la Repubblica e il Manifesto, dedicati alla mia trascurabile persona colpevole di essere tornata alla direzione del Giornale che ha un difetto imperdonabile: appartiene alla famiglia Berlusconi. Il noto moralista dell’ultima ora, Giuseppe D’Avanzo, sul quotidiano di San Carlo De Benedetti sfodera nell’occasione una figura retorica per lui nuova: l’ironia. Dimenticandosi che questa è un’arma pericolosa se maneggiata senza perizia; può uccidere chi la usa e non chi dovrebbe esserne colpito. Il lettore frettoloso, come la maggioranza dei lettori, bevendosi la prosa di D’Avanzo non capisce se è di fronte a un paradosso, cioè a una verità acrobatica, o a qualcosa da prendersi alla lettera. Intendiamoci, lungi da me il desiderio di criticare lo stile dell’insigne editorialista: semmai voglio segnalare che il mio censore, nell’impegno del suo esercizio, perde di vista la realtà e mi attribuisce concetti mai espressi nel fondo d’esordio. Un esempio.

Nel riportare una mia frase allo scopo di sottolineare quanto sono cretino, sbaglia. O imbroglia?

Io avevo battuto: «Fosse dimostrato che l’Avvocato Agnelli non era quel gran signore lodato, imitato, indicato da tutti quale modello, ma un furfante...». D’Avanzo invece modifica e virgoletta: «Questo furfante di un Agnelli, scrive Feltri, ha sottratto soldi al fisco...».

Vi sembra un modo corretto di polemizzare o non piuttosto la manipolazione di un testo, la distorsione del pensiero altrui a fini speculativi?

Un altro punto prova la malafede dell’articolista progressista.

Nel mio pezzo osservavo: non è giusto condannare un personaggio prima della sentenza. Peccato che mentre per Agnelli questo principio è stato rispettato, per Berlusconi no. Ebbene, secondo D’Avanzo, Feltri «decide di liberarsi di quell’inutile fardello che è il garantismo, favola buona soltanto per il Capo e gli amici del Capo, e picchia duro, durissimo» (su Agnelli). Esattamente il contrario di quanto ho affermato.

È incredibile come la Repubblica pur di attaccare un avversario arrivi a stravolgerne completamente le idee, falsificando con spudoratezza perfino le sue parole stampate. Come si fa ad aver fiducia di giornali così? Tra l’altro, per criticare me non c’è bisogno di inventare, caro D’Avanzo; non occorre spremersi la fantasia, basta un po’ di intelligenza. Coraggio, puoi farcela anche tu. Ma non devi più elencare tutte le presunte malefatte di Berlusconi; non serve perché da quindici anni voi non parlate d’altro e la giustizia milanese non fa che organizzare in proposito inchieste e processi dall’esito nullo. Già, nullo. E non dire che ciò è dipeso e dipende dal lodo Alfano, in vigore da un anno soltanto.

Quanto alle presunte menzogne del Cavaliere, finché riguardano corna e similari non ne tengo conto: non ho i titoli né la fedina sessuale adatta per impancarmi a giudice. Lascio a te, che sei puro come un giglio, questo compito.

E veniamo al Manifesto. Che ieri ha pubblicato un corsivo dal titolo: «Feltri, a Papi serve l’Avvocato», nel quale fra una spiritosaggine e un’altra, difende come si conviene a un giornale comunista la memoria offesa del capitalista Gianni Agnelli. Il pezzo si conclude con una trovata geniale: «... prendersela col padrone morto per salvare l’utilizzatore finale vivo. Ma senza megafono, mi raccomando».

Manca un particolare: il padrone è morto, ma i suoi soldi sono vivi e gli eredi si scannano per intascarli, fisco permettendo.

Per concludere, una carezza, anzi due, a Travaglio che firma per la trecentesima volta lo stesso articolo su di me. Lo sfido a pescare nella mia non esigua produzione giornalistica una frase con la quale abbia chiesto scusa a Di Pietro.

Seconda carezza. Se è vero che la questione fiscale relativa al patrimonio dell’Avvocato è già stata appianata a metà degli anni Novanta, perché Margherita Agnelli l’ha scoperta solo adesso? E perché l’Agenzia delle entrate se ne interessa tanto?

Chiedo scusa ai lettori per aver inflitto loro questo pistolotto, ma è bene si sappia che il Giornale non è uno zerbino per le scarpe sporche di chi cammina nel pantano. (il Giornale)

martedì 4 agosto 2009

A Bologna la strage continua. Davide Giacalone

Potremmo fissare al 2 agosto la ricorrenza nazionale della guerra civile, con annessi festeggiamenti dell’ottusità e della faziosità. Ogni anno, quel giorno, si corrompe la storia e si ripete lo stanco rito dello scontro fra fantocci, che s’immaginano protagonisti e sono, invece, comparse secondarie. L’anno prossimo saranno trent’anni, da quando una bomba fece strage di vite innocenti, mietendo 85 morti alla stazione di Bologna. Da allora ad oggi non s’è fatto un solo passo in avanti.
La vicenda giudiziaria è chiusa, condannando all’ergastolo i fascisti che posizionarono la bomba. Ma la sentenza non regge. Somiglia ad un atto notarile, che assevera la pista nera, fin da subito indicata come l’unica politicamente digeribile. Con una doppia ingiustizia: i condannati sono colpevoli di altri, gravissimi, reati, ma non di questo; in compenso sono liberi, dopo avere scontato una pena che, all’evidenza, non è quel che nel vocabolario si chiama ergastolo. E dato che la sentenza è sbilenca, al punto da mancare del movente, la mitologia vuole che la strage sia fascista ed i mandanti occulti, vale a dire annidati nello Stato e nei servizi segreti, manco a dirlo “deviati”.
Così, ogni anno, si monta il palco e si da fiato alla retorica del quasi nulla, ma sempre inscenando la commedia della guerra civile: un presunto popolo che invoca giustizia contro i fascisti, e presunte autorità che dovrebbero sentirsi in colpa perché ancora coprono l’orrenda trama che costò tante vite. Le autorità sono presunte, e fasulle, perché se fossero realmente tali riuscirebbero a capire che trenta anni dopo, se si vuol fare qualche cosa di utile, non si aspetta il 2 di agosto, ma si aprono gli archivi. Se, come penso, non si possono aprire, giacché quello fu uno degli episodi che stanno dentro la storia della guerra fredda, ed anche del doppiogiochismo italico, ugualmente non si aspetta il 2 agosto, si parla prima e dopo, ma si tace il giorno della commemorazione.
Anche il popolo, però, non scherza, in quanto a passione per la realtà taroccata. Oggi tengono banco le proteste per il ritorno in libertà dei condannati, ma che senso ha pensare che la memoria dei morti sia maggiormente rispettata se in galera rimangono quelli che non c’entrano ed a spasso restano quelli che li hanno ammazzati? Non solo i parenti delle vittime, ma la società civile tutta dovrebbe reclamare un verdetto che somigli un po’ di più alla verità, non incaponirsi a ritenere sacra una falsità. Certo, è giusto pure reclamare la certezza della pena, ma, anche qui, vale la pena osservare che ai due assassini fascisti è stato riservato un trattamento rigoroso sconosciuto nel caso di altri appartenenti a bande armate, che “pentendosi” hanno ripreso in fretta la vita da liberi. E sconosciuto ad altri carnefici, spesso protagonisti di storie brutali.
Fioravanti e Mambro se la sono meritata tutta, la galera che hanno fatto, ma la loro condotta processuale è stata lineare, il loro racconto non s’è deviato per cercare benefici. Le loro parole sono state convincenti, mentre è la coscienza collettiva a mostrarsi reticente. Maniacalmente appiccicata a verità di comodo.
Siccome la commedia si ripete sempre uguale, sorge il dubbio che i protagonisti ne godano, riaffermando ciascuno la propria identità. E’ doveroso, quindi, avvertire che tanto chi sale sul palco per non dire niente, quanto chi fischia senza avere niente in testa, compartecipano dell’insulto alla memoria. Sia quella collettiva, storica, che quella dei morti.

lunedì 3 agosto 2009

Per i fischi di Bologna non è Bondi a doversi vergognare. Carmelo Palma

I processi per la strage di Bologna si sono conclusi , tra i 15 e i 20 anni dopo, con una serie di sentenze che hanno ufficialmente suffragato una “verità ufficiale” non solo verosimile, ma in qualche modo obbligata.Quella di Bologna è stata infatti, fin da subito, una due-punti-aperte-le-virgolette “strage fascista, coperta da apparati deviati dello Stato e ordinata da una centrale politica interessata alla destabilizzazione del paese, per sbarrare il passo al PCI”. Lo è stata in modo così certo e storicamente consolidato che ha finito per esigere conferme giudiziarie, ben prima di trovarne, e di dettare i tempi, i modi e le parole d’ordine di quella retorica della memoria che nel nostro paese ha spesso sostituito la memoria, così come la propaganda storica ha finito col sostituire la storia.

Ciò non significa ovviamente che nella ricostruzione dell’Associazione dei parenti delle vittime e dei partiti della sinistra non vi fossero elementi di verità; né si può negare che una interpretazione “nazionale” della strage appare, ancora oggi, più plausibile di quella “internazionale” che qualcuno ha voluto suggerire. Eppure, queste tesi non costituiscono, necessariamente, “tutta la verità” per il solo fatto di essere sostenute da quanti serbano personalmente e testimoniano politicamente la memoria della strage.

Santificare un esito processuale che complessivamente condanna esecutori e depistatori, ma tiene nell’ombra i mandanti può essere molto comodo per descrivere ogni sorta di scenario complottistico, ma non molto utile quando si vuole rileggere criticamente la storia di un paese e il suo, certamente torbido, passato. Su questi come su molti altri processi chiamati impropriamente a confermare o a smentire una verità politica, i dubbi, per così dire, si sprecano: almeno agli occhi di chi ritiene che un processo non sia la sede in cui si stabilisce la “verità” su di un fatto, ma si verifica semplicemente se le prove raccolte contro gli imputati ne giustifichino la condanna oltre ogni ragionevole dubbio.

Non sono pochi infatti ad avere ritenuto quantomeno controversa la sentenza che ha condannato Giusva Fioravanti e Francesca Mambro come esecutori materiali, dopo un processo che porta il marchio di stile dei processi emergenziali. Non sono pochi ad avere pensato che Fioravanti e Mambro fossero più la dimostrazione di un teorema, che due imputati sottoposti ad un processo normale: colpevoli troppo “giusti” per essere assolti, ma anche troppo perfetti per essere veri.

D’altra parte la storia giudiziaria italiana, e non solo quella legata al terrorismo, è una lunga catena di cortocircuiti tra storia, politica e giustizia. Chi si è trovato a negare la fondatezza di una condanna per mafia emessa, o di interi processi per mafia istruiti per “pentito dire”, è stato giudicato un negazionista del fenomeno mafioso, se non un complice della mafia. Chi oggi volesse negare la plausibilità della condanna di Fioravanti e Mambro o, per altro verso, di Sofri, verrebbe considerato dalle “curve” nord e sud del giustizialismo politico italiano un negazionista delle responsabilità del terrorismo nero e rosso.

Non c’è dubbio che la strage di Bologna ha sfregiato una città, che se ne è sentita minacciata e attaccata anche nella sua identità politica. In questo quadro, è comprensibile che attorno alla memoria della strage, 29 anni dopo, ci sia ancora un tale concentrato di dolori personali, di rancori politici, di pregiudizi ideologici e di “opacità” istituzionali da rendere incandescente la sensibilità di chiunque vi si avvicini. Ed è anche comprensibile che la piazza continui a nutrire diffidenza e sospetto verso quanti, 30 anni fa, avevano responsabilità nelle politiche di ordine e sicurezza pubblica del paese.

Ma quanto è successo ieri a Bologna non c’entra niente con tutto questo. Trasformare la commemorazione della strage in un tiro al bersaglio contro il rappresentante del governo “nemico” significa solo lordare gli stessi nobili presupposti dell’indignazione morale. Agitare bellicosamente la memoria delle vittime contro il Ministro Bondi, zittirlo e denigrarlo, come se l’attuale esecutivo rappresentasse la continuità storica, politica e ideologica dei “carnefici” significa davvero usare i morti per dare addosso ai vivi, iscrivere abusivamente il corpo e la storia di persone morte quasi 30 anni fa nella lotta di resistenza contro il “nemico berlusconiano”, cioè contro un fenomeno politico che, comunque lo si voglia giudicare, non appartiene a quella fase della storia della Repubblica in cui erano maturati i presupposti e i protagonisti del terrorismo e dello stragismo.

La richiesta di accertare fino in fondo la verità sulla strage non può essere minacciosamente agitata – come una forma di implicita accusa – contro un ministro che nell’80 aveva vent’anni ed era comunista, e che partecipa oggi di un esecutivo composto da partiti e da una classe dirigente che nell’80 non si erano neppure affacciati alla vita politica. Soprattutto questa richiesta/accusa non può essere usata oltraggiosamente nei confronti dei ministri “berlusconiani”, dopo essere stata, ad esempio, graziosamente risparmiata a quanti negli anni in cui è maturata la strage e i depistaggi accertati dalla magistratura, e poi negli anni immediatamente successivi, hanno ricoperto i ruoli di vertice nel sistema della sicurezza nazionale, come i Ministri degli interni Rognoni (dal 1978 al 1983) e Scalfaro (dal 1983 al 1987): due che la stessa sinistra che ieri berciava ignobilmente contro Bondi, o ne giustificava ancora più ignobilmente il linciaggio morale, ha mandato l’uno al vertice del Csm e l’altro al Quirinale e che ha infilato nel proprio pantheon ideale per la loro – guarda un po’ – militanza anti-berlusconiana. (Libertiamo)