sabato 30 aprile 2011

La clandestinità resta reato. Davide Giacalone

Al contrario di quanto quasi tutti, con gioia o rammarico, hanno urlato, la Corte di giustizia dell’Unione Europea non ha affatto considerato illegittimo il reato di clandestinità. I commenti di chi festeggia l’umanità caritatevole dei giudici, come di quanti li accusano di rendere impossibili le espulsioni, sono a vanvera. Tirati giù un tanto al chilo. Anzi, la sentenza è l’occasione per imprimere al contrasto della clandestinità una svolta di severità ed efficacia.

Il reato di clandestinità esiste in molti Paesi dell’Unione, posto che in nessuno è consentito soggiornare senza adeguato titolo o permesso. La Corte non ha né titolo né motivo per smantellare quelle legislazioni. Il punto dolente, che c’è costata la bocciatura, è relativo alle ragioni che portano a comminare la detenzione. In altre parole: il perché un clandestino finisce in galera. Noi italiani non siamo troppo cattivi, siamo solo troppo incapaci di far rispettare la legge, espellendo le persone e poi punendole perché non se ne vanno. E’ questo che ci viene rimproverato. In quanto al fatto che la Corte si pronunci sulla nostra legge e non su quelle di altri, la ragione sta nel fatto che è stato un nostro tribunale (la Corte d’Appello di Trento) a chiedere di dichiarare illegittima la legge italiana. Nonostante ciò, la sentenza non apre affatto la via alla mollezza, se solo la politica non si squaglia davanti ai titoli (sbagliati) dei giornali e dei telegiornali.

La direttiva europea (2008/115, entrata in vigore l’anno successivo e immediatamente esecutiva, quindi efficace anche nei 12 Paesi che non l’hanno ancora recepita, fra i quali l’Italia) stabilisce che i clandestini possono essere buttati fuori, e chiarisce che se non se ne vanno con le loro gambe si può ben bloccarli fisicamente, arrestarli e spostarli oltre frontiera. Non c’è buonismo. Il fatto è che la privazione della libertà deve essere temporalmente adeguata all’espulsione, vale a dire che ti blocco oggi e ti mando via entro qualche settimana. Se, invece, come prevedeva la legge italiana, consegno al clandestino un provvedimento d’espulsione e lo saluto, ma poi pretendo di arrestarlo e condannarlo (fino a cinque anni di carcere) per il non essere andato via, è come se facessi pagare a lui l’incapacità statale di dare seguito al provvedimento amministrativo. La detenzione, inoltre, non è temporalmente congrua e non è destinata all’esplulsione.

A noi può andare benissimo, perché, se non hanno commesso altri reati, non abbiamo nessun interesse a riempire le carceri di clandestini. Meglio metterli fuori dal territorio nazionale. Piuttosto, dovremmo stabilire che chi viene bloccato e portato presso un Centro d’Identificazione ed Espulsione (Cie) non può allontanarsi e che se lo fa incorre in un reato che comporta l’immediato arresto e l’altrettanto immediata espulsione, senza ulteriori formalità. Da noi, invece, come abbiamo visto tante volte, da quei centri si va via sotto gli occhi di tutti, fotografi e forze dell’ordine compresi.

La cosa paradossale è che, nel Paese delle chiacchiere e delle sceneggiate, in cui ci si divide fra presunti carnefici e presunti sbracatori, senza alcuna attenzione alla realtà ma con travolgente passione verso l’iperbole e l’esagerazione, si finisce condannati per troppa severità, laddove si sperimentano ogni giorno le conseguenze del lassismo. Roba da ricovero.

Tutto ciò, senza dimenticare le colpe dell’Unione Europea. I giudici sentenzino pure quel che credono, e, come abbiamo visto, la loro decisione è ben diversa da come è stata raccontata, ma resta il fatto che il pachiderma europeo non può pensare d’affrontare un problema immenso dedicandovi una direttiva, fregandosene del suo recepimento e dispensando bacchettate a chi non si mostra felice. Questa è materia che richiede azioni concrete, rapporti con i Paesi di provenienza e contrasto attivo della criminalità che commercia carne umana. Se l’Unione c’è, bene. Se non c’è, non esiste.

venerdì 29 aprile 2011

Il miracolo di san Gianni De Gennaro. Mauro Mellini

Miracolo! Miracolo! Un collaboratore di giustizia in servizio, Massimo Ciancimino, è stato arrestato per calunnia per dichiarazioni rese nell'esercizio delle sue funzioni. Miracolo! Non c'è che dire.Massimo Ciancimino è, in verità, un collaboratore di giustizia sui generis. Non è un assassino e non è mai stato accusato di esserlo. È stato condannato ad una pena insignificante (insignificante per un pentito o aspirante tale) per un reato nemmeno proprio di mafia. Non è stato reclutato, non proviene dal carcere. Ma, soprattutto, non si è pentito. Cioè, si è pentito ma delle malefatte del padre, il ben più noto Vito Ciancimino.Inoltre, Massimo Ciancimino non è un pentito propriamente loquace. Ha una forma di balbuzie del discorso, anzi, del pensiero. Non è, come i più normali suoi colleghi, netto e deciso nelle sue affermazioni. Negli interrogatori quasi balbetta, ritorna sul già detto per dubitarne. Soprattutto annuisce. Annuisce al p.m. a cui rimette le maggiori fatiche del suo discorso, se così può chiamarsi. Ma scrive. E legge documenti paterni. Li «integra», a quanto pare, e neppure troppo abilmente. È esibito (non sappiamo se ora dovremo limitarci a dire «è stato esibito»), come la voce dall'aldilà del padre, Vito Ciancimino, l'uomo del sacco di Palermo. «Il famoso Ciancimino» come si definì una volta presentandosi inopinatamente nel mio studio per chiedermi di essere inserito nelle liste del Partito Radicale.Ma, anomalo o no, loquace o grafomane, esercente in proprio o in nome del «dante causa» don Vito, buonanima, Massimo Ciancimino era un collaboratore d'alto bordo. La sua effige è apparsa su giornali e schermi televisivi, nonché sulla copertina di un libro «Nel nome del Padre» di una certa Casa Editrice Novantacento – Via Libertà 34 – Palermo -2010 tre edizioni. «Ventitrè interrogatori e una valanga di pizzini che riscrivono la storia dei misteri d'Italia». Strano libro. L'indice dei nomi che solitamente, quando c'è, negli altri libri, è alla fine, è invece in apertura, per meglio sottolineare che il succo dell'opera sono i nomi che fa. Berlusconi risulta citato 14 volte, Dell'Utri 29, Mori (il generale) 35, e così via.Massimo Ciancimino era (ma, non è escluso che ancora possa considerarsi tale: mi è capitato il caso di un pentito, tale Salemi, condannato per calunnia e tuttavia ritenuto «ancor più attendibile» perché ciò gli aveva dato modo di pentirsi due volte con riscontri del secondo pentimento che avvalorava quanto dichiarato nell'esercizio del primo!) era, dunque, una delle colonne dell'inchiesta per «le trattative dello Stato con la Mafia». Su questo argomento i p.m. Ingroia, Di Matteo, Messineo, «torchiano» Ciancimino Junior. Cioè torchiano soprattutto sé stessi, perché Ciancimino, per lo più, annuisce. Ed era una delle colonne delle «bocche della verità» delle trasmissioni di Santoro, l'equanime. Sulle «trattative» ed altro. Inchiesta, dunque, sulle trattative tra lo Stato e la mafia. Già, perché in Italia ad essere inquisito può essere anche lo Stato e non per autentici «delitti di Stato», ma per «trattative», una sorta, credo, di «concorso esterno precontrattuale in associazione di stampo mafioso». Per aver trattato con la mafia, cioè all'ingrosso, come i magistrati, anche quando la legge sui «benefici premiali ancora non c'era» trattavano e trattano con i singoli mafiosi. Ma ciò che lo Stato può fare o non può fare con le leggi e con l'attività dell'Esecutivo sono i magistrati, in Italia, a stabilirlo. Con la collaborazione di Massimo Ciancimino, magari. Lo Stato può essere indagato per «tentata amnistia».Se qualcuno ancora dubitasse che il potere giudiziario si pone oramai come «superpotere», al di sopra di tutti gli altri, Governo, Parlamento compresi (anzi soprattutto nei confronti di essi) e nei confronti dello stesso Stato, come una volta la Santa Inquisizione aveva potere su ogni potentato e feudatario e, in qualche modo, pure sul Re, non ha che da fare attenzione a questa storia dell'inchiesta sulla «Trattativa dello Stato con la Mafia», denominazione che non fa batter ciglio a giornalisti, commentatori, mezzibusti televisivi, mezzi giuristi e mezze cartucce della politica, che disinvoltamente l'adoperano. E tanto meno fa batter ciglio ai magistrati che «indagano».Questa è la devianza istituzionale della giustizia italiana, la sua inavvertita (?) eversione.L'utilizzo di un Ciancimino, chiamato a collaborare a così elevata funzione, in fondo, è il meno che ci si possa aspettare. Quando imputato è lo Stato.Ma quando un Massimo Ciancimino, interrogato al dibattimento 23 volte e chi sa quante altre in istruttoria, sui suoi pasticci di collaboratore grafomane impunito di giustizia, tira in ballo De Gennaro, intramontabile «servitore dello Stato», e conoscitore sopraffino dei padroni reali del suo padrone che quelli che se ne intendono sostengono essere stato così «longevo» professionalmente per aver sempre capito che, se lo Stato è da servire, è la magistratura a comandare, allora accade il miracolo. Succede l'impossibile.Anche un collaboratore di giustizia fino ad allora attendibile e «prezioso» (23 volte prezioso!), diventa un calunniatore. Vedremo se gli sarà dato modo di pentirsi di tale calunnia con regolare «chiamata» di correi insospettabili dando luogo, come scrivono certi giudici di mia conoscenza, ad un «circuito virtuoso» che ancor meglio avvalori le sue precedenti dichiarazioni. Intanto, però, per aver tirato in ballo De Gennaro è finito in cella. E poi c'è chi dice che i pentiti sono intoccabili.San De Gennaro continua a far miracoli! (Italia Oggi)

giovedì 28 aprile 2011

Così la cultura italiana è diventata comunista. Giovanni Sallusti

Cronaca di un capolavoro. Sarebbe la dicitura da affiancare a Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, saggio firmato da Francesca Chiarotto in libreria per Bruno Mondadori (pagg. 233, euro 20). In realtà, un manuale sull’arte di costruire un’egemonia culturale, che diventa negativo fotografico dell’oggi. Il capolavoro, tecnicamente s’intende, fu quello del Pci nell’immediato dopoguerra, e soprattutto di un uomo che concentrava in sé l’azione e il pensiero del partito, Palmiro Togliatti (alla faccia della sinistra perbene d’oggidì, che strilla per le derive leaderistiche altrui).

È un’operazione rigorosa scandita a tappe, ma il cui esito era già scritto nelle premesse. Il baricentro è il recupero degli scritti di Gramsci, morto nel 1937 dopo un decennio nelle prigioni fasciste, e la loro presentazione al pubblico come un classico della cultura. Togliatti mira così alla mitizzazione di un padre nobile che garantisca le due direttrici che gli interessano. Il rafforzamento dell’idea che esista una «via italiana» al comunismo, specifica ma ovviamente non contraddittoria rispetto all’ortodossia sovietica. E la capacità di attirare nell'orbita ideologica del Pci tutta l’intellighenzia variamente di sinistra, facendo della discussione sul pensiero di Gramsci un grimaldello di penetrazione intellettuale, extra-politico, e dunque più tranquillizzante. Fatto del gramscianeismo l’abc del discorso culturale, si può saldare attorno ad esso tutto un sistema, mondano e popolare allo stesso tempo, sparso in case editrici, convegni, premi letterari, biblioteche, Case del Popolo, periodici, che avrebbe assicurato il miracolo. Rendere il Pci, perdente nell’urna, dominante nella cultura diffusa.

Operazione che non solo riuscì, ma che trascina i suoi effetti fino a oggi. Togliatti ne aveva talmente chiara la decisività, che già il 3 marzo 1943, in piena guerra, sollecitava il segretario generale del Comintern, Dimitrov, a «recuperare il lavoro del compagno Gramsci in prigione, di cui forse tra breve avremo bisogno per l’immediata utilizzazione nel Paese». Gli originali riposavano nell’allora alla sede del Comintern, e da lì arrivarono direttamente a Togliatti. Per il Migliore, l’operazione Gramsci è una priorità, tanto che già nel maggio 1945 sistema quello che per lui era un tassello fondamentale. Accordarsi per la pubblicazione con una casa editrice prestigiosa e non di partito, ma contigua idealmente al partito: Einaudi. Il materiale da pubblicare era sterminato, e Togliatti puntò in primis sulle Lettere dal carcere, non sui Quaderni, per iniziare a scolpire l’icona nei suoi tratti esistenziali, fin psicologici, e agevolare così l’interesse del mondo non strettamente marxista. Incastrare Gramsci nel Gotha della neonata democrazia, questo era l’imperativo. E non si tralasciò nulla, come l’assegnazione del prestigioso Premio Viareggio del 1947 (decennale della morte di Gramsci) proprio alle Lettere, nonostante l’irritualità del riconoscimento postumo. Fu l’instancabile tessitura di un membro della giuria, il latinista - e comunistissimo - Concetto Marchesi, oggi diremmo la sua operazione di lobbing editoriale, ad ottenere l’unanimità sul nome di Gramsci. Tre anni dopo, si arrivò alla nascita della Fondazione Gramsci, che per consegna togliattiana doveva divenire un centro di irradiazione culturale del marxismo-leninismo nel nostro Paese. Non solo il cervello che forniva l’educazione dei quadri di partito, ma anche un nuovo, potente polo di elaborazione culturale nazionale, confermando il doppio binario con cui Togliatti ha declinato tutta l’operazione Gramsci: consolidamento dell’ortodossia interna ed espansione verso l’esterno dell’influenza intellettuale del Pci.

Fu questo, in fondo, il capolavoro: orientare gran parte dell’intellighenzia italiana sul gramscianesimo, e sul gramscianesimo ritagliato sulle esigenze del Pci. È il capolavoro che non è mai riuscito alla destra, e che non riesce oggi ai liberali, nonostante siano ormai maggioranza alle urne. Al coro interno di obiezioni, per cui per fortuna la destra è troppo individualista e i liberali sono troppo poco ideologici per fare una loro operazione Gramsci, sfugge una distinzione elementare. Non è affatto detto, che un’egemonia culturale nell’anno 2011 vada costruita con gli schemi praticati da Togliatti e compagni. Soprattutto, nessuno lo auspica. Ma un conto è il contenuto, marcio alla radice, della fu egemonia comunista. Altro è il tentativo in sé di accompagnare la propria azione con un’impalcatura culturale degna e non subalterna, anzi propositiva, che dovrebbe caratterizzare ogni grande partito. Dovrebbe, o deve? (il Giornale)

Andrea's Version

28 aprile 2011
Tutto da condividere, il Beppe Severgnini di ieri sul Corriere. Troppa aggressività, nei genitori che portano i figlioli sui campetti per giocare a calcio. Ha ragione da vendere, chiunque può verificarlo. Troppa isteria, troppa voglia di far vincere la prole, in quegli adulti che accompagnano i pargoli alla partita, troppa frustrazione. Mostrano un’ansia che se li divora. Diventano cattivi. Non si può non capire quell’arbitro che amaramente si sfogò: “Certe volte vorrei arbitrare un torneo per orfani”. Molto saggio. Giudizioso soprattutto, Severgnini, quando propone ai calciatori in erba di stroncare il fenomeno obbligando papà e mamma a firmare una dichiarazione preventiva nella quale, entrambi, si impegnano per iscritto a mantenere un comportamento calmo e rispettoso, a non invocare cataclismi contro, “a non augurare infortuni ai piccoli avversari o ispezioni fiscali ai loro genitori”. Bravo Beppe. Rendiamole responsabili almeno verso i piccoli, queste persone mature. Ma glielo dice lei, a papà Zagrebelsky e allo zio Gad? © - FOGLIO QUOTIDIANO

mercoledì 27 aprile 2011

Italia: repubblica fondata sull'esclusione. Andrea Colombo

Giuliano Ferrara ha ragione. I vaniloqui di Alberto Asor Rosa sul manifesto e le argomentazioni di Barbara Spinelli su Repubblica poggiano sulla medesima logica. La si può sintetizzare così: perché il gioco democratico sia realmente tale occorre che i giocatori se la vedano ad armi più o meno pari; la presenza in campo di Silvio Berlusconi dai mezzi di cui l’uomo dispone, nega in radice la precedente regoletta; il solo modo di ripristinare un corretto funzionamento della democrazia è pertanto costringere il baro ad abbandonare il tavolo. Sin qui, il barone rosso e il partito di Repubblica concordano. Per concretizzare il progettino, il primo non vedrebbe male un colpetto dell’Arma , il secondo si accontenta di un ribaltone. Non si negherà che tra le due ipotesi corra una certa differenza, ma sin quasi al traguardo il percorso è identico.

Gli assi nella manica con cui il Cavaliere trucca da quindici anni il gioco sarebbero a conti fatti due: i soldi e le televisioni. Quando si tratta di comprare e corrompere, ma anche quando tutto rientra nelle corrette regole, una disponibilità pressoché illimitata di quattrini qualche vantaggio in effetti lo garantisce eccome. Però conciliare l’ineleggibilità dei ricconi con la Costituzione, in particolare col suo cinquantunesimo articoletto, sarebbe arduo. L’oggettivo problema di garantire una certa equità nei mezzi a disposizione delle forze politiche dovrà essere affrontato ricorrendo a mezzi diversi e meno semplicistici. Impresa, in fondo, tutt’altro che impossibile.

Ma il portafogli gonfio è ancora il meno. Ciò che agli occhi di tanti giustifica l’uso di ogni mezzo contro il malfattore sono piuttosto le televisioni. Quello è un asso che vale per due. Permette di condizionare e indirizzare l’informazione ma anche, ed è ben peggio, di plasmare subdolamente il corpo elettorale imponendogli, serata dopo serata, grande fratello dopo isola dei famosi, sistemi di valori e ideologie profonde .

In realtà la presa sull’informazione del grande manipolatore, più che alla proprietà di Mediaset, è dovuta all’abitudine, diffusa a sinistra né più né meno che a destra, di considerare la Rai il cortile di casa di chi governa. Ma anche glissando sul particolare, davvero c’è ancora qualcuno convinto che le vittorie elettorali di Silvio Berlusconi siano dovute alla televisione? Nel ’94 il mostro ereditò al nord oceani di voti già appannaggio della Lega, che se li era conquistati con pochissimi soldi e nessunissima tv. I telegiornali del 2000 e del 2001 certo non pendevano per Silvio: erano colonizzati quanto quelli odierni, ma dall’armata opposta. Non riuscirono neppure a frenare le disfatte elettorali di quel biennio.

Parecchi pensano di risolvere l’equazione con il condizionamento culturale che le ipnotiche tv del nostro eserciterebbero sin dagli anni ’80. Però i format demoniaci, come Il grande fratello and company, sono diffusi in mezzo mondo e non hanno provocato alle democrazie locali nemmeno un raffreddore. Possibile allora che nessuno si chieda se il reprobo non abbia solo cavalcato un’onda culturale, della quale si è avvantaggiato e che ha poi amplificato, ma senza crearla e rappresentandone piuttosto un sintomo, pur se tra i più gravi?

Anche considerando l’ipotesi di un rincretinimento collettivo di proporzioni mai registrate in precedenza, resta impossibile che una parte tanto vasta e sostanziosa della sinistra italiana, quella moderata e quella radicale, la giustizialista e la garantista, sia davvero convinta di simili sciocchezze, disposta in nome delle stesse persino a civettare con le forze armate. Alle origini dei vaneggiamenti in questione deve pertanto esserci una pulsione più profonda e meno confessabile.

E’ possibile che quella pulsione scaturisca dalle origini stesse della Repubblica. L’Italia è una repubblica fondata sull’esclusione di una parte. E’ figlia di un “arco costituzionale” cementato dall’essere altra cosa rispetto a chi ne era estraneo. Nell’identificazione della Repubblica i fascisti svolgevano, in negativo, un ruolo determinante: l’idea che esistesse un’area politica del paese inconciliabile con la sua maggioranza non era peregrina bensì costitutiva.

Funzionò perché la parte esclusa e inconciliabile con i valori egemoni era limitatissima. I fascisti erano pochi. Già all’inizio degli anni ’80 quel cemento aveva però perso buona parte della sua efficacia, tanto che una prima repubblica sopravvissuta (per poco) a se stessa provò a sostituirlo, inutilmente, con le “forze che avevano vinto il terrorismo”.

Cosa si fa quando la parte esclusa e inconciliabile con i “nostri” valori oscilla intorno al 50 invece che al 5%? Quando un Berlusconi incontra il consenso di moltissimi italiani senza bisogno di lavargli il cervello e La Russa fa il ministro della Difesa senza che nessuno se ne scandalizzi? E’ a questa domanda (giusta) che le teste fini della sinistra da salotto e il più sguaiato antifascismo di strada danno la stessa risposta errata. Si rifugiano nella nostalgia. Ricorrono a un antifascismo ridotto a sottocultura identitaria oppure suggeriscono improbabili alleanze contro natura e le battezzano Cln. Invocano qualche salvifico intervento capace di riportare indietro le lancette del tempo, come se fosse possibile mettere tra parentesi gli ultimi vent’anni.

E’ questa fantasia nostalgica, priva di ogni senso della realtà, che anima gli sproloqui golpisti del barone rosso, le ricorrenti follie sulla costituzione di un “nuovo Cln”, i tentativi sciagurati di resuscitare l’antifascismo militante. Ma è una causa persa e che porta solo a perdere. Berlusconi non è una parentesi. La Russa non tornerà nelle fogne neppure con i Carabinieri. I leghisti in quelle fogne non ci sono mai neppure passati. E’ una partita diversa quella che si sta giocando, e per vincerla bisogna smettere di sperare che l’Italia possa tornare a essere quella che era trent’anni fa. Neppure per decreto. (glialtrionline)

Peggio dei partiti ci sono soltanto i sindacati. Eisenheim

A rappresentare cittadini e lavoratori peggio dei partiti politici, o di quello che ne resta, in Italia sono rimasti solo i sindacati. Carrozzoni autoreferenziali utili solo per permettere ai signori dei piani alti di entrare dalla porta principale dei Palazzi, ormai hanno totalmente perso il contatto con la realtà, ubriacati anche loro dalla brama di potere. Distinguere oggi, nei salotti televisivi o nelle stanze che contano, un segretario sindacale da un leader politico o da un amministratore delegato di una multinazionale è praticamente impossibile.

Invece di bloccare il Paese per costringere il governo a fare in cinque giorni una legge che tuteli veramente gli operai, i precari, i dipendenti all’ultimo gradino della scala sociale, i sindacalisti continuano a portare avanti un’ideologia che non può più essere sostenuta da alcuna azienda o partito che si definisca riformatore e che guardi al futuro. Con il mondo globalizzato la contrapposizione ideologica fa padroni e operai è divenuta ormai obsoleta. Il nuovo obiettivo deve essere la salvaguardia del posto di lavoro e una busta paga che permetta a chiunque di condurre una vita dignitosa.

In Italia i contratti base di chi si affaccia al mondo del lavoro sono un insulto alla povertà. Quello che dovrebbe interessare oggi un lavoratore non è di avere garantita la pausa caffè, le ferie, o di poter andare al concerto autocelebrativo del Primo maggio, ma di lavorare con uno stipendio adeguato a ciò che produce. Chi ha un lavoro precario deve guadagnare il venti, trenta percento in più di un suo pari con un contratto a tempo indeterminato. Un operaio con una famiglia non può vivere con mille euro al mese. È tanto difficile capirlo?

Invece Susanna Camusso prende carta e penna e scrive sul Corriere della Sera una letterina per ribadire la sua opposizione all’apertura dei negozi (che in molti casi faticano ad arrivare alla fine del mese) in occasione dell’arcaica festa dei lavoratori. Perché, dice lei, «consolidare dei valo­ri, dei segni di identità del lavoro fa­rebbe bene a tutti». Come avrebbe detto Totò, ma mi faccia il piacere. (the Front Page)

martedì 26 aprile 2011

Avanti. Jena

Così non si può andare avanti,
così non si può andare avanti,
così non si può andare avanti...
Oddio, mi s’è incantato Bersani. (la Stampa)

La truffa Ciancimino.Ecco tutti i complici del grande imbroglio. Giuliano Ferrara

Solo con la voluttà della calunnia, e con il corri­spondente piacere del­la giustizia politica, può spiegarsi l’infame sto­riaccia di Massimo Ciancimi­no e dei suoi bardi. Arrestato per calunnia e truffa pluriag­gravata, il figlio del corleone­se don Vito da quasi tre anni pontificava con il bollo della Procura di Palermo, del suo numero due, il dottor Anto­nio Ingroia, il magistrato che fa comizi in piazza contro le leggi all’esame del parlamen­to, il professionista dell’anti­mafia che ha la libido da con­vegno, da manifesto politico­ideologico, e che usa il suo de­­licatissimo potere d’indagine e di ac­cusa mescolando­lo con un attivismo politico fazioso in forma incompati­bile con la Costitu­zione e la legge del­la Repubblica.

(Il caso Lassini, al confronto, fa sor­ridere, e bisognerà pure che Milano torni ad essere una capitale della liber­tà, capace di ribel­larsi contro l’oscurantismo borbonico di una giustizia piegata a servire le traversie della politica politicante. Ca­ro sindaco Moratti, lei fa be­nissimo a impegnarsi per una competizione in cui il vol­to moderato e ragionevole della sua maggioranza emer­ga contro ogni manipolazio­­ne interessata, ma mi aspetto da lei e dalla borghesia colta che la sua maggioranza rap­presenta una parola chiara su una grande questione mi­lanese e nazionale: lo strame che si fa della giustizia).

Massimo Ciancimino non è un pentito, non rientra nel­l­a controversa categoria di co­loro che pretendono di aver aiutato a fare giustizia con ri­velazioni in qualche modo ri­scontrate e capaci di mettere in scacco la delinquenza or­ganizzata di tipo mafioso. È invece un teste d’accusa sul­la cui attendibilità, in modi azzardati e avventurosi, alcu­ni Pm diretti da Ingroia han­no fatto la scommessa della loro vita professionale, por­tandolo per mano nel circui­to mediatico-giudiziario, con l’aiuto di Michele Santo­r­o e altri professionisti dell’in­formazione obliqua, insi­nuante, della macchina del fango (come impudentemen­te dicono, per ritagliarla sugli altri), dentro una narrazione calunniosa che ha investito lo Stato, i governanti, la politi­ca e infine il capo e coordina­tor­e dei servizi di si­curezza e di infor­mazione sui quali si fonda la credibi­lità degli apparati della forza e del­l’ordine repubbli­cano. Sotto scorta e as­sistito dai suoi di­rettori spirituali e giudiziari, per me­si e mesi il figlio di don Vito ha infan­gato Berlusconi, presidente del Consiglio; il senatore Del­­l’Utri, uno che sta per pagare con molti anni di galera la tra­sformazione calunniosa del­le sue amicizie controverse in un reato penale da Paese borbonico (concorso ester­no in mafia); Nicola Manci­no, già presidente del Senato e ministro dell’Interno e vice­presidente del Consiglio su­periore della magistratura; Giovanni Conso, giurista e già ministro di Grazia e Giu­stizia; il generale Mario Mori, l’eroe italiano che arrestò il capo della mafia; infine il pre­fetto De Gennaro, per anni ca­po della polizia, un uomo che ha lavorato contro la mafia con Falcone in modi contro­versi ma efficienti, e che ora fa parte, agli occhi dei suoi ne­mici, di un odiato apparato di governo della Repubbli­ca. E molti altri, secondo le convenienze d’occasione. Serve un colpetto al grup­po dei deputati che è entrato a far corpo con la maggioranza politica che gover­na il Paese? Ecco una propalazione pronta sul ministro appena nominato Saverio Romano, da tredici anni sotto in­dagine per mafia e da tenere ancora sul­la graticola anche grazie alle parole va­ghe, generiche ma velenose e insultanti e infanganti del ventriloquo di un padre morto da anni, che fa parlare al cospetto della giustizia i fantasmi della passione politica faziosa, al servizio di chi non si sa, ma per mezzo di quali avalli giudizia­ri e mediatici lo si sa benissimo. Il dottor Ingroia è arrivato alla delicatezza lettera­ria di scrivere la prefazione al libro di ca­lunnie del figlio di don Vito. Se una peri­zia non a­vesse svelato il carattere truffal­dino di questa testimonianza, chissà do­ve sarebbe arrivato il terzetto Ciancimi­no- Ingroia-Santoro. Questo tizio che ora è in carcere per calunnia e truffa, per aver fatto operazi­o­ni di copia e incolla su vecchi documen­ti fotocopiati per incastrare chi-sa-lui con il bollo della giustizia, è già finito a pagina 21 di Repubblica e a pagina 27 del Corriere della Sera. L’insabbiamento del caso è già in pieno corso. I giornalisti giudiziari che hanno usato le sue carte false, e accompagnato con la loro opero­sa attività cronistica la scandalosa pro­mozione del suo ruolo di «icona dell’antimafia », hanno già girato la frittata, prendendoci tutti per rimbecilliti, pri­ma di tutto i lettori dei loro riveriti giorna­li. Secondo loro quell’arresto non dimo­stra l’esistenza di una cospirazione poli­tico­ giudiziaria che si chiama appunto calunnia contro uomini pubblici decisi­vi della nostra vita democratica, no, c’è un puparo ignoto dietro la calunnia e adesso gli stessi magistrati che hanno ac­cudito il pupo dovranno eroicamente dare la caccia al puparo. Un nuovo mi­stero, nuovo fango che avanza, nuova in­giustizia. Ora basta. Se nessuno tra coloro che hanno autorità per farlo si muovesse, se il ministro Alfano, il vicepresidente del Csm Vietti, il capo dello Stato, non sen­tissero il dovere civile di accertare che cosa è accaduto, sotto il travestimento ridicolo dell’obbligatorietà dell’azione penale, se nulla di serio e di liberale e di garantista dovesse accadere nei prossi­mi giorni, l’anarchia già in fase avanzata in cui vive questo Paese straziato da un ventennio di uso politico della giustizia diverrebbe un’esondazione di colpe in­crociate, il fomite di una generale delegittimazione. E chi ama la Repubblica non può stare a guardare senza fare nul­la. Ci sono forze ancora grandi e limpide capaci di reagire in modo serio, respon­sabile, equilibrato, trovando le parole giuste per dire lo scandalo più grave, in materia di stato di diritto e di regolare funzionamento delle istituzioni, da vent’anni a questa parte? Quando un magistrato avalla una cospirazione ca­lunniosa contro i capi del governo, i par­lamentari, i generali dei carabinieri, i ca­pi dei servizi segreti, i vicepresidenti del Csm, che cosa si deve fare? Starsene a braccia conserte? Godersi lo spettacolo voluttuoso della calunnia di Stato e aspettare che chi l’ha consentita faccia giustizia? Che cosa aspettiamo a tirare fuori l’articolo 289 del codice penale,«at­tentato a organi costituzionali», che pu­nisce con dieci anni di galera chi cospira contro lo Stato? (il Giornale)

lunedì 25 aprile 2011

Berlusconite acuta. Giano

L'articolo che segue è stato postato il 22 settembre 2009 sul blog "Titanic": inutile dire che è di stringente attualità.

La berlusconite è una psicopatologia che nel corso degli ultimi anni ha assunto la forma di epidemia, coinvolgendo vasti strati della popolazione. Pare che la causa sia da addebitare ad un virus che colpisce con particolare virulenza alcune categorie a rischio: politici, intellettuali, opinionisti e commentatori, personaggi dell'arte e dello spettacolo e, soprattutto, operatori mediatici e giornalisti. La sintomatologia si presenta, di solito, con una accentuata ed innaturale attenzione verso tutto ciò che riguarda Berlusconi, con una caratterizzazione riconducibile a paure ancestrali e connotate da un odio profondo e da una inspiegabile forma di paura che potrebbe assimilare la berlusconite ad una grave forma di fobia o di sindrome monomaniacale. L'effetto più evidente di questa psicopatologia è che coloro che ne sono affetti sono atterriti dalla immaginaria ed incombente presenza di Berlusconi, come una spada di Damocle, nella loro vita quotidiana. Lo vedono ovunque, già al mattino si svegliano con una idea fissa: Berlusconi. Quindi, qualunque cosa facciano, qualunque avvenimento, qualunque sia l'argomento in discussione, qualunque problema si affronti, dalla politica allo sport, dallo spettacolo alla cultura, dall'economia al gossip, la loro reazione è sempre la stessa: tirare in ballo Berlusconi, come unico responsabile di tutti i guai del mondo.

E' una vera e propria ossessione e gli effetti di questa psicopatologia sono verificabili quotidianamente anche in rete, nei forum, nei commenti sui quotidiani, sui blog. Tanto per restare in casa, succede, per esempio, che si scriva un post ironico "Il cavolo di Michelle" sul fatto che Michelle Obama vada a comprare il cavolo verza nel mercatino appena aperto nei pressi della Casa bianca. E succede che qualcuno lasci un commento nel quale, in tre righe, si parli di Bush e di...Berlusconi. Per restare in tema, c'entra come i cavoli a merenda. Ma loro sono convinti che questo sia parlare, confrontarsi, discutere ed occuparsi di politica. Al massimo è una politica del cavolo!

Giovedì scorso, a Ballarò su RAI3, la "direttora" de L'Unità, Concita De Gregorio, appena le è stata concessa la parola, ha iniziato il suo atto d'accusa contro...ovvio, contro Berlusconi, reo di essere arrivato al potere non per meriti, ma grazie alla sua ricchezza, con la quale ha comprato tutto quello che poteva comprare, guadagnando il consenso con la corruzione e "comprando" sostenitori, deputati ed elettori. Queste amenità al limite dell'insulto e della diffamazione le chiamano libertà di espressione. E guai a sporgere querela perché sarebbe un gravissimo attentato alla libertà di stampa. Infatti, fra una decina di giorni, scenderanno in piazza per protestare contro il "regime", il pericolo di fascismo, l'intimidazione della stampa e per rivendicare il diritto all'insulto ed alla diffamzazione quotidiana. Ma non basta. La nostra "direttora" Concita, per rispondere a chi accusa certa stampa di avere il chiodo fisso dell'antiberlusconismo, ha risposto che in realtà loro vorrebbero parlare d'altro, ma sono obbligati a parlare di Berlusconi perché è lui che "detta l'agenda". Dice Concita che loro si riuniscono ogni giorno in redazione e vorrebbero affrontare tanti argomenti importanti, ma poi, siccome è Berlusconi a dettare l'agenda, sono quasi obbligati a parlare di...Berlusconi.

Certo, è facile immaginare che Berlusconi, ogni giorno, chiami al telefono i direttori dei maggiori quotidiani nazionali e detti loro l'agenda, argomenti e titoli compresi. Se vi scappa da ridere, fate pure, ne avete motivo. In verità c'è stato per anni, anzi ormai da decenni, chi detta l'agenda alla stampa (e continua a farlo), ma non è Berlusconi; è, invece, un ben affiatato coro che ogni giorno ci canta, o meglio urla, la solita canzone contro il bavaglio alla stampa, la presunta censura e contro il potere mediatico del premier. Ma di questo riparleremo, riportando un interessantissimo ed illuminante articolo apparso sulla stampa circa due anni fa. A proposito, la nostra "direttora" potrebbe fare un'indagine in casa e chiedere, per esempio, chi "dettava l'agenda" quando il direttore de L'Unità era Walter Veltroni. Già, Concita, provi ad informarsi. Così, per semplice curiosità.

Lo ha capito perfino Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere, sempre pacato nei suoi giudizi, il quale, proprio qualche giorno fa scriveva, a proposito di Ballarò, che ormai i talk show sono prevedibili e noiosi, confermando la diagnosi di "berlusconite" dilagante. E specificava: "Ma il terzo e decisivo fattore di noia è l'inevitabilità degli ar­gomenti. Si parli dei militari morti in Afghanistan o del ter­remoto, si parli di vita o di mor­te, si parli della ripresa econo­mica o di quelli che non arriva­no alla quarta settimana, alla fi­ne si parla sempre e solo di lui. Di Berlusconi. Che ormai non è più un imprenditore, un politi­co, un presidente del Consi­glio. È un'ossessione...". Chiaro?

Sarà vero quanto afferma la "direttora" Concita? Vediamo, è semplicissimo, basta andare sul sito del quotidiano on line e verificare. Ecco cosa riporta oggi L'Unità, in prima pagina, queste sono le notizie d'apertura, subito sotto l'apertura dedicata ai funerali di Stato dei morti a Kabul.

E sì, in effetti su sei box e titoli in primo piano ben quattro sono dedicati a Berlusconi. Il primo titolo riguarda una dichiarazione dell'Osce, che non ha alcun titolo ad entrare nel merito delle querele del premier, ma fa notizia. Il secondo riporta le accuse a Berlusconi di Cohn Bendit, il leader del sessantotto francese. Il terzo ci racconta vita e miracoli del premier. Il quarto riporta dei servizi comparsi sul Guardian e su El Pais e che, come sempre, attaccano Berlusconi. Questo viene fatto passare come autorevole opinione della stampa estera. Beh, bisogna riconoscere che 4 servizi su 6 dedicati a Berlusconi, non possono essere casuali. Dedicati, si badi bene, non alla politica ed agli atti di Governo, sui quali si può non essere d'accordo, ma a Berlusconi come persona. E sì che di argomenti davvero importanti e gravi ce ne sarebbero da trattare. Lo ha detto la stessa De Gregorio, ma purtroppo, dice lei, non riescono a parlarne perché (poverini) è Berlusconi che detta l'agenda. Ora non abbiamo più dubbi, ha ragione Concita. Questa attenzione e perseveranza nel mettere sempre in primo piano il Cavaliere ed i suoi fatti personali ha una sola giustificazione: Berlusconi chiama tutti i giorni la signora Concita e le detta l'agenda, cosa scrivere, quali argomenti, i titoli e, forse, anche gli insulti.

Ecco, questo è un caso lampante di berlusconite acuta. Ma non bisogna preoccuparsi eccessivamente. Oggi la medicina sta facendo passi da gigante e le scoperte si susseguono all'ordine del giorno. Quindi tutti gli affetti ed afflitti da quella strana fobia chiamata berlusconite possono essere fiduciosi; prima o poi, speriamo presto, scopriranno una cura efficace, un antidoto o, perché no, un miracoloso vaccino. (Titanic blog))

venerdì 22 aprile 2011

Caro Ferrara, e se Lassini non fosse del tutto matto? Aldo Reggiani

Caro Ferrara,
giorni addietro Lei ha fatto pubblicare da Il Foglio una foto dei manifesti milanesi che chiedevano di ripulire l’italiche Procure dai Brigatisti, bollando in pratica come criminali e quindi menzogneri i contenuti delle scandalose affiches.
Addirittura la Moratti, a seguito delle reazioni quirinalizie, ha messo l’aut aut: via l’autore di tali criminali manifesti, o via lei.

Mi spiace fare la parte del bastian contrario, ma a differenza delle tante “Anime buone di Sezuan” che pur abbondano nel PdL, aduse genuflettersi non appena l’Uomo del Colle alza il ditino, per me i purpurei manifesti fatti affiggere dall’ex perseguitato politico Lassini non chiedono la luna. Essendo il Lassini uno che ha conosciuto sulla sua pelle, come quel novanta per cento di innocenti, a quanto certifica l’onorevole Giovannardi, che si son visti la vita a la carriera distrutta da certi Pm di Mani Pulite, in che modo un Cittadino italiano possa esser incarcerato “preventivamente” a capriccio di un magistrato, divenendo un “fantasma sociale”, anche in essenza di prove provate. Come, profetico, descriveva Sordi nel film “Detenuto in attesa di giudizio”.

E in Italia non vi è neanche l’istituto della cauzione, come nei barbari States.

I brigatisti, come consimili gruppi criminali che pretendono di agire “In nome del Popolo” nell’intento di realizzare una comunistica “Società perfetta”, una “Gerusalemme Celeste”, erano adusi gambizzare, come fecero con Montanelli, pistolettare di brutto, come, magari solleticati dagli scritti di un Premio Pulitzer progressista quale Camilla Cederna e dal suo gruppo editoriale, L’Espresso-Repubblica (do you remember?), fecero col commissario Calabresi, oppure sequestrare le persone, come fecero con Moro e come, in questi giorni, altri terroristi di altre lande, ma dagli stessi intenti, hanno fatto con Vittorio Arrigoni.

Lei ha fatto scandalo quando a “Qui Radio Londra” si è messo in testa un sacchetto di plastica per illustrare a noi dell’inclito popolo bue, come si era suicidato in carcere, nel luglio 1993, Gabriele Cagliari, ex Presidente dell’Eni accusato di tangenti, e non certo di aver sciolto bimbi nell’acido, messo al chiuso per 133 giorni tramite carcere preventivo dal Pm De Pasquale, quello dell’attuale processo Mills, il quale Pm gli avrebbe promesso la scarcerazione se avesse parlato.

Ottenute poi le confessioni di rito, il De Pasquale, quello che già nel 1996, secondo quanto riportato da Il Foglio il 12 maggio 2003, dichiarava che “Il capitalismo è una cosa sporca”, antico assioma di solida natura liberale, se ne andava allegramente in vacanza dimenticandosi in una lussuosa camera del Grand Hotel San Vittore il poveretto. Col risultato che Lei ci ha truculentemente fatto vedere in Tv.

E per le stesse ragioni di Cagliari, pare che tuttora nei Grand Hotel penitanziari italiani, si suicidino varie persone, spesso per anni “in attesa di giudizio”.

D’altronde la propensione a pensarla sulla società e sulla politica di uno Stato Democratico e capitalista, adiacente ai marxistici dottrinari dei brigatisti rossi, autoreferenzialmente propostisi come “guaritori” di una società capitalistica e corrotta, traspare pericolosamente da moltissime dichiarazioni di vari magistrati, sopratutto di quelli che hanno operato il “repulisti” di Mani Pulite, alcuni dei quali sono tuttora vivi e operanti nelle italiche Procure.

Mi pregio pertanto riportare solo alcune delle loro “dichiarazioni d’intenti”che proprio il Foglio, nell’articolo Il magistrato eroe (e tutti i suoi compari) che su Berlusconi disse: “io a quello lo sfascio” del 12 maggio 2003, pubblicava.

«Non si trattava tanto di scoprire quello che è successo in Italia in questi anni... è mancata l'analisi su come ha funzionato, su cosa è e cosa vuole il capitalismo italiano» (Francesco Greco, maggio 1996).
«Che senso ha parlare di un Parlamento realmente sovrano ?» (A. Di Pietro, ottobre 1995).
«Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti» (P. Davigo, ottobre 1993).
«Se non mandate a casa la casta dei mandarini, sarà guerriglia con la giustizia» (P. Davigo, ottobre 1996).
«Il fatto è che un'intera classe politica, o quasi, se ne deve andare» (Felice Casson, luglio 1992).
«Se una parte del vecchio sistema viene lasciata in grado di condizionare o di ricattare il nuovo potere, allora la Seconda repubblica non nascerà mai» (F. Greco, gennaio 1996).
«Quello immediatamente successivo all'arresto, è un momento magico» (Marcello Maddalena, aprile 1997).
«Non incarceriamo la gente per farla parlare, la scarceriamo dopo che ha parlato» (F. S. Borrelli, giugno 1993).

Non viene anche a Lei, caro Ferrara, il dubbio che il pur reietto Lassini non sia del tutto fuori di testa? (Legnostorto.it)

Breve storia dell'Anm. Francesco Natale

L'Anm è quella organizzazione che rappresenta tutta la magistratura, sia essa giudicante, inquirente, contabile, amministrativa. I suoi organi direttivi (presidente, segretario, consiglieri) esprimono ufficialmente l'opinione dell'intero corpo giudiziario sulle varie problematiche che investono la categoria, esercitando così una attività parasindacale adattata alla peculiarità del ruolo degli associati. E' infatti grazie a tale attività parasindacale o lobbistica dell'Anm che la categoria dei magistrati è riuscita ad ottenere e a consolidare i propri particolari privilegi: basti pensare alla progressione stipendiale automatica od alla esenzione da ogni responsabilità civile anche per i comportamenti che integrino gli estremi della grave negligenza.

Ma, oltre a questa attività parasindacale, l'Anm è depositaria di un potere veramente grande e delicato: infatti attraverso essa o, meglio, attraverso le sue correnti organizzate, viene canalizzato il voto degli aderenti per la designazione dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura. Ovvero: la maggioranza ideologica e parapolitica che controlla l'Anm riesce ad esprimere la maggioranza che controlla il Csm, atteso che fra i membri cosiddetti «laici», cioè di nomina politica-parlamentare, esiste sempre una frazione consistente pronta ad aggregarsi alla corrente maggioritaria dei membri togati. E il Csm è l'organo che determina le carriere dei magistrati e che, se del caso, irroga le sanzioni disciplinari nei loro confronti, oltre a pretendere sempre più spesso, se pur non è dato di sapere a quale titolo giuridico, il ruolo di terza Camera legislativa per tutti i provvedimenti che riguardano la categoria.

Richiamiamo ora molto sobriamente alcuni significativi momenti della storia dell'Associazione Nazionale Magistrati, perché questo ci può aiutare a capire in qualche modo la ragione e l'origine di certune tensioni che, in tema di giustizia, stanno stressando pesantemente il sistema Italia.

Certamente c'è stato un periodo in cui il problema giustizia, nel nostro Paese, non era assolutamente drammatizzato, anzi, non era avvertito affatto. E' vero che i tempi processuali erano pure allora abbastanza lunghi, sia in penale che in civile, che ogni tanto un incidente probatorio trascurato portava all'irrogazione di un ergastolo che dopo un decennio si palesava «fortuitamente» come «errore giudiziario», ma tutto questo non turbava più di tanto la pubblica opinione. Il magistrato era, secondo il comune sentire, il custode dell'ordine costituito, che, vagliando gli elementi probatori raccolti in sostanziale autonomia dalla forza pubblica, provvedeva a sanzionare con adeguato castigo il delinquente, cioè quel soggetto che con mascherina, maglietta a righe e grimaldelli vari si introduceva nel domicilio altrui a scopo di furto: tale era nell'immaginario collettivo il ladro da punire. E ancor più da punire erano i rapinatori, per non parlare degli assassini, le cui torbide storie appassionavano l'opinione pubblica quando essi avevano assassinato per motivi passionali.

Le cose sono rimaste così fino alla metà degli anni '70, cioè fino a quando la maggioranza dei magistrati si riconosceva nella corrente di Magistartura Indipendente. Corrente che potremmo definire con una certa approssimazione «moderata-conservatrice», dal momento che essa riteneva che il giudice dovesse applicare con equilibrio, umanità e buon senso la legge esistente, nel solco tracciato dalla giurisprudenza tradizionale. Ma nella seconda metà degli anni '70 hanno iniziato a prevalere, all'interno dell'Anm, le correnti di sinistra come Magistratura Democratica, o di matrice azionista come Unità per la Costituzione. Hanno cominciato, insomma, ad avere un ruolo pesante e significativo le nuove leve formatesi nell'esperienza sessantottina e post-sessantottina.

Secondo queste correnti ormai prevalenti, attraverso una interpretazione «innovativa» ed una applicazione «creativa» della legge, pure in quel contesto nel quale è fatto esplicito divieto di applicazione analogica della legge, ovvero quello penale, la magistratura doveva «farsi carico» della «negligenza», della «sordità», delle «inadempienze» del legislatore, ponendosi come avanguardia generatrice di nuove sensibilità, di nuove prassi, di nuovi istituti: e quante saranno, infatti, le «nuove norme» (giuridicamente sostanziate sul nulla) che saranno introdotte dai combinati disposti dei vari gradi di giurisdizione. In una parola, era ora di farla finita con il perseguire i «ladri di mele»: si doveva punire la criminalità annidata fra i colletti bianchi (ed è per questo che oggi denunciare il furto della propria auto diventa una triste incombenza che suscita tutt'al più il garbato compatimento dell'agente che redige il verbale...): ormai la correttezza politica esigeva che le devianze sociali fossero patologie non particolarmente allarmanti, da comprendere e soccorrere. Giammai da condannare.

Come si può facilmente intuire, è a partire da questo momento di svolta che si creano le premesse per un durissimo confronto tra il potere legislativo, espressione della sovranità popolare, e l'ordine giudiziario che pretende di essere la sua «mosca cocchiera», una mosca che nel corso degli anni diventerà un elefante.

Perché questa pericolosissima deriva raggiungesse il livello di scontro apparentemente incomponibile che sta squassando il Paese, occorreva completare il mosaico con alcuni significativi tasselli. Di questo, paradossalmente, si occupò proprio la legislazione emergenziale pensata per annientare il terrorismo, vale a dire l'istituto dei collaboratori di giustizia: strumento efficacissimo contro le Brigate Rosse, ma che, applicato all'esercizio ordinario dell'azione penale, metteva nelle mani del magistrato inquirente un potere immenso e insindacabile per indirizzare e manipolare le indagini, come riscontrò e denunciò Giovanni Falcone nel caso Pellegriti, verso l'obiettivo che gli suggeriva il proprio «libero convincimento».

Altro tassello fu introdotto dalla riforma del processo penale, una imitazione parziale e molto malriuscita del modello anglosassone, con la quale si volle rendere il pubblico ministero dominus delle indagini, sottoponendogli in toto le forze di polizia giudiziaria, col solo tangibile risultato di mortificarne le professionalità e disperderne la preziosissima esperienza. «Inconvenienti», questi, cui si cercò di ovviare con un ricorso sempre più massiccio e sistematico allo strumento delle intercettazioni: tutto questo, come logica conseguenza, non poteva che aumentare in misura patologica il potere e la discrezionalità assoluta della magistratura inquirente.

Un'ulteriore tessera in questo drammatico mosaico fu l'affermazione esasperata del principio di indipendenza nell'ambito degli inquirenti, svuotando di fatto il ruolo equilibratore dei capi degli uffici e lasciando libero campo, in nome del principio della cosiddetta «obbligatorietà dell'azione penale», ai soggetti più «estrosi» e «creativi», magari sensibili alla seduzione mediatica, alla cui discrezione veniva affidato un potere immenso e inimmaginabile solo fino a due decenni prima.

L'ultimo pezzo di questo problematico puzzle fu collocato grazie all'uragano del manipulitismo, che tolse al legislatore le guarentigie previste dall'articolo 68 della Costituzione, e contenute in tutte le Costituzioni moderne e democratiche.

In definitiva, di materia su cui riflettere ve ne è davvero in abbondanza, perlomeno se non ci si rifiuta di prendere atto che lo squilibrio - perché, sia chiaro, di squilibrio si tratta - creatosi tra legislativo e giudiziario è all'origine di un conflitto pregiudizievole, se non addirittura esiziale, per le istituzioni stesse. (Ragionpolitica)

mercoledì 20 aprile 2011

Difesa liberale di Roberto Lassini e dei suoi (orribili) manifesti. Antonio Mambrino

Roberto Lassini ha mollato. Ha fatto il suo passo indietro e si è ritirato dalla competizione elettorale milanese. Ma il caso dei manifesti di Roberto Lassini su cui, al solito, è montato un gran polverone, vale la pena fare una riflessione. In premessa, sia chiara una cosa: quei manifesti non ci piacciono affatto. Non ci piacciono perché altro non sono che un insulto violento e gratuito. Perché rappresentano l’ennesimo episodio di quel processo di imbarbarimento della politica che da quasi vent’anni avvelena il Paese (naturalmente rimane da stabilire chi abbia avuto la responsabilità storica di avviare il processo). Perché sono abbastanza stupidi. Perché sono del tutto controindicati alla vigilia di una tornata elettorale delicatissima, nella quale proprio dall’esito del voto di Milano dipenderà buona parte della "cifra politica" di queste elezioni. E, da ultimo, non ci piacciono anche perché sono veramente brutti (dal punto di vista estetico).

Ma fatta questa premessa, ci pare che le reazioni abbiano oltrepassato il segno. Passi per il doveroso sdegno del Presidente della Repubblica. Passi per le reazioni di condanna da parte di tutte le forze politiche (PdL compreso). Passi per l’imbarazzo del Sindaco Moratti e financo per la sua perentoria richiesta di rinuncia alla candidatura. Ma, francamente, qui ci pare si stia esagerando. Da ultima ci si è messa anche la Procura della Repubblica di Milano che tempestivamente avviato un procedimento penale a carico di Lassini per l’ipotesi di reato di vilipendio delle Istituzioni, di cui all’articolo 290 del codice penale. E si sta esagerando per la semplice ragione che lo slogan del manifesto di Lassini in realtà altro non è se non la traduzione maldestra e (molto) provocatoria di un ragionamento che ormai da diversi anni viene portato avanti da molti e molto più autorevoli protagonisti del dibattito politico.

Lo slogan “Fuori le BR dalle procure” in realtà vuole essenzialmente significare che attualmente all’interno delle procure vi sono dei gruppi di magistrati che perseguono, attraverso l’utilizzo dei poteri loro conferiti dalla legge, disegni di sovvertimento dell’ordine democratico. Vuol dire che se Berlusconi è l’uomo politico più indagato, più avvisato, più intercettato, più rinviato a giudizio, e meno condannato della storia d’Italia (e forse del mondo), questo è dovuto non alla particolare propensione a delinquere del Cavaliere, ma all’uso strumentale dell’azione giudiziaria e dei poteri inquirenti. E, conclude il Lassini pensiero, questo stato di cose deve cessare.

Beninteso si tratta solo di un’opinione. Un’opinione come un’altra, dalla quale si può a ben diritto dissentire. Ma certo si tratta di un’opinione condivisa non solo da una buona fetta della nostra classe politica (ad occhio e croce poco più della metà) ed da un altrettanto buona fetta dell’elettorato (ad occhio e croce poco più della metà). Ma è allora legittimo imbandire un processo nella pubblica piazza al povero Roberto Lassini che certo, da ex sindaco democristiano del Comune di Turbigno, non sembra certo avere le fisique du role del pericoloso sovversivo? La sua durezza verso una parte della magistratura non è comprensibile alla luce dei due mesi di carcerazione preventiva scontata in passato per un accusa poi rivelatasi infondata?

La verità è che quello che viene contestato a Lassini non è né più né meno che un classico reato di opinione. E la cultura democratica e progressista non ha per decenni richiesto a gran voce l’eliminazione dei reati di opinione ancora presenti nel nostro codice, retaggio dell’opera di Alfredo Rocco, ministro guardasigilli durante il fascismo? E la Procura di Milano non ha pensieri più urgenti cui applicarsi piuttosto che dedicarsi alla goliardata politica di Lassini, al cui procedimento ha financo pensato di applicare tre sostituti di peso come Armando Spataro, Ferdinando Pomarici e Grazia Spatella?

Non c’è bisogno di scomodare Voltaire, ed il motto a lui attribuito “disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”, né occorre invocare il fondamentale articolo 21 della Costituzione, al quale è stato da ultimo anche intitolata una vivacissima associazione politica della sinistra, sempre in prima linea nel difendere il diritto alla libera manifestazione del pensiero (chiaramente minacciata da Berlusconi). E’ chiaro a tutti che il terreno è scivoloso.

Basti pensare alle recenti e reiterate (da ultimo su Il manifesto di oggi) uscite del brillante maître à penser, Alberto Asor Rosa, che, ormai rassegnato all’impossibilità di battere il nemico Berlusconi per via democratica (anche se, per amore della verità, il Cav. – nonostante il suo regime teocratico-affaristico-plebiscitario - è stato battuto alle elezioni per ben due volte nelle ultime cinque tornate), è arrivato a chiedere a gran voce l’intervento dei Carabinieri e della Polizia di Stato per sospendere la legalità costituzionale per fondare un nuovo ordine democratico.

A voler essere pignoli le dichiarazioni del più noto palindromo vivente integrano la fattispecie di due o tre reati, tutti decisamente più gravi del vilipendio dell’ordine giudiziario: istigazione di militari a disobbedire le leggi (articolo 266 CP, reclusione fino a 5 anni), istigazione a commettere uno dei delitti contro la personalità dello Stato (art 302 CP, reclusione sino a 8 anni), istigazione a delinquere (articolo 414 CP, reclusione fino 5 anni)

Ed allora, se mai un giorno un tribunale della Repubblica dovesse ritenere Lassini colpevole di vilipendio dell’ordine giudiziario e condannarlo al massimo della pena (5000 euro di ammenda), a quanti anni di reclusione dovrà essere condannato il povero Alberto Asor Rosa per aver semplicemente dato libero sfogo alle sue elucubrazioni, notturne e democraticamente corrette? E sia chiaro in quel caso non varrà invocare le attenuanti per il rincoglionimento senile o per il grave stato di turbamento psichico derivante da decenni di frustrazione tardo-marxista! (l'Occidentale)

Nucleare. Jena

La sinistra insorge: «Non vale, volevamo abrogarlo noi». (la Stampa)

martedì 19 aprile 2011

Ma si! Se non possiamo fare la rivoluzione facciamo un golpe. Piero Sansonetti

Sansonetti lo accenna nel finale, ma la conclusione più ovvia è che questa sinistra orfana dell'antifascismo ha trovato una ragione di sopravvivenza nell'antiberlusconismo

Io penso che – paradossalmente – la sinistra italiana, o comunque la sua parte maggioritaria, sia oggi vittima dell’antifascismo. Cioè dell’elemento ideale e storico che per molti decenni ne è stato il pilastro. Sia in termini di “valori” sia in termini tattici, e cioè di unità politica.

Provo a spiegarmi, confessandovi che prendo spunto dall’uscita di Alberto Asor Rosa che – come sapete – ha auspicato un colpo di Stato contro Berlusconi. Ieri, su queste colonne, il direttore Cappellini ci ha offerto una analisi molto chiara – e per me largamente condivisibile – sul fenomeno politico del quale l’uscita di Asor è frutto e testimonianza. Puntando il dito, giustamente, contro il giustizialismo, e cioè l’idea che l’etica politica imponga il diritto dei “giusti” a governare, e che questo diritto, di conseguenza, debba essere tolto dalle grinfie delle “pastoie democratiche”.

Io però, come avete capito dalle prime righe, vorrei andare un po’ oltre. Perché ho l’impressione – che oggi mi limito ad accennare, e so che scandalizza molto a sinistra e forse anche al centro – che il giustizialismo non sia un fenomeno sbocciato dal nulla ma sia figlio di una degenerazione precedente della sinistra italiana, e che questa degenerazione dipenda in larga misura, appunto, dalla degenerazione dell’antifascismo.

Perché? L’antifascismo ha avuto una funzione formidabile e positiva nella nascita della sinistra italiana dopo la guerra – e nei decenni precedenti, in clandestinità – perché ha permesso alla sua componete maggioritaria – comunista o socialcomunista – legata all’Unione Sovietica e a regimi dittatoriali, di mantenere una sua componente fortissimamente democratica e antiautoritaria. Antifascismo, dagli anni trenta in poi, voleva dire lotta per la libertà, lotta per la democrazia, lotta contro l’autoritarismo, lotta contro il potere eccessivo delle istituzioni, del governo, della polizia, della magistratura, dell’esercito, della scuola. Senza l’antifascismo, la componente più forte della sinistra italiana, e cioè quella comunista, sarebbe diventata una infrequentabile roccaforte stalinista, violenta e antimoderna. L’antifascismo è stato la chiave della modernità del Pci e il punto di partenza di tutte le sue strategie, e il carburante – ideale ma anche tattico-politico – del suo riformismo.

Poi è successo qualcosa. Cosa? Che il fascismo, nel mondo occidentale, per fortuna è morto. Difficile stabilire una data. Forse il 1976, con la caduta del franchismo in Spagna, cioè dell’ultimo governo fascista in Europa. Forse una quindicina di anni più tardi, con la caduta delle dittature in America latina e quindi la definitiva rinuncia da parte del capitalismo a ogni forma di governo dittatoriale. Scegliete voi la data. Il problema è che da quel momento anche l’antifascismo è morto. Perché è restato privo del suo principale fattore vitale: la lotta alla dittatura, la lotta contro il regime. Naturalmente c’era un modo per riciclare l’antifascismo: trasformarlo in antiautoritarismo, e cioè in moderna dottrina libertaria. Oppure si poteva fare la scelta burocratica di mantenerlo in piedi, come simulacro vuoto, e di usarlo come antidoto alla mancanza di strategie politiche e dunque di identità politiche. Come si fa a surrogare una identità non più sostenuta da una idea strategica? Con la retorica, con le bandiere. E l’antifascismo può funzionare all’uopo. C’è solo un problema: bisogna inventare un nemico, un regime.

La sinistra italiana ha compiuto questa seconda scelta. E in particolare l’ha compiuta dopo l’ottantanove, quando si è posto il problema drammaticissimo che non solo l’antifascismo era diventato parola vuota, ma che il comunismo era morto anche lui. Era il momento giusto per una grande svolta. Liberale, libertaria. Invece si è compito la scelta vuota e antifascista.

Diciamo – schematizzando molto – che la sinistra era segnata da due fortissime pulsioni: quella alla radicalità sociale, e cioè alla “lotta di classe”; e quella alla radicalità politica, e cioè un certo illiberalismo (seppure temperato). La fine del comunismo rendeva impossibile tenere insieme questi due elementi. Bisognava rinunciare a qualcosa per tornare “spendibili” nella battaglia politica. Sarebbe stato un grande fatto se la sinistra avesse mantenuto la sua vocazione alla lotta di classe e avesse scelto il libertarismo. Invece la parte più grande della sinistra italiana – in varie forme – ha deciso di rinunciare alla lotta di classe e di mantenere il suo illiberalismo. Ed è rimasta, di conseguenza, stalinista. Cioè ha affidato le sue speranze di vittoria non alla propria strategia politica, non alla propria radicalità o alla propria capacità di lotta sociale, ma all’armata rossa. Che non era più rossa ma poteva essere la magistratura, o poteva essere l’aiuto di una componente moderata, o poteva essere Cordero di Montezemolo o poteva essere… Ecco, l’altro giorno siamo arrivati al capitolo finale di questa corsa: la polizia, l’esercito, il golpe rosso.

Badate che Asor Rosa non è affatto un fesso. E spesso, assai spesso, nella sua vita ha detto cose paradossali e giuste. Che erano nel solco della linea della sinistra e la forzavano. E’ stato così quando era operaista, è stato così quando ha svolto la funzione di “collegamento” tra il Pci e il sessantotto, è stato così quando, con grandissimo acume, ha svolto – in piena epoca terroristica – l’analisi sulle “due società” – contrapposte e incapaci di comunicare – nelle quali si era divisa l’Italia. Oggi Asor si limita a portare alle estreme conseguenze la linea della sinistra. E scava dentro il giustizialismo. E si accorge che non ha molto a che fare con la sete di giustizia, con la sete etica (che forse riguarda la componente non tradizionale e non ex comunista della sinistra) ma è concepito solamente come un “mezzo”, uno strumento per prendere il palazzo d’Inverno. Con l’idea fissa che esista l’ora X. E se non può essere rivoluzione sarà golpe. E se non c’è il fascismo lo inventiamo e lo chiamiamo berlusconi. (il Riformista)

Mussolini

Far passare un governo eletto dal popolo per una dittatura è molto pericoloso per il Paese.

L'ultimo assalto mediatico della sinistra in servizio di sputtanamento permanente del Cavaliere arriva a paragonarlo a Mussolini e senza mezzi termini (Asor Rosa docet) vorrebbe eliminare Berlusconi dalla scena politica.

Attenzione continuare su questa rotta significa andare verso una deriva pericolosa che potrebbe anche farci cambiare opinione su ... Mussolini.

L'ingrata Stefania Craxi ha scaricato Berlusconi. Vittorio Sgarbi

«Silvio Berlusconi deve passare la mano». A sostenerlo - sul numero di «A» in edicola domani - Stefania Craxi, deputata Pdl e sottosegretario agli Esteri. «È ora di aprire una stagione nuova, con idee e uomini nuovi. Perché, direbbe mio padre, “non era questa l’Italia che sognavo; derisa all’esterno e miserabile al suo interno”». La figlia dell’ex premier socialista non boccia il Cavaliere solo sul piano politico, ma anche personale: «Silvio deve uscire di scena nel modo giusto, non può essere travolto dal ridicolo. Deve smetterla di raccontare queste barzellette oscene: non gli fanno onore e non fanno ridere». Infine, l’affondo sulle feste ad Arcore: «La magistratura deve perseguire il reato e non moralizzare la società. Ma quello che è successo non è stato un spettacolo bello».

Risulta che il presidente della Repubblica si sia mai in­dignato per gli insulti (le offe­se) pubbliche, gli sputi, le scritte sui muri, le contume­lie in Parlamento, le aggres­sioni anche fisiche nei con­fronti di una istituzione co­me la presidenza del Consi­glio, nella persona del presi­dente, e di esponenti del suo governo e della sua maggio­ranza, con un pubblico mes­saggio diramato a tutti i gior­nali, le televisioni e le agen­zie di stampa? Risulta? No, non risulta. E risulta che ab­bia stigmatizzato, redargui­to, richiamato alla loro re­sponsabilità e ai loro doveri i magistrati della procura di Milano che hanno consenti­to la diffusione di intercetta­zioni, di conversazioni di un parlamentare che è anche presidente del Consiglio, vio­lando l’articolo 68 della Costi­tuzione? E quindi non rispet­tando i più elementari doveri della loro funzione? No, non risulta. Risulta che abbia tute­lato un potere dello Stato da una aggressione che, ben ol­tre i confini della responsabi­lità penale, i magistrati han­no portato all’estremo della più violenta diffamazione violando la privacy di perso­ne non indagate con un insi­nuante e negativo giudizio morale? È lecito che la magi­stratura determini un clima palesemente denigratorio compiacendosi di mostrare e rivelare comportamenti pri­vati all’opinione pubblica? Non è apparsa esagerata e pretestuosa la trasformazio­ne di una telefonata in «con­cussione » e di cene in orge? Lo sputtanamento di Berlu­sconi è arrivato a limiti pre­meditati. E invece solenne è stata la deplorazione, enor­me lo sdegno e irrinunciabile l’indignazione per un manife­sto da tutti giudicato orribile, in cui si accostavano le Briga­te rosse ai magistrati di Mila­no. Immediato messaggio del capo dello Stato, solida­rietà incondizionata ai magi­strati. Peccato che Napolita­no abbia trascurato di ricor­dare che il responsabile del­l’ignobile documento era un uomo politico, il sindaco di Turbigo, già arrestato ingiu­stamente, tenuto in carcere per quasi cinquanta giorni e poi riconosciuto innocente. Chiunque abbia stabilito quell’iniqua detenzione ha di fatto esercitato un’azione indebita, nella sostanza equi­valente a un sequestro di per­sona, tipico del tribunale del popolo istituito dalle Brigate rosse. Roberto Lassini, presi­dente della associazione che ha diffuso il manifesto, è sta­to vittima di una grave ingiu­stizia che non ha determina­to nessuna indignazione e nessuna reazione di Napoli­tano. Mi pare che un arresto sbagliato sia più grave di un manifesto e mi pare che l’in­sensatezza di accuse di con­cussione e prostituzione mi­norile nei confronti del presi­dente del Consiglio sia così evidente da apparire prete­stuosa e mossa da altre an­che eversive finalità. Ne ab­biamo una prova nelle paro­le di Alberto Asor Rosa che in­neggiano a un colpo di Stato militare di fronte alla gravissi­ma emergenza dei reati di te­lefonate e di cene. E, ancor più incredibile, la presa di po­sizione di Stefania Craxi, sot­tosegretario agli Esteri che, ri­muovendo la memoria del­l’accanimento (non privo di fondamento) giudiziario nei confronti del padre, mostra di dar credito alle accuse del­la procura a Berlusconi, non apprezzandone la maliziosa natura diffamatoria. Così do­po aver mostrato la sua indi­gnazione per le barzellette del premier dichiara, credu­la, e senza porsi domande sul­la natura dell’inchiesta: «La magistratura deve persegui­re il reato e non moralizzare la società. Ma tutto quello che è successo non è stato uno spettacolo bello». Stefa­nia Craxi dimentica che lo spettacolo non è stato voluto da Berlusconi ma realizzato, a suo danno, senza alcuna uti­lità se non di contrapposizio­ne politica, dalla Boccassini e dai magistrati tutelati da Na­politano. Di quello spettaco­lo Berlusconi avrebbe fatto volentieri a meno. L’esalta­zione di Veronica Lario inna­m­orata prescinde dalla consi­derazione che fu proprio la moglie a scrivere la sceneg­giatura di quello che i magi­strati avrebbero oscenamen­te rivelato. Nessuna indigna­zione di Napolitano e, ora, la sorprendente censura di Ste­fania Craxi che applica alla in­significante storia dei piace­re privati del presidente del Consiglio quel giudizio mora­­listico che rimprovera ai ma­gistrati. Questa inutile vicen­da di Ruby, Minetti, Mora e Fede è completamente priva di senso ma costituisce la più clamorosa e cinica manifesta­zione della macchina del fan­go che Roberto Saviano, abil­mente denuncia in funzione contro di lui. In realtà come dimostrano le incredibili rea­zioni di Stefania Craxi la «macchina del fango» ha otte­nuto grandi risultati crimina­lizzando, per i suoi comporta­menti privati, il presidente del Consiglio. Nell’assoluto silenzio di Napolitano preoc­cupatissimo per il pericolo contro la Costituzione, con­tro la democrazia, contro la magistratura costituito da Ro­berto Lassini e il suo provoca­torio manifesto. Nessun pro­blema per i processi inutili, sbagliati, infamanti. Grande preoccupazione per lo sfogo di una vittima su rossi manife­sti. (il Giornale)

lunedì 18 aprile 2011

Perché Berlusconi "straparla". Gianni Pardo

In Italia l’azione penale è obbligatoria. Poiché però i giudici “non hanno il tempo” di perseguire tutti i reati, l’azione penale è facoltativa. Per i reati perseguiti si può dire che era “obbligatoria”, per i non perseguiti che “non c’è stato tempo”. Si cade sempre in piedi.
Sulla base della finta obbligatorietà dell’azione penale, i giudici politicizzati hanno “in buona fede” perseguito molto più il Psi e la Dc che il Pci, e molto più Silvio Berlusconi che chiunque altro. E si è anche reputato superfluo che ci fosse la notitia criminis.
Come se non bastasse, nel 1993 il Parlamento ha pressoché azzerato l’art.68 della Costituzione, eliminando di fatto la separazione dei poteri. Si è dovunque consentito a qualunque pm di trascinare in giudizio qualunque uomo politico. È stato il nuovo “Esprit des Lois”.
I magistrati da quel momento non hanno più avuto freni: se la separazione dei poteri non la voleva il legislativo, perché avrebbe dovuto volerla il giudiziario? E perché non avrebbero dovuto accusare gli avversari politici che potevano aver commesso dei reati?
L’esecutivo e il legislativo hanno cercato di difendersi ma si sono scontrati con il sostegno di molti magistrati che hanno fatto il possibile per non applicare le leggi sgradite alla sinistra (per esempio in materia di immigrazione); che hanno violentemente osteggiato qualunque riforma che limitasse il loro arbitrio, fino ad avere atteggiamenti irrispettosi durante la Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario; e con la Corte Costituzionale che ha fatto di tutto - fino a rigettare il lodo Alfano 2 con motivazioni diverse da quelle usate per il Lodo Alfano 1 - per sostenere l’azione dei requirenti e togliere ogni scudo a Berlusconi.
Tuttavia, malgrado centinaia di accessi della Guardia di Finanza alla ricerca di reati (ora i reati si ricercano), malgrado decine di processi e centinaia o forse migliaia di udienze, l’uomo di Arcore è ancora un incensurato. Egli ha infatti beneficiato o di assoluzioni (e qui va reso merito ai giudicanti, più corretti dei requirenti) o di prescrizioni (e qui non va certo reso merito all’efficienza della magistratura).
È andata avanti così per quasi diciotto anni. Recentemente infine, con incontenibile gaudio, la Procura della Repubblica di Milano ha creduto di trovare un reato attuale, dunque non a rischio di prescrizione, e sufficientemente infamante, favoreggiamento della prostituzione minorile, per finalmente liberarsi di Silvio Berlusconi. Per trattenere la competenza e non passarla a Monza lo si è accoppiato con un fantomatico reato di concussione (che, a parere dei competenti non sta né in cielo né in terra, prova ne sia fra l’altro che né i funzionari né il Ministero dell’Interno si sono costituiti parte civile) e tutti hanno cominciato a fregarsi le mani.
Ma, avvertivano i greci, la hybris, l’eccesso, suscita lo sdegno e l’intervento degli dei: e l’incauto rischia di pagarla.
Silvio Berlusconi, che fino ad ora si era difeso soprattutto nei processi, o con qualche legge, ha perso la pazienza. Ha accettato la sfida portandola sul piano politico e su quello della separazione dei poteri. Il suo atteggiamento estremamente aggressivo nei confronti dei magistrati e la sua virulenta violenza verbale si spiegano da un lato con una rocciosa certezza della propria innocenza e dall’altro con l’idea che è venuto il momento di un confronto finale, magari chiamando il Parlamento e i cittadini a sciogliere il nodo.
Già l’approvazione del “processo breve” ha dimostrato che l’ordine di scuderia è una sorta di militarizzazione della maggioranza che ora non si deve lasciare intimidire da nessuno. Tutti, anche i ministri, devono essere pronti a restare in trincea per tutto il tempo che sarà necessario, mentre il Capo annuncia urbi et orbi che la lotta sarà dura e intende far piegare la testa all’avversario. Anche se, in questo caso, la vittoria di Berlusconi consisterebbe soltanto nel ritrovare il principio della separazione dei poteri di Montesquieu e il rispetto dovuto al potere politico, posto finalmente in grado di governare.
Berlusconi “straparla” ai limiti dell’eversione perché ha deciso di rispondere per le rime ad una simmetrica eversione. Si è sentito oggetto di un attacco intollerabile da parte di “certa magistratura”, e ora vuole imporre di nuovo la separazione dei poteri. La colpa sarà di alcuni (o molti) magistrati, ma chi pagherà lo scotto sarà l’intero ordine giudiziario e l’Italia stessa. I magistrati non solo potrebbero vedersi togliere il comodo alibi dell’obbligatorietà dell’azione penale (che sarebbe annualmente “indirizzata” dal governo) ma, orrore!, potrebbero essere obbligati a lavorare di più. L’Italia potrebbe essere costretta ad assistere ad uno scontro istituzionale ai limiti della guerra civile, cui però non ha dato certo inizio Berlusconi. (Legnostorto.com)

Un'immagine da difendere. Antonio Polito

Ci sono molte ragioni per deprecare Berlusconi (alcune delle quali riguardano proprio i suoi comizi di questi giorni). Ma non c'è nessuna buona ragione per deprecare anche l'Italia e la storia d'Italia al fine di condannare il suo premier pro tempore.

E invece è proprio questo il vizietto che si nasconde dietro quella che è ormai diventata una specie di formula retorica ripetuta all'infinito dai critici di Berlusconi, i quali sembrano tutti avere un amico all'estero che gli chiede stupito: ma come mai gli italiani non se ne liberano? Domanda che sottintende quantomeno una nostra immaturità democratica, se non una congenita attitudine al servaggio, cui viene contrapposta la superiorità di virtù civiche dello straniero.

Un'eco di questa sgradevole auto denigrazione nazionale si trova spesso nelle corrispondenze sulla stampa estera, dove sono invece gli autori stranieri ad avere amici italiani che vorrebbero liberarsi di Berlusconi. Sul New Yorker, prestigioso settimanale americano, è per esempio appena uscito un lungo saggio di Tim Parks - scrittore inglese da trent'anni espatriato in Veneto - secondo il quale le «stravaganze» politiche dell'Italia odierna affondano le radici in un'Unità fasulla e immeritata. Recensendo tre volumi pubblicati all'estero in occasione del 150°, vi si sostiene infatti che la nascita stessa della nazione non fu altro che un «colpo di fortuna», che «la grande maggioranza degli italiani non ha cercato l'unità e anzi molti l'hanno combattuta», e che la sua sopravvivenza fu assicurata solo dal «gioco di potere» tra potenze straniere. Un «infelice anniversario», dunque, ciò che celebriamo quest'anno: «Una coppia sull'orlo del divorzio certo non gioisce per l'anniversario del proprio matrimonio».

Verrebbe da ricordare che ogni processo di unificazione nazionale ha le sue magagne: negli Stati Uniti è passato per una sanguinosa guerra civile, e nel Regno Unito per la sottomissione violenta dell'Irlanda e della Scozia. Ma ciò che conta osservare è che la polemica pubblica anti berlusconiana sconfina sempre più spesso in una contestazione delle basi stesse dello Stato democratico e unitario. Come se solo in una nazione fallita potesse verificarsi un simile fenomeno politico.

Questo slittamento logico andrebbe contrastato con fermezza e buoni argomenti dagli intellettuali, italiani all'estero o stranieri in patria che siano. Ma specialmente da chi in Italia intende fare opposizione a Berlusconi, perché un discorso anti patriottico e denigratorio è politicamente suicida. Purtroppo non avviene. Non tutti i critici del premier arriverebbero infatti a sognare un golpe democratico come ha fatto Asor Rosa; ma molti si auspicano che la scossa per ottenere ciò che a loro non riesce in patria venga dall'estero, da una battuta di Sarkozy o di Obama, da un'agenzia di rating o dal discredito sulla stampa.

Non è solo una speranza mal riposta. È anche un po' umiliante per un Paese che non è figlio di un dio minore; e che dunque, come tutte le nazioni democratiche, è geloso del suo diritto a scegliere da solo. (Corriere della Sera)

domenica 17 aprile 2011

Forza Silvio

Berlusconi fa benissimo ad attaccare i giudici che lo vogliono processare.

Per chi non lo avesse ancora capito i magistrati di sinistra che fiancheggiano l'opposizione sono scesi in aperta guerra contro il premier: è sacrosanto che il premier si difenda anche dai processi.

Anni fa, sull'onda del caso Tortora, un referendum sancì la responsabilità civile dei giudici con un ottanta per cento di sì, ma il Parlamento stravolse il responso delle urne.

"L' ultracasta" fa paura a tutti coloro che hanno scheletri negli armadi e vivono sostanzialmente sotto ricatto mentre il cittadino qualunque, che non ha nulla da temere, è spaventato dal fatto che, essendo il potere dei magistrati illimitato, in qualsiasi momento potrebbero partire indagini e limitazioni della libertà senza prove o con accuse infondate.

Sappiamo che la lentezza dei processi dipende dalla volontà dei giudici, sappiamo che la legge viene interpretata per gli amici e applicata per gli altri, anzi, per Berlusconi si arriva ad interpretarla e stravolgerla, sappiamo che non sono imparziali, che sono schierati apertamente a sinistra e che stanno dalla parte dei forti.

Sia ben chiaro non tutti i giudici, non tutta la magistratura, anzi solo una parte minoritaria, ma agguerrita ha dichiarato guerra al Presidente, ma l'ordine giudiziario non si può permettere nemmeno una pecora nera, altrimenti ne viene offuscato il prestigio: ma pare che nessuno voglia vederlo.

Sono certo che la stragrande maggioranza degli italiani è con Berlusconi perché i processi a suo carico sono troppi e troppe volte risultati immotivati e infondati, che i suoi elettori hanno capito che esiste la persecuzione giudiziaria e che Berlusconi, essendo tra i pochi che non si è arricchito con la politica, crede veramente nella missione che ha intrapreso.

Berlusconi vada avanti nella battaglia di legalità e di libertà contro quella parte politicizzata ed eversiva della magistratura: la stragrande maggioranza degli italiani è con lui, compresi quei magistrati onesti che tutti i giorni fanno il proprio dovere nel rispetto delle leggi e delle istituzioni.

venerdì 15 aprile 2011

Cosa fa paura ai giudici? L'idea di lavorare. Filippo Facci

La paura è che gli tocchi di lavorare, anzi neanche, perché se i magistrati in futuro non riusciranno a chiudere un primo grado in qualcosa come tre anni (tre anni, non tre giorni) potranno sempre dire che è colpa di Berlusconi: eppure lo sanno tutti che i magistrati lavorano mediamente poco, che non di rado tizio «oggi non c’è», che caio «oggi lavora a casa», che sempronio «oggi non è venuto», che pochi si sobbarcano il lavoro di molti, che molti sono imboscati o fuori stanza: perché sono uomini e funzionari e dipendenti statali come gli altri, la differenza è che non timbrano il cartellino (e dici poco) e che in qualche caso si sentono eticamente superiori agli altri salariati pubblici. Cosicché i problemi sono sempre altrove: è colpa della «mancanza di risorse» se al pomeriggio in tribunale c’è il deserto dei tartari, è colpa della «cattiva organizzazione» se molti magistrati appongono fuori dalla porta gli orari di ricevimento come se fossero insegnanti delle medie, e se un avvocato cerca un fascicolo e però il pm l’ha portato a casa. Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, lo disse chiaramente in un libro di Massimo Martinelli: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza».

Ecco perché i parenti delle vittime di Viareggio dovrebbero farsi spiegare, dai magistrati, come abbiano fatto a non fissare neppure la prima udienza dopo due anni e mezzo; i terremotati dell’Aquila dovrebbero farsi spiegare se undici anni e otto mesi non siano più che sufficienti per definire un giudizio ed evitare la prescrizione; mentre i risparmiatori truffati dalla Parmalat dovrebbero farsi spiegare, pure, perché siano serviti sette anni per un primo grado sulla bancarotta, mentre il processo bis - quello contro le banche - attende ancora la prima sentenza. Già oggi vanno in prescrizione 450 processi al giorno: i magistrati non hanno nessuna responsabilità in tutto questo? E neppure i 51 giorni di ferie l’anno - record italiano - significano niente? Si saranno mai chiesti, i magistrati, perché la vecchia uscita del ministro Renato Brunetta sui tornelli a palazzo di Giustizia, in un sondaggio pubblicato dal Corriere nell’ottobre 2008, vide favorevole l’80 per cento dei votanti? Anche Giuliano Pisapia, candidato sindaco a Milano, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Suggerì che si facesse come quel procuratore capo che ogni mattina bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno. Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono gli stakanovisti.

A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni: feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione è stato velocizzato. Il primo grado oltretutto aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando - sacrilegio - anche sino al tardo pomeriggio, talvolta - pazzesco - anche nei weekend. Nelle scorse settimane, in compenso, un’intera procura che doveva mandare alla sbarra Berlusconi - caso Ruby - si è fatta prestare gente da altri uffici, così da macinare tutte le fotocopie necessarie: del resto la prostituzione minorile è il problema cardine del Paese. Già che ci siamo: Antonio Di Pietro ha perfettamente ragione a dire che la giustizia italiana funziona benissimo e che il processo breve in sostanza c’è già: nel febbraio 2009 fu inquisito per offesa al Capo dello Stato e prosciolto in dieci giorni, tempo necessario affinché il pm compisse «una lettura attenta» e archiviasse con un fiume di motivazioni; Di Pietro dimostrò che la Giustizia è celerrima già dai tempi di Mani pulite, quando alcuni personaggi (solo alcuni, peccato) giunsero ai terzo grado in soli tre anni; lo dimostrò anche quando cominciò a querelare: un’intervista contro di lui, uscita su Repubblica nel febbraio 1997, andò a giudizio in meno di due mesi, il 3 aprile successivo; e che la giustizia non perda tempo lo dimostrò anche a Brescia, quando evitò ogni processo a suo danno (prestiti, Mercedes, case eccetera) incassando una serie di «non luoghi a procedere» che per qualsiasi altro cittadino, statistiche alla mano, si sarebbero tradotti in automatici rinvii a giudizio. Lui se la cavò in sei ore.

Tutto il resto, meno rilevante, va come sappiamo: sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale in primo grado. È per questi processi che manca la carta per le fotocopie, che Tizio è in malattia, che la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio. (Libero)

Sindaco in manette. Davide Giacalone

Il nome di Vincent Gray dice poco, in Italia, ma potrebbe insegnare molto. Potrebbe indurre, quanto meno, alla riflessione, sia sulle faccende di giustizia che di bilancio. Il sindaco di Washington, difatti, è stato arrestato. Sia le cause che le modalità sono istruttive. Vale la pena passarle in rassegna.

1. La ragione dell’arresto, sua e d’altre quaranta persone, in gran parte consiglieri comunali e politici locali, consiste nel fatto che hanno bloccato il traffico, arrecando disturbo ai cittadini. Hanno indetto una manifestazione, per protestare contro un accordo fra il Presidente degli Stati Uniti e il Congresso (un’ala del locale Parlamento), hanno invaso la Costitutional Avenue e, con la loro presenza, impedito agli automobilisti di passare. Passava, invece, la polizia, che li ha ammanettati e portati in cella.

Prima lezione: chi disturba la libera circolazione, senza essere regolarmente autorizzato, finisce in carcere, quale che sia il motivo per cui è sceso in strada. Da noi chiunque ferma il traffico, fa impazzire i cittadini, ai quali neanche si comunica chi e perché sta protestando. In alcune giornate le manifestazioni sono più di una, così è garantita sia la paralisi che l’ignoranza. Ma non basta, perché se le forze dell’ordine intervengono, se i manifestanti si rifiutano di porgere i polsi (come hanno fatto il sindaco e i suoi amici) e resistono, quindi si passa dalle parole ai fatti, c’è il rischio che siano processati gli uomini in divisa, non quelli che violano la legge.

2. Una volta arrestati, sia il sindaco che gli altri sono stati subito liberati, a seguito del versamento di una cauzione simbolica, ammontante a 50 dollari. Seconda lezione: una volta rimosso il problema immediato, non c’è ragione di tenere in carcere chi deve essere giudicato. Da noi, fra i tempi dell’indagine, l’arrivo del giudice e il ricorso delle parti, bene che vada passano dei giorni. Lì erano liberi dopo sette ore.

3. Giungiamo alle questioni succose. Se gli arrestati ammetteranno la colpa e pagheranno la multa la cosa finirà lì, con gran risparmio di tempo e denari della giustizia. Ma è probabile che non lo facciano, visto che reclamano d’avere ragione. Quindi dovrà essere l’attorney general del district of Colunbia a decidere se incriminarli. Perché l’azione penale non è obbligatoria e al pubblico ministero (che negli Usa è, giustamente e ovviamente, l’avvocato dell’accusa) spetta stabilire se vale la pena o meno innescare un processo. La valutazione è relativa sia alle ragioni per cui il presunto reato è stato commesso, sia al rapporto fra costi e benefici dell’intera faccenda. In altre parole: perché i cittadini di Washington DC dovrebbero finanziare, con le loro tasse, un processo al sindaco da loro eletto, reo di avere chiesto più soldi per l’amministrazione cittadina?

4. Ma non è finita, perché il signor Irving Nathan, pubblico ministero (per dirla in italiano) della capitale statunitense, è stato nominato proprio dal sindaco. Il posto, difatti, si rese vacante e, in attesa delle elezioni, perché il capo della procura lo eleggono i cittadini, è il sindaco a nominare il facente funzioni. Pensate se una roba del genere succedesse in Italia! Il fatto è, però, che il sistema statunitense ha il pregio della chiarezza e della linearità: è in nome dei cittadini, nonché a loro spese, che si sollevano le accuse, sicché essi hanno il diritto di stabilire chi è responsabile di tali scelte. La fortuna degli Usa è che, da quelle parti, non sono numerosi, come da noi, gli analfabeti del latinorum, modello: ad personam.

5. Gray protestava non contro un voto del Congresso, che, a quel punto, c’è poco da pestare i piedi, ma contro un accordo fra il Presidente e i leaders del congresso. Sarebbe a dire, in italiano, fra il presidente del Consiglio e i capigruppo della maggioranza (nel caso statunitense anche dei repubblicani, per la semplice ragione che Obama ha perso la maggioranza al Congresso). Da noi si sarebbe gridato contro il sequestro delle prerogative parlamentari. Quando, però, quelle prerogative si salavano e i singoli parlamentari presentano emendamenti non graditi dall’opposizione, allora si grida contro i colpi di mano. Insomma, si grida per principio, in modo da coprire il tacere del pensiero.

6. Che cosa stabilisce l’accordo contestato dal sindaco? Che si devono tagliare le spese a Washington e che non si devono più pagare le spese per gli aborti delle donne che non possono pagarselo. Se succedesse da noi si urlerebbe al colpo di stato papalino. In realtà, più semplicemente, quello è il primato della politica: se ai cittadini non sta bene, non resta loro che cambiare voto.

Per gran parte dei democratici quei tagli sono troppi e Obama un traditore, mentre per gran parte dei repubblicani sono troppo pochi e Obama un nemico del bilancio sano. Come la pensano gli americani lo si saprà contando il loro voti, l’anno prossimo. Come la pensano gli italiani, invece, lo sappiamo per sentito dire, mentre il loro voto è costantemente lo stesso, con poche oscillazioni, da molti anni a questa parte. Non per stabilità, ma per mancanza d’alternative credibili e praticabili.

La Menzogna Organizzata e l'industria culturale. Marcello Veneziani

Gabriella Carlucci ha l’ingenuo ardore degli idealisti, dei dilettanti e dei so­gnatori da american dream . Crede che la politica possa cambiare la realtà, correg­gere la cultura, salvare addirittura la veri­tà della storia. E pensa che il modo miglio­re sia far nascere una bella commissione d’inchiesta sui libri di testo faziosi che esaltano Togliatti e Berlinguer e insulta­no Berlusconi. Ci provò undici anni fa Sto­race in un clima diverso, ma l’impresa fu lo stesso vana. Allora diciamo due cose. La prima: è vero, i libri di testo sono fazio­si, orientati a sinistra, vergognosi nelle lo­ro omissioni, vituperi e apologie. Hanno emendato qualche rigo, per esempio, sul­le foibe, ma hanno lasciato immutato il resto.

Potrei farvi esempi più gravi di quel­li indicati dalla Carlucci: sulla rivoluzio­ne francese e sulla rivoluzione napoleta­na, sul Sud e sull’Unità d’Italia,sul comu­nismo e sul fascismo, sui totalitarismi e sulle persecuzioni religiose, sulla guerra civile e sul terrorismo, e via dicendo. La seconda: le commissioni d’inchie­sta non servono a niente. Se si limitano a studiare e denunciare il fenomeno, non producono effetti, se si azzardano a cen­surare e vietare allora è peggio: i faziosi passano pure per martiri della libertà. E la candida Gabriella per una Torquema­da.

I libri di testo sono poi solo un capitolo della Menzogna Organizzata che domi­na nella nostra cultura. Riguarda l’ege­monia di una cricca che incensa o con­danna testi e autori, a prescindere dal lo­ro valore, nel nome mafioso della sola ap­partenenza. E passa per tutta l’industria culturale, fino alle librerie. Più della metà di esse, per esempio, non espone più no­vità Mondadori, perché di proprietà ber­lusconiana, a eccezione degli autori di ri­to accettato, con permesso di soggiorno. Allora non sono le commissioni e le de­nunce che servono ma le idee, i testi alter­nativi, le strategie culturali. Prediche inu­tili, restiamo alla condanna di sempre: «quelli di sinistra» sono faziosi perché leg­gono, citano e scrivono solo testi di parte; «quelli di destra» sono equilibrati perché non leggono, non citano, non scrivono né testi di parte né super partes. (il Giornale)

giovedì 14 aprile 2011

Processo breve, nessun rischio

Nonostante le terroristiche affermazioni di alcuni esponenti dell’opposizione, le nuove norme sul processo breve e sulla prescrizione breve non incideranno sui procedimenti per il disastro di Viareggio, il terremoto dell’Aquila o per il crack Parmalat.

Per il primo i Pm stanno procedendo per reati gravissimi, come l’omicidio colposo plurimo e il disastro ferroviario, puniti con pene molto severe e che si prescriveranno, quindi, in un tempo lontanissimo; se il processo breve verrà approvato la prescrizione del disastro ferroviario di Viareggio maturerebbe in 23 anni e quattro mesi, quindi nel 2032, e la prescrizione dell’omicidio colposo plurimo addirittura dopo, fino a un massimo di 35 anni dai fatti, quindi nel 2044.

Lo stesso vale per i processi per il terremoto dell’Aquila, dove il termine di prescrizione si ridurrebbe di soli dieci mesi. E anche su Parmalat non ci sarebbe nulla da temere, visto che per il reato di bancarotta fraudolenta ed aggravata si passa dai 18 anni e nove mesi a 17 anni e sei mesi.

Tecnica di un colpo di stato. Giuliano Ferrara

Il professor Alberto Asor Rosa incita sul manifesto, compassato quotidiano comunista, al colpo di stato. E’ un italianista in cattedra, quindi non si cura di scegliere come Dio comanda tra congiuntivo e indicativo (vuole “una prova di forza… che scenda dall’alto, che instaura… un normale stato d’emergenza” eccetera, e il resto della citazione la trovate qui sotto nell’antologia degli orrori confezionata per voi). Ma per quanto scriva da passante, Asor Rosa non è un passante. E’ un esponente autorevole della cricca Scalfari. E’ uno che con il vecchio Toni Negri, oggi in pensione, animava le correnti ideologiche contigue al terrorismo, dette “operaisti”, e che amava molto Slobodan Milosevic e il suo nazionalcomunismo abbattuto dalla guerra del Kosovo. Insomma, uno special one del più trucido e violento cazzeggio dell’antidemocrazia travestita da perbenismo e neopuritanesimo all’italiana.

Non solo il professore non è un passante, la sua idea golpista, esplicitata ieri come mai prima d’ora, con tanto di invocazione di Carabinieri e Polizia di stato al servizio di un piano eversivo per “congelare la Camere” e liquidare con la forza il governo eletto, è la versione letterale di molte altre posizioni analoghe, più o meno dissimulate, espresse da editorialisti del quotidiano di Carlo De Benedetti, la tessera numero uno del Partito democratico (così il brillante finanziere e nostro saltuario collaboratore ebbe a definirsi in passato). Ammiccamenti o pupi viventi del sardo-piemontese e appena un po’ più contegnoso Ezio Mauro, e del mondano Fondatore del giornale che egli dirige, gli editorialisti militanti di Rep. sono gli stessi che parlano dai palchi accanto al vanesio Eco e al banale Saviano e a un bambino tredicenne incaricato di recitare la litania dell’odio contro il Cav., una vera forma di prostituzione politica minorile al servizio dell’Anticostituzione. Tutti teorizzano il diritto di abbattere il tiranno con ogni mezzo, e affermano che non si può ottenere una nuova maggioranza in Parlamento e nemmeno nelle urne, ragion per cui occorre il colpo di stato, nelle forme magari meno evidenti di un governo del presidente o in quelle trucibalde descritte ieri da Asor Rosa.

Il pretesto è che Berlusconi è un delinquente, tocca il culo alle ragazze (il playful premier del Financial Times o, se volete, il “giocoliere galante” evocato dal vostro direttore), ha rincretinito gli italiani con i palinsesti televisivi, immagino a colpi di Lerner, Gabanelli, Gruber, Dandini, Floris, Santoro e Fabio Fazio, in più annullando ogni caratterizzazione politica dei programmi Mediaset e generando durante il suo dominio tirannico sul sistema un terzo polo televisivo in cui eccelle Enrico Mentana con il suo tg7; il delinquente inoltre ordina al Parlamento il confezionamento di leggi ad personam per difendersi dalla cura equilibrata con cui magistrati comizianti della procura di Palermo vogliono tirarlo dentro da anni con accuse di strage mafiosa, una delicata Boccassini vuole imputargli una rete di prostituzione per delle feste tenutesi a casa sua, e una quantità di altri magistrati, civili e penali, desiderano che vada in galera per le accuse più varie e che prima, per cortesia, passi un sette-ottocento milioni di risarcimento all’editore di Repubblica.

La faccenda è grottesca, ma è anche molto seria. Il fronte antiberlusconiano eccita gli animi alla guerra civile. Il gioco è sporco, brutale. Le gride illiberali emesse da questi tecnici del colpo di stato rimbecilliscono davvero una minoranza fanatica. La loro stampa fiancheggiatrice di bassa lega, guidata da un manipolo di teppisti dell’informazione, diffama e denigra a piene mani, tutti i giorni, coloro che tentano di resistere all’ondata di piena merdaiola. Mettono in pericolo la convivenza civile con l’ostentazione della virtù mentre i loro attori e saltimbanchi simbolo investono alla caccia del 20 per cento di interessi promesso dal Madoff dei Parioli i loro piccoli risparmi ottenuti nel vasto e florido mercato dell’odio politico. Questa masnada mette in mora le istituzioni e i poteri neutri. Rovescia ogni frittata e, mentre butta fango e merda sull’Arcinemico, lamenta di essere vittima di una orwelliana macchina del fango (il senso dell’umorismo non è il forte di questi golpisti meschini, di questi chiagn’ e fotti).

C’è chi il dirty job, il lavoro sporco, lo fa con argomenti diretti, come l’italianista che sbaglia congiuntivo e indicativo, chi lo fa con argomenti malinconici e profetici, chi lo fa impancandosi a difensore del diritto o meglio di una versione totalitaria e incostituzionale della legalità, intesa come una clava da opporre alla sovranità del Parlamento, alla sovranità dei cittadini che lo eleggono, alla divisione dei poteri distrutta dalla incauta riforma dell’articolo 68 della Costituzione, nell’anno di grazia del Grande Terrore, il 1993.

E’ ovvio che a nessuno di questi gentiluomini, a nessuna di queste nobildonne importa che sia possibile processare Berlusconi. Se questo fosse l’obiettivo, a prescrizione sospesa, con il lodo Maccanico, poi Schifani, poi Alfano, sarebbe un gioco da ragazzi costruire un’alternativa al giocoliere galante, rovesciarlo con un voto popolare e poi processarlo in tribunale. Ma loro non vogliono processarlo, vogliono abbatterlo e vogliono farlo anche per derubare noi delle imperfette ma vive libertà italiane e per derubare lui del suo patrimonio a nome e per conto (corrente) dei loro padroni. In spregio ai cittadini che hanno scelto un imprenditore e leader politico atipico per ben tre volte (e hanno scelto liberamente un altro principe, Romano Prodi, ben due volte relegando Berlusconi all’opposizione).

L’Italia è una democrazia. Il giocoliere galante gioca con tutto tranne che con la regola delle regole, il diritto della maggioranza a governare sotto il controllo delle istituzioni. Un controllo occhiuto, che va dal Quirinale alla Corte costituzionale, da un establishment economico e finanziario criticabile, ma plurale ed europeo, a una stampa liberissima e in certi casi omologata alla morale corrente del contropotere. Questa democrazia è sotto il tiro dei cecchini. Sono pallottole verbali, come abbiamo visto sono invocazioni alla violenza contro la Costituzione e le leggi, contro il verdetto elettorale, sono parole che chiedono dall’alto quel che non si riesce a fare dal basso per mancanza di consenso, sono parole ma parole contundenti, che avvelenano l’aria che si respira, condannano una generazione politica al settarismo, al moralismo più insincero e al virtuismo ipocrita. Sono parole che vanno spiegate, diffuse, illustrate e criticate, anzi demolite, con tutti i mezzi leciti. Non capisco come sia possibile che, al posto o a integrazione di piccoli show in tribunale, il Popolo della libertà non convochi un grande raduno nazionale al Palasport di Roma con il titolo: “Storia di una persecuzione politica”. E il sottotitolo: “Tecnica di un colpo di stato”.

Non si può assistere a questo grottesco scempio della legalità e sovranità repubblicana senza protestare, senza scendere in strada, senza resistere. E le istituzioni terze, le istituzioni di garanzia, alle quali in sospetta concomitanza il leader del Pd Massimo D’Alema chiede uno sbrigativo “scioglimento delle Camere”, dovrebbero, se ci sono, battere un colpo significativo e rumoroso. E spiegare che con la democrazia non si scherza, che c’è un confine valicare il quale è costituzionalmente proibito. (il Foglio)

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