mercoledì 28 marzo 2012

Perché privatizzare la previdenza sociale? Marcello Mazzilli

“Dobbiamo ancora una volta di più considerare il tentativo di costruire una società libera una avventura intellettuale, un atto di valore.” (Friederich von Hayek)

Il sistema pensionistico privato si basa su un principio molto semplice. Come ne La cicala e la formica di Jean de La Fontane, chi più mette da parte “d’estate” più si ritrova “d’inverno”. Cioè, chi durante il periodo di lavoro destina una parte dei suoi redditi alla pensione, quando lo riterrà opportuno potrà andare in pensione e fruire del frutto dei suoi risparmi. Un sistema simile non richiederebbe né di essere spiegato né tanto meno di essere difeso.

Purtroppo, quando c’è di mezzo lo Stato, le cose non sono mai così semplici. Ancora una volta lo Stato si rivolge ai cittadini e dice “Dammi i tuoi soldi. Io so, meglio di te, come spenderli”. Come per la sanità i cittadini italiani sono costretti a dare una parte del proprio reddito allo Stato sperando poi, in vecchiaia, di avere indietro la “loro” pensione. Lo Stato però ancora una volta si dimostra inefficiente nel gestire i soldi del cittadino. Egli non solo utilizza questi soldi per altre spese, confondendo i risparmi dei lavoratori in un gran calderone previdenziale dove dentro troviamo pensioni di vecchiaia, pensioni di invalidità, cassa integrazione, ecc… ma tende discrezionalmente a privilegiare i suoi dipendenti, cioè i dipendenti pubblici. Categorie privilegiate come manager di Stato, parlamentari, magistrati ottengono condizioni impossibili per chiunque (un parlamentare ha diritto all’altissima pensione pubblica dopo una sola legislatura, cioè dopo mezza legislatura più un giorno). Questo può avvenire soltanto perché, ancora una volta, lo Stato non risponde a logiche di mercato e non deve rispondere ai singoli cittadini-risparmiatori ma “alla comunità”. Lo Stato che dovrebbe, semmai, limitarsi semplicemente a controllare i fondi assicurativi privati ponendo attenzione a ché rispettino i contratti con i loro clienti, ancora una volta vuole essere giocatore oltre che arbitro e quindi ancora una volta perde quella imparzialità che, almeno sulla carta, prima aveva.

Chi scrive ha avuto il piacere di conoscere ed intervistare José Piñera, responsabile di una vera e propria rivoluzione nel rapporto tra lo Stato e le pensioni dei cittadini. Il modello che Piñera ha introdotto in Cile nel 1980, in alternativa a quello pubblico tradizionale, oggi viene scelto dal 93% dei cileni ed è il modello a capitalizzazione personale. Ogni cittadino versa almeno il 10% dei suoi primi 25.000 $ di reddito. Se guadagna di più potrà scegliere se versare o no una quota aggiuntiva. Dopo 20 anni di versamenti può scegliere di andare in pensione. Ovviamente egli potrebbe continuare a lavorare per accumulare di più ma la decisione spetta al singolo individuo. Un lavoratore medio va in pensione dopo 35 anni di lavoro con circa il 78% del suo ultimo stipendio, più di quanto prendeva con la pensione statale (che pretendeva per questo “servizio” non il 10% ma il 25% del suo reddito). I fondi pensionistici vengono amministrati dai privati che non avendo la proprietà dei risparmi ma solo la titolarità ad amministrarli, non possono perdere i risparmi del lavoratore a seguito di un fallimento. Il lavoratore può invece cambiare amministratore ogni volta che lo desidera spostando la titolarità tra i 15 AFP (Amministratori di Fondi Pensione) accreditati. Il sistema di Piñera dopo oltre 25 anni di applicazione ha creato 25 miliardi di dollari di capitali che vengono reinvestiti dagli AFP sui mercati creando così ricchezza per il paese. Oggi viene copiato da tutto il Sud America, dalla Cina e persino la statalizzata Svezia ha cominciato ad applicarne, seppur parzialmente, i principi.

Allo stesso modo in Cile, ma anche in altri paesi più liberali, è possibile assicurarsi contro la disoccupazione. Da una parte, poiché la rata dell’assicurazione è più alta per i lavoratori più a rischio di disoccupazione, questo è un incentivo alla formazione continua del lavoratore (più un lavoratore è esperto e meno rischia di perdere il posto di lavoro o comunque più facilmente ne troverà un altro) e dall’altra questo trasforma le assicurazioni in veri e propri uffici di collocamento (poiché esse devono pagare ogni mese l’assegno di disoccupazione al lavoratore esse saranno incentivate a trovare in fretta un nuovo lavoro al loro assicurato).

Tutto questo avviene ovviamente senza alcun costo per la collettività. Ancora una volta invece qui da noi troviamo il monopolio statale (INPS) e solamente i ricchi (cioè coloro a cui, dopo aver pagato l’INPS, avanza qualcosa in tasca) possono usufruire di pensioni private. (the FrontPage)

sabato 17 marzo 2012

Viva ogm e globalizzazione. Davide Giacalone

Sono favorevole agli ogm, così come sono favorevole alla globalizzazione. E lo sono perché sono contrario a quanti pretendono di proteggere la natura senza conoscerla e di difendere la propria ricchezza condannando gli altri alla morte per fame. Ogm e globalizzazione sono il progresso, mentre chi li condanna è alfiere del regresso. Non sempre il progresso è positivo in sé, ed è questa la ragione per cui la ricerca scientifica e il mercato economico non devono divorziare dall’etica. Non sempre il sol dell’avvenire sorge sul bene, ma è sicuro che le tenebre dell’oscurantismo portano il male.

Il ministro dell’ambiente, Corrado Clini, s’è permesso di non chinare il capo innanzi alle frasi fatte e ai pensieri non pensati, scatenando reazioni a sproposito e la presa di distanza del ministro dell’agricoltura, Mario Catania. Cerchiamo di non distanziarci troppo dalla realtà, perdendoci nelle selve del dogma e del partito preso: sulle nostre tavole non arriva un solo prodotto agricolo che non sia geneticamente modificato. Tutto quello che mangiamo, e che beviamo (nel caso del vico come della birra) è frutto di un lungo lavoro di selezione e modifica. Quando camminiamo per terre non coltivate c’imbattiamo in mele o bacche che definiamo “selvatiche”, tentando di morderle e precipitare nell’estasi del “naturale”, salvo sputarle schifati. Le mele che mangiamo a tavola stanno alla natura quanto le labbra al botox e le tette al silicone. In tutti i casi aumenta la standardizzazione, spesso lascia a desiderare la soddisfazione. Le fragole, ad esempio, non sanno più di fragola, in compenso non occorre la primavera.

Anche il mio cane, orgogliosa rappresentante della natura, che sa essere solidale o feroce, è geneticamente modificato, tanto che porta il nome del suo creatore: Jack Russel. Che era un reverendo, ma non una divinità. E’ appena il caso di aggiungere che i prodotti del lavoro umano sono fragili, innanzi alla natura. Come sa chiunque abbia trascurato un orto o lasciato il cucciolo scorrazzare indisturbato, perché il primo si riempie di rovi e il secondo finisce sventrato da un cinghiale, o da un pastore maremmano.

Quindi evitiamo di dir fesserie circa la pretesa del “naturale”. Per ogm, però, s’intende un organismo modificato con ingegneria genetica, vale a dire non innestando una vite sull’altra, ma intervenendo direttamente nel dna. La gran differenza sta nei tempi: con l’ingegneria si fa prima. Non è mai stato dimostrato alcun danno alla salute umana. E’ dimostrato, invece, il giovamento, che si contabilizza in meno morti per fame. Già, perché questa coppia che disturba la quiete mentale dei viziati benestanti, vale a dire ogm e globalizzazione, ha salvato tanti derelitti dalla sicura fine. Al mio paese si festeggia, mentre nel borgo degli intellettuali che si ritengono tali perché scrissero una cartolina e lessero un telegramma, invece, s’atterrisce.

La tecnica ogm va tenuta sotto controllo, così come la globalizzazione non deve essere un trionfo orwelliano. Ma quanti lamentano l’invasione della chimica nella loro pretesa natura farebbero bene a ricordare l’utilità degli anticrittogamici, a constatare che la polvere bianca che il villico distribuisce sui pomodori non è forfora e che i lauri dei miei vasi diverrebbero ogni estate un ammasso gelatinoso e appiccicoso, se non li irrorassi con olio bianco, che è un derivato del petrolio. E non ditemi che, in natura, esisteva l’uso del greggio per la protezione dell’eden. O che dalla natura fossero stati radiati insetti e parassiti.

Il punto, dunque, è uno solo: posto che all’umanità fanno bene gli ogm, e posto che la globalizzazione diffonde il benessere, nella nostra agricoltura nazionale è conveniente inserirli? Molti sostengono di no, ed è ragionevolissimo che abbiano ragione. Ripeto: abbiamo già modificato quasi tutto, adattandolo a quel che ci serve. Ma la scelta la si lascia al mercato, salvo il dovere di informare. Il compito del legislatore è, in questo caso, consentire senza obbligare. Il compito del governante consiste nel non lasciare che la ricerca italiana perda colpi e mercato.

Il resto lasciamolo pure a quelli che comprano prodotti biologici, congratulandoci con il marketing di quanti sono riusciti a far credere che siano “naturali”.

mercoledì 14 marzo 2012

Pacificazione sbagliata. Davide Giacalone

Prima d’iniziare la sua avventura politica Silvio Berlusconi non aveva pendenze penali di pubblico rilievo. Dopo s’è scatenato l’inferno. Diciotto anni di guerra, condotta con molti colpi bassi, da una parte e dall’altra, è possibile si concludano in apparente equilibrio: il politico rinuncia a candidarsi verso più alte mete e la macchina giudiziaria rinuncia a tentare di stritolarlo. Posto che quella che segue non è una riflessione sulle vicende giudiziarie di una persona, semmai sull’inesistente giustizia, mi pare opportuno avvertire che quel genere d’equilibrio ha un suo senso logico, ma è nemico del bene collettivo.

La sentenza della cassazione, che ha cancellato la condanna inflitta a Dell’Utri, segna un solco molto preciso, e positivo: non respinge una sentenza per difetti formali, ma respinge un metodo, un costume giudiziario, con parole nette sia contro magistrati che si sono dimenticati l’uguaglianza del cittadino davanti alla legge, sia contro giudici che hanno preteso di fare i legislatori, inventando un reato inesistente, vale a dire il concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Questo modo di procedere è corretto. Non hanno assolto Dell’Utri, hanno condannato il processo, hanno chiesto di farla finita con le aule di giustizia degradate ad arena in cui si sfidano opposte fazioni politiche, di mandare a casa procuratori e procure che si sentono incaricati di missioni politiche. I partigiani se ne devono andare, prima di tutto perché offendono la memoria dei Partigiani, quelli veri. Così andrebbe bene. Ma la domanda è: sarebbe stato possibile, se a Palazzo Chigi ci fosse ancora Berlusconi? Per rispondere affermativamente, con sicurezza, occorre essere dotati una qualità che ci manca: l’ipocrisia.

Ci sono le prove: la sentenza di secondo grado, più che giustamente cassata, già affermava che l’imputato era da considerarsi collaterale ai mafiosi fino a una certa data, ma da un bel giorno in poi non più, quel giorno coincideva con la nascita di una nuova formazione politica. Lessi la sentenza e pensai: questi hanno fatto politica, si sono regolati osservando varie stelle, ma non quelle del codice. Nel frattempo le procure combattenti provavano a dimostrare un’altra castroneria: la mafia mise le bombe per aiutare proprio quella nascente forza politica (Forza Italia). Ci provarono incuranti delle date e della logica, per giunta continuando a insistere su una trattativa che, ove mai sia esistita, coinvolse Scalfaro, Ciampi e Conso. Eppure le armi continuavano a crepitare, né s’accennava ad alcuna tregua.

Nell’infuriare della battaglia Berlusconi adottò un comportamento che considero una colpa: non ritenne possibile cambiare la giustizia, per l’Italia e gli italiani, ma puntò a cambiare i verdetti che lo riguardavano. Da qui anni di polemiche mentecatte, con largo uso di latinorum per bifolchi. Quando ci provò, però, con l’ottima legge sulla non riprocessabilità degli assolti, la Corte costituzionale intervenne con detestabile cinismo e faziosità politica.

Riassumendo: le procure continuavano a partigianeggiare; i giustizialisti a brandire le forche mediatiche; il centro destra a far da scudo umano nei confronti del capo; e la cassazione non adottava, sui casi con peso politico, il coraggio della nitidezza, ora ritrovato. Morale: la giustizia di oggi fa più schifo di quella di venti anni fa, che già faceva schifo; i magistrati sono sempre di più una corporazione; i più giovani si sono dimenticati il diritto; Berlusconi resta senza condanne. Noi scontiamo per tutti.

Ed eccoci al nuovo equilibrio: i poteri che contano, a cominciare dal Quirinale, hanno suonato il gong di fine incontro. Le prescrizioni si riconoscono (poi si scrivono motivazioni buone per la condanna, ma tanto non servono), i processi vanno a velocità normale, quindi lentamente, la cassazione torna al ruolo che costò a Corrado Carnevale anni d’inquisizione, quindi bonifica lo zoticume insaccato nelle sentenze. All’orizzonte resta un dettaglio: la causa civile per il risarcimento nel caso Mondadori, con i 564 milioni che ballano. Ho visto che Carlo De Benedetti, peraltro con ottimi argomenti, è partito all’attacco sia del governo Monti che di Bersani, quindi del Pd che lo sostiene. Sono certo che lo fa per ragioni ideali, dando voce a quel che pensa, ma mi punge vaghezza che anche il quadro giudiziario gli suggerisca la necessità di smuovere le acque.

Se le cose stanno come descritte, però, nessuno parli di “pacificazione”, perché quello tratteggiato non è un equilibrio di civiltà, ma la resa all’inciviltà. La malagiustizia resta a tutti noi, e proprio non vedo perché dovremmo esserne contenti.

venerdì 9 marzo 2012

Beauty contest, la sinistra rispolvera l’antiberlusconismo per dimostrare che esiste. Lucia Bigozzi

Trame oscure, disegni infernali si nasconderebbero dietro il no di Alfano al vertice con Monti, Bersani e Casini su Rai e giustizia. Quali sono? A leggere le ricostruzioni del solito Fatto Quotidiano a caccia del Cav. anche quando non sta più a Palazzo Chigi o le congetture di certa sinistra malata di antiberlusconismo, il vero motivo del forfait pidiellino al tavolo di maggioranza sta in un dossier: il beauty contest. Con un timbro nero come il colore dell’onta stampato sopra: gli interessi di Mediaset e del Cav.

Il giornale di Travaglio e Padellaro parla di “vendetta” di B. “dopo la fumata nera tra Monti e Confalonieri”, con Alfano che un minuto dopo “fa saltare il vertice”. Nella ridda di polemiche che si levano da sinistra poteva mancare l’affondo dell’antiberlusconiana d’antan, Rosy Bindi? Certo che no e infatti la ‘pasionaria’ democrat ci va giù col machete: “Il Pdl è un partito che non è più governabile perchè è nato su una persona e soprattutto intorno ai suoi problemi con la giustizia e sull'informazione. E non è governabile neanche da una persona perbene come Alfano che è a sovranità limitata su queste e altre questioni”. Segue la controffensiva pidiellina. Ma che cos’è il famigerato beauty contest, quello che si vorrebbe far passare come un regalo a Berlusconi e Mediaset?

E’ nient’altro che un concorso per l’assegnazione delle frequenze della tv digitale che premia i requisiti dei partecipanti invece della loro offerta. E che non sia un regalo lo dimostrano le regole scritte nero su bianco: servono impegno e investimenti. Lo stesso colosso di Sky dopo aver fatto il diavolo a quattro per entrarci, alla fine si è sfilato. Se fosse stato un cadeau, Sky ed altre aziende vi avrebbero partecipato e i concorrenti non sarebbero stati soltanto nove.

Il beauty contest è una procedura concordata con l’Unione europea e non certo cucita addosso a Mediaset, come si vorrebbe far credere. Si tratta a tutti gli effetti di un bando pubblico, approvato da tutte le commissioni possibili che si occupano della materia, dall’Agcom fino agli organismi europei. Il bando è stato indetto per chiudere una procedura di infrazione europea che dura da diversi anni per una presunta ‘chiusura’ del mercato televisivo italiano: è dunque un sistema per allargare il mercato.

Non nasce ora, bensì è la fase finale di una procedura avviata da molto tempo e lo dimostra il fatto che le aziende concorrenti hanno già compiuto gli investimenti necessari per partecipare al concorso. Un eventuale annullamento, dunque, oltre a porre problemi in termini di certezza del diritto perché configurerebbe un cambio delle regole in (avanzata) corsa da parte dello Stato, sarebbe esposto al rischio di immediati ricorsi con buone probabilità di vittoria. E contrariamente a quello che si tenta di propagandare, un problema del genere riguarderebbe in misura più significativa i concorrenti più piccoli che hanno dovuto investire per corrispondere agli standard richiesti, rispetto a grandi aziende come Rai e Mediaset, che già detengono frequenze e requisiti industriali di un certo livello. Non solo: va considerato il fatto che l’eventuale interruzione di un procedimento già in fase avanzata e oltretutto concordato con l’Ue proprio per chiudere una procedura d'infrazione, significherebbe mettere l’Italia nelle condizioni di subìre sanzioni in sede europea.

Nessun Paese europeo ha indetto un’asta per le frequenze tv. In Europa e negli Usa la digitalizzazione delle frequenze televisive si è svolta con l'assegnazione gratuita di frequenze agli operatori già esistenti e agli altri in grado di dimostrare i requisiti fissati dalla legge. Anche la Francia, ad esempio, ha fatto ricorso al beauty contest. E chi, per evidente strumentalizzazione sostiene il contrario e osteggia questa procedura, non dice il vero perché in realtà si tratta di gare per frequenze utilizzate per la telefonia mobile. E in Italia la gara per le frequenze per la telefonia mobile c’è già stata e ha fruttato 4 miliardi.

In sostanza, ovunque in Occidente si assegnano gratuitamente le frequenze tv e attraverso una gara economica quelle destinate alla telefonia mobile. E l'Italia si è fin qui mossa esattamente in conformità con questa linea.

Morale della favola: si parla tanto di difendere l’impresa italiana, ma se invece per ragioni ideologiche si pretendesse di far pagare le frequenze - ammesso che in tempi di digitale terrestre, che ha reso le stesse frequenze un bene assai meno limitato di prima, si trovi qualcuno disposta a pagarle - si danneggerebbero tutti i broadcaster italiani rispetto ai competitor stranieri, soprattutto quelli operanti nello stesso mercato europeo, che ce l'hanno gratis!

Non è finita qui. E’ stato detto che da un’asta per le frequenze tv si potrebbero ricavare molti miliardi di euro. Chi lo afferma o fa confusione, o non conosce la materia oppure vuole artatamente creare caos, perché usa come parametro i ricavi dell’asta delle frequenze telefoniche che, come abbiamo visto, non è la stessa cosa di quelle televisive. C'è, infatti, profonda differenza tra i due settori. Ovunque nel mondo le frequenze telefoniche si pagano fior di quattrini, mentre quelle televisive valgono molto meno. Il motivo è semplice. Le compagnie telefoniche vendono agli utenti consumatori semplicemente l’uso delle frequenze per comunicare: il contenuto della comunicazione ce lo mette chi parla al telefono. Le imprese televisive vendono, invece, un contenuto che esse stesse realizzano con alti costi e professionalità, e le frequenze sono semplicemente il mezzo attraverso il quale quel contenuto viene trasmesso. Insomma, nel “prodotto telefonia” la rete è tutto, nel “prodotto televisione” la rete è solo l'inizio.

Per rendersi conto di quanto siano paradossali e addirittura surreali i discorsi ascoltati nell'ultimo periodo, basti pensare che Repubblica, per lanciare la campagna contro il beauty contest, ha sostenuto che l'asta delle frequenze varrebbe 16 miliardi. Ma se l'intero business delle televisioni in Italia non supera i 9 miliardi! Quello delle telecomunicazioni, invece, si aggira sui 50 miliardi.

Detto in altri termini: l’asta ha un senso se sono in concorrenza i fornitori di rete, non i canali televisivi che sono fornitori di contenuto.

Se fosse indetta in luogo del beauty contest un'asta per l'assegnazione delle frequenze tv, è presumibile che andrebbe deserta. Altro che recuperare miliardi! L'unico risultato – come detto - sarebbe quello di danneggiare le imprese televisive italiane rispetto a quelle straniere che dispongono di frequenze gratuite.

Infine, tanto per la cronaca: il dividendo digitale da riassegnare con il beauty contest è stato ottenuto proprio in virtù della rinuncia da parte di Rai, Mediaset e Telecom a una delle frequenze storiche che erano state regolarmente pagate.

Dove stanno le oscure trame e i disegni infernali di quel diavolo di un Cav? (l'Occidentale)

Il calo dello spread non guarisce tutti i mali dei Btp. Renato Brunetta

L'articolo è molto tecnico, ma vale la pena di essere letto

Passata o quasi la bufera degli spread abbiamo il dovere di spiegare quello che è successo, perché è successo, quanto ci è costato e a che punto siamo verso la completa guarigione dalla febbre che ha colpito l’Europa e in particolare l’Italia.

La prima puntata aveva chiarito in modo inequivoco che per tutti i Paesi europei la bufera sui titoli di Stato ha avuto origine nello stesso arco temporale e ha avuto la stessa intensità; lo spread, come indicatore, prescinde dai fondamentali delle singole economie nazionali e le misure nazionali di politica economica influenzano relativamente poco le aspettative degli investitori mentre rilevano credibili strategie di lungo periodo. La bufera del 2011 ha generato oneri per lo Stato italiano maggiori rispetto al 2010 per un importo pari a circa 5 miliardi di euro, per un periodo medio di 6-7 anni. Una cifra certamente ragguardevole, ma del tutto sostenibile.

Se questi sono i dati fattuali, perché si è drammatizzato tanto sulla crisi? Cerchiamo di capire meglio quel che è realmente successo.

Innanzitutto, per favore, non parliamo più di spread! Per due motivi:

1. Lo spread, in quanto differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato italiani rispetto agli equivalenti titoli tedeschi, è un metro elastico che, evidentemente, incorpora le oscillazioni di entrambi. Ne deriva che lo spread non aumenta solo se sale il rendimento dei nostri titoli di Stato ma anche se il rendimento dei nostri titoli rimane stabile e contestualmente scende quello dei Bund tedeschi. Circostanza, questa, che si è manifestata più volte negli ultimi mesi. Il Bund tedesco, infatti, è generalmente considerato un “bene rifugio” da molti investitori che, nel pieno della crisi che ha travolto la Grecia, hanno optato per vendere i titoli di Stato posseduti (greci, irlandesi ma anche di tutte le altre nazionalità) per comprare titoli tedeschi, considerati più sicuri. Questa dinamica ha comportato un aumento delle quantità di Bund richieste, con conseguente aumento del prezzo e riduzione del rendimento. Vi fareste mai misurare una casa con un metro non rigido ma flessibile?

2. Lo spread si forma sul mercato secondario, dove vengono scambiati esclusivamente titoli già in circolazione. Non è questo, quindi, il “luogo” dove avvengono le emissioni di titoli di Stato del Tesoro, le quali, in ragione di quantità emesse, prezzi e rendimenti, vanno a determinare il servizio del debito, quindi l’effettivo costo per lo Stato. Al più, l’andamento degli scambi sul mercato secondario, nonché i relativi prezzi e rendimenti che si formano con riferimento ai titoli ivi scambiati, influenzano – si badi bene, insieme ad altri fattori, di natura prevalentemente macroeconomica – i prezzi e rendimenti dei titoli emessi dal Tesoro tramite il meccanismo dell’asta.

Un esempio: il famoso 9 novembre 2011, quando lo spread calcolato sui BTP a 10 anni ha raggiunto il suo massimo a quota 553, il Tesoro non ha emesso alcun titolo di Stato. Tra l’altro, sul mercato secondario, nei giorni di maggiore tensione dello spread gli operatori hanno evitato di fare contratti in piattaforme trasparenti ma si sono buttati in attività opache e non controllate, quali quelle “over the counter”.

Nella successiva asta, tenutasi il 29 novembre 2011, sono stati emessi BTP per 2,75 miliardi di euro a un rendimento del 7,56%, per un costo totale per lo Stato di 207,9 milioni di euro per 10 anni (si noti che l’ultima asta effettuata dal Tesoro, quella del 28 febbraio 2012, nell’ambito della quale sono stati emessi 3,75 miliardi di BTP a 10 anni a un rendimento del 5,50%, ha avuto un costo per lo Stato molto simile: 206,25 milioni di euro per 10 anni).

D’altra parte, ce l’aveva detto la Banca d’Italia nel “Rapporto sulla stabilità finanziaria” del 2 novembre 2011: “I tassi sono in aumento ma l’impatto sulla spesa per interessi è contenuto (…) Lo spread BTP-Bund, comunemente utilizzato come misura di tale premio, ha oltrepassato in più occasioni i 400 punti base. Questo indicatore tende tuttavia a sovrastimare l’effetto delle tensioni sui tassi all’emissione, in quanto risente del valore eccezionalmente ridotto dei tassi sui Bund, influenzati dalla preferenza degli investitori per attività a basso rischio”. La Banca d’Italia aveva condotto due stress test sul debito pubblico italiano ed era emerso che questo sarebbe rimasto sostenibile e sostanzialmente stabile, o in leggero calo, nei prossimi 2 anni anche se i tassi di interesse sui titoli di Stato fossero arrivati all’8% e la crescita fosse stata uguale a zero. Un fulmine a ciel sereno, una buona notizia nella tempesta che non abbiamo considerato abbastanza.

Andiamo a guardare l’andamento delle aste dei BTP a 10 anni nel 2011: nella prima parte dell’anno, fino all’asta di luglio, i rendimenti si sono mantenuti in linea con i precedenti periodi. Il rendimento medio ponderato dei BTP a 10 anni emessi da agosto fino a fine anno, invece, si è attestato al 6,04%. Ad onor di verità, e a sollievo dei conti dello Stato, occorre far notare che nella prima parte dell’anno 2011, a un livello di rendimento più contenuto, è stata emessa la maggior quantità di BTP a 10 anni: 26,5 miliardi su un totale dell’anno pari a 41 miliardi.

Dall’analisi storica dei rendimenti dei BTP a 10 anni emessi dal 1999, anno delle prime aste in euro, ad oggi, è emerso che storicamente sono virtuosi rendimenti al 3,5%-4%; sono accettabili, ma dimostrano nervosismo, rendimenti tra il 4% e il 4,5%; sono preoccupanti rendimenti al 4,5%-5%; possono considerarsi “febbrili” e rappresentano un serio segnale di allerta rendimenti oltre il 5%.

L’asta di BTP a 10 anni del 28 febbraio 2012 ha registrato, come sopra descritto, un rendimento del 5,50%, quindi in fascia “febbrile”.

Un’ultima annotazione maliziosa: confrontando le ultime quattro aste del governo Berlusconi (agosto, settembre, ottobre e novembre 2011) con le prime quattro aste di BTP a 10 anni del governo Monti (dicembre 2011, gennaio, febbraio e marzo 2012) emerge un rendimento medio delle prime pari al 5,69% contro un rendimento delle seconde pari al 6,26%.

Dunque il calo degli spread, attorno a 300, cui assistiamo in questi giorni è certamente una buona notizia, ma non appare ancora sufficiente a riportare il rendimento dei nostri BTP a un livello accettabile, anche se siamo rientrati su un sentiero positivo.

Le determinanti, ancora una volta, sono tutte esogene (ma positive): nuovo prestito della BCE alle banche, con borse in rialzo e progressivo avviamento a soluzione della crisi greca. Dalle banche e dalla Grecia era iniziata la febbre, dalla soluzione del problema della liquidità, grazie ai prestiti generosi della BCE di Mario Draghi, e dall’allontanamento del default greco sta venendo la soluzione. La storia non si fa con i se, ma se sulla crisi greca e sulla conseguente crisi bancaria l’Europa fosse intervenuta per tempo e nelle giuste quantità e se, ancora, in Italia non ci fossimo fatti male da soli, con comportamenti irresponsabili e masochistici da parte dell’opposizione e dei media unicamente a fini di lotta politica (far cadere il governo), ci saremmo risparmiati questo inutile bagno di sangue sull’economia reale. Con buona pace di chi ha incolpato di tutto quanto è accaduto Berlusconi. Il tempo è galantuomo.(il Giornale)

giovedì 8 marzo 2012

Bondi: Pdl unico movimento politico ad aver avuto un cambiamento generazionale

Abbiamo una massa di problemi da affrontare, in uno spirito di riflessione (di scavo, di ricerca, di proposta, di comunione d’intenti, che è l’anima della buona politica).

Verso la politica c’è in questo momento il massimo di sfiducia, ma la politica resta indispensabile per costruire la vita in società secondo principi di democrazia e secondo ideali di libertà.

Come possiamo riacquistare la fiducia dei cittadini?

Io credo che potremo riconquistare la fiducia dicendo la verità, su noi stessi e sull’Italia.

Solo il linguaggio della verità può riavvicinare i cittadini alla politica e solo dicendo la verità su noi stessi e sull’Italia possiamo sperare di ricoprire ancora un ruolo positivo nella storia nel nostro Paese.

Dobbiamo essere capaci, come ci ha ricordato recentemente un illustre studioso, di una analisi approfondita della vicenda del nostro Paese, di una radiografia dei suoi problemi, dei suoi vizi e delle sue virtù.

Qual è il nostro giudizio sulla crisi che stiamo attraversando, sullo stato dell’Europa e infine sulla nostra identità, cioè sul tipo di società che vogliamo contribuire a realizzare?

Innanzitutto è necessaria una premessa: quella che chiamiamo crisi è in realtà un mutamento, una trasformazione a livello mondiale dell’economia e dei rapporti sociali, che comporta una ridefinizione del ruolo dello Stato.

Questa crisi, cioè questa trasformazione, mette in discussione tutte le nostre certezze e le conquiste sociali e civili che, soprattutto in Europa, sono state possibili grazie all’opera e all’incontro delle grandi tradizioni politiche: da quella socialista democratica a quello cattolico liberale.

Il dato più evidente è che questa crisi si accompagna all’impotenza della politica e di conseguenza alla sfiducia nella democrazia.

Questo dato è più lampante in Italia, ma si verifica in tutte le democrazie.

Oltretutto, il sistema democratico rivela un limite di fondo, e cioè quello di avere una vista corta.

Da tempo il sistema democratico mostra una grave carenza: quella di non saper prendere decisioni che tengano conto del futuro.La somma delle decisioni democratiche è fortemente condizionato dal presente, dagli interessi in conflitto che hanno una visione di breve respiro.

Da questo punto di vista, la questione del debito pubblico è emblematica, ma non è l’unica. Il tema delle pensioni, l’ambiente in cui viviamo, il mercato del lavoro, sono tutte questioni che in questi ultimi decenni sono stati affrontati scaricando sul futuro, sulle spalle dei giovani, i costi delle decisioni che accontentano, democraticamente, le corporazioni e gli interessi che si fanno valere nelle sedi democratiche.

La soluzione di un governo tecnico, cioè in pratica di una temporanea sospensione delle regole della democrazia, manifesta perciò un problema, quello delle decisioni che riguardano il futuro, che coinvolge tutte le democrazie, soprattutto in un tempo di crisi come questo.

In Italia questo problema è più acuto e drammatico che altrove, perché l’assemblearismo parlamentare e il coacervo di organismi di controllo giudiziario e amministrativo, hanno di fatto indebolito oltre ogni limite la forza decisionale della democrazia.

Il governo dei tecnici ha anche messo in evidenza una questione sulla quale da tempo aveva riflettuto un imprenditore come Adriano Olivetti, e cioè la competenza che i politici devono possedere e la separazione fra la sfera dei partiti e quella delle istituzioni.

Oltretutto (al riguardo apro solo una breve parentesi) il federalismo che in questi anni abbiamo cercato di realizzare, rischia non di rafforzare il sistema di governo ma di dare il colpo di grazia all’unità nazionale e alla residua efficienza dell’amministrazione centrale.

La formazione di un governo tecnico può essere considerato come il punto di arrivo di una crisi dell’intero sistema politico italiano, del bipolarismo militarizzato così come lo abbiamo sperimentato in Italia, e delle natura delle alleanze che si sono confrontate per la guida del governo.

Dopo la crisi del nostro governo, la sinistra non poteva rappresentare una alternativa, pur avendo probabilmente la maggioranza nel Paese.

Un’alleanza come quella presentata a Vasto, non sarebbe stata una vera maggioranza di governo, ma un cartello elettorale destinato a naufragare alla prima occasione e ad aggravare la crisi del Paese.

Bisogna riconoscere a Bersani di avere avuto la coscienza di questo handicap della sinistra: che poteva contrare e forse può ancora contare su una maggioranza elettorale ma che non sarebbe credibile come maggioranza di governo.

Per quanto riguarda la nostra coalizione il discorso è diverso.

La nostra esperienza di governo non ha un bilancio negativo, ma bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di superare le prove più difficili.

Perché?

Le cause non sono addebitabili solo agli altri. Abbiamo avuto anche noi delle responsabilità, ma si può dire, senza tema di essere smentiti, che anche la nostra alleanza aveva al proprio interno degli squilibri che hanno reso difficile il percorso del governo.

Il maggiore squilibro riguardava il ruolo e la natura della Lega, una forza politica che indubbiamente ha avuto una evoluzione positiva, grazie a Berlusconi, ma che mantiene dentro di sé degli elementi contraddittori.

L’attuale posizione della Lega conferma che la vocazione al governo e il compito di rappresentare gli interessi della parte più dinamica del nostro Paese, non è ancora un approdo stabile della Lega.

Purtroppo, un ulteriore elemento di squilibrio è stato rappresentato dal ruolo assunto da un ministero cruciale come quello dell’economia, che anziché contribuire ad una ulteriore evoluzione positiva della Lega ha finito per abbracciarne le posizioni, finanche in contraddizione con le posizioni più ragionevoli del proprio partito.

Questo è ormai il passato. Il presente è rappresentato dal governo Monti, la cui nascita ed i cui risultati fin qui positivi si devono in gran parte alla scelta lungimirante di Berlusconi e al leale sostegno assicurato in Parlamento dal Popolo della Libertà.

La decisione di sostenere il governo Monti, cioè di garantire gli interessi nazionali, è non solo giusta, ma con il tempo farà emergere pienamente il nostro profilo di forza politica nazionale, moderata e popolare.

Il governo non è una parentesi, ma un tempo da utilizzare non solo per gli interessi nazionali, ma al tempo stesso per valorizzare la nostra identità, i nostri programmi il nostro progetto di società.

La crisi determina scelte difficili, ma impone anche di estrinsecare la nostra visione della società.

La crisi economica, l’introduzione dell’euro, la globalizzazione hanno determinato fratture nella coesione sociale della società e riproposto questioni fondamentali riguardanti l’eguaglianza, la parità dei punti di partenza, la solidarietà versi i più deboli, l’atteggiamento verso gli immigrati, che costituiscono principi essenziali del nostro bagaglio culturale.

Da questo punto di vista, quello che accade negli Stati Uniti è emblematico.

Recentemente Obama ha posto delle questioni che valgono anche per noi.

L’ineguaglianza crescente distorce la democrazia, distrugge il senso di appartenenza ad una Nazione, ad una comunità che offre a tutti l’occasione per entrare nella classe media, di avere eguali chance di successo, di aspirare ai più alti traguardi.

Non è un caso che sempre di più, da Obama a Putin, da Hollande a Sarkozy, si sente un richiamo forte alla classe media, che può garantire la coesione della società e la tenuta della democrazia.

Il libero mercato è la più grande forza propulsiva del progresso economico nella storia umana, ma funziona soltanto quando ci sono regole precise per garantire che la competizione sia giusta, trasparente e corretta.

E soprattutto il libero mercato non significa il trionfo di una autentica democrazia se non diventa un sistema economico per mezzo del quale a ogni individuo viene garantita l’opportunità di mostrare le sue qualità migliori.

Durante questo tempo che è rappresentato dal governo Monti, possiamo anche riflettere, liberi dai condizionamenti della Lega, sul tema dell’immigrazione, senza ideologie e preconcetti.

Lo ripeto: la voce della Chiesa va ascoltata sempre, sia quando parla del valore della vita sia quando ci invita a considerare il problema dell’integrazione degli immigrati, a partire (senza alcun automatismo) da quei figli di immigrati nati in Italia e che frequentano le nostre scuole.

Anche questo è un modo di delineare la nostra vera identità, di forza politica moderata e popolare, appartenente a pieno titolo alla grande famiglia dei popolari europei.

Per concludere, siamo espressione di una grande storia. Grazie al Presidente Berlusconi abbiamo potuto essere protagonisti dei destini del nostro Paese.

Siamo cresciuti enormemente in questi anni.

Siano l’unico movimento politico in cui è avvenuto un cambiamento generazionale, del quale la nomina di Angelino Alfano è stata la conseguenza più importante e più feconda per il futuro.

E questo lo si deve al Presidente Berlusconi, l’unico leader politico che in questi anni ha reso possibile la formazione e la selezione di una nuova generazione competente e onesta in grado si assumere responsabilità di governo.

Sta a noi dimostrare che siamo ancora capaci di produrre idee, di testimoniare un impegno coerente al servizio del nostro Paese e dell’Europa.

sabato 3 marzo 2012

Droga in banca. Davide Giacalone

La Federal Reserve ha pompato dollari nel mercato statunitense, che si è ripreso e ora cresce. La Banca Centrale Europea pompa euro nel mercato continentale, ma questo arranca, sbuffa, s’accascia. La ripresa, prevista per la seconda metà dell’anno, sarà cosa debole e lenta. Al netto di tutte le altre, la grande differenza consiste nel fatto che i soldi americani sono finiti, per il tramite delle banche, a produttori e consumatori (difatti: le indebitate famiglie statunitensi hanno ripreso a indebitarsi, consumando), mentre i soldi europei finiscono, per il tramite delle banche, agli stati. Calano gli spread, certamente, ma si stringe il cappio cui stiamo impiccando il sistema produttivo.

La Bce ha sifonato 1000 miliardi nel corpo stracco di un’Europa aggredita dalla speculazione sui debiti sovrani. La seconda ondata è di 529 miliardi, di cui 139 finiti alle banche italiane. La Bce fa bene, e questa, fin qui, è l’unica risposta seria alla crisi che ancora rischia di travolgere sia l’euro che l’Unione. Ma non è sufficiente. Intanto perché tale scelta, tipicamente di politica economica, quindi di fonte normalmente governativa, è stata adottata fuori da ogni chiara volontà politica, delegandola ad una presunta sede tecnica. Vorrei ricordare che contro scelte di questo tipo si dimise il rappresentante tedesco nel board della Bce, e dal punto di vista formale aveva anche ragione. La Bce fa bene a produrre soldi, mascherandoli da prestiti alle banche, ma è una decisione impropria, presa nella sede sbagliata. Il che è rilevante sotto l’aspetto istituzionale. Poi c’è quello concreto, che è bene chiarire.

Le banche statunitensi ricevettero quattrini statali per portarli al mercato. Subirono critiche dure, dal governo, per averne trattenuto una parte per sé stesse, non cessando il cattivo costume di pagare a peso d’oro amministratori che s’erano dimostrati incapaci. Ma al mercato arrivò molto, e gli effetti si vedono. Le banche europee, invece, ricevono prestiti all’1% per poi investire quei soldi in acquisto di titoli del debito pubblico, che rendono tre o quattro punti in più, quindi per consegnarli agli stati. Quegli stessi titoli, poi, vengono messi a garanzia di emissioni obbligazionarie fatte dalle banche stesse, ad un tasso inferiore a quello applicato a chi chieda soldi in prestito. Il risultato è che 1000 miliardi escono dalla Bce e vanno in gran parte ai titoli del debito pubblico. La parte residuale finisce ai grandi gruppi, a quanti vengono tenuti in vita artificialmente, per non ammettere che i crediti nei loro confronti non sono esigibili e alle banche, sottopatrimonializzate. Al mercato produttivo solo teste e lische. Ecco perché quello statunitense ha inalato l’ossigeno, mentre il nostro boccheggia. E se ne trova dimostrazione anche in Borsa: mentre da loro a tirare sono i titoli dell’economia reale, da noi sono le banche. Nel bene e nel male.

Le banche sono potenti, ma non godono di gran popolarità. Colpisce che il governo abbia decretato dispiacendo le banche con una regolazione centralistica e dirigistica relativa alla pezzatura dei servizi, per giunta chiamando quest’operazione con un termine che significa l’opposto: liberalizzazione. Colpisce che le banche siano portate a ribellarsi su un punto, quindi, sul quale hanno ragione. Piuttosto che inseguire il consenso popolare con misure demagogiche sui conti correnti gratis (idea davvero singolare), varrebbe la pena usare Bancoposta, che è statale, per agevolare i piccoli correntisti, o la Cassa Depositi e Prestiti per il bisogno di fondi per l’innovazione. Se tutti i soldi vanno al debito pubblico il mercato implode.

La cosa incredibile è che si continuino a fare titoloni sugli spread. Come se fosse saggio esultare per la velocità con cui s’abbassa la febbre, tacendo d’avere ingurgitato sette taichipirine e d’essere in procinto di collassare. Non ci vuol molto a capire che gli spread scendono per forza se la Bce, anziché comprare direttamente titoli, quindi in modo necessariamente limitato, lo fa per il tramite della banche, potendo largheggiare. E ci vuol poco a capire che quegli stessi soldi non andranno a chi produce ricchezza, allargando e diffondendo il male che ci affligge, ovvero l’idea che la finanza possa sostituire l’industria. Che si possa campare di titoli, laddove non sono commestibili. Male che, oltretutto, arricchisce ogni giorno che ci punta la pistola alla testa.

Sarebbe questo il successo? Questa è droga. Ed è grave che ci si possa assuefare senza neanche avere avvertito il sovrano: il popolo.

venerdì 2 marzo 2012

La sinistra attonita e le due destre. Arturo Diaconale

C'è una svolta epocale in atto sulla scena politica nazionale. Per la prima volta nella storia del secondo dopoguerra, la sinistra scopre l'esistenza di una destra diversa da quella da sempre considerata ridicola e caricaturale e con cui aveva sempre rifiutato di confrontarsi per evidente senso di superiorità.

Ed incomincia a rendersi conto concretamente che il tempo dell'egemonia è finito da un pezzo e che ora non può più sfuggire in nome della propria arroganza intellettuale a misurarsi con le tante sfaccettature della realtà politica e sociale del paese. A compiere in maniera ufficiale questa scoperta è stato Nichi Vendola che ha accusato Walter Veltroni di essere entrato a far parte, per le sue posizioni sull'art.

18, della “destra colta e con il loden”. Ed è stato lo stesso Veltroni ad avallare la scoperta della nuova categoria della destra “colta e con il loden” negando sdegnosamente di essersi mai convertito a questa nuova categoria della politica italiana provvista non tanto di loden quanto di preparazione e cultura.

Fino ad ora per la sinistra esisteva solo la destra con il fez ed il manganello, quella degli affari loschi, quella dell'illegalità, quella dell'immoralità oltre, naturalmente, a quella della bandana di Silvio Berlusconi. Per i dirigenti della sinistra non contava un fico secco che questa destra dalle mille facce tutte negative potesse contare sulla maggioranza degli italiani.

Anzi, era la dimostrazione lampante che gli italiani andavano rieducati, convertiti, modificati in quanto portatore malati di una tara genetica risalente a qualche accidente lontano della storia del paese. Ora, invece, grazie a Vendola ed a Veltroni, che usano la nuova categoria per evidenti ragioni di lotta interna nella sinistra e nel Pd, la destra presentabile entra in campo.

E diventa il fatto nuovo con cui fare i conti. Nella testa dei Vendola, dei Veltroni e degli altri dirigenti, ovviamente, questa tipo inedito di destra è rappresentato da Mario Monti e dal suo governo. Che non può essere confusa con quella becera e gaglioffa del passato e che, proprio perché non rappresenta tutto il mondo variegato e maggioritario dei moderati ma solo la parte più illuminata e fatalmente ridotta, è destinata o a rientrare nei ranghi una volta finita la fase del governo tecnico o ad essere fagocitata da una sinistra che rimane sempre quella oltre la quale nessuno è legittimato ad occuparsi di politica.

La novità con cui la sinistra arrogante deve necessariamente confrontarsi è che la “destra colta ed in loden” si trova al governo del paese solo perché può contare sul sostegno determinante (anche se alle volte sofferto) della destra impresentabile. E, soprattutto, il dato oggettivo di cui deve necessariamente prendere atto che l'accordo tra destra colta ed in loden e destra sbracata e con la bandana ha impedito alla sinistra di andare ad elezioni che avrebbe sicuramente vinto.

E che la conseguenza principale di questo accordo è l'avvio di una serie di riforme, da quella già compiuta sulle pensioni a quella da realizzare sul lavoro, su cui le due destre camminano naturalmente all'unisono mettendo in fatale difficoltà la sinistra piena di tensioni ostili alle riforme in questione.

In tempi normali la reazione del gruppo dirigente del Pd a questa novità sarebbe stata l'immediata apertura della crisi di governo ed il ricorso alle elezioni anticipate. Ma si possono chiamare tempi normali quelli in cui l'intesa delle due destre è stata di fatto favorita del protagonismo presidenzialista di un Capo dello Stato di proveniente comunista come Giorgio Napolitano? E l'avvento al governo della destra in loden è stato salutato dalla sinistra come la ridiscesa in terra del Salvatore? Niente crisi ed elezioni anticipate, allora! Solo una progressiva e mesta presa d'atto della sinistra del proprio inarrestabile declino.(l'Opinione)

giovedì 1 marzo 2012

Recita e liberalizzazioni. Davide Giacalone

L’unica cosa veramente liberalizzata è la propaganda. Un decreto partito con molte previsioni dirigistiche e, in qualche caso, tendenti a maggiori centralizzazioni, è stato raccontato come fosse l’avvento del libero mercato. Un Parlamento acquiescente e poco capace di essere rappresentante dell’elettorato è stato dipinto come combattente al fianco delle lobbies. Siamo arrivati al punto che i rilievi del Quirinale non si dirigono più contro la disomogeneità dei decreti, ma contro gli emendamenti parlamentari. La stessa presenza dei gruppi di pressione è stata tradotta da naturale e legittima manifestazione della democrazia in una specie di suo stupro. Il tutto producendo un imbevibile frullato in cui non si distinguono più le questioni di metodo da quelle di merito.

Il metodo funziona così: il governo presenta un decreto legge (qualsiasi), ovviamente controfirmato da un presidente della Repubblica che non è chiamato a discuterne il contenuto e la costituzionalità, ma a vagliarne l’eventuale danno agli equilibri costituzionali (giacché il decreto è immediatamente vigente, anche in attesa della conversione); il Parlamento lo discute e, prima di farne una legge, quindi di convertirlo, può cambiarlo; un Parlamento che non discute e non emenda lo abbiamo già avuto, per venti anni, e non ne sentiamo alcuna nostalgia; nel corso dei lavori parlamentari i gruppi d’interesse cercano di farsi valere, come avviene in tutte le democrazie che siano tali, spettando al Parlamento accettare o meno i loro suggerimenti; il lobbismo sta alla corruzione come San Valentino alle orge sadomaso; il governo può accettare gli emendamenti oppure opporsi a quelli, apponendo il voto di fiducia; se perde quella partita se ne va, se la vince tira dritto.

Il merito funziona in modo diverso: fermo restando il rispetto delle leggi e delle procedure parlamentari, ciascuno può sostenere quello che gli pare, salvo il diritto degli altri di metterlo in minoranza; se una determinata opinione, o un determinato interesse, non può esprimersi o è considerato improponibile, se viene messo a tacere, vuol dire che è già morto il Parlamento; i lobbisti rappresentano quegli interessi, spiegandone le ragioni ai legislatori, in un sistema funzionante ci sono lobbisti opposti, che tirano in direzioni diverse, sicché accomunarli in un medesimo lavoro è semplicemente demenziale; il risultato è sottoposto al giudizio degli elettori.

Mischiare le cose e dire che una determinata cosa è sbagliata perché c’erano i lobbisti a sostenerla significa non sapere dove sta di casa la democrazia. Immaginare che i decreti non possano essere discussi, e chiamare “assalto alla diligenza” ogni emendamento, significa essere inconsapevoli epigoni di Churchill, il quale sosteneva: la democrazia è bella quando a governare siamo in due e l’altro è a casa malato.

Veniamo alla sostanza: le liberalizzazioni governative sarebbero state divelte in tre casi: taxi, farmacie e professionisti. Peccato che non c’erano, sicché si fa fatica a svellerle. Nel caso dei taxi il governo propose l’ennesima autorità nazionale, chiamata a decidere il numero dei taxi necessari in ogni borgo, in modo da sottrarre i sindaci dalla pressione della lobby col tassametro. Non era una liberalizzazione (lo sarebbe stata dire che chiunque lo voglia, nel rispetto dei requisiti, può esercitare quella professione), ma un delirio centralistico. Ragionando in questo modo si liberino i sindaci anche dei loro elettori e si chiudano i municipi. Si risparmia, almeno. Risultato: la decisione spetta ai sindaci, com’era ovvio. Per le farmacie non era prevista alcuna liberalizzazione, ma un aumento delle medesime. E’ solo cambiato il parametro per deciderne il numero. Capirai! Sarebbe stata una liberalizzazione dire: qualsiasi farmacista apra una farmacia sappia di dovere rispettare i seguenti orari di apertura (non di chiusura), perché vendere medicine è un servizio al cittadino, oltre che un lavoro, il resto è lasciato al rischio della libera iniziativa. Per i professionisti, avvocati e notai in testa, la liberalizzazione non può consistere nell’aumento del loro numero, che sono già una marea, ma della concorrenza fra loro, il che ha a che vedere con tariffe, pubblicità e società miste, non con i preventivi scritti (e vorrei sapere come fa un penalista a presentarne uno, nel Paese dei processi decennali).

I correttivi parlamentari relativi a banche, benzinai e assicurazioni nulla hanno a che vedere con le liberalizzazioni (per le assicurazioni non c’è l’agente plurimandatario e si sono aumentate le pene per le frodi, che se questa è una liberalizzazione io sono una ballerina Bluebell).

In mancanza di tutto ciò ci si butta sulla propaganda: il governo volle liberalizzare, ma il Parlamento glielo impedì. Il che, sia chiaro, lo scrivo a difesa del Parlamento e della sua funzione, non di questi parlamentari, che se avessero mezza idea del loro dovere le liberalizzazioni, quelle vere, le avrebbero già fatte da lustri.