lunedì 30 aprile 2012

L'utopia della lotta agli sprechi. Luca Ricolfi

Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce per affrontare il problema dei tagli alla spesa pubblica. Vedremo che cosa ne verrà fuori. E speriamo che il risultato non siano solo annunci, ulteriori «fasi di studio», impegni futuri, «tavoli tecnici» e approfondimenti vari. Perché una cosa va detta: di «enti inutili», «spending review», sprechi della Pubblica Amministrazione, si parla da decenni, almeno dai tempi di Ugo La Malfa, e di studi settoriali sull’efficienza della macchina amministrativa pubblica se ne contano ormai a bizzeffe.

E il quadro generale è piuttosto chiaro. La spesa pubblica totale, al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, ammonta a circa 500 miliardi di euro.

Il tasso di spreco medio è nell’ordine del 20-25%, il che significa che, se si adottassero le pratiche delle amministrazioni più efficienti (ma sarebbe più esatto dire: meno inefficienti), si potrebbero risparmiare almeno 100 miliardi l’anno. Una cifra con cui, giusto per fare un esempio, si potrebbe portare la pressione fiscale sui produttori a livelli irlandesi, attirare investimenti esteri e creare milioni di posti di lavoro.

Ma perché, se il quadro è chiaro, nulla o quasi nulla mai avviene, né con governi di sinistra, né con governi di destra, né con governi tecnici?

Le ragioni per cui nulla di importante mai avviene, a mio parere, sono almeno tre. La prima, ovvia, è che è politicamente più facile aumentare le tasse che ridurre la spesa. L’aumento delle tasse si traduce in decine di piccole vessazioni nessuna delle quali è abbastanza concentrata su una singola categoria da suscitare una rivolta dei contribuenti. I tagli alla spesa invece toccano categorie molto specifiche, e così creano una saldatura fra corporazioni, sindacati e ceto politico (specie locale), una sorta di patto nascosto o implicito che blocca qualsiasi decisione presa dal governo centrale.

La seconda ragione che blocca i tagli è che, colpevolmente, in questi anni il ceto politico non ha mai commissionato studi analitici. Di un comparto come la sanità, o come la giustizia, o come la burocrazia comunale, si sa con discreta precisione quanto spreca, a vari livelli: a livello nazionale, a livello regionale, spesso anche a livello provinciale. Ma non si sa dove esattamente gli sprechi si annidino, perché per saperlo occorrerebbe effettuare centinaia di studi locali e dettagliati – «studi analitici» appunto – che di norma richiedono un tempo (da 1 a 3 anni) che va al di là del miope orizzonte dei nostri partiti politici. Questo spiega perché, arrivati al dunque, i tagli sono sempre lineari e piccoli. Si dice a tutti: risparmia il 2% subito, mentre si dovrebbe dire: avete tempo 5 anni, ma tu – amministrazione abbastanza virtuosa – devi risparmiare il 4% in 5 anni, mentre tu – amministrazione cicala – devi risparmiare il 40%.

E qui veniamo alla vera, profonda e a mio parere insuperabile ragione per cui non si riesce e – temo – non si riuscirà mai a eliminare gli sprechi: le amministrazioni virtuose sono territorialmente concentrate in alcune, ben note, regioni del Centro-Nord, quelle viziose in alcune, ben note, regioni del CentroSud. Una politica di risparmi di spesa seria dovrebbe avere il coraggio di dire: caro Lombardo-Veneto, cara Emilia Romagna, avete già fatto molto per razionalizzare la spesa, quindi a voi chiediamo solo una ulteriore limatura del 5% (cifra indicativa, ma non lontana dalla realtà). Caro Piemonte, cara Liguria, cara Umbria, voi siete state meno brave, a voi dobbiamo chiedere di tagliare il 15%. E poi dovrebbe farsi forza e dire: care Sicilia, Calabria e Campania, voi buttate via i soldi, vi diamo 5 anni di tempo ma voi la spesa la dovete ridurre del 40%. Mentre voi, Puglia, Abruzzo, Sardegna, di soldi ne buttate via un po’ di meno, e quindi a voi chiediamo risparmi minori, diciamo del 25% in 5 anni.

Naturalmente le regioni e le cifre precedenti sono solo indicative. La graduatoria degli sprechi, all’ingrosso e a grandissime linee, è effettivamente quella che ho appena indicato ma non è la medesima in tutti i campi: un territorio può essere inefficiente nella sanità ma abbastanza efficiente nella giustizia; una regione sprecona può contenere isole di efficienza, così come una regione virtuosa può contenere sacche di inefficienza. E’ proprio per questo che, se non ci si vuole affidare ai tagli lineari, gli studi devono essere il più analitici possibile e un governo centrale può fissare solo gli obiettivi aggregati di medio periodo. Un governo che volesse fare sul serio dovrebbe fissare un orizzonte temporale ragionevole (3, 4, 5 anni), quantificare i risparmi possibili in ognuno dei grandi comparti della Pubblica amministrazione, e fissare precisi obiettivi territoriali per ogni comparto. Questo, se lo si volesse, si potrebbe fare anche subito, perché di studi ce ne sono già abbastanza, a partire da quelli della (colpevolmente) disciolta «Commissione Muraro» sulla spesa pubblica, che già anni fa aveva cominciato a delineare un quadro delle inefficienze. Fatto questo, toccherebbe poi alle varie amministrazioni pubbliche, centrali (ministeri) e locali (Regioni, Province, Comuni), ripartire il carico dei risparmi Asl per Asl, reparto per reparto, Comune per Comune, servizio per servizio. Un’operazione che richiederebbe una miriade di studi analitici, una serie di autorità esterne di controllo e valutazione, nonché un processo di contrattazione fra gli enti coinvolti.

Un’utopia? Sì, penso di sì. E appunto per questo, perché quel che si dovrebbe fare appare utopistico con questo ceto politico, con questa opinione pubblica, con queste forze sociali, penso che non se ne farà nulla. Di «spending review» si parlerà ancora un po’, saremo inondati di intenzioni e annunci, e alla fine la spesa verrà limata in maniera molto modesta. I risultati non saranno usati né per costruire asili nido (di cui c’è un enorme bisogno) né per ridurre le tasse a lavoratori e imprese, ma per coprire i buchi di bilancio che – puntualmente – si scopriranno all’avvicinarsi della scadenza del 2013. Il governo, quale che esso sia, si accorgerà fra qualche tempo che l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 è a rischio, e lì farà confluire i proventi di tutti i nostri sacrifici, fatti di maggiori tasse e minori servizi. So che a molti apparirò troppo pessimista, o prevenuto nei confronti di ogni governo della Repubblica presente, passato e futuro, ma questo è quello che – sulla base dell’esperienza – penso si possa realisticamente prevedere. (la Stampa)

sabato 28 aprile 2012

Giustizia e Finmeccanica. Davide Giacalone

Quando la giustizia si occupa di Finmeccanica, il che accade spesso, l’Italia si trova ad avere a che fare con due problemi: la giustizia e Finmeccanica. Che hanno in comune una cosa: mentre è divenuto scontato sparacchiare contro i costi della politica, mentre si fa finta di avere paura di quel che si alimenta a piene mani, ovvero l’antipolitica, il Paese scivola nel baratro a causa delle non-politica. Delle scelte mancate, delle cose non fatte, di quelle che neanche si ha il fegato di dire.

Vediamo le tre cose separatamente, anche se agiscono all’unisono. Prima di tutto la giustizia. Quando il ministro Corrado Passera dice che non basta un avviso di garanzia, per mettere in discussione o destabilizzare un’azienda come Finmeccanica, ha perfettamente ragione. Vorrei osservare che tale principio, proprio perché è un principio, deve valere sempre, altrimenti smette di essere un principio e diviene la fine che fanno gli ipocriti. Per noi è inviolabile: fino alla condanna definitiva c’è solo l’innocenza. Punto. Pero, non essendo ipocriti neanche siamo scemi, e sappiamo che dirigere quel gruppo, esposto in tutto il mondo, con sulla testa un’accusa di corruzione internazionale e riciclaggio è praticamente impossibile.

Quando si trattava di accaparrarsi un’importante commessa militare, in Brasile, i francesi ci fecero il regalo di far comparire in quel Paese un nostro connazionale condannato per omicidio, che essi avevano protetto da latitante. Avvertimmo subito della trappola, ma il resto dell’Italia abboccò, aprendo un contenzioso con le autorità brasiliane (laddove, semmai, dovevano prendersela con i concittadini europei). Questo per ricordare che il mondo degli affari militari non è popolato da damerini. Nessuna arma, però, è più efficace della giustizia italiana, quando si tratta non di dividere i torti dalle ragioni, ma di azzoppare le aziende e la politica. Quindi: Passera ha ragione, ma ciò vuol dire che non può esistere un mercato e una politica efficiente senza una giustizia che sappia giudicare, e subito, dopo avere infamato. Fin quando governo e Parlamento saranno a rimorchio del corporativismo togato il problema resterà insoluto.

Poi c’è Finmeccanica: un gruppo nel quale si trovano gioielli della tecnologia, ma anche costumi inaccettabili e bidoni in perdita. Evitare che sia distrutto è un interesse italiano, ammettere che solo per questo ci si possa comportare da ladri di polli che pretendono di portar via interi bovini, invece, non è accettabile. I colpi bassi sono quotidiani, nel mondo degli affari (come in ogni altra attività umana), l’uso dei mediatori è normalissimo, ma una cosa è usare persone competenti, preparate, anche spregiudicate, altra affidarsi a signorine e intriganti affetti da manie di grandezza. La presunzione d’innocenza vale in campo penale, ed è intoccabile e universale, ma mica riguarda il giudizio che può esprimersi, anche subito, sull’ipotesi che aziende di Stato vadano ad arricchire soggetti a dir poco improbabili.

Ma, si risponde, avevano entrature e conoscenze. Balle, le hanno in tanti. Solo che c’è chi entra dall’ingresso principale e chi s’intrufola nello spogliatoio. Prediligere la furbizia all’intelligenza, l’untuosità alla competenza non è un modo per far prima, è un sistema per distruggere tutto. Contano i risultati? Anche, ma quelli di Finmeccanica sono negativi, posta la potenzialità del gruppo. E questo porta al terzo tema, politico.

Perché Finmeccanica deve essere pubblica? Perché, si risponde, la vendita di armi non può che essere funzione della politica estera. Giusto, ma a parte il fatto che il gruppo si occupa anche di molte altre cose, la domanda è: a quali scelte di politica estera rispondono i commerci di Finmeccanica? Non conosco la risposta. Credo non ci sia. Al massimo c’è il limite della politica estera al concludere certi affari. Poi il vuoto. In queste condizioni preferisco che il gioiello sia in mani private, le quali si adopereranno anche, con pressioni lobbistiche, affinché il governo favorisca gli affari di una società italiana, piuttosto che lasciar campo libero a concorrenti stranieri. E lo preferisco perché quella sana difesa degli interessi è cento volte meglio di analfabeti politicizzati collocati nel consigli d’amministrazione o arruolamenti di mezze seghe nella veste d’intermediari internazionali.

In tutte le democrazie del mondo esiste un problema di rapporti fra affari e politica, che va affrontato con realismo e senza moralismo. Ma quando l’affare è la politica, quando la politica nomina chi fa gli affari, si accede al lenocinio. E ne siamo in overdose.

venerdì 27 aprile 2012

Presto Bruxelles sarà islamica e Amnesty che fa? Assale le leggi anti-velo. Andrea Doria

Partiamo da questa notizia apparsa sul blog di Amnesty International su “Il Corriere della Sera”, Le persone e la dignità (a chi sarà poi venuta l’idea a via Solferino di accettare la fusione dei brand ‘Corriere’ e ‘Amnesty’, non si sa!). Con un suo articolo Monica Ricci Sargentini, racconta, felice, la svolta della libera Turchia, nella quale finalmente una donna può entrare in parlamento con il velo islamico!

Non si tratta però di un donna qualunque, ma nientemeno che della moglie di quell’illuminato modernizzatore sociale che è il premier turco Recep Erdogan. Ci fermiano per il momento qui, per poi tornare su Amnesty.

Recentemente il Christian broadcasting network (Cbn) , uno dei media del fondatore della Christian Coalition, Pat Roberson, ha divulgato un illuminante servizio sull’islam in Belgio dal titolo “Welcome to Belgistan”.

Cinque minuti di buon giornalismo video nei quali si dà conto di quello che sta accadendo in Belgio, e in particolare nella sua capitale, Bruxelles. Nel 2030 più della metà della popolazione della città belga (ed europea, si dica pure) sarà di religione musulmana. Un dato, che se sarà confermato dalla realtà, renderà Bruxelles ancora più rappresentativa del Vecchio Continente (sic!).

Ora, la notizia ‘Bruxelles islamizzata entro il 2030’ di per sé non è nuova: il quotidiano belga “Le Soir” nel Novembre del 2010 ne aveva dato notizia per ‘marchettare’ (con successo, visto che quell’articolo è citato a destra e a manca) un evento 'laico’ sulla mutation profonde, la mutazione profonda che la città sta subendo. Quando si dice un eufemismo. Soeren Kern, collaboratore del Gatestone Institute di New York, ne trasse spunto un anno dopo, scrivendone un articolo dal titolo “The New Capital of Eurabia”.

Ciò detto, basta guardarsi il video Cbn in questione per prendere atto che il processo in corso è di quelli che non lascia scampo. E’ un edificante racconto dell’azione, dei propositi e dei progetti di “Sharia for Belgium” un gruppo di islamisti belgi (parlano anche il fiammingo, eh sì).

Gli infedeli belgi, cioè i cristiani e gli ebrei che li ospitano, dice il capetto di Sharia4Belgium dalla lunga barba e la calvizie avanzata al giornalista della Cbn, si devono mettere l’anima in pace: finirà con l’islamizzazione del Belgio.

Ora, che le cose andranno così se nulla sarà fatto, non v’è alcun dubbio. D’altronde da quasi quarant’anni l’Europa si è messa nel cul-de-sac abortivo e de-responsabilizzatorio e le comunità religiose ad alto tasso di natalità come quelle musulmane iniziano a raccogliere i frutti di tanto impegno procreativo. Il primo e più simbolico potrebbe essere davvero la ‘presa’ demografica di Bruxelles.

Che dire! C’è da rimanere basiti. Tanto da sperare che anche il progressismo più ferocemente anti-cristiano finisca col prendere atto che vi sia qualcosa che non va nel fatto che paesi che per secoli sono stati cristiani in soli pochi decenni finiscano simbolicamente aggrediti con lo spodestamento identitario persino nelle proprie capitali. Purtroppo si tratta di speranze vane.

Una conferma? Lo scorso Lunedì proprio ‘Amnesty International’ (e il cerchio del nostro articolo si chiude) ha pubblicato un paper niente meno che sulla discriminazione dei musulmani in Europa. Il paper - lunghissimo, interminabile, noioso - recita il seguente titolo: “Choice and Prejudige: Discrimination Against Muslim in Europe”.

Siamo andati a vedere quello che il rapporto dei dirittisti umanitari dice sul Belgio, uno dei paesi - assieme a Spagna, Francia, Svizzera e Paesi Bassi – oggetto dello studio. Ebbene per ‘Amnesty International’, in Belgio v’è un’ingiustificata discriminazione nei confronti delle donne musulmane, soprattutto negli edifici scolastici (dipendenti dal dipartimento dell'educazione fiammingo), perché è vietato loro d’indossare il velo! Un attacco alla libertà religiosa, ci dicono i parrucconi del dirittismo umano.

Nell’assurdità di tutto questo, c’è da chiedersi in primis come sia possibile che ancora in Europa ci sia qualcuno che considera una battaglia di civiltà permettere alle donne islamiche di vedersi riconosciuto il diritto (?) a indossare il velo, quando è palese che si tratta di un'imposizione di genere. In secondo luogo, v'è da domandarsi come sia possibile che qualcuno ad Amnesty abbia autorizzato uno studio tanto approssimativo e ridicolo.

Ma ci spieghino gli autori del report, con le loro piccole 'conclusions', come sia possibile che una comunità che è tanto discriminata, sia passata in pochi decenni da poche centinaia di migliaia di unità a quasi trenta milioni di persone in Europa. Se fossero così discriminati, perché rimarrebbero?

La discriminazione quella vera, cari parrucconi dei diritti umani dei nostri lustri stivali, ti toglie il lavoro. Te lo nega, ti estromette dai pubblici uffici. E francamente, siamo felici che almeno nelle scuole la trivilità anti-femminile del velo islamico ci sia risparmiata (dal punto di vista musulmano è anche riparo dagli sguardi impuri degli infedeli cristiani ed ebrei, sia chiaro).

Con ansia, comunque, attendiamo che i militanti progressisti di Amnesty si degnino, un giorno, con comodo, di raccontare la vita di discriminazione - quella vera e non l'impossibilità dei musulmani in Catalogna a costruire l'ennesima moschea in una terra che gli islamici ancora considerano al-andalus - dei cristiani, degli ebrei, e in generale delle minoranze (i dhimmi di fatto) nei paesi a maggioranza musulmana, specialmente quelli arabi. Aspettiamo, dunque.

Si prodighino, con le loro 'conclusions', a dare consiglio alla Fratellanza musulmana egiziana, agli ayatollah iraniani e alla casa regnante saudita, su come non discriminare le minoranze pre-musulmane nelle terre arabe. Vedremo cosa sarà loro risposto. (l'Occidentale)

Sinistra sovrumana. Gianni Pardo

C’è un bel detto latino che espone un’ovvietà: naturae non imperatur nisi parendo, non si comanda alla natura che obbedendole. E questo è chiaro: se si vuole che una pianta non muoia, bisogna innaffiarla come essa richiede. Chi tentasse di convincerla con belle parole a fare a meno dell’acqua otterrebbe solo che secchi.

Sul principio “naturale” si è tutti d’accordo ma in realtà esso vale pure per il comportamento umano. Anche l’uomo ha una natura che è vano contraddire. Chi crede di poterlo convincere ad operare a favore della collettività come opera a favore di sé stesso, per dirne una, non ottiene nulla: ci sono settant’anni di miseria del socialismo reale che lo dimostrano. Del resto anche da noi l’impiegato di Stato è meno volenteroso dell’impiegato privato e l’impiegato privato a sua volta è meno diligente e volenteroso del “padrone”. Questi infatti opera per sé stesso e non bada né ad orari né al meritato riposo. Il detto latino va dunque completato: “et naturae humanae non imperatur nisi parendo”, anche alla natura umana si comanda solo obbedendole.

In Italia abbiamo avuto un eccellente esempio di questa verità. Tutti hanno bisogno di una casa in cui vivere e dunque o la ottengono dallo Stato, o la prendono in locazione, o la comprano. La casa popolare è veramente l’ideale: nessuna spesa di acquisto e un canone quasi simbolico. Purtroppo ha un difetto: non è disponibile. Se il canone è simbolico, le spese di costruzione non lo sono. E infatti non se ne vedono di nuove da anni. Per giunta, visto che l’assegnazione era sostanzialmente politica, quelle case non sempre andavano a chi aveva più bisogno: c’erano i raccomandati e a volte persino inamovibili squatters. E infine si è commesso un errore: si è cercato di rendere quelle abitazioni gradevoli. Quasi come quelle che la gente sogna di comprare. E questo ha avuto come conseguenza che chi è riuscito ad entrare in una casa popolare non ne è più uscito. Ne ha fatto una proprietà per sé e per i propri figli, spesso tralasciando persino di pagare il canone. Viceversa in Francia le HLM sono topaie piccolissime, dai tetti bassi, magari senza ascensore, in cui abitano persone che sognano di potersene andare. L’occupazione delle HLM non è eterna perché l’amministrazione ha tenuto conto della natura umana.

Mancando la casa popolare, chi cerca un’abitazione deve ricorrere alla “second best solution”, la migliore soluzione dopo la prima: la locazione. Purtroppo il suo canone non è simbolico. Infatti, ammettendo che un appartamento valga duecentoquarantamila euro (non è un castello), e ammettendo che il proprietario voglia ricavarne un quattro per cento annuo lordo, più un due per cento per compensare l’inflazione, il canone sarà di 1.200 €. Ma è spesso tutto ciò che il possibile inquilino guadagna in un mese! E se si parla di una modestissima casetta da 120.000 €, si va ancora a 600 € mensili, mezza paga. Ecco perché, intorno al 1978, dei politici di buon cuore si dissero: “I proprietari di case sono persone che vivono di rendita. Vogliono guadagnare denaro senza far niente e approfittando di persone bisognose. Imporremo un canone più favorevole all’inquilino”. E così nacque la legge dell’equo canone.

Questa riforma andava contro la natura umana e non poteva che essere un disastro. Prima nacque il mercato nero delle locazioni; poi, col miglioramento della repressione, tutti i proprietari capirono che avere case per locarle era antieconomico e cercarono di venderle. Naturalmente le tenevano sfitte fino al momento in cui avrebbero trovato un compratore e lo Stato considerò questo immorale: come, tenere le case sfitte mentre tanta gente non ha un tetto? Dunque aumentò le imposte sulle case vuote e i proprietari furono invogliati a vendere ancor più di prima.

Lo Stato ha ucciso il mercato delle locazioni. Oggi infatti i cittadini che vivono in casa propria sono circa l’80%. Tutti ricchi? No: tutte persone che, se hanno voluto un tetto sulla testa, la casa hanno dovuto comprarsela. Magari strangolandosi con un mutuo che li avrebbe perseguitati per decenni. E chi non ha un lavoro stabile, chi non guadagna abbastanza per contrarre un mutuo? Niente casa. Lo Stato italiano ha voluto imporre la beneficenza a spese altrui ed ha ovviamente fallito.

Questa è una lezione indimenticabile che purtroppo sarà dimenticata. Ci saranno sempre politici, soprattutto di sinistra, convinti che si possa convincere il basilico non innaffiato a prosperare solo perché esso serve alla massaia per fare la salsa di pomodoro. (il legno storto)

giovedì 26 aprile 2012

25 aprile. Jena

Monti, i tecnici, Napolitano, la politica, l’antipolitica... La tragedia è che oggi neanche sappiamo da chi dobbiamo liberarci. (la Stampa)

Perché la destra è stata squalificata. Marcello Veneziani

Perché non sorge in Italia una destra legittimata intellettualmente, si chiede su Il Mulino Galli della Loggia?

Stilo un catalogo di indizi.

Perché la volete a misura vostra, che di destra non siete, e non ne accettate altre. Perché le sole destre legittimate sono per voi quelle morte, inesistenti o nemiche delle destre in campo. Perché il controllo culturale è ancora in mano a una setta, ieri a prevalenza comunista e azionista, poi radical e progressista, sempre politicamente corretta e intollerante.

Perché avete delegittimato non solo i neofascisti, che peraltro non amano definirsi di destra, ma anche le destre legate alla tradizione, comunitarie, nazionali e sociali, che sul fascismo avevano un giudizio diverso dalle vulgate ufficiali.

Perché anche i giornali non di sinistra, fautori del bipolarismo, come il Corriere della sera , temono di ospitare opinioni e autori schiettamente di destra mentre non temono di pubblicare opinioni e autori apertamente di sinistra. Perché sono ignorate opere, idee, proposte provenienti da destra e gli autori sono silenziati, o al più targati in quadretti manieristi di appartenenze, sbrigati nel folclore o vituperati su risvolti marginali. Perché dopo decenni di divieti nel nome dell’antifascismo si sono beccati il divieto nel nome dell’antiberlusconismo.

Perché le forze di centro-destra e loro affluenti considerano le idee un’arma impropria, identificano popolare con volgare e diffidano dei libri come portatori di malattie.

Perché ora è troppo tardi, destra e sinistra indicano solo le scarpe. (il Giornale)

lunedì 23 aprile 2012

Political review. Davide Giacalone

L’Italia ce la può fare, alla grande, ha detto ieri il ministro Corrado Passera. Ne sono convinto anch’io, e basta guardare i dati sulle esportazioni, in un momento di grande difficoltà, per rendersi conto che il nostro è un sistema produttivo forte e che le capacità del nostro mercato sono tali da trasformare in opportunità quella globalizzazione altrimenti vissuta come una disgrazia. Certo che abbiamo i numeri per farcela (al punto che anche dal governo si dovrebbe smetterla di dire che potremmo fare la fine della Grecia, perché quel paragone è falso e falsante), ma il punto è: quanto di questo sforzo sarà dovuto al contributo attivo dello Stato e quanto, invece, si riuscirà a sfangarla “nonostante” lo Stato?

Intanto si annuncia l’arrivo della prima bozza della spending review, già mettendo le mani avanti e annunciando che non conterrà numeri specifici e indicazioni dei tagli da farsi, ma una specie di analisi complessiva della spesa pubblica. Anche qui: potrebbe essere l’annuncio dell’ennesimo buco nell’acqua, come, invece, della finalmente giunta consapevolezza che il problema non è solo tagliare (suscitando la scontata reazione negativa di tutte le amministrazioni interessate), ma, per tagliare, cambiare modo di ragionare.

Il ministro Passera non me ne vorrà se osservo che non ha molto senso dire che il governo è disponibile “a creare i presupposti per il pagamento dello scaduto”. Anche io sono pronto a ragionare, con calma e serenità, dei soldi che devo ai miei creditori, sono loro che hanno fretta. E hanno ragione. Nel caso dei pagamenti scaduti è lo Stato ad avere torto, sicché è bello sapere sia disponibile, occorre sia conseguente. I soldi non ci sono (è grave), allora si provino vie diverse. Intanto è assurdo che quei crediti, vantati nei confronti dello Stato, non siano considerati sicuri. E’ anche vagamente offensivo, per lo Stato. Quindi: si agisca in modo che si possa scontarli in banca, spostando l’onere del rischio, circa l’insolvenza, sul debitore e non sul creditore. Chi ha diritto ad avere dei soldi pagherà anche un costo bancario (tanto per cambiare), ma incasserà subito. Altra strada: lo Stato ceda i debiti a terzi, ad esempio la cassa depositi e prestiti, se ne assuma l’onere e consenta di ripagare chi ne ha diritto. Subito. Non sono contributi pubblici, sono soldi che spettano a chi li attende. Aggiungo: il mondo delle banche è assai noto al ministro, si eviti che questa diventi l’ennesima rendita improduttiva e ingiustificata.

E non basta. Lo Stato paghi quel che deve, ma se vuole avere considerazione per chi intraprende e rischia, se vuole averne per l’unica Italia su cui possiamo contare, per uscire dalla crisi, sia rispettoso delle regole anche quando si tratta di prendere. Pretendere l’esecutività delle richieste erariali, ancor prima che un giudice ne abbia vagliato la fondatezza, o dare valore di legge all’“abuso di diritto”, vale a dire al principio per cui il contribuente è perseguibile e punibile anche quando ha rispettato le norme, solo che si supponga abbia applicato la legge per proprio tornaconto (pensateci, è un concetto abominevole!), ebbene, queste sono pratiche utili a far scappare, non a incoraggiare la ripresa. Ci sarebbe anche il nodo della giustizia, che non consiste negli avvisi di garanzia ai politici (oramai quella è malattia cronica, cui ci siamo incivilmente abituati), ma nelle moltitudini che languono nei corridoi perversi del civile e del penale. Nessun sistema produttivo funziona, se affetto da malagiustizia.

In quanto alla spending review è facile prevedere che se si opera solo per tagliare si finirà con l’arrendersi alle difficoltà che già paralizzano Piero Giarda, che di quel difficile compito è incaricato. Si tratta di cambiare registro: a. la spesa pubblica deve scendere brutalmente, non solo per tagliare gli sprechi, proprio per ridurre lo Stato; b. ci sono interi settori della pubblica amministrazione che possono essere restituiti al mercato (pensate ai vari progetti di digitalizzazione, che oggi accumulano inammissibili duplicazioni di costi, ritardi e inefficienze), quindi non si deve “tagliare”, si deve “esternalizzare”; c. l’amministrazione digitale è un grande motore di sviluppo, a patto che non diventi un gran pentolone di appalti, se ne prendano le funzioni e le si consegni a operatori privati, mettendo come condizione la qualità del servizio e il minor costo. In questo modo, altrove meglio dettagliato e approfondito, si fa scendere la spesa e decollare l’Italia.

Le difficoltà sono tante, lo so, ma la più grande e terribile è assumersi la responsabilità di non averlo fatto.

giovedì 19 aprile 2012

Il rischio delle buone intenzioni. Luca Ricolfi

Non sono fra quanti pensano che cambiare l’Italia sia facile. Né mi sono unito a quanti, in questi giorni, hanno inondato la presidenza del Consiglio con liste di misure da adottare immediatamente per il bene dell’Italia, a partire dai tagli della spesa pubblica. E so perfettamente che è fin troppo facile fare i riformisti a parole, scrivendo libri, saggi e articoli sui giornali senza avere responsabilità di governo.

Per cui non dirò tutto quello che penso sul «topolino» partorito dal Consiglio dei ministri di ieri, ma mi limiterò a una domanda: avete fatto il massimo? Perché se la risposta fosse sì, allora dovremmo essere davvero preoccupati, molto preoccupati. Quel che colpisce di più, nei documenti prodotti dal governo e nello stesso discorso pronunciato ieri da Mario Monti in conferenza stampa, è la completa mancanza di concretezza, anche nei pochi luoghi (ad esempio le infrastrutture e i pagamenti della Pubblica amministrazione) in cui si parla di cose e non di mere astrazioni, impegni futuri, intenzioni, auspici, tiratine d’orecchi ai cittadini e ai partiti. Una sorta di trionfo del modo «ottativo» ricopre tutto e tutti, in un linguaggio che meriterebbe di essere studiato già solo per l’audacia con cui ibrida due mostri del nostro tempo.

Il paludato gergo della burocrazia europea e i manifesti elettorali dei partiti, pieni di condivisibili intenzioni e meravigliosi obiettivi, mai accompagnati dalla indicazione dei mezzi che permetteranno di raggiungerli.

Dunque, proviamo a ricapitolare i punti effettivi. Il governo ci dice che nel 2013 i conti pubblici saranno ancora in rosso (-0,5%), ma che in realtà, correggendo il dato per il ciclo economico, quel piccolo deficit sarà in realtà un leggero avanzo (+0,6%). Poi ci dice che la pressione fiscale non diminuirà né quest’anno né l’anno prossimo, ma solo a partire dal 2014, ossia giusto quando questo governo non ci sarà più. Quanto al Pil, si prevede che quest’anno diminuirà dell’1,2%, e nel 2013 aumenterà dello 0,5%, due previsioni decisamente più ottimistiche di quelle della Confindustria, della Banca d’Italia e del Fondo Monetario Internazionale, che giusto ieri ha previsto un -1,9% per il 2012 e un’altra diminuzione (dello 0,3%) per il 2013.

Insomma, nessun meccanismo automatico che trasformi i risultati della lotta all’evasione in minori aliquote fiscali e contributive. Nessuna misura che alleggerisca ora, e non in un lontano e ipotetico futuro, i costi complessivi di chi lavora e produce ricchezza. Nessun taglio alla spesa pubblica improduttiva. E in compenso tantissime intenzioni, «tavoli di lavoro» che si stanno avviando, piani cui «si sta lavorando», ma soprattutto - come collante e come motore di tutto - una fiducia illimitata, quasi una fede, che l’Italia possa uscire dai suoi guai essenzialmente mediante processi immateriali, attraverso i segnali che la buona politica può mandare agli investitori e ai mercati finanziari. Di qui l’invito a rafforzare la coesione sociale, a combattere l’evasione fiscale, il lavoro nero e la corruzione, a promuovere la fiducia interpersonale e in chi ci governa, a riformare radicalmente la politica, a partire dalla legge elettorale e dal finanziamento pubblico dei partiti.

Tutti obbiettivi degni e sacrosanti, ma che tradiscono - a mio parere - una visione vagamente idealistica del funzionamento dei sistemi sociali. È strano, per me che faccio il sociologo, doverlo dire di un governo di economisti. Ma mi colpisce molto sentir tanto parlare di «capitale sociale», una delle più controverse e fumose nozioni della mia disciplina, e sentire così poche parole sui ben più solidi meccanismi che, nelle società avanzate, regolano la crescita. Spiace dovere battere così spesso sul medesimo ferro, ma mi pare davvero una generosa illusione quella di pensare che per uscire dalla stagnazione l’Italia abbia oggi bisogno innanzitutto di cambiare il suo software (il suo modo di pensare), e non sia invece il suo hardware (la macchina della sua economia) che è diventato un ferrovecchio. L’Italia è sempre stata priva di spirito civico, o capitale sociale, ma questo fragile software - fino a venti anni fa - non le ha impedito di crescere di più delle altre economie avanzate, fino a conquistare il benessere che ora stiamo cominciando a perdere. Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese.

È vero, i mercati sono diventati «animali molto sensibili», e i segnali, gli umori, le emozioni, sono diventate cose sempre più importanti nel mondo di oggi. Ma non tutta l’economia è finanza (per fortuna) e, alla fine, quel che conta davvero - quel che sposta i capitali e fa vincere sui mercati - sono i costi di produzione. Da un governo tecnico, per di più pieno di economisti, non mi sarei mai aspettato tanta attenzione alle impalpabili vicissitudini dell’animo umano, e tanto poca considerazione per la dura, concreta, pietrosa, realtà di chi produce e cerca di stare sul mercato. (la Stampa)

Gli incontri di Monti sul monte Sinai. G.C.

"Stando al tono (si puo' dire la prosopopea?) con cui il presidente Mario Monti insiste nel difendere il disegno di legge sul mercato del lavoro vien fatto di credere che, durante la sua recente visita in Medio Oriente, sia salito sul Monte Sinai e lì abbia avuto un incontro ravvicinato molto importante". (l'Occidentale)

mercoledì 18 aprile 2012

Abuso di diritto. Davide Giacalone

Dalla caccia agli evasori fiscali si passa alla caccia alle streghe. Dalle commissioni tributarie la materia passa a tribunali degni dell’inquisizione. Dal giusto principio di far pagare le tasse a tutti (le nostre dure critiche alla pressione e al sistema fiscale non sono mai state connivenza con l’evasione) si passa all’insano concetto per cui non vale la legge, non vale rispettarla, vale lo spirito con cui il contribuente ha cercato di fregare l’erario. Il mostro che consente tale mutazione genetica si chiama “abuso di diritto”. So che il lettore sta già scappando, immaginando trattarsi di disquisizione tecnico giuridica per maniaci fiscalisti, ma abbia un attimo di pazienza, perché questa roba è meglio conoscerla. Questa roba è meglio bocciarla subito.

Qualsiasi persona normale senta parlare di “abuso di diritto” pensa subito al potere statale, ovvero al freno che va messo affinché lo Stato, facendo leva sulle leggi, non coarti le libertà e i diritti individuali. Ma qui le persone normali scarseggiano, sicché s’intende l’opposto: stangare il cittadino che, pur attenendosi alle leggi, prova a sottrarsi ai suoi doveri verso lo Stato. Detto in modo diverso: non basta non violare la legge, si deve anche dimostrare d’avere l’animo puro e le intenzioni migliori, altrimenti si passa fra i reprobi. Aprire la porta a questo abominio significa cancellare il concetto stesso di legge e di diritto. Credo sarà bene avere i nomi dei partiti e dei parlamentari che si presteranno a votarlo, in modo da conquistare loro il voto dei sudditi e alienargli quello dei cittadini.

L’abuso di diritto non ha (fin qui) base giuridica, ma giurisprudenziale. Non c’è (finora) una legge che lo regola, ma ha trovato applicazione nelle sentenze. Si è partiti da presupposti ragionevoli, ad esempio: l’articolo 833 del codice civile stabilisce che “il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o arrecare molestia ad altri”, non puoi usare quel che pure è un tuo diritto solo per danneggiare altri. Non è il massimo della certezza, ma almeno ha un punto di solidità: un altro cittadino che si sente danneggiato e ti porta in giudizio. Il discorso cambia completamente se al posto dell’altro cittadino ci metti lo Stato, cosa che è stata resa possibile da diverse sentenze della cassazione, a cominciare da una del 13 maggio 2009, che ne ha fatto un principio generale. Già questo andava fermato, invece si va in direzione opposta, approfittandone.

Nella delega fiscale, che è stata varata dal Consiglio dei ministri e che spero il Parlamento abbia la lucidità e la capacità di cambiare, è scritto che sarà condannato, quale abuso di diritto “l’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta”, e ciò anche nel caso in cui tale condotta sia “non in contrasto con alcuna specifica disposizione”. Il cittadino e l’impresa saranno perseguibili quando, pur attenendosi alla legge, la “causa prevalente dell’operazione” sarà la ricerca di un vantaggio fiscale. Potranno sottrarsi alla condanna solo ove dimostreranno, loro, non lo Stato, che ci sono “ragioni extrafiscali non marginali” capaci di giustificarli. “Ragioni extrafiscali non marginali” non significa un accidente, quindi la discrezionalità del giudice totale e il cittadino e le imprese che si saranno attenuti alla legge potranno essere puniti da un tribunale che fa capo ad uno Stato teocratico, ma senza dio. O, meglio, con il dio fisco pronto a decretare chi ha peccato in cuor suo, chi aveva intenzioni malevole, chi ha raggiunto la suprema perversione di applicare la legge pensando di avere dei diritti.

In uno Stato amministrato con tale forsennata idolatria del funzionario giudicante non ci sarà mai un solo imprenditore straniero, sano di mente e onesto, che vorrà investire, perché nessuno si consegna ostaggio di un sistema in cui il rispetto della legge non è motivo sufficiente per credersi onesti. Monti aveva detto che voleva rendere “prevedibile” l’Italia. Lodevole intento, ma l’incertezza del diritto muove in direzione opposta. Scapperanno, invece, tutti quelli che potranno stabilire altrove le proprie attività, a cominciare da quelle ad alto valore aggiunto intellettuale (un paio di giorni fa, parlando agli studenti di Boston, Usa, Romano Prodi consigliava loro di non venire in Italia). Morale: la fuga dei cervelli sarà ricordata con nostalgia, giacché assisteremo alla fuga anche delle frattaglie. In compenso ci terremo riciclatori e investitori di denaro sporco, notoriamente rispettosi delle perversioni fiscali, dato che il loro vantaggio consiste nel reimpiegare il denaro e nell’appropriarsi delle attività mollate da quanti sono costretti ad arrendersi.

Nella delega fiscale è inserito anche il seguente principio: l’abuso di diritto non ha rilevanza penale. L’ingenuo pensa: almeno questo. Illusi: il processo penale, o quel che ne resta, si basa sul principio che è l’accusa a dovere dimostrare l’esistenza di un reato, ve lo figurate il pubblico ministero che chiede la mia condanna perché ho applicato una legge? La non rilevanza penale, pertanto, si limita a cancellare un processo inutile, nel quale il cittadino e l’impresa sarebbero stati assolti (o mandati in prescrizione, come usa fare la procura quando ha torto), in modo da lasciare libera la mano che porta via i loro averi.

Non so a quale dottrina s’abbeveri chi riesce a concepire, pur accampando solida formazione culturale, ma scarsa ragionevolezza, norme di questo tipo. Di certo non quella che guida lo Stato di diritto. Da alcuni secoli a questa parte.

martedì 17 aprile 2012

Moralismo fiscale. Davide Giacalone

Il moralismo fiscale è uno strumento con il quale si distrugge il sistema produttivo e il tessuto stesso della convivenza civile. Abbandonarsi a tale disdicevole dottrina, come purtroppo ha fatto il presidente della Repubblica, avendo appena avallato l’aumento di cinque centesimi della benzina, destinandone i proventi alla protezione civile, ovvero a quella medesima platea presso cui si vanno a raccogliere gli applausi, è più che disdicevole: non è ammissibile.

Spiace doverlo sottolineare, ma con tutto il rispetto che si deve a chi rappresenta l’unità nazionale non gli è consentito affermare che gli evasori fiscali “sono indegni di essere associati al concetto e alla parola Italia”. Sono e restano italiani anche gli assassini, gentile Signor presidente. Restano italiani anche i senatori a vita che evasero (alla grande) il fisco, o vuole espellerli alla memoria? Se si vuol togliere la cittadinanza a chi non paga tutte le tasse si deve toglierla anche a una giustizia che privilegia i disonesti e svillaneggia chi deve avere soldi. Si deve toglierla ad uno Stato lesto nel prendere e lentissimo nel restituire.

Le tasse si pagano. E’ un dovere legato alla cittadinanza. Per chi non le paga sono previste delle punizioni, fra le quali non è compreso l’ostracismo. Però attenti al moralismo senza etica: la pressione fiscale è da noi intollerabile; i sistemi dell’amministrazione fiscale solo arroganti e violenti; il cittadino viene espropriato ben prima d’incontrare un giudice; i soldi riscossi finiscono in un buco nero, quello della spesa pubblica, che non si riesce, e forse neanche si vuole restringere. Prima di moraleggiare sarà bene tenerne conto.

Napolitano ha ragione: l’Italia del volontariato è bella. Ma è bella anche, quanto meno altrettanto, l’Italia che intraprende e produce, quella stessa che viene spinta fuori mercato da uno Stato esoso e incapace. Gli italiani che si fanno in quattro per produrre ricchezza sono milioni. Spiace che non lo capisca e non lo apprezzi una classe politica composta, anche ai più alti livelli, da chi ha sempre campato di spesa pubblica, mai aggiungendo un tallero al prodotto interno lordo. Spiace che si senta “volontario” un presidente del Consiglio con due pensioni e un vitalizio. Spiace perché dimostrano di non avere la benché minima percezione della realtà. Si sentono migliori perché hanno di più, e pretendono di considerare peggiori quelli che recalcitrano al dare di più.

Sono cittadini italiani, a pieno titolo, anche quegli imprenditori che si ammazzano perché il fisco e la previdenza li hanno precedentemente strangolati. E fornisco un dato anticipato, al presidente della Repubblica: gli evasori fiscali aumenteranno, perché non ci sono solo i ricchi profittatori che negano la pecunia alle scuole e agli ospedali, secondo uno schema classista che vive nella mente di chi l’ha predicato per la vita intera, ci sono anche le persone per bene che non hanno i soldi per pagare. Ci sono i padri di famiglia cui è stato raccontato che si deve investire nella casa di proprietà, per lasciarla ai figli, e cui si dice, oggi, che la rendita del patrimonio va tassata quasi quello fosse un furto alla collettività, anche in costanza di un mutuo. Ci sono imprese impossibilitate a lavorare perché lo Stato non paga i propri debiti, perché sono indietro con i pagamenti previdenziali, perché non hanno i documenti in regola al fine di ottenere, dallo Stato, il dovuto. E se qualcuno, più debole ed esasperato degli altri, si ammazza, innanzi a quel dramma occorre umiltà e rispetto, non la supponenza di chi, nella vita, non ha mai rischiato e creato lavoro.

L’assenza di guida politica, l’assenza di governi che guardino al futuro, ci ha messi nella condizione di dovere sottostare a un debito pubblico servire il quale significa impoverirsi giorno dopo giorno. Noi qui ci sforziamo d’indicare la strada per abbattere quel debito. Altri sembrano provare gusto ad abbattere i cittadini che non ritengono gioioso pagarne il prezzo. Capisco il ragionamento di Napolitano, ma ne conosco l’infondatezza: se pagassero tutti, e tutto il dovuto, ciascuno potrebbe pagare meno. E’ falso, perché, da molti anni, il gettito fiscale è funzione della spesa pubblica, largamente improduttiva e fuori controllo, sicché più si paga e più si spende. Questa spirale va spezzata, non onorata e venerata.

Le tasse si pagano. Non giustifico minimamente gli evasori fiscali. Ma se non si parte dall’immoralità della pressione fiscale e dall’indecenza di uno Stato che assorbe e brucia più della metà della ricchezza nazionale, se non si cambia andazzo, e se le prediche vengono da pulpiti protettissimi e privilegiati, so quale sarà la conseguenza: rabbia sociale, disperazione violenta, ribellismo inconsulto. Ci pensi, il Colle più alto, e rimedi a parole che, per carità di Patria, considero solo poco pensate.

venerdì 13 aprile 2012

Uscire dal debito. Davide Giacalone

Governare stanca, ma sgovernare stanga (gli altri). Nessun ostacolo è più grande di quelli che teniamo dentro la nostra mente, lo dimostra un Piero Giarda, oggi al governo, che sostiene essere stata tagliata tutta la spesa pubblica tagliabile, ma anche un Giulio Tremonti, al governo fino a ieri, che si rende conto di quanto sia contraddittorio dire cose giuste e non averle fatte. Governare è difficile, ma pascersi dell’essere al governo, o dell’esserci stati, supporsi più bravi perché meglio collocati, è la sindrome perfetta della misera inutilità. A dispetto dei governanti, di ieri e di oggi (spero non di domani), noi torniamo a fare proposte concrete, per ridare fiato a un’Italia che non merita la sorte che le si prepara.

C’è un problema dell’euro, che deve essere risolto in Europa. Non lo ripeto ancora una volta, ma resta il fatto che ogni governo italiano disposto ad allinearsi all’Europa parametrale, per essere ricevuto alla corte della signora Merkel (cosa che hanno fatto quasi tutti), è un governo che nuoce all’Italia e avvelena l’Europa. Non si deve lavorare contro i tedeschi, ma con i tedeschi che ne sono consapevoli. Poi c’è un problema italiano, la cui soluzione è a portata di mano, se solo le mani non fossero di forze politiche prive d’idee.

L’Italia è uno dei paesi più belli del mondo, dove si vive alla grande. E’ anche un sistema produttivo potente, pregno d’innovazioni, con imprenditori coraggiosi e lavoratori competenti. Perché nessuno vuol venire a investire da noi? Perché i capitali varcano (in ingresso) la nostra frontiera infinitamente meno che quella di altri paesi europei? Perché siamo dei matti masochisti. Perché da noi il diritto di proprietà è subordinato al giudizio sociale di un pubblico ministero, che potrà essere smentito da un giudice dopo un decennio. Perché da noi non vale neanche l’habeas corpus, dato che un imprenditore settantatreenne se ne può stare in galera da innocente, senza avere intascato soldi pubblici, arrestato sotto le telecamere e irriso perché non fa comunella con gli altri detenuti. Perché il nostro fisco è non solo esosissimo, ma arrogante e dispotico, supponendo la parola dell’esattore superiore a quella del cittadino. Vado avanti? Per aprire l’Italia al mondo c’è anche da cambiare quel che significa l’articolo 18, ma ci sono due cose decisive: il fisco e la giustizia.

Per la seconda si devono stroncare le corporazioni. Senza pietà alcuna. Tutte le mezze misure sono da mezze calzette. Questo è il fronte su cui il fallimento dei governi Berlusconi è più grave e ingiustificabile. Per quel che riguarda il fisco si deve partire dal debito pubblico: ha raggiunto il 120% del prodotto interno, ammonta a 1.935 miliardi e ce ne costa 73 l’anno. Le tasse che gli italiani pagano sono al servizio di questo debito, come della resa culturale di Giarda, quindi della rinuncia a rimpicciolire lo Stato. Anche qui, niente pannicelli caldi: il debito va abbattuto, non mantenuto.

Farlo con le tasse è impossibile. Farlo con una patrimoniale è suicida. Ecco una proposta: si costituisce una società pubblica, nella quale si fanno confluire beni mobiliari, immobiliari e crediti pubblici; se ne affida la gestione a manager internazionali, incaricati di quotare il tutto e dismetterne il 10-20% ogni anno; i proventi delle vendite vanno per la metà ad abbattere il debito e per l’altra metà a finanziare grandi opere infrastrutturali (reti di telecomunicazioni, strade, ponti, energia, ecc.); solo chi, fra i grandi investitori istituzionali del mondo, ha finanziato le dismissioni acquisisce il diritto a cofinanziare le opere. In questo modo non si chiede l’elemosina, ma si propongono affari. In questo modo non ci si becca la lezione (giusta) di Andy Xie (economista cinese), ma si dimostra, a lui e al mondo, di che pasta è fatta l’Italia.

Certo, occorre una classe dirigente che non sia composta da gente che non sa quel che dice, che si arrende senza combattere, o che si candida a vincere le battaglie del passato. Fra noi e un nuovo rinascimento c’è un ostacolo terribile, costituito dalle menti che non sanno che concepire la sconfitta, avendola incarnata. Facciamoli contenti, restituiamoli alla loro vita privata.

giovedì 12 aprile 2012

Longevità

jena@lastampa.it

Allarme del Fondo monetario: «Salvate il welfare, sbrigatevi a morire».




L'appello di Brunetta: "Monti tagli il debito oppure è tutto inutile". Gian Battista Bozzo

Martedì spread alle stelle e Borsa a picco, mercoledì spread giù e Borsa su, oggi e domani chissà. Renato Brunetta, che cosa sta succedendo?
«Ma il premier Monti non aveva detto, qualche giorno fa in Asia, che la crisi dell’eurozona era finita? Mi viene da sorridere.
E resto allibito anche dal fatto che il presidente del Consiglio abbia attribuito il peggioramento dello spread alla Spagna o alla Marcegaglia. Forse è stanco. Un Monti freddo e razionale non avrebbe mai detto queste cose, profondamente sbagliate».

Qual è allora il quadro vero?
«Andiamo con ordine. La nuova bufera colpisce l’Eurozona dal 21 marzo scorso, quando Citigroup esprime preoccupazioni per la Spagna. Si riapre la caccia alla volpe, stavolta la preda è Madrid. Il tutto senza particolari ragioni se non quelle che conosciamo benissimo: debolezza di governance della Ue, impotenza della Bce, reazioni in salsa tedesca troppo limitate e sempre in ritardo. Le vittime vengono designate sulla base di pretesti. È una storia che abbiamo già visto dal 4 ottobre del 2009, cioè dalla scoperta del buco nei conti pubblici della Grecia».

E la speculazione brinda.
«Oltre alla speculazione c’è qualcun altro che ci guadagna: la Germania. L’Europa non si è chiesta quale fosse la sua vera debolezza, che consiste nell’egoismo tedesco, incapace di redistribuire la sua crescita. Nessuno ha riflettuto sul fatto che l’attacco alla Spagna sia giunto negli stessi giorni in cui il governo Rajoy varava una manovra da oltre 27 miliardi? Insomma, la vittima ha sempre torto. Nel frattempo, la Germania piazza bund decennali all’1,64%, un tasso mai visto in precedenza. L’Eurozona finanzia il debito tedesco, a costo zero per Berlino».

Da noi, i tassi aumentano.
«Se fossimo dei farabuttelli di provincia diremmo che è colpa di Monti. Ma siccome siamo persone serie, non diciamo simili bestialità, pur ricordando che venivano pronunciate da tutti qualche mese fa. Allora fu messo in croce Berlusconi, oggi potremmo fare la stessa cosa con Monti, ma non è cosa seria. Però non si dica che è colpa dell’articolo 18 o della Marcegaglia, o della crisi dei partiti, o della corruzione, perchè sono scemenze. La colpa di Monti è di non aver battuto i pugni in Europa, per riequilibrare l’insopportabile vantaggio tedesco in questa fase».

Quindi lo spread...
«Ma che cosa avremmo dovuto fare ancora? Il governo Berlusconi ha approvato manovre per 265 miliardi, abbiamo il pareggio di bilancio nel 2013, Monti dispone di una maggioranza mai vista, fa cose buone e abili e lo spread sale di 100 punti in un lampo? Basta con questo masochismo, mentre i mercati se la ridono».

Si accettano suggerimenti.
«Occorre una duplice operazione. Una in Europa, facendosi capofila di tutti i Paesi che in questa situazione non ci stanno più, cioè tutti tranne la Germania, modificando i termini del fiscal compact e chiedendo a gran voce gli Eurobond. In casa, ci vuole una riduzione straordinaria del debito pubblico, vendendo gioielli di famiglia per 200/300 miliardi. Un’operazione che libererebbe enormi risorse per la crescita, e che neppure noi siamo riusciti a fare per il conservatorismo di Tremonti e della Lega. Se il governo Monti, con la maggioranza e l’appoggio mediatico di cui dispone, non è capace di attaccare il debito, allora mi chiedo perchè esista il governo Monti».

Qual è il giudizio sulla riforma dell’articolo 18?
«O c’è migliore efficienza nella creazione di posti di lavoro, oppure è meglio non far nulla. Il testo del governo è insufficiente. E del resto, non si può fare una riforma con tutte le imprese contro e la sola Cgil a favore».

Arriva l’Imu, probabilmente aumenta l’Iva, e il viceministro Grilli annuncia che le stime della recessione saranno riviste in peggio.
«L’Imu, e le famiglie se ne renderanno conto presto, è insopportabile, e porterà effetti perversi: sarà un boomerang. Quindi bisogna far valere gli aumenti dell’imposta sulla casa per il solo 2012, farli pagare a rate, e ritornare all’esenzione della prima casa dal 2013.

Quanto all’Iva, mi chiedo a quali esiti stia portando la strombazzata spending review. Se anche l’ottimo ministro Giarda alza le mani in segno di resa, non cavano un ragno dal buco. A cosa serve un governo tecnico se non a fare le cose difficili? Se lo spread peggiora, faremo un governo tecnico al quadrato?». (il Giornale)

mercoledì 11 aprile 2012

La stampa fa la festa alla Lega ma solo su invito delle Procure. Giancarlo Loquenzi

A leggere le paccate di pagine che i quotidiani dedicano in questi giorni alla Lega e alle sue disavventure politico-familiari viene davvero da chiedersi a cosa serva la libera stampa in Italia.

Sembra come se il fior fiore dei giornalisti politici fosse solo in attesa di un segnale di start dalle Procure per rimboccarsi le maniche e scoprire così i misteri inconfessabili custoditi nelle segrete della Lega Nord. Improvvisamente i nostri impavidi cronisti politici hanno scoperto tutto sulle finte lauree di Umberto Bossi, sui diplomi comprati da Renzo, sulle manie della signora Bossi, sull’impresentabilità politico-personale di Rosy Mauro, sulle trame del “cerchio magico”, sul nepotismo dei signorotti di Gemonio, sull’allegra gestione del finanziamento pubblico. In realtà come è evidente a tutti, il 99,9 per cento degli infiniti racconti che oggi ci vengono propinati come il grande disvelamento dell’inganno leghista era già tutta roba nota.

Solo che i giornali la tenevano sottotono, tutti insieme, per prigrizia e per corrività, concordi nel raccontare un’altra storia.Tutti i giornalisti politici sapevano che Bossi era ormai solo un anziano signore bisognoso di cure e che le sue uscite pubbliche venivano sapientemente dosate e controllate dal suo inner circle. Tutti sapevano e vedevano che Rosy Mauro era quanto di più lontano ci potesse essere dalla figura e dal ruolo di vice-presidente del Senato. E paradossalmente fa bene la “Badante” a chiedersi perché dovrebbe dimettersi proprio oggi e no il mese scorso o l’anno scorso o il giorno dopo essere stata eletta. Tutti sapevano chi fosse Francesco Belsito, le sue prodezze scolastiche, i suoi investimenti spericolati, le sue dubbie frequentazioni. Tutti sapevano che Renzo Bossi aveva vinto le elezioni in Lombardia grazie al suo cognome e che il progetto di farne l’erede della leadership leghista era nato all’interno del cerchio magico come contrappeso al declinante potere di Umberto.

Lo sapevano, ma lo intervistavano come fosse già il leader, tutti, persino Libero che oggi si fa vanto di averne per primo chiesto le dimissioni e ieri lodava il suo coraggio per essersi candidato nelle liste proporzionali e al di fuori dal listino protetto. Sentite cosa scriveva Libero nel 2010 quando sembrava che Renzo Bossi dovesse diventare il segretario dei “Giovani Padani”: “Oltre agli equilibri interni del partito, la nomina di Renzo Bossi porrebbe le basi per il nuovo corso della Lega Nord: anche qualora il limite d’età per la dirigenza dei Giovani Padani dovesse essere portata a 29 anni, Renzo Bossi (classe ’88) avrebbe la bellezza di sette anni per fare esperienza all’interno del movimento, arricchendo il suo curriculum politico. Così facendo, quando Umberto Bossi deciderà di ritirarsi, il timone di comando della Lega Nord passerebbe, in maniera quasi scontata, nelle mani del successore naturale Renzo.” L’erede naturale, capito? E non si discute.

Cosa è cambiato da allora ? Il video con l’autista che gli passa 50 euro davvero basta a trasformare Renzo da promessa per il Nord a mascalzone? Tutti sapevano tutto e non lo scrivevano. Salvo qualche eccezione che conferma la regola. Come il celebre articolo di Cristina Giudici su Panorama del settembre 2011: “Lady B. imperatrice della Padania”. Lì c’era già scritto tutto quello che in questi giorni viene rimestato e ripetuto: “La moglie del ‘Senatur’ è l’anima nera del movimento. Gestisce l’agenda del marito stabilisce chi affiancargli, chi premiare. E ora sta combattendo la lotta contro i ‘maroniani’ ribelli e dissidenti che non le perdonano di trattare il partito come un bene di famiglia, da destinare al ‘Trota”’, vale a dire al figlio Renzo”.

Per quell’articolo Cristina Giudici venne metaforicamente linciata dai leghisti – Maroni compreso; il settimanale Panorama fu querelato e Calderoli e Maroni andarono con piglio di guerra da Berlusconi a chiedere sonanti riparazioni e la sua totale dissociazione dal giornale, cosa che lo sventurato concesse. Non mi sembra di ricordare che la Giudici riscosse particolare solidarietà da tutti quei colleghi che oggi allegramente affondano a piene mani negli stessi materiali che lei ebbe il merito di mostrare con un anno di anticipo.

No gli altri colleghi, quelli seri e pensosi, i legologi laureati, gli analisti di prestigio hanno aspettato il via delle tre procure per dare inizio al festino sul corpo della Lega già cadavere. A quel punto tutto è diventato raccontabile, gli archivi si sono aperti, la memoria si è svegliata e a tutti è sembrato di essere dei coraggiosi cercatori della Verità arruolati nelle truppe del Bene. Viva la faccia del Fatto Quotidiano che, per non sbagliare, pubblica ogni giorno pari pari le carte delle Procure e non ha paura di sporcarsi le mani. (l'Occidentale)

Un anno perso. Davide Giacalone

Fra poche settimane la crisi dei debiti sovrani europei, che descrivemmo subito come crisi strutturale dell’euro, compirà un anno. Un anno perso. I 1000 miliardi della Banca centrale europea hanno avuto un effetto sintomatico, passato il quale si torna dove eravamo. Chi, oggi, dicesse che il risalire degli spread è colpa del governo Monti sarebbe un volgare imbroglione. Lo era anche chi lo sosteneva l’estate scorsa, addossando al governo italiano responsabilità che erano europee. Allora si gridò alla necessità di fare in fretta, dopo un anno si mormora senza avere il coraggio di riconoscere che noi azzeccammo la diagnosi, sostenendo che solo quella europea era la sede per risolvere il problema, mentre chi ci diede lezioni prese fischi per fiaschi, o, peggio, fece finta di non capire.

L’asse Merkel-Sarkozy si mosse per tutelare le banche francesi e tedesche, impoverendo gli europei e trasformando l’Unione monetaria in un vincolo capace di bruciare ricchezza. Andava fermato, invece si scelse di assecondarlo e asservirglisi. Il risultato è deprimente: pressione fiscale intollerabile, sistema produttivo allo stremo, debito pubblico sempre più pesante rispetto al prodotto interno (dato che il secondo scema). Un esempio da manuale di quanti errori si possano commettere agendo in base ad un pregiudizio, senza essere dotati di sufficiente cultura e prestigio politico. Sostenendo che la crisi dell’eurozona era riassorbita s’è commesso un terribile errore di valutazione. Affermando che quel successo è dovuto alle riforme italiane ci s’è addossati colpe che non erano nostre. Solo l’insipienza di partiti politici in stato confusionale consente al governo di non fare i conti con tali responsabilità.

La sconfitta europea si misura nell’attesa del risultato delle presidenziali francesi, nella speranza che sia un elettorato nazionale, sfiduciato e incattivito (il fatto che la maggioranza relativa dei giovani manifesti consensi per Le Pen la dice lunga), a far saltare il banco. L’Europa che sognammo non è questa, e neanche le somiglia. La crisi poteva essere l’occasione per una maggiore integrazione e consolidamento istituzionale, invece ha fatto annegare ciascuno nei propri egoismi e miopie nazionali. Noi compresi, che ci tirammo gli spread nella schiena, come coltellate, felici di vendette miserabili.

I greci sono tenuti in bancarotta, ma senza volerla chiamare con il suo nome. Gli spagnoli dismettono il welfare sanitario, ma non in una logica di riforma europea, come si dovrebbe, bensì in un inutile sforzo contabile. Gli italiani si stanno dissanguando pagando tasse che assecondano l’inutilissimo tentativo di mostrarsi diligenti nei confronti di una dottrina anti europea. Mentre i tedeschi finanziano i loro debiti senza pagare e alimentano la loro bilancia commerciale senza curarsi delle conseguenze. Aggiungete gli inglesi che si sono sganciati dal nuovo trattato, metteteci gli irlandesi che lo bocceranno e avrete chiaro il quadro di un’Unione che s’avvia a scomparire per insufficienza mentale e storica della classe dirigente europea. Un continente ricchissimo, pregno di valore tecnologico, che potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo nel mondo e che, invece, si flagella con moralismi bilancistici, destinati a scatenare la reazione popolare.

Noi italiani abbiamo, in più, un debito pubblico esagerato, che dovremmo cercare di abbattere e che, invece, c’incaponiamo a mantenere ciucciando via soldi a chi potrebbe produrre e consumare, per destinarli al rogo. La logica dell’allineamento ai dettami tedeschi non era sana, ma almeno avrebbe avuto un senso se avesse prodotto riforme a lunga gittata. Invece abbiamo fatto quella delle pensioni e lì ci siamo fermati, lasciando il resto in balia della logorrea impotente e supponente. Il dolore senza risultati alimenterà la rabbia, che metteremo sul conto di chi credette che quello italiano fosse un problema di stile, anziché di sostanza. C’era anche un problema estetico, certamente, ma occorre essere ottusi assai per considerarlo prevalente.

La ricetta diversa c’è, l’abbiamo ripetuta e ci torneremo (tagliare sia il debito che le tasse, riformando il welfare e privatizzando). Un anno dopo, però, è urgente che s’esca dall’ipocrisia che da un anno ci ammorba: il problema non sono i conti italiani, o i trucchi greci, ma l’euro, e la soluzione consiste nel portare sovranità politica nella sua gestione, non nel cedere sovranità nazionale alla Bundesbank. Da un anno si va nella direzione sbagliata. Il tempo perso è costato a noi e all’Unione. Che altri ci abbiano guadagnato è un motivo in più per cambiare terapia.

martedì 10 aprile 2012

Del prof. Monti & Co. ci ricorderemo a lungo. E non sarà un bel ricordo. Giuliano Cazzola

Domanda: abbiamo mandato al potere un governo di eletti, rappresentativo delle migliori virtù scientifiche e civiche del Paese oppure ci siamo messi nelle mani di un gruppo di incompetenti per di più arroganti e vanagloriosi, che se la cantano da soli? Non è facile rispondere a questa domanda per tanti motivi. In primo luogo per questioni di coerenza personale. Chi scrive ha creduto in questa compagine e ne ha sostenuto i primi atti. Deve compiere allora un bel po’ di autocritica. In secondo luogo, è del tutto evidente l’appoggio di cui Monti e i suoi ministri ancora godono, nonostante tutto. E non è un appoggio solo mediatico, ma anche politico, da parte delle lobby più potenti del Paese e della Comunità internazionale. Lo si vede dal coro di apprezzamento unanime che accompagna ogni iniziativa del Governo, praticamente a scatola chiusa.


Ma non è ancora finita: da noi «colà dove si puote ciò che si vuole» si è deciso che questa esperienza debba andare avanti, comunque. Non è un caso che l’ufficio di presidenza del Pdl, con la presenza e la partecipazione di Silvio Berlusconi (da tempo defilato e attento ad altre attività), si sia riunito poche ore prima del cruciale passaggio riguardante il disegno di legge sul mercato del lavoro. E che i vertici del partito siano usciti da quella riunione con un ordine preciso: «Adelante Pedro, con judicio». Così, nel vertice notturno di Palazzo Chigi il provvedimento ha avuto il benestare di ABC e solo una fortunosa circostanza ha consentito al PdL di ottenere qualche modifica sul punto delicato della flessibilità in entrata, appena in tempo per mettersi alla testa di un mondo imprenditoriale imbufalito e inadeguatamente rappresentato da una Confindustria confusa e dedita al compromesso, la quale si era accontentata della foglia di fico posta, nel documento del 23 ottobre, sulla «vergogna» dell’articolo 18. E’ ormai evidente che il disegno di legge passerà, magari con talune altre modifiche, ma che non cambierà la sostanza di un provvedimento nato all’insegna di una visione scorretta del mercato del lavoro. E’ come un vestito di sartoria: se il taglio è sbagliato non si aggiusta più.

Ma quale giudizio possiamo dare di questo Governo, una volta che ha dato corso agli aspetti più importanti del suo programma? Certo, la manovra «Salva Italia» ha impressionato i mercati per la sua brutalità ed ha consentito all’Italia di allontanarsi da una spirale negativa che sembrava ormai fuori controllo. Quanto alle semplificazioni e alle liberalizzazioni, il merito dell’esecutivo è stata soprattutto quello di recuperare vecchie elaborazioni e sdruciti articolati messi a punto dal precedente governo e di farli approvare. Si è trattato, però, di interventi che non sono serviti a scuotere l’economia, tanto che la recessione è arrivata in termini più pesanti del previsto, mentre il superministro Corrado Passera, come le stelle di Cronin, si limita a guardare, parlando delle condizioni del Paese alla stregua di un osservatore che partecipa ad un Forum in qualche amena località affacciata su di un lago prealpino.

Ma è sulle iniziative fondamentali che il Governo Monti ricorda l’apprendista stregone della favola, che viene travolto dalle forze che ha evocato e che non riesce a gestire. In pochi mesi, in un contesto non solo di crisi ma di netta recessione con effetti importanti sui livelli di occupazione, l’areopago dei professori ha cambiato tutto: le pensioni, gli ammortizzatori sociali, i contratti di lavoro che più vengono usati. I risultati sono evidenti: una riforma della previdenza grazie alla quale il nostro si trasforma nel sistema più rigoroso di Europa; l’esclusione dalle nuove regole di un numero imprecisato di persone (il dato dei 357mila derogati, che possono cioè avvalersi delle regole previgenti, non è mai stato smentito) per le quali non è sufficiente la copertura finanziaria stanziata; una ristrutturazione degli ammortizzatori sociali che vede accorciato il periodo di fruizione, soprattutto nella parte in cui non è interrotto il rapporto di lavoro con l’azienda.

Che dire? Sicuramente queste misure andavano assunte, ma nella realtà concreta, sorgono tanti problemi: in piena recessione si riduce l’ambito di protezione del reddito per chi ha perso il lavoro mentre si allontana la possibilità di accesso alla pensione. La riforma del mercato del lavoro aggiunge ancora incertezza per le imprese: a fronte di un intervento poco più che simbolico sulla disciplina del licenziamento individuale (il fatidico art.18), si presume ope legis che tutti i contratti flessibili in entrata siano fasulli, salvo prova contraria. La sanzione è la trasformazione del rapporto atipico in uno a tempo indeterminato. In sostanza, sempre nel bel mezzo di una grave crisi, il mercato del lavoro diventa più rigido. Tutto ciò che non serve alle imprese e ai lavoratori. Il diritto del lavoro è una materia delicata. Ognuno degli istituti che il disegno di legge pone in una sorta di custodia cautelativa aveva un preciso profilo giuridico dettato dalla legge Biagi e da un giurisprudenza consolidata. Si dice che bastano tre parole del legislatore per mandare al macero intere biblioteche. In questo caso di nuove e cervellotiche parole ne sono state scritte qualche migliaia. Tutto ciò seminerà confusione e dubbi, che renderanno problematiche le assunzioni. Persino in materia di licenziamenti individuali la disciplina è stata riscritta di sana pianta, anche se, nelle intenzioni, i cambiamenti sostanziali sarebbero dovuti essere assai limitati. Insomma, di questi professori ci ricorderemo per un pezzo. E non sarà un buon ricordo. Per favore: arridatece er puzzone! Rivogliamo la politica. (l'Occidentale)

Sì al finanziamento (non pubblico). Davide Giacalone

Il sistema di finanziamento dei partiti deve cambiare, ma detta così non significa nulla. Peggio: detta così aggrega al gregge sbandato dei capipartito senza partito, di chi parla senza pensare. Meglio far proposte concrete, come quella che segue. L’obiettivo da raggiungere non è mettere sotto tutela la politica, ma liberarla. Per questo la gran parte delle cose che si sentono appartengono al mondo dell’orrore, o, più semplicemente, della ruvida ignoranza.

Marcello Pera ha ragione: pensare di sottoporre la vita interna dei partiti all’iniziativa delle procure, e la loro vita economica ai magistrati contabili, è da sistema dispotico, come anche creare autorità indipendenti (e chi le nomina, se non quelli che hanno già lottizzato tutto il resto?) che controllino il prodotto della sovranità popolare. Ma si tratta di un dispotismo che non nasce dalla prepotenza, bensì dall’insipienza. Non si afferma con la forza, ma campa di debolezza. Il dibattito in corso è lo specchio fedele dell’ameba cui la politica è ridotta. Chiarito il punto di vista, veniamo alla proposta.

Il finanziamento pubblico dei partiti va abolito, non un soldo deve uscire dalle casse pubbliche per andare a tintinnare nelle associazioni private. Il finanziamento della politica è attività nobilissima, da cui dipende la vita stessa della democrazia. Quanti maneggiano soldi dei partiti meritano rispetto, perché sono motori di un sistema circolatorio che regge la libertà. Ma devono essere privati che maneggiano soldi di privati. Il finanziamento della politica deve essere affare dei cittadini, non dello Stato.

Quando i militanti finanziavano (sebbene in piccola parte) i loro partiti se ne sentivano anche padroni. Se la politica la finanzia lo Stato i cittadini se ne sentono estranei. Giustamente. Il finanziamento pubblico, inoltre, costituisce concorrenza sleale contro le nuove formazioni politiche, che partono svantaggiate. E’ importante, all’opposto, che i cittadini sappiano di potere fare e contare, anche solo versando dei soldi. Davanti a spettacoli deprimenti, alla domanda: che ci posso fare io? La risposta deve potere essere: aiuta chi si oppone, chi ha proposte diverse. La cosa vale in particolare per la borghesia guicciardiniana (adusa a ripiegarsi nel proprio particulare), come per la piccola e media impresa, che potrebbe contare assai di più (e sarebbe un bene) se solo pensasse d’avere un ruolo determinante, come l’ha nell’economia del Paese. I soldi pubblici scacciano le forze buone, per questo devono sparire.

E la trasparenza? Chi pensa che possa essere garantita da giudici contabili, che furono nominati dalla politica, è matto. Come mettere Paris Hilton a impartire lezioni di virtù in un collegio femminile: lo farà per rabbia, disperazione, per vendetta, dopo essere invecchiata, di certo non per vocazione. La trasparenza è figlia del conflitto: se i soldi te li da lo Stato io penso che siano spesi male, lui pensa che te li freghi e tutti e due non ci aspettiamo nulla; se te li do io voglio sapere che ne fai. Se regalo soldi a congreghe familiari è segno che mi piacciono quelle, e buon pro mi faccia, se li destino a forze politiche vere avrò avuto cura di controllare come funziona il controllore interno. E’ questo che porta alla trasparenza: l’interesse.

Così fanno politica e vincono solo i ricchi? E’ l’opinione dei poveri d’idee. I soldi aiutano, e in certe condizioni sono determinanti, ma in un sistema democratico sano con i soldi vinci una o due volte, dopo di ché o porti i risultati o il tuo avversario ti distrugge investendo cento euro, quanto basta per dire: cacciate l’incapace. Capisco, però, che occorre venire incontro al piagnisteo antiplutocratico, ben concimato dalla cultura italica, sicché ammetto anche il finanziamento pubblico, ma non in soldi: lo Stato paghi le sedi (in appositi edifici), i collegamenti internet, le linee telefoniche, gli spazi dove appiccicare i manifesti (così non li mettono sui monumenti) e gli spazi televisivi e radiofonici. Se non riesci a prendere voti neanche dopo che ti hanno ascoltato è segno che non hai nulla da dire ed è bene che tu vada a lavorare. C’è gente che non ha mai avuto tale emozione, nella vita. Aiutiamola.

Infine: con i soldi dei privati la politica diviene schiava dei loro interessi. Tesi suggestiva, ma poco seria: che c’è di male? Fa paura la politica inutile, non quella funzionale. Resta da stabilirsi se quegli interessi sono generali o minoritari, per giunta ai danni della collettività, nel secondo caso destinati a soccombere. Facile dire che non viviamo nel mondo (e nel mercato) ideale, ma sbagliato rassegnarsi al peggio per evitare il male.

Un tempo si finanziava la politica e si davano garanzie agli eletti per evitare che perdessero la loro libertà. Ora li si finanzia e protegge talmente tanto da averli ridotti a leccapiedi di chi compila le liste. Basta così, cambiamo.

Una parola al trio quirinalizio (Alfano, Bersani, Casini): lo facciano fare al governo, per decreto, e neanche i familiari si ricorderanno più la ragione della loro esistenza.

giovedì 5 aprile 2012

Bufera sulla Lega, Bossi si dimette "E' una decisione irrevocabile"

Milano, 5 apr. (Adnkronos/Ign) - Umberto Bossi ha rassegnato le dimissioni da segretario della Lega Nord. In Consiglio federale, a quanto si apprende, avrebbe detto che la sua scelta è irrevocabile
A guidare il partito fino al prossimo cogresso saranno la parlamentare veneta Manuela Dal Lago, Roberto Maroni e Roberto Calderoli. Ad indicarli è stato il Consiglio federale.

mercoledì 4 aprile 2012

Rumeni a mano armata. Roberto Santoro

Dicendo che i delinquenti rumeni in Italia sono statisticamente il peggio sulla piazza si finisce per essere etichettati subito per razzisti. Di sicuro non c'è fine al peggio, e i magliari mafiosi e ndranghetisti nostrani sanno come farsi valere, ma certi predoni stranieri una marcia criminale in più ce l'hanno. Non è un discorso "genetico": di stupidaggini razziali sono piene le ideologie del Novecento, comprese, purtroppo, quelle made in Italy. Ma che un problema con la mala rumena ci sia, per un complesso miscuglio di ragioni storiche, politiche, giuridiche e culturali, non si dovrebbe negarlo a priori in nome del solito relativismo.

L'obiezione principale alla tesi "i delinquenti rumeni sono più feroci di altri" è presto detta: un'invenzione della stampa (di destra), che non guarda a quante donne vengono stuprate dai loro mariti e fidanzati italianissimi nelle quattro mura di casa, o ai bambini sciolti nell'acido come raccontano le cronache mafiose. "Italians do it better", solo che i nostri connazionali sbiadiscono perché il mostro in prima pagina fa più notizia se straniero, immigrato o clandestino.

Eppure i dati Istat degli anni scorsi qualcosa dimostrano. Secondo Marzio Barbagli, pur essendo il 5 per cento circa della popolazione, nel 2006 gli stranieri hanno compiuto un terzo dei reati totali, con percentuali più elevate in quelli predatori e violenti. Prima che la Romania entrasse nella Ue, dunque, si era già scoperto che i rumeni in Italia (sì, ok, ci sono anche i rom, popolosa minoranza di quel Paese) si macchiavano di più furti, rapine, stupri e traffici (stupefacenti e corpi umani) degli altri.

La prima spiegazione deriva probabilmente dall'idea, attraente per un criminale, che il nostro è uno Stato di diritto. Nell'Italia repubblicana non c'è mai stata la Securitate. Male che vada, qui prendi l'ergastolo. Un secolo e mezzo di civiltà giuridica ci ha messo una spanna sopra la dittatura di Ceaucescu, in cui si pensava che la tortura fosse un buon metodo per reprimere crimini e dissenso. Così, i tribunali italiani a un certo punto hanno rappresentato un agognato asilo per la diaspora criminale dell'Europa Orientale.

Qualche esempio. Il Mailat cittadino rumeno di origine rom che nel 2007 stuprò e sfondò il cranio a Giovanna Reggiani. Ergastolo, l'allora sindaco Veltroni indignato: "Prima dell'ingresso della Romania in Europa, Roma era la città più sicura al mondo", poi le ronde, la caccia all'uomo nei campi rom, il rampage neonazista al Pigneto. Alla fine che succede? Deportazioni di massa? Il gatto a nove code? Alcatraz? Niente di tutto questo. Voilà, la Corte d'Assise tramuta l'ergastolo di Mailat a 29 anni di pena, perché l'assassino della Reggiani "viveva in un ambiente degradato" e andava "rieducato" com'è giusto che sia nel Paese di Beccaria. E non lo diciamo con ironia.

Una giovane turista americana circuita da un homeless, sempre rumeno, a Villa Borghese, gettata in una fossa scavata sottoterra e stuprata (a Villa Borghese, non a Corviale), benché riesca a scappare miracolosamente dalle grinfie del suo aguzzino. Oppure la terribile storia di Luca Rosi, freddato con 4 colpi di pistola perché si era permesso di reagire quando uno dei tre rumeni della banda che era penetrata in casa dei suoi genitori, dopo aver rubato il rubabile, aveva intimato alla moglie del bancario: "Tu vieni con noi". La stessa banda qualche mese prima aveva fatto irruzione in casa di una anziana e l'aveva stuprata (un'anziana) dopo averle sottratto ciò che aveva.

Col tempo gli accordi tra le nostre forze dell'ordine e quelle rumene qualche risultato lo hanno prodotto e gli assassini di Rosi sono stati assicurati tutti alla giustizia (l'ultimo alla fine di marzo), ma possiamo aggiungere che la predisposizione della criminalità rumena alla violenza sulle donne è il riflesso di una società misogina e patriarcale, in cui le femmine stanno al loro posto, faticano in silenzio, e, se entriamo nel campo della criminologia, vengono sfruttate, vendute, prostituite?

Nel postcomunismo la "Tigre dell'Europa Orientale" è stata una nazione eccezionale, capace di stupire tutti con grandi risultati economici, ma forse un po' meno sensazionale dal punto di vista giudiziario e della lotta al crimine e alla corruzione. Quando la Romania convinse Bruxelles ad aprire le porte, alcune democrazie occidentali (Germania, Olanda, eccetera) ci pensarono due volte prima di spalancare le frontiere, imponendo caveat ben precisi agli immigrati. L'Italia, assieme alla Spagna, la pensavano diversamente. Di regole ne misero meno, per assicurarsi i traffici e le merci. Salvo poi rifarsi successivamente a suon di ronde, volontari verdi e respingimenti. Ma ormai la frittata era fatta. (l'Occidentale)

Le verità nascoste. Ernesto Galli della Loggia

La disoccupazione italiana, specie quella giovanile (dai 15 ai 24 anni) e femminile - e nel Mezzogiorno in modo particolare - ha raggiunto le cifre drammatiche di cui tutti i giornali ieri parlavano: in pratica un giovane italiano su tre e circa la metà delle giovani donne meridionali sono senza lavoro.

Molto meno si parla, invece, di altri dati, altre cifre, altre questioni, che riguardano il mercato del lavoro e che forse non sono così irrilevanti. Mi riferisco alle cose scritte negli ultimi tre giorni sulle colonne del Corriere dal senatore Pietro Ichino. A cominciare dal fatto, per esempio, che dal Lazio in giù (Lazio compreso) nessuna delle Regioni italiane, nonostante queste abbiano la totale competenza legislativa in materia di servizi al mercato del lavoro, nessuna Regione dal Lazio in giù, dicevo, si è messa in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio o qualunque altro dato indispensabile per conoscere, e quindi cercare di indirizzare, il mercato del lavoro. (Lo sanno, mi chiedo, i giovani meridionali che è questo il modo in cui i vari Vendola, Caldoro, Scopelliti, Lombardo si preoccupano del loro futuro?). Egualmente significativo, mi sembra, il dato della scarsa utilizzazione in Italia delle agenzie private di outplacement : le quali, dietro compenso, sembra invece che conseguano ottimi risultati nella ricerca di lavoro per chi non lo ha o lo ha perduto; ma, di nuovo, senza che in generale le Regioni si degnino di prestare il minimo aiuto finanziario a chi intenda ricorrervi.

Ma mi sembra che la questione centrale che viene fuori dall'analisi di Ichino, il vero punctum dolens di carattere strutturale del mercato del lavoro italiano - dunque verosimilmente non riassorbibile con un eventuale miglioramento della congiuntura economica - sia la questione dell'assunzione a tempo determinato, che ormai riguarda oltre i quattro quinti dei nuovi contratti di lavoro. Questione centralissima, perché è essa soprattutto che getta un'ombra cupa di precarietà e d'insicurezza sulla vita di milioni di nostri concittadini, che impedisce loro qualunque progetto per l'avvenire. E che quindi impedisce al Paese intero di credere nel suo futuro. Questione - cui si deve tra l'altro se l'Italia è drammaticamente fuori dagli investimenti stranieri - la quale con ogni evidenza dipende in particolar modo da una causa. Da «una legislazione del lavoro ipertrofica e bizantina», come scrive Ichino, che rende oltremodo problematico il licenziamento (e aleatorio il suo costo) «quando l'aggiustamento degli organici si rende necessario». E che perciò scoraggia moltissimo dall'assumere se non a tempo determinato: presumibilmente anche se domani la situazione economica migliorerà.

Questo è il nostro problema: un tessuto produttivo nel quale chi è stabilmente dentro, difficilmente esce, ma in cui quasi mai chi è fuori riesce stabilmente a entrare. Dove la sola speranza dei disoccupati è al massimo quella di diventare precari. Mi chiedo se dopo settimane di estenuanti trattative sull'articolo 18 la Cgil si renda conto che è precisamente su questo punto, cioè sul diritto dei non occupati ad essere assunti stabilmente, che si gioca il vero futuro del nostro mercato del lavoro e in non piccola parte anche dell'Italia. Se si renda conto che blindare il diritto dei già occupati a conservare per sempre il proprio posto ha un solo inevitabile effetto: farne diminuire sempre più il numero, e basta. (Corriere della Sera )