martedì 31 dicembre 2013

Ribasso immaginario. Davide Giacalone


Mano a mano che la spesa e il debito pubblico aumentano, inseguiti dalla pressione fiscale, i governi che si succedono si vantano di far scendere le tasse. Fin quando l’esercizio era praticato dal centro destra, si poteva contare su una vasta reazione d’indispettita incredulità. Ora che una nuova generazione de sinistra si diletta nel medesimo giuoco, s’assiste al rimbalzo delle banalità. Berlusoni&Tremonti dicevano d’avere cancellato l’Ici sulla prima casa, ed era vero. Salvo che era aumentato il resto, mentre rimaneva lì quell’Irap che l’allora ministro dell’economia considerava una rapina. E’ ancora una rapina ed è ancora in vigore. Oggi Letta&Saccomanni glissano sull’origine della presunta discesa fiscale, ma s’appoggiano felici ai dati diffusi dalla Cgia di Mestre. Che sono veri, ma non dicono quel che costoro credono.

I dati dell’associazione artigiani segnalano un calo dell’imposizione fiscale sulle famiglie. Ciò è vero prendendo come anno di riferimento il 2012, ovvero quello della grande spremitura. Se, ad esempio, si fanno i conti a partire dal 2011 ecco che l’imposizione è poderosamente crescente: sia per il 2013 che per il 2014. Per una famiglia monoreddito sarà crescente anche l’anno prossimo rispetto a quello che ora si chiude. Diciamo che, come calo da sbandierare, lascia un po’ a desiderare.

In ogni caso si riferisce alle famiglie, perché se si fanno i conti aggregati, calcolando la pressione fiscale in relazione al prodotto interno lordo, il segno è sempre positivo. Cioè negativo, nel senso che la pressione cresce. Il tutto senza tenere conto del fatto che la legge di stabilità, per il 2014, è zeppa di “clausole di salvaguardia”, quindi di aggravi fiscali che prenderanno corpo ove non si realizzino le ottimistiche previsioni governative. E senza dire che nello stesso anno in cui le famiglie si trovavano a risparmiare con il fisco diminuiva il gettito Iva, pur aumentando le aliquote, segno che quel vantaggio era troppo poco per spingere i consumi, mentre del tutto inutile a spingere le esportazioni. Infine: da che deriva il calo? Da due cose: a. la cancellazione dell’Imu sulla prima casa; b. gli sgravi Irpef per figli a carico. La prima cosa è illusoria, giacché l’anno prossimo altre patrimoniali andranno a colmare la momentanea assenza. La seconda è instabile, perché sotto schiaffo delle clausole di salvaguardia.

A me la discesa libera delle tasse piacerebbe, e sarei pronto ad applaudire, ma questo è un slalom fra le prese in giro. Faccio due esempi concreti, per dare l’idea di dove sia giunto il satanismo fiscale. Il primo è relativo ad una società che dia in affitto un proprio immobile di 130 metri quadrati, ad un canone, mettiamo, di 36.000 euro l’anno. Ecco quel che succede fiscalmente: 1. Iva 7.920; 2. Ires 9.900; 3. Irap 1.404; 4. Imu 5.500; 4. Tares statale 39; 5. Imposta di registro 360. Senza attendere le nuove imposizioni, previste per il 2014, i 36.000 euro sono diventati 10.877 (il fisco pesa per 25.123). Ma non è mica finita: se la cifra incassata fosse utile netto e decidessero di distribuirla ai soci, su quello dovrebbero pagare le tasse, con il risultato che la pressione totale si collocherebbe al 75%. (Questo a tacere che proprio nel settore degli affitti, nel decreto milleproroghe, il governo ha due volte violato i rudimenti del diritto: considerando lo Stato libero di disdire a piacimento i contratti e considerando taluni privati obbligati a subire contratti scaduti o non adempiuti. Due misure plaudite, a segno che gli astanti hanno perso il senso dell’orrore).

Secondo esempio: busta paga di una addetta alle confezioni, di questo dicembre: stipendio 1.043 euro; trattenute 1.043; soldi incassati per il lavoro svolto 0. La busta mi giunge dai diretti interessati. Casi limite? Può anche darsi, ma la morale è una sola: da Berlusconi&Tremonti a Letta&Saccomanni, si può parlare di fisco che scende, senza esporsi al ridicolo, solo a fronte di operazioni sistemiche e non cosmetiche, accompagnate da tagli alla spesa pubblica e abbattimento del debito, altrimenti, senza necessariamente mentire, si dicono cose in stucchevolissimo politichese, che fanno a cornate con la realtà percepita. Assai più reale di quella asserita.

Con un piano economico siffatto, con un governo in grado di realizzarlo e dotato della credibilità per propagandarlo, l’Italia riparte come una scheggia, premiando la parte produttiva, che non s’è mai fermata, e assetando la parte improduttiva, che non s’è mai saziata. Occorre, però, praticare politiche grandi, non pastrugnare con politicazze irrilevanti. Vorrei augurarlo per il 2014. Ma per averlo è necessaria consapevolezza e serietà che non vedo, sì che s’aspetta il “grande trauma”. Prospettiva nefanda. Per evitarla occorrono parole dure, non conticini mosci.

Pubblicato da Libero

lunedì 30 dicembre 2013

La base della sinistra è fatta di deficienti? Aldo Giannuli


Articolo lungo, ma da leggere assolutamente....

So che questo articolo farà imbestialire molti per il titolo, ma se avrete la pazienza di leggere anche il resto, forse vi arrabbierete anche di più. O forse no. Vediamo… Uno degli interventori di questo blog, commentando una mia affermazione per cui il Pd è un partito con un gruppo dirigente di destra ed una base (militante ed elettorale) prevalentemente di sinistra, ha scritto che, stante questa premessa, occorre concludere che “l’elettorato del Pd è in larga parte composto di deficienti”. Deduzione impeccabile…apparentemente, in realtà sbagliata perché troppo superficiale.


Le cose sono molto più complicate di un rapporto lineare per il quale una base, che non si vede rappresentata nelle sue istanze più importanti, dopo un po’, sfiducia il gruppo dirigente. Sarebbe troppo bello se le cose fossero così semplici. In realtà, nel rapporto di rappresentanza, giocano molte mediazioni ed elementi di “disturbo”. Ovviamente non è affatto escluso che ci sia una porzione di deficienti che giochino un ruolo di supporto alle burocrazie dominanti e senza alcun vantaggio per sé (altrimenti che deficienti sarebbero?). E questo vale per tutti, anche per la sinistra: non fu Sciascia, sin dal 1963, a decretare la “nascita del cretino di sinistra”?

Ma non è questo l’elemento decisivo: si tratta di una porzione decisamente minoritaria e non determinante. Ben più decisiva è la porzione di persone direttamente legata da rapporti di interesse con il gruppo dirigente: funzionari, consulenti, personale amministrativo, cui si aggiungono i membri di corporazioni garantite e comitati d’affari vari. A sinistra questa coda clientelare e burocratica è particolarmente fitta e ben collegata (si pensi agli apparati di partito, al personale politico degli enti locali, alle cooperative, alle corporazioni di accademici, sindacalisti, magistrati, notai, architetti ecc.). Non è affatto detto che questo gruppo di persone condivida o meno gli indirizzi politici del gruppo dirigente che sostiene: nella maggior parte dei casi vi è indifferente, ma anche nel caso dissenta dagli indirizzi generali del gruppo dirigente –a prescindere se considerati troppo di destra o troppo di sinistra- continuerà a votarlo, per il prevalere degli interessi particolaristici o anche solo personali.

Naturalmente, questa politica di distribuzione selettiva delle risorse, per definizione, deve riguardare minoranze abbastanza ristrette, quindi questa parte della base non è numerosissima e, presumibilmente, non supererà mai una quota del 4-5% degli iscritti al partito e molto meno degli elettori, quindi, in sé, non si tratta di un gruppo decisivo. Ma occorre tener presente che queste persone hanno parenti, amici, clienti, dipendenti, che sono spesso interessati indirettamente al mantenimento di quegli stessi assetti di potere: se un architetto vive della committenza degli enti locali in cui ha amici politici, è interessato alla loro permanenza alla guida dell’ente locale e del partito, ma altrettanto interessati al permanere di quegli equilibri saranno i suoi familiari, la segretaria ed anche il giovane precario del suo studio che vivono di quello stipendio, pur magro. Così come a votare per lo stesso assessore saranno i clientes che hanno ricevuto qualche favore, anche piccolo. Sicuramente non tutte queste persone voteranno conformemente ai loro interessi particolaristici, ma una parte -più o meno ampia- si. E questo determina un effetto moltiplicatore, per cui quel 3-4%, diventerà facilmente il 15-20% dei voti congressuali ed una percentuale più bassa, ma non trascurabile, dell’elettorato. Ma veniamo alla parte maggiore della base.

Qui il discorso si differenzia fra base di partito e base elettorale. Nella base di partito un effetto decisivo lo giocherà l’apparato dei funzionari strutturati in una precisa catena di comando che va dal centro alla periferia e che è il modello organizzativo base della sinistra. Oggi l’apparato è decisamente più debole rispetto a quello che era nel Pci, ma mantiene un peso considerevole e si integra con la nuova figura del “consulenti”. Il funzionario è un lavoratore dipendente privilegiato da un certo punto di vista (elasticità di orari di lavoro, accesso ad ambienti decisionali, spesso migliore retribuzione ecc.), ma ha un forte handicap: è licenziabile ad nutum, per cui deve assicurarsi un solido ancoraggio nei livelli superiori dell’organizzazione, attraverso un rapporto di dipendenza politica dal gruppo dirigente nel suo complesso o di una sua particolare frazione. A sua volta, però, il funzionario, ha un discreto potere di distribuzione di riconoscimenti selettivi verso chi gli è sottoposto: può influenzare la scelta dei membri di direttivo regionale o provinciale, dei segretari di sezione, dei membri di commissione o di particolari incarichi di partito o degli enti locali, la formazione delle liste quanto meno per le elezioni amministrative ecc. E questo, ovviamente, sfocia nella costruzione di un seguito organizzato che seguirà le sue indicazioni di voto congressuale. E così si determina una catena di consenso che prescinde totalmente dall’adesione ad una determinata linea politica: il segretario della sezione “Gramsci” è un vecchio militante del Pci, totalmente estraneo alla cultura liberista del gruppo dirigente e che non ama affatto Renzi, ma è stabilmente collegato al gruppo che nella federazione provinciale fa riferimento al signor Bianchi, ex sindacalista Cgil, a sua volta collegato al gruppo regionale dell’on. Neri, che deve la sua candidatura al membro della direzione Rossi che, a sua volta, ha scelto di stare con Renzi.

Quel segretario di sezione, dunque, voterà Renzi e, siccome ha un nutrito gruppo di amici ed estimatori, molti di essi, pur pensando cose totalmente diverse, voterà seguendo le indicazioni del segretario del circolo. Come si vede ci sono una serie di passaggi che prescindono totalmente dalla condivisione o meno della linea politica. A questo meccanismo (particolarmente radicato nei partiti di sinistra nei quali da sempre l’apparato è la spina dorsale) si sommano meccanismi di natura diversa che hanno anche più peso nell’area degli elettori non iscritti al partito. In primo luogo, al pari di quanto accade nei mercati finanziari, giocano un ruolo molto importante le “asimmetrie informative”, per cui l’ “offerta”, cioè il gruppo che chiede la delega, possiede una quantità ed un livello di informazioni decisamente superiore a quello della “domanda”, cioè la base alla quale non resta che stare sulla parola di chi gli chiede fiducia. Come si sa, chi vende sa ciò che vende, ma chi acquista non sa quel che compra.

Questa asimmetria informativa di base, poi va stratificandosi, creando una vera e propria “gerarchia informativa”: all’interno del gruppo, corrente o partito, il capo cordata avrà il massimo di informazioni, i suoi immediati subordinati conosceranno gran parte di esse ma non tutte, a loro volta i subordinati di medio livello avranno a disposizione una massa inferiore di informazioni che trasmetteranno solo in parte ai loro sostenitori e così via, in un crescendo di opacità che raggiungerà il suo massimo al livelli di base. Se il capo corrente ha stabilito un’ intesa coperta con altro capo corrente, probabilmente lo dirà solo ai collaboratori più stretti ed ai supporter più fidati, gli altri forse ne sapranno qualcosa o la intuiranno e forse qualcosa trapelerà a livello medio alto, ma al di sotto di esso nessuno ne saprà o immaginerà nulla.

Dunque, primo problema: la base compie le sue scelte in condizioni di ignoranza più o meno parziale, per cui la scelta basata sulla fiducia personale spesso sopperirà ad una scelta consapevole. Ma, qualcuno osserverà, questo può essere giusto per il futuro, ma come giustificare il persistere di un rapporto fiduciario anche “dopo”, quando l’azione politica (di governo o di opposizione, poco importa) del gruppo dirigente si è dispiegata ed ha dato i suoi frutti magari divergenti dalle aspettative? Perché la base non giudica il gruppo dirigente sulla base dei risultati effettivamente conseguiti? Anche qui c’è una quota di asimmetria informativa, che contribuisce a spiegare il fenomeno: non tutti i militanti di un partito seguono la vita politica con l’attenzione necessaria o, semplicemente, hanno il tempo di documentarsi adeguatamente; e fra gli elettori non iscritti, presumibilmente, il tasso medio di interesse per la vita politica è ancora più basso.

Peraltro, giudicare le decisioni, ad esempio, di politica economica, presuppone un minimo di strumenti culturali che spesso non sono disponibili. L’uomo della strada percepisce che l’economia non va, che occupazione e consumi calano e che la pressione fiscale è poco sopportabile, ma di fronte a spiegazioni del tipo “E’ l’eredità dei governi precedenti”, “E’ l’effetto cella crisi mondiale che sarebbero ancora peggiori se il governo non avesse fatto questo o quello”, “E’ quello che si può fare entro i vincoli dei trattati internazionali”, “E’ colpa della Germania” oppure “Gli altri avrebbero fatto di peggio”, non ha gli strumenti per orientarsi. E, nella maggior parte dei casi, o si fiderà di quello che legge nel giornale che prende abitualmente o si rivolgerà al suo opinion leader di riferimento (un amico insegnante o professionista o giornalista ecc.) che spesso sarà un militante o simpatizzante di partito. Oppure farà leva sul “pre-giudizio ideologico” che lo dispone a favore di uno schieramento piuttosto che di un altro, a prescindere da qualsiasi analisi di merito. Ed in questo influiranno anche una serie di riflessi psicologici da non sottovalutare: confondere i desideri con la realtà, scacciare le notizie sgradite, cercare di giustificare sempre la parte politica per cui si tiene, il desiderio di non smentirsi e di “tenere il punto” della propria appartenenza politica, la resistenza ad accettare i mutamenti storici in corso e la conseguente tendenza, in particolare nei più anziani, a leggere quel che accade con le lenti del passato.

Questi meccanismi sono più forti a sinistra, dove, pur essendoci un più alto tasso di politicizzazione, c’è una maggiore propensione ad affidarsi al “partito-apparato”, dove il radicamento ideologico è maggiore e con una più spiccata propensione acritica, dove il “patriottismo di partito” ha ragioni antiche e spesso sfocia in una deplorevole assenza di laicità. E non si dimentichi che la densità di anziani a sinistra è particolarmente alta (come giustamente ricordava qualcuno: una grossa fetta degli elettori del Pd sono i pensionati). I giovani si astengono o votano il M5s, pochi la destra, ma solo pochissimi Pd. E questo ha il suo peso. Ma, soprattutto incide un fattore particolare: l’assenza di alternativa prodotta dallo stesso ceto politico al “potere”. Quando chiedi ad un militante di sinistra perché vota per una certa corrente o perché non reclama le dimissioni immediate di un segretario sconfitto alle elezioni ecc. novanta volte su cento la risposta è: “E chi ci metti al suo posto?”. Ed è vero, perché non c’è un’ offerta alternativa. Ma non c’è perché il ceto politico al potere ha accuratamente fatto in modo che non ci sia. Ed un gruppo dirigente alternativo non cade dalle nuvole come un dono del Cielo. All’interno dei partiti è la totale assenza di democrazia interna ad impedire qualsiasi ricambio. Beninteso, non mancano le liturgie congressuali o le primarie, ma alla linea di partenza arrivano solo già quanti sono dentro la casta e la scelta è sempre fra diverse frazioni della stessa burocrazia. Per affermarsi un nuovo gruppo dirigente ci sarebbe bisogno di una dialettica aperta per tutto il periodo che va da una consultazione all’altra, tenendo conto tanto della difficoltà dell’affermarsi di una nuova cultura politica in presenza del naturale conservatorismo delle organizzazioni.

C’è una viscosità interna che penalizza le novità e punisce le innovazioni, per cui, per affrontare le sfide interne, al gruppo dirigente in carica basterà monopolizzare l’immagine esterna del partito ed escludere dalla sua discussione interna ogni “terzo incomodo” che cerchi di inserirsi. Anche quando si conceda qualche avarissimo spazio marginale (le lettere al direttore del giornale di partito o qualche raro post nel blog vigilato dalla direzione), questo non avrà alcun effetto. Quando si arriverà al congresso o alle primarie, i giochi saranno già fatti: il regolamento provvederà a rendere quasi impossibile ai nuovi arrivati anche solo di presentare una loro mozione e loro candidati; se anche qualcosa dovesse accadere, i dirigenti uscenti potranno usare le risorse economiche del partito per le loro manifestazioni, spostamenti, inserzioni pubblicitarie, manifesti ecc. mentre i nuovi dovranno fare tutto da soli. Poi ad indirizzare i consensi provvederanno i funzionari sul territorio e la stampa nazionale che, ovviamente, darà spazio solo a quelli che già sono i principali esponenti di partito.

Qualche nuovo candidato al massimo sarà preso in considerazione come una curiosa e divertente anomalia. E, sempre che il conteggio dei voti sia corretto (del che…) i consensi si suddivideranno più o meno nella misura dei rapporti di forza preesistenti fra le diverse frazioni burocratiche. Questo poi si rifletterà anche nelle elezioni politiche, dove l’elettore si troverà sempre a scegliere fra le solite offerte politiche. A scoraggiare la formazione di nuove liste influirà anche la legge elettorale maggioritaria che, con il richiamo al voto utile e le soglie di sbarramento, mette fuori gioco eventuali nuovi arrivati. Per dimostrare come tutto questo sia ancor più vero nel caso delle organizzazioni di sinistra, nel prossimo articolo mi occuperò di un caso da manuale di “paralisi del gruppo dirigente” ed impossibilità del ricambio: Rifondazione Comunista.

Rifondazione: un caso limite. Ovvero: l’autocritica questa sconosciuta



Dopo la “prima puntata”di alcuni giorni fa, in cui mi chiedevo provocatoriamente se la base della sinistra sia formata di deficienti, ecco la seconda puntata, in cui vi sottopongo il “caso studio” di Rifondazione Comunista.

C’è un partito il cui segretario ha condiviso con gli altri la scelta rovinosa di entrare nel governo con le elezioni del 2006, poi è stato il capo delegazione di quel partito nel governo, dove non ha combinato assolutamente nulla. Di conseguenza ha la piena responsabilità, insieme ai massimi dirigenti del partito della disfatta del 2008 per cui il partito ed i suoi alleati perdevano 2 elettori su 3 e restavano esclusi dal Parlamento. Poi, diventato segretario, nel luglio 2008, rifiutava ogni ipotesi di separazione consensuale con la corrente che aveva perso il congresso, impegnandosi a mantenere il partito unito in vista della riscossa alle successive elezioni politiche, ma la scissione ci fu lo stesso nel modo peggiore, tale da impedire anche un accordo elettorale alle europee, dove entrambe le liste mancavano, ciascuna per pochi voti, il quorum del 4%.

Nel frattempo il partito subiva una preoccupante paralisi politica, prendendo solo pochissime iniziative bilaterali con altre formazioni come l’Idv, o limitandosi ad uscite grottesche come la campagna della michetta. Pertanto, gli iscritti, che al momento del congresso del 2008 erano 74.000 calavano rapidamente, sino all’attuale cifra di 30.000 (che prendiamo con beneficio d’inventario)…

Alle successive elezioni regionali (2010) il partito, presentandosi come Federazione della Sinistra insieme al Pdci, perdeva circa centomila voti rispetto all’anno prima ed otteneva solo pochissimi consiglieri regionali e peggio ancora andava nelle amministrative del 2011. Il partito cessava qualsiasi attività, anche solo insieme ad altri, per “mancanza di denaro”, preferendo spendere gli ultimi ratei di finanziamento pubblico (peraltro non proprio spiccioli) per continuare a pagare un apparato funzionariale ancora pletorico (circa 85 persone rispetto alle 120 precedenti) e con stipendi che, in alcuni casi, come la federazione di Milano, potevano superare i 4.000 euro

Giunte le politiche del 2013, il baldo segretario, insieme al Pdci ed al dottor Ingroia (improvvidamente coinvolto in questa sconsiderata avventura) metteva insieme una lista semplicemente ripugnante, con ex Dc, ex fascisti, poliziotti impegnati a non far approvare il reato di tortura ecc. E, nonostante in questa ignobile accozzaglia, fossero confluiti i resti dell’Idv, che nelle elezioni europee aveva superato l’8% dei voti, la lista otterrà solo il 2% e qualcosa per cento, mancando di nuovo il quoziente.

Ora, mi sembra chiaro che, se c’è un caso nel quale un gruppo dirigente, con in testa il suo principale esponente, debba essere ruzzolato dalle scale, è esattamente questo. Che altro avrebbe dovuto fare quel piccolo carrierista di Ferrero per essere cacciato? Come sarebbe potuta andare peggio?

Delle due l’una: o in Italia non c’è più spazio per un partito comunista o lo spazio c’è ma sei tu incapace di coprirlo. Nel primo caso, si prende atto della situazione e si fa un congresso di scioglimento, nel secondo caso i responsabili evitano proprio di farsi vedere in giro, e fanno come il Trota: si ritirano in campagna e coltivano cipolle.

E, invece, il baldo segretario, con il suo ancor più baldo vice segretario, si ripresentano con una mozione che prende circa il 70%. Dopo, però, il vice segretario si accorge (finalmente!) che forse c’è qualcosa che non va e propone a tutti, segretario incluso, di fare un passo indietro, per cui la corrente si spacca. La cosa non è ancora terminata perché a gennaio l’assemblea dei delegati dovrà decidere chi eleggere segretario, ma pare ci siano pochi dubbi sul fatto che Ferrero raccoglierà poco più del 50% e sarà rieletto.

Sapete dirmi che logica c’è in tutto questo? Sorvolo sulla regolarità o irregolarità congressuali di cui magari potranno dire meglio altri. Mi limito a registrare il dato nudo e crudo: un gruppo dirigente che ha ottenuto risultati catastrofici viene nuovamente plebiscitato, anche se solo dai pochi superstiti. Sono tutti cretini quelli che hanno votato per Ferrero? Non lo credo affatto. Oddìo, una bella percentuale di cretini, che si sono identificati nel loro leader sicuramente ci sarà, ma non credo che arrivino a più di uno su cinque. E sicuramente c’è anche la percentuale di “interessati” a cominciare dai funzionari cui Ferrero non ha fatto mancare lo stipendio in questi anni, a costo di sottrarre tutte le risorse all’iniziativa politica e far morire di inedia il partito. Ma anche qui si tratta di una spiegazione accessoria e numericamente contenuta, non fosse altro perché ormai di risorse da distribuire ce ne sono davvero poche.

La netta maggioranza di chi ha votato Ferrero lo ha fatto per altre ragioni che, a mio avviso, sono spiegabili con il meccanismo dell’ “autoinganno”; un fenomeno bel conosciuto in psicologia (vi consiglio la lettura di Robert TRIVERS “La follia degli stolti. La logica dell’inganno e dell’autoinganno nella vita umana”, Einaudi. Torino 2013) e che può avere dimensioni tanto consapevoli quanto inconsapevoli. Beninteso: in una certa misura gli autoinganni sono inevitabili per qualsiasi essere umano: la rimozione a volte è necessaria per superare un trauma emotivo, lo sforzo volontaristico, contro ogni aspettativa razionale, è necessario e qualche volta, la cosa funziona.

Talvolta l’autoinganno è necessario anche a livello sociale: buona parte delle convenzioni (per cui, ad un certo punto, si decide che una cosa non è in un certo modo, ma è “come se lo fosse”) non sono altro che autoinganni più o meno consapevoli che rispondono all’esigenza di risolvere praticamente qualcosa che non si sa come affrontare diversamente. E spesso funziona.

Ovviamente, quando gli autoinganni diventano troppi e la componente inconscia prevale, il risultato può essere catastrofico. Ed è esattamente quello che sta accadendo con questa crisi economico finanziaria.

Ma, torniamo al nostro caso. Io credo che nella dinamica di Rifondazione ci siano molti meccanismi di autoinganno che si collegano direttamente al sub cultura politica della sinistra comunista.

In primo luogo il riflesso iperdifensivo, che porta a difendere il partito ed il suo gruppo dirigente in qualsiasi occasione, senza mai concedere nulla ad un minimo di riflessione autocritica. Per cui anche gli insuccessi e le sconfitte non insegnano nulla, perché è sempre colpa degli altri: delle trame della Cia, del clientelismo democristiano, dei tradimenti dei socialisti, degli intrighi del Vaticano, della Mafia, della repressione padronale, della congiunzione astrale e della “sfiga che ci perseguita”. Mai, comunque, da qualche errore o colpa propria. Questo è comprensibile in un partito che ha passato 20 anni nella clandestinità e poi altri 30 nella ghettizzazione politica e ciò può aver avuto anche una sua ragion d’essere (sempre più debole nel tempo, però) in quel cinquantennio; ma ad un certo punto, quando quelle esigenze straordinarie di autodifesa non ci sono più, bisogna saper smettere i panni del clandestino che si difende dal mondo e saper guardare a sé stessi con un minimo di obiettività.

Ma, il militante comunista (ed il discorso vale anche per i signori del Pd che comunisti non sono più, ma del Pci hanno mantenuto l’eredità peggiore) ha imparato la cattiva arte del medico pietoso ed è incapace di guardare in faccia la realtà.

E fra le cose che il militante comunista non “vede” c’è quanto sia fuori tempo il modello di partito che si porta dietro. Da questo punto di vista, il modello di Rifondazione è una sorta di sedimentazione alluvionale, che ha conservato frammenti di Dna di tutta la sua storia precedente: al modello del partito di “rivoluzionari di professione” leninista si sommò, poi, il partito di massa togliattiano, che mediava con il precedente modello socialista, poi è venuto il “centralismo democratico illuminato” di Berlinguer e del suo partito interclassista, poi la decomposizione degli anni ottanta, che sfociava nella fine del centralismo e nell’adozione del partito di correnti, sul quale, nel tempo ha finito per sedimentarsi una prassi di tipo clientelare socialdemocratico-tanassiana.

Il risultato è un intruglio mal riuscito che conserva l’autoritarismo del Pci ma non il senso dei rapporti di massa, un sostrato strumentalmente populista ma non la capacità di studio ed elaborazione del gruppo dirigente, il burocratismo ma non l’efficienza organizzativa. E aggiunge il peggio di tutte le altre tradizioni.

A questo si sono aggiunti i disastri prodotti dal maggior responsabile dell’infelice parabola di Rifondazione: Fausto Bertinotti. L’altro è stato Armando Cossutta, mentre Ferrero è solo stato solo l’ultimo epigono, che ha degnamente concluso l’inglorioso tratto discendente. Ma il responsabile massimo è stato Bertinotti, durante la cui lunghissima segreteria si è affermato un inedito modello di “partito comunista a conduzione leaderistica”. Certo, nei partiti comunisti c’è sempre stato un detestabile culto della personalità, ma, a parte il fatto che si trattava di personaggi la cui statura qualche ragione a quel culto la davano, bisogna dire che sia la “pesantezza” dell’apparato, sia il costume politico, sia la vivace militanza della base costituivano un contrappeso, per il quale, il partito non era mai ridotto a puro comitato elettorale di supporto al capo.

Invece, con Bertinotti la militanza di base fu mortificata ed estinta, l’apparato venne sostituito da una nauseante corte di yesmen, il dibattito politico sostituito dal coro di lodi al capo che, quando insorgeva un dissenso, non esitava ad indicare la porta (Grillo non è stato il primo), il rapporto con gli intellettuali di area ridotto a occasionali e grottesche liturgie, la produzione culturale azzerata e la formazione politica dei giovani rasa al suolo. Il grande segretario ha incassato cinque scissioni (di cui un paio con mezzo gruppo parlamentare) senza battere ciglio. “Fausto il rosso” aveva la frase robusta ed efficace che però non dice nulla: egli non elaborava linea politica, più semplicemente, arringava le folle… però devo ammettere che le giacche di tweed sapeva sceglierle.

Quello che è venuto dopo è stato solo il frutto di quegli anni di occasioni perdute. Ed al momento del bisogno, Rifondazione si è trovata senza nessun ricambio perché quel modello di partito impediva fisiologicamente che potesse nascere un gruppo dirigente di ricambio.

In un partito del genere “non è mai il momento per discutere”: quando le cose vanno bene, perché vanno bene e ”squadra che vince non si cambia”, quando vanno male “perché ora pensiamo a salvare il partito”. Una rettifica di linea? Si vedrà dopo (quando?). Diciamolo: i comunisti sono stati tristemente abituati a non amare le discussioni nelle quali vedono solo il seme malefico delle scissioni. E non capiscono che sono proprio le discussioni negate a mettere le premesse delle scissioni.

Poi, paradossalmente, sono gli stessi insuccessi a rafforzare le leadership sconfitte, perché, i militanti più critici sono quelli che vanno via, mentre quelli che restano hanno una reazione di cieco patriottismo di partito che peggiora tragicamente le cose.

E a chi pone dubbi la risposta ottusa è: “sei un nemico” o, magari “Perché non prendi la tessera di Fi?”. Come ha dimostrato per l’ennesima volta un interventore che mi ha accusato di “chiudere un occhio sul Pd” (sic!) e di astio verso Rifondazione.

Nessun astio: questo non è un atto di ostilità, è solo il referto sine ira ac studio di una autopsia.
 
(aldogiannuli)
 

Mezzo secolo di gesso ideologico. Lorenzo Matteoli


Galli della Loggia nella sua risposta di ieri a Scalfari si è finalmente accorto dell’errore ideologico che da più di mezzo secolo ha campo in Italia: qualificare, più o meno esplicitamente, come “fascista” chiunque non sia omologo e organico al pensiero unico della sedicente sinistra di potere. O chiunque sia sospettato di non essere omologo e organico. O chiunque faccia comodo sospettare di non essere omologo e organico. Questo errore ideologico, ma talvolta voluta malversazione dialettica, si manifesta in genere in modo implicito, con furbizia e… nascondendo la mano, ma spesso anche senza nessuna malizia come conseguenza di una condizione culturale generalizzata dagli avvenimenti.

Interessante ricordare che secondo una regola esplicitamente dichiarata e accettata sul web nei dibattiti ospitati dai vari “forum” il primo che accusa la controparte di essere fascista viene automaticamente dichiarato perdente. Nel suo pezzo su La Repubblica della settimana scorsa Eugenio Scalfari partecipa alla tradizione molto italiana, strano per un professionista della sua esperienza, gesto evidentemente significativo del nervosismo del soggetto. Il mestiere di Scalfari lo salva dalla dichiarazione aperta, ma l’avverbio “pericolosamente” con il quale qualifica il suo ricordo del “bisogno di un Capo di un Uomo della Provvidenza” che l’impetuosa ascesa di Renzi la sua figura e l’attesa che suscita gli provocano è rivelatore.

Forse vale la pena ricordare alle giovani generazioni che “Uomo della Provvidenza” ai tempi è stato un noto qualificativo di Benito Mussolini. Secondo le regole dei dibattiti sul Web Scalfari sarebbe “fuori”: l’evocazione di Mussolini e del fascismo è evidente. Se per mettere sospetto e ombra sulla figura di un soggetto o avversario politico si ricorre, esplicitamente o implicitamente, al fatidico qualificativo si è “automaticamente” perdenti. Dove “automaticamente” esclude la necessità di ogni ulteriore elaborazione dialettica o dimostrazione. Galli della Loggia non dichiara questa conclusione, ma la lascia ai suoi lettori per abilità, delicatezza o semplice desiderio di non infierire, ma vale la pena riflettere sull’errore emblematico del pensiero scalfariano e della sinistra di potere che da molti anni si identifica in questo pensiero, nella azione mediatica del giornale che Scalfari ha fondato e diretto e nel partito che sostanzialmente la rappresenta. L’errore d’altra parte è fondato sul comportamento storico degli italiani e dei media dominanti portati da una tradizione storica alla scansione manichea di soggetti e situazioni: Cesare e e Pompeo, Guelfi e Ghibellini, Papa e Impero, Monarchia Repubblica, fascismo e comunismo, Berlusconi e anti Berlusconi…

La prima riflessione da fare è che sarebbe opportuna una presa d’atto dell’errore: in Italia non c’è l’onesto costume politico del mondo politico anglosassone che obbliga il candidato perdente alla dichiarazione esplicita con la quale “concede” la vittoria all’avversario. Al contrario dopo ogni tornata elettorale assistiamo in Italia alle più impudiche acrobazie verbali con le quali tutti si dichiarano “vincitori”, nonostante la plateale evidenza numerica del loro tracollo. Riconoscere il proprio errore e le sue conseguenze e sconfitte è il passaggio fondamentale per analizzarne i motivi e le ragioni, per rivedere manifesti, programmi, strategie e progetti politici e per uscire dalla palude ideologica che hanno provocato.

La mancanza di questa onesta tradizione ha impedito l’evoluzione ideologica della sinistra italiana e l’ha condannata all’isolamento e alla marginalità che la dissoluzione del PCI e delle sue successive denominazioni ha documentato. Il processo è stato consolidato dal potere che il Partito Comunista è riuscito a gestire grazie alla consociazione con la DC. La consociazione è stata l’involuzione negativa del Compromesso Storico: dove questo sarebbe stato il superamento critico in avanti delle due posizioni antagoniste, la consociazione è stato lo strumento per non superarle per dividersi il potere nella conservazione. Ancora una volta il potere e non l’interesse del Paese. Un potere risultato più dalla disponibilità alla trasformazione tipica della Democrazia Cristiana che non dalla effettiva delega elettorale.

Protetta dal potere e dalla presunzione del potere la sinistra italiana si è confezionata l’imballaggio che l’ha distratta dallo svolgersi della storia. Ha ignorato come interlocutori tutti i movimenti alla sua sinistra o li ha costretti all’estremismo marginale, spesso violento, e ha smantellato qualunque ipotesi di socialdemocrazia alternativa, diventando la attuale ingessata sedicente sinistra. Una enorme responsabilità storica e politica che pochi vogliono riconoscere: forse una delle determinanti ragioni della attuale crisi italiana, dove la evidente assenza di uno spazio politico rappresentato a sinistra del centro è stato il motore dell’ossimoro ideologico chiamato “larghe intese”. Il fallimento, oggi finalmente innegabile, del PD di Bersani/Bindi/D'Alema è il risultato del processo storico sopra evocato: 60 anni di gesso ideologico. Mentre i compagni si crogiolavano nel potere, la sinistra vera era altrove, non rappresentata, tradita. Emblematico in questo quadro il massacro acritico del Partito Socialista Italiano, sistematicamente e congiuntamente voluto da DC e PCI. Un massacro avvenuto con la complicità e gli strumenti diretti e indiretti messi a disposizione da molti socialisti, ma eseguito cinicamente da soggetti politici che non erano per nulla diversi sul piano del rigore etico.

Lo snodo attuale, prepotentemente imposto dalla vittoria di Matteo Renzi alla Segreteria del PD, innesca una fase difficile. La sinistra deve uscire dalla immobilità ideologica che ha caratterizzato gli ultimi 60 anni di vita dei suoi partiti. L’errore del partito di Bersani/Bindi/D'Alema deve essere riconosciuto e se ne devono affrontare le conseguenze in tutte le aree nelle quali si è consolidata la presenza del PCI e dei successivi soggetti politici secondo il dettato della strategia gramsciana (giudiziario, università, banche, stampa, cultura). Deve essere istruito un processo di rinnovata elaborazione ideologica, ulteriore e fuori dai vecchi paradigmi. Se la attuale sedicente sinistra, ancora forte nel Partito e in tutte le aree di potere e di cultura che in 60 anni ha occupato nel Paese, non riuscirà a comprendere il vero significato dalla vittoria di Renzi e continuerà a ridurla come l’espressione di un “pericoloso” desiderio di un “Uomo della Provvidenza, difficilmente si uscirà dalla palude dell’immobilità ideologica. La responsabilità attuale di Renzi e del suo gruppo alla Segreteria del PD è quella di impostare e guidare questa difficile trasformazione.

(LSblog)

domenica 29 dicembre 2013

Potere caotico di non decidere. Dario Di Vico


Perché nessuno in Senato si è alzato a ricordare che esiste una sentenza della Corte costituzionale, per la precisione la 22 del 2012, che giudica inammissibile l’introduzione di emendamenti eterogenei nel testo dei decreti legge?
La domanda è più che legittima anche perché alla Camera è dal ‘97 che vige questo regolamento senza che sia stato mai esteso all’altro ramo del Parlamento. La verità è che l’incredibile vicenda del decreto salva Roma, approvato dal Parlamento con richiesta di fiducia da parte del governo e poi bocciato dal Quirinale, ha lacerato molti veli davanti all’opinione pubblica. La debolezza del governo Letta è apparsa in tutta la sua gravità.
 
E l’inesperienza degli attuali presidenti delle Camere risulta addirittura certificata dal messaggio che ieri il presidente Giorgio Napolitano ha rivolto loro e al quale ha replicato in tarda serata Pietro Grasso. Ma forse l’evidenza sulla quale dovremmo concentrare l’attenzione riguarda il complesso delle istituzioni politiche, governo e Parlamento, che fin quando esistevano partiti forti riuscivano ad assolvere dignitosamente i loro compiti ma che oggi, in un quadro politico per molti aspetti liquido, appaiono fragili ed esposte a tutti i venti.

Può accadere così che in Parlamento le piccole lobby funzionino meglio delle grandi, quasi che nell’epoca dell’austerità sia quella la taglia ottimale per promuovere emendamenti di spesa. Succede che i nuovi membri della segreteria del Pd concentrino le loro energie per evitare che nel testo vengano infilati provvedimenti a favore di Firenze e perdano di vista altri temi caldi come gli affitti d’oro. Accade che i presentatori di pacchetti di emendamenti a Palazzo Madama, visti i numeri risicati della maggioranza, si sentano così spavaldi da poter condizionare il governo che non può fare a meno della loro presenza in Aula per strappare la fiducia.
Da questa piccola rassegna di anatomia delle istituzioni emerge chiaramente come il sistema politico-legislativo italiano sia imballato e i grandi processi decisionali passino quasi ormai esclusivamente dal Quirinale, dal Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti e dalla magistratura ordinaria.
Nelle Camere è difficilissimo far approvare provvedimenti di riforma omogenei e l’escamotage è quello di agganciare vagoni alla sola locomotiva che comunque non può fermarsi, l’ex Finanziaria ribattezzata legge di Stabilità. Ma anche quando una misura approda in Gazzetta Ufficiale non ha ancora ultimato il suo incredibile viaggio. Prima di venir finanziata, prima che siano promulgati i regolamenti attuativi o semplicemente sia instradata deve passare le forche caudine rappresentate dal ministero dell’Economia e dalla Ragioneria generale. Secondo i dati elaborati dal Sole 24Ore, la percentuale di reale attuazione delle leggi fatte approvare dai governi Monti e Letta era ferma agli inizi di dicembre al 38%. Si combatte per farle passare e poi le si lasciano morire per strada.

La stessa noncuranza affligge la valutazione ex post dell’impatto dei nuovi provvedimenti. Spesso se ne approva uno nuovo prima ancora di sapere come abbia funzionato il precedente e quali conseguenze abbia determinato nella vita dei cittadini o delle imprese. Il caso degli esodati è da manuale ma, purtroppo, non è l’unico. Con queste premesse verrebbe da concludere che le riforme oltre a essere difficili sono quasi inutili e serve solo quel cacciavite, tipico strumento di manutenzione, che lo stesso Letta ha evocato nelle prime settimane del suo governo salvo non riuscire a utilizzarlo con la continuità necessaria. Ma arrendersi sarebbe un errore. Riforme e cacciavite servono entrambi e non a piccole dosi. Dobbiamo sbrigarci a intervenire sul nostro sistema politico-istituzionale perché rischiamo grosso: se le cose restassero così saremmo condannati a sommare gli svantaggi dell’instabilità politica a quelli della recessione o della bassa crescita. È con questi pensieri che ci accingeremo nei prossimi giorni a capire meglio e a raccontare quali misure saranno entrate nel nuovo Milleproroghe, l’animale legislativo che sembra avere la maggiore capacità di adattamento al caos parlamentare. Lo faremo senza indulgere al sensazionalismo, ma anche con il pessimismo di chi non riesce a vedere la spesa pubblica né messa sotto controllo né, tantomeno, tagliata.

(Corriere della Sera)


Farinetti, l'ultimo intoccabile della solita sinistra da salotto. Maurizio Caverzan


Adesso tocca a lui, Natale Farinetti detto Oscar. Nativo di Alba, provincia di Cuneo, figlio del partigiano Paolo, comandante della XXI Brigata Matteotti, fondatore di Eataly, catena gastronomia tricolore partecipata al 40 per cento dalle Coop rosse e di gran moda nei salotti che contano.
Tocca a lui allungare la lista degli intoccabili della sinistra, degli ascoltatissimi big fuori classifica. Citarlo al momento giusto fa molto chic. Amico e fervente consigliere di Matteo Renzi (anche se ha declinato l'invito in direzione). In odore di candidatura, magari alle prossime regionali. O chissà, direttamente in Parlamento. Intervistato dai giornali tosti, nel tentativo di anticipare il «verso» del cambiamento dell'Italia renziana. Imprenditore innovativo, con un piede e mezzo nella politica, prontissimo anzi voglioso di finanziare il Pd, come ha dichiarato al Fatto quotidiano. Insomma, il profilo perfetto per accomodarsi nella galleria dei totem democrat. Vera categoria mediatica, formula antropologica della politica. Industriali, politici, scrittori, artisti, archistar, filosofi, magistrati, maître à penser di varie ed eventuali. Tanto per citare alla rinfusa i primi nomi che vengono: Umberto Eco, Sergio Marchionne prima maniera, Diego Della Valle, Dario Fo, Roberto Saviano, il desaparecido Antonio Ingroia, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Laura Boldrini, ancora in tiro.

Provengono da mondi diversi, in comune hanno la durata. Come le pile e il tempo delle infatuazioni. Grazie ai suoi giornali, il popolo della sinistra se ne innamora perdutamente. Li scopre, li legittima, li promuove, li esalta, li consacra. E li scarica precocemente. Corsi e ricorsi, direbbe Vico. Adesso (Natale) Oscar Farinetti è nel fulgore dell'esaltazione, non ancora un maestro venerabile. Però, guai a chi lo tocca. A serramanico scatta la difesa dei grandi giornali (Repubblica e Stampa), come si è visto in quel di Torino.

In occasione del messaggio di fine anno, pur senza far nomi, il traballante governatore piemontese Roberto Cota ha voluto regolare qualche conto. Coloro che lo vogliono mandare a casa «sono quelli che hanno finanziato le sontuose campagne per le primarie del Pd», ha scritto su Facebook. «Vogliono introdurre un sistema dove i politici arrivano al potere con il loro gruppo di amici e di interessi». Ovvero il clan dei renziani di confessione sabauda, Fassino e Chiamparino in testa. Per chiarire meglio con chi ce l'aveva, Cota ha citato l'imprenditore «che si mette la sciarpa rossa e poi paga la gente nei suoi negozi di successo meno di otto euro lordi all'ora». Il riferimento era al recente scoop del Fatto quotidiano che, nel giorno dell'apertura del punto vendita fiorentino (imminente anche l'inaugurazione a Milano), aveva parlato con alcuni precari dei negozi di Roma e Bari. «800 euro, lo stipendio: 40 ore a settimana, comprese le domeniche quando capita o quando devi». Il contratto che si rinnova di mese in mese. E le perquisizioni al personale a fine turno...

Guai a sfiorarlo. Imbufalito, (Natale) Oscar Farinetti aveva replicato in una lunga intervista. «Abbiamo dato un'occupazione a tremila persone. Io non voglio creare un'azienda, fallire e mettere la gente in cassa integrazione».

Sul fronte imprenditoriale, il nuovo intoccabile della sinistra ha idee chiare. E in fondo, il curriculum - da UniEuro fondata dal padre e da lui potenziata con l'annessione di Trony, poi ceduta al gruppo inglese Dixon, all'ultima creatura alimentare - è lì a mostrare che in fatto di creatività i numeri ci sono. Con i nove store aperti a Tokyo, i due negli States, quello di Dubai e Istanbul, il marchio tira. Tanto da far gola anche alla Cassa depositi e prestiti, il salvadanaio che spinge il made in Italy.

Dicono che potrebbe candidarsi alle prossime regionali del Piemonte. Ma lui dissimula, si ritrae e parla di vino e di vela. La politica rischia di bruciarlo. Come rischia di bruciarsi in fretta la passione per la sinistra se continuerà a dire che i sindacati e l'articolo 18 «sono un impedimento». Amico di Giovanni Soldini, lo accompagnò in una traversata da Genova a New York. Autore di libri, l'ultimo, Storie di coraggio (Mondadori), consta di dodici interviste a vignaioli veraci. Viene dalla provincia di Cuneo come Carlin Petrini e Falvio Briatore.

Con la geniale crasi di eat e Italy ideata da Celestino Ciocca e il gioco di vocali che non cambia la pronuncia ma la rendono internazionale e spendibile per l'esportazione, l'artigianato diventa brand. Made in Eataly o Forza Eataly? Il dubbio resta. Tessera numero 1: (Natale) Oscar Farinetti. Chissà perché ha cambiato nome.

(il Giornale) 


 

Ora il Pd vuole far pagare il buco Mps agli italiani. Francesco Forte


Il Monte dei Paschi di Siena, che con un prestito del Tesoro di 4 miliardi è stato salvato dal dissesto causato dalla gestione spericolata del Pd, che lo controlla tramite la omonima Fondazione, ora rischia di costare al contribuente almeno 3 miliardi sonanti, più uno di prestito.
 
 
La Fondazione Mps dipende dal Comune e dalla Provincia di Siena, cioè dal Pd. Loro e Matteo Renzi, che comanda in tali enti, non vogliono perdere il controllo dell'istituto.

Così si oppongono all'aumento di capitale di 3 miliardi, necessario per rispettare i parametri bancari europei.

Mps è la terza banca italiana dopo Intesa Sanpaolo e Unicredit. Se l'ispezione delle banche europee che la Bce sta per avviare accertasse che Mps fa fronte alla situazione solo grazie al prestito statale, potrebbe dichiararlo a rischio di insolvenza, con panico dei risparmiatori e delle imprese che ne ricevono i prestiti. Ciò si ripercuoterebbe negativamente sulle quotazioni del nostro debito pubblico, di cui Mps detiene una fetta consistente.

Per evitare il baratro lo Stato dovrebbe nazionalizzare Mps convertendo tre miliardi del suo prestito in capitale. Ciò rientra fra le clausole del prestito concesso tramite i Monti bond, che è un credito convertibile in azioni. Se il Tesoro non facesse questo intervento ed Mps fallisse, lo Stato perderebbe l'intero prestito di 4 miliardi. Quest'ultimo infatti ha la natura legale di «prestito subordinato», che risponde dei debiti della società come il capitale sociale. Dunque, quando il sindaco Pd di Siena Valentini, fedelissimo di Renzi, dichiara che la nazionalizzazione è esclusa perché lo Stato non ha i soldi, dice una cosa errata. Lo Stato dovrebbe trovare i soldi per evitare un danno patrimoniale peggiore e per evitare il panico finanziario. La ragione per cui il sindaco del Comune e il presidente della Provincia di Siena insieme al presidente del Monte dei Paschi, Antonella Mansi, hanno bocciato l'aumento di capitale, proposto dal presidente della banca Mps Alessandro Profumo e dal suo amministratore delegato Fabrizio Viola, è che adesso non hanno i soldi per fare la propria parte nell'operazione e così scenderebbero all'1%. E il Pd perderebbe il controllo della banca. Oggi la Fondazione resta il primo socio, con il 33% del capitale. Ma essa, con la sua gestione sbagliata, ha sperperato il capitale accumulato nei secoli: Mps, fondata nel XV secolo, ha avuto sino alla prima metà del Novecento un grande splendore.

Ora la Fondazione ha perso la maggioranza assoluta e si è indebitata per 340 milioni. Vuole quindi guadagnare tempo, per vendere un po' delle sue azioni, ripagare il debito e rimanere con almeno il 5%, cercando nel frattempo soci amici per formare un pacchetto di controllo. Dunque l'assemblea, su sua mozione, ha deliberato di rimandare l'aumento del capitale. Profumo e Viola dicono che non si può attendere, avendo come patrimonio solo il prestito statale. Inoltre l'Unione Europea vuole che 3 dei 4 miliardi siano rimborsati entro il primo semestre. Profumo e Viola hanno messo in piedi un consorzio di garanzia con Ubs, City Bank, Goldman Sachs e Mediobanca che ora garantisce la copertura dell'aumento di capitale. Ma ciò potrebbe essere impossibile a fine 2014, quando il tasso di interesse salirà dappertutto. A parte il fatto che l'esame dei parametri bancari di Mps da parte della Bce avverrà fra pochi mesi.

Profumo ha dichiarato che non se la sente di mantenere la presidenza della banca in queste condizioni. Il sindaco Valentini, a nome di Renzi, gli dice in pratica di andarsene pure e che nomineranno un altro: sono loro che, con il 33%, comandano. Sembra che corrano verso il precipizio. Ma pensano di avere il paracadute: perché il segretario del Pd Renzi può indurre il governo a trovare la soluzione, sborsando, in un modo o nell'altro, i 3 miliardi che saranno caricati sul contribuente italiano.

La Mansi, che è arrivata alla presidenza della Fondazione per meriti politici Pd pur essendo una laureata in chimica, digiuna di tecniche bancarie e finanziarie, dichiara che con questa linea vuole evitare che Mps cada in mano al capitale internazionale. Il che è doppiamente assurdo: se fondi di investimento arabi, banche svizzere, banche e fondi di investimento americani e Mediobanca daranno a Mps l'ossigeno necessario, chi ci guadagnerà sono le miriadi di imprese, piccole e medie, che questa banca finanzia e i moltissimi risparmiatori che in essa hanno i propri impieghi. Siamo nel XXI secolo. Ma il Pd ragiona con antiquati principi politico-bancari di provincia, inadatti alla nostra epoca. Il problema è che il conto dei suoi errori bancari è a carico del contribuente, cioè di noi tutti.

(il Giornale)

venerdì 27 dicembre 2013

Babbo Enrico Letta.


“Non sono Babbo Natale”, così parlò Enrico Letta dopo l’approvazione della legge di stabilità, che di stabilità non ha nulla, se non la conferma della presenza dei mai dimenticati “poteri forti”.

In verità per qualcuno è stato Babbo Natale; per De Benedetti, per esempio, per aver approvato un emendamento che esenta le centrali termoelettriche, sopra i 300 MW, dall’obbligo di pagare la tassa di urbanizzazione a favore dei Comuni. De Benedetti, quale azionista di maggioranza della Sorgenia, per sentenza del TAR, doveva al Comune di Turano 22 milioni di euro. Azzerati in un colpo solo.

Questo De Benedetti è lo stesso che si è dichiarato sostenitore di Renzi, dove si dimostra che salire sul carro del vincitore rappresenta, a volte, il cavallo di Troia quando poi ci sono le fronde all’interno della maggioranza, che impallinano le leggi del premier di turno.

Letta, allievo di Nino Andreatta, è stato “l’enfant prodige” della politica italiana. In realtà più enfant che prodige se consideriamo che, puntualmente, è stato più cooptato che vincente nelle vicende del PD e della politica nazionale.

Ministro delle Politiche Comunitarie nel I Governo D’Alema a 33 anni e poi ancora Ministro dell’Industria nel II Governo Amato, Letta sembrava bruciare le tappe, nel suo partito, però, non conta nulla; candidato alla segreteria nel 2017 fu sconfitto da Veltroni e quando nel 2009 sembrava il più quotato del PD, fu sconfitto da Bersani.

Il ragazzo non aveva “l’animus pugnandi” di Renzi e rientrò nei ranghi disciplinatamente, fin quando fu pescato da Napolitano alla lotteria della presidenza del consiglio.

Non fu, però, una scelta a caso, Letta rappresenta la continuità di quei “poteri forti” che in Monti trovano il rappresentante più illustre, infatti anche lui partecipa alle riunioni della Bilderberg, è membro del comitato esecutivo della Aspen Institute Italia ed è membro del comitato europeo della Commissione Trilaterale. Se non è massone è “paramassone”. Scusate se è poco.

In questi pochi mesi di governo ha accumulato una serie di fesserie che poteva risparmiarsi, se non ostentasse una faccia di bronzo forgiata alla scuola di quei personaggi che credono cretini il resto del mondo.

Ha detto e ridetto che l’IMU sulla prima casa sarebbe stata abolita, non solo non è vero ma ancora non s’è capito cosa, come e quanto si pagherà. Ha strombazzato con euforia la soppressione del finanziamento ai partiti durante una conferenza stampa, dichiarando l’ennesima cazzata perchè il finanziamento ci sarà, almeno, fino al 2007. Tassa i commercianti per finanziare gli esodati, strangola i ceti medi proprietari di case e tassa il risparmio, in barba agli articoli della Carta Costituzionale che indicano la tutela del risparmio stesso. Come si fa, contestualmente, ad essere felici ed ostentare sicurezza, non si capisce o, forse, si capisce la sua spudorataggine.
Per contentino, come si fa con i bambini per tenerli buoni, ha bloccato l’aumento del canone RAI di pochi euro.

Per il resto non conta nulla all’estero: a Bruxelles è un suddito, di fronte alla Merkel un agnellino, andò a Varsavia per perorare la causa dei tifosi laziali arrestati e si senti rispondere trattarsi di delinquenti comuni. Ignora la Libia, nella quale abbiamo interessi vitali, ha mollato definitivamente i due marò in India per manifesta incapacità e non prova neanche a recarsi in America perchè non sa cosa proporre.

La tanto propagandata legge di stabilità è come la pelle dei coglioni, si allarga e si stringe secondo la temperatura esterna, ovvero secondo i desiderata di chi lo tiene sotto il tacco.

In compenso è largo di maniche col suo aereo istituzionale, a disposizione dei politici del suo giro come per la Boldrini col suo amico e la Serracchiani, trasbordata da Trieste a Roma per partecipare alla trasmissione televisiva Ballarò.

Questo piccolo saggio mette a fuoco la personalità di un politico, giocondo, che dovrebbe portarci fuori dalla crisi e che dichiara con sicurezza: “Mangeremo il panettone anche l’anno prossimo”.

Beato lui.

(the FrontPage)

domenica 22 dicembre 2013

Quel debutto tutt'altro che blariano. Annalisa Chirico


Non siamo ancora all’attestazione della flagrante fregatura, ma le avvisaglie ci sono tutte. Poiché ci è dolce il naufragar nell’illusione, a Matteo Renzi qualcosa vogliamo dirla.

Il debutto, caro Matteo, più che blairiano è parso fantozziano. C’hanno messo del loro i collaboratori che ti sei scelto, non c’è dubbio: da quella sulla giustizia che, a quanto riferiscono i giornali, hai dovuto persino strigliare per inerzia tanto da indurla, forse incautamente, a rilasciare un’intervista tiepida tiepida a Repubblica, una roba da farci rimpiangere il più attempato Luciano Violante. Quell’altra, l’addetta al lavoro, questa volta ha scelto la corrente giusta ma non ha azzeccato la sede del Ministero. Il responsabile economia risulta bocciato all’esame di abilitazione a professore associato, un concorso non esattamente proibitivo se su 417 candidati i promossi sono stati quasi 300.

E poi, Matteo, ci sei tu. E’ bastata l’arietta frizzante del primo mattino romano in questi giorni prenatalizi per convincerti che l’articolo 18 non è più un problema. Ce la siamo raccontata finora. E come la mettiamo con l’imprenditrice ospite ieri sera di Virus, il talk di Rai2, che vorrebbe licenziare un operaio beccato con le mani in un sacco di droga ma non può perché la legge non glielo consente? Che cosa rispondiamo a quella donna? Che forse dovrebbe rileggersi l’articolo 18? Se oggi nessuno assume, è anche a causa di quell’odioso tappo all’uscita che rende il lavoratore di fatto inamovibile. Ma forse hai ragione tu, attendiamo il Job act, che in inglese fa più figo. Staremo a vedere. Intanto, caro Matteo, sull’articolo 18 ripensaci. Del resto cambiare opinione è segno di intelligenza, e tu lo hai già dimostrato in svariate occasioni. Per esempio, sull’amnistia: nel 2012 a favore, nel 2013 contro.

Bisogna insegnare la legalità ai giovani, hai detto, e forse colmo di cotanto legalitario spirito come primo atto della tua neosegreteria ti sei recato nella leggendaria Terra dei fuochi, tra Napoli e Caserta, per conoscere la realtà di quei luoghi. Come ciceroni di viaggio ti sei scelto non gli imprenditori agricoli della zona né i ricercatori del Cnr che pure qualche competenza ce l’hanno. No, ti sei fatto accompagnare dai preti antimafia locali, dal ministro dalle ampie vedute sull’ambiente Andrea Orlando e dalla tua responsabile legalità (sic), che è anche lei, suo malgrado, uno spot all’antimafia militante delle Libera e dei don Ciotti. Peccato che la retorica antimafia non guarisca i problemi di quella terra e che anzi spesso, semplificando e banalizzando, li acuisca. Possiamo accontentarci dell’assioma facile facile per cui, una volta estirpata la mafia, si redimeranno le anime e la Campania sarà una terra felix? Noi siamo quelli dalla parte giusta del Paese, voi quelli collusi o corrotti, come no. Io per dovere professionale ho ascoltato un po’ di produttori e imprenditori locali, mi hanno raccontato che campagne di disinformazione come quella in corso sulla Terra dei fuochi rappresentano un colpo mortale per l’economia della regione. ‘Bevi Napoli e poi muori’, il titolo di una copertina de L’Espresso. Mario Guidi, presidente di Confagricoltura, ha dichiarato che l’allarmismo mediatico in quella regione ha già prodotto un calo di oltre il 10% delle vendite di prodotti agroalimentari (che peraltro, a livello nazionale, superano positivamente i controlli di qualità nel 99,4 percento dei casi). Forse non ti hanno spiegato, caro Matteo, che l’area coinvolta dai roghi dei rifiuti è di circa 800 ettari su una superficie agraria totale pari a 500mila ettari. In altre parole, lo 0,16 percento della terra campana. I fuochi e le infiltrazioni mafiose e il dissesto nello smaltimento dei rifiuti non sono per questo meno preoccupanti, ma per lo 0,16 percento l’antimafia militante, l’ambientalismo ideologico, i preti delle anime e i politici raccattavoti vendono all’estero l’immagine di una Regione velenosa. E per l’ennesima volta un leader della sinistra si presta a tale litania, anziché ascoltare scienziati e imprenditori si consegnano l’anima ai preti e la speranza agli incantatori.

C’è poi il testo sul voto di scambio, sul quale pure tu taci, e così facendo spalleggi di fatto quei giovani pasdaran antimafia che pullulano nel Pd. Quello uscito dalla commissione Giustizia del Senato è un obbrobrio giuridico. Con l’esaltazione dei Lumia giovani e vecchi, il Pd è il primo sponsor di una legge in base alla quale non bisognerà più certificare un passaggio di denaro, ma si colpiranno fattispecie vaghe e indefinite come le promesse e la ‘disponibilità’ del politico, con pene da 7 a 12 anni di carcere. Ci auguriamo che un sussulto garantista, quello dell’antimafia laica, rispettosa dei diritti e delle libertà civili di ogni cittadino, quella che non è smaniosa di manette ma anela ad una giustizia efficiente, equilibrata e imparziale, ti risvegli dal sonno precoce in cui sembri sprofondato. Per cambiare verso, non basta schierare un plotone di giovani inesperti e conformisti. Il ricambio è importante e ti siamo idealmente solidali per la compiuta rottamazione. Ora però è tempo di rottamare le idee, scavare a fondo nei problemi, rifuggire da vetusti schemi ideologici che annichiliscono le menti giovani e imbelli. L’antimafia è un banco di prova. Leonardo Sciascia sia con te.

(the FrontPage)

sabato 21 dicembre 2013

Lampedusa: specchio della cialtronaggine. Arturo Diaconale



“Inammissibile”, come ha detto Giorgio Napolitano a proposito del trattamento riservato ai profughi nel centro di primaria assistenza di Lampedusa, non è il comportamento degli operatori della cooperativa che ha gestito fino all’altro ieri la struttura. Inammissibile ma anche immorale e cialtronesco è il comportamento di quegli esponenti della classe politica italiana che conoscono perfettamente le condizioni esistenti nei centri di accoglienza dei profughi provenienti dal mare ma che, soprattutto nel caso di Lampedusa, di questi centri hanno fatto la passerella delle loro vanità e l’occasione della loro visibilità mediatica.

Il caso dell’isola siciliana, meta preferita dei barconi della disperazione, è il più eclatante. Perché chi oggi si straccia le vesti e manifesta con commozione la propria indignazione e la propria vergogna per l’abominio di Lampedusa, sa bene da fin troppo tempo che i centri di primaria assistenza non sono alberghi a cinque stelle ma sono stati costruiti e vengono gestiti con il criterio dei vecchi campi di concentramento. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che si è affrettato a rescindere il contratto alla cooperativa che gestisce il campo di Lampedusa, ha visto più volte con i suoi occhi le baracche del centro e conosce perfettamente le condizioni in cui al loro interno si trovano a vivere i profughi e ad operare i tecnici dell’accoglienza. Il filmato della disinfestazione all’aperto di uomini nudi di fronte agli altri migranti può averlo sorpreso.

Ma è la semplice conseguenza di una struttura che lui ben conosce e che da anni è costretta ad ospitare in condizioni indegne, come qualsiasi carcere italiano, un numero di ospiti infinitamente superiore a quello per cui è stato progettato. Lo stesso vale per l’indignata a tempo pieno Presidente della Camera, Laura Boldrini, diventata parlamentare ed assunta alla terza carica dello Stato proprio grazie alla sua esperienza di funzionario Onu per gli emigranti e profughi. A Lampedusa, tra le baracche di lamiere del centro, la nostra combattiva e caritatevole presidente dell’assemblea di Montecitorio c’è stata un’infinità di volte e conosce molto bene la drammatica realtà della situazione.

Solo di fronte ad un filmato girato da un profugo recluso e trasmesso dal Tg2 e dalle televisioni di mezzo mondo, però, si è stracciata le vesti per manifestare tutta la propria condanna a forte effetto mediatico per una vicenda di cui non poteva assolutamente “non sapere”. Alfano e Boldrini sono solo i primi di una lunghissima lista. Lampedusa è diventata da anni il luogo privilegiato dei pellegrinaggi a fini di visibilità personale di frotte di esponenti della classe politica e dirigente nazionale. Costoro fanno la loro passerella spargendo lacrime di commozione, parole di riprovazione e roboanti dichiarazioni in favore di una migliore accoglienza dei disperati provenienti dal Mediterraneo.

Poi, sempre sotto le telecamere, se ne tornano a Roma lasciando la situazione del campo assolutamente immutata. Salvo, naturalmente, scattare come una molla quando c’è da conquistare un altro po’ di visibilità sfruttando l’ennesimo episodio provocato dalla loro inerzia. In questa luce Lampedusa ed il suo campo di concentramento è lo specchio perfetto dell’ipocrisia di questa classe politica e dirigente fatta di sepolcri imbiancati. Qualcuno dice che “è la società dello spettacolo” e che non ci si può fare niente. Ma non è così. Perché Lampedusa è la specchio della società della cialtronaggine. E contro questa degenerazione si può e si deve fare molto. A partire dal sapere che l’accoglienza è tale solo se viene fatta nel rispetto delle regole civili e dei diritti umani!

(l'Opinione)

 

giovedì 19 dicembre 2013

L'anti-Saviano assolto dopo due anni di fango. Carmine Spadafora


Per due anni e mezzo è rimasto sulla graticola della malata giustizia italiana. Per la Procura di Napoli, l'ex capo della Squadra mobile, Vittorio Pisani, il superpoliziotto che ha arrestato centinaia di camorristi, aveva tradito la sua missione, rivelando informazioni riservate a un imprenditore finito sotto inchiesta e presunto colluso con la camorra
L'ex capo della squadra mobile di Napoli Vittorio Pisani

Tutto falso. Ieri pomeriggio, poco prima delle ore 15, il Presidente della Settima Sezione del Tribunale di Napoli, Rosa Romano ha assolto Pisani «perchè il fatto non sussiste». I cronisti che lo conoscono fin da quando ha mosso i suoi primi passi da commissario lo hanno visto per la prima volta commuoversi. Con i lucciconi agli occhi, l'uomo di ghiaccio ha abbracciato i suoi avvocati, Rino Nugnes e Vanni Cerino, stretto tante mani e ricevuto pacche sulle spalle. Commosso ma con le labbra cucite. Il senso di questo processo, di questa mastodontica indagine che ha gettato fango sulla dignità di un uomo onesto è racchiuso nelle parole dell'avvocato Nugnes: «Era un processo che per quanto riguarda la posizione di Pisani poteva anche non essere celebrato».

Pisani, che osò dire che lo scrittore Roberto Saviano non meritava la scorta perchè nella sostanza non esistevano giustificati motivi di sicurezza per assegnargliela, ha lasciato l'aula 318 del Tribunale per fare ritorno a Roma, dove lavora presso l'Ufficio immigrazione del Viminale. Ma, fino a pochi mesi fa non aveva potuto nemmeno vivere sulla sua città di adozione, Napoli, accanto alla moglie e ai figli, per un obbligo di divieto di dimora impostogli dal gip. Lui, lo «sbirro» che aveva messo le manette ai polsi ai due numeri uno della camorra, casalese, Antonio Iovine e Michele Zagaria, stanati entrambi dopo 15 anni di latitanza, costretto a stare lontano dalla «sua» città. Dal 30 giugno del 2011 fino a ieri pomeriggio ha vissuto con una macchia addosso, l'accusa di avere favorito un imprenditore accusato di avere riciclato in ristoranti della Napoli bene, i denari della camorra di Secondigliano, del clan Lo Russo. Una cosca storica, capeggiata da Salvatore «o capitone» poi pentitosi ma in passato informatore di Pisani.

Si, un informatore, come si conviene per un vero poliziotto. Da collaboratore Lo Russo ha versato palate di fango sul superpoliziotto. Fango vero, accuse fasulle. La sentenza pronunciata dal Presidente Romano rappresenta una gravissima sconfitta per la Procura napoletana. La Settima Sezione del Tribunale ha infatti demolito il castello di accuse costruito dai pm contro Pisani e, in parte, anche per gli altri imputati. Undici assoluzioni ma per i sei condannati è caduta l'accusa più grave, ovvero, l'articolo 7, cioè «avere agito con finalita» mafiose. Il Tribunale ha disposto il dissequestro di tutti i locali. Sarà anche la sfortuna ma i guai per Vittorio Pisani sono iniziati all'indomani di una intervista rilasciata al Corriere della sera Magazine, nella quale rivelava che «a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sulla scorta». Onestà intellettuale di un poliziotto di Calabria non abituato a calcoli di convenienza ma rigoroso nel suo lavoro. Pisani «osò» anche dire: «Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tanti poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni».

(il Giornale)

mercoledì 18 dicembre 2013

Si può riformare la giustizia senza subire minacce dall’Anm?

 
Si può riformare la giustizia senza subire minacce di rappresaglia dai magistrati e dal loro sindacato, l’Anm? Pare di no. Almeno secondo Marco Boato, ex membro delle commissioni bicamerali degli anni ’90, che all’incontro “Giustizia? Esperienze a confronto per una riforma” organizzato da Tempi, Panorama e Radio Radicale ha ricordato come nella commissione De Mita del 1993-1994 e nella commissione D’Alema, il sindacato dei magistrati (Anm) sia sempre riuscito a bloccare ogni tentativo di riformare la giustizia.
 
INTIMIDAZIONI VIA FAX. Già nella bicamerale del 1994, da cui il presidente Ciriaco De Mita sarebbe stato costretto a dimettersi per un'indagine sul fratello, la politica aveva prodotto un documento su un’ipotetica riforma. E proprio «mentre si stava discutendo di un’ipotesi vaghissima di separazione delle carriere», ha detto Boato, «arrivò in piena commissione e fu distribuito a tutti noi membri un volantino inviato via fax e intestato all’Anm, che ci intimava di non affrontare la riforma della giustizia in bicamerale. Il volantino era stato sottoscritto da decine di magistrati e inviato alle procure di Milano e di Torino e ad altri uffici giudiziari».
 
I magistrati intimavano al Parlamento di rinunciare a una bozza di riforma in cui «nemmeno era stata usata l’espressione “separazione delle carriere” e dove ci si limitava a chiedere una riflessione sullo status del pubblico ministero». «Quando è finita la legislatura, la commissione ha depositato le relazioni sulla forma di Stato e di governo», ha continuato Boato. E la riforma sulla giustizia? «Nulla, neanche una parola. Il tema “giustizia” sparì dai lavori della commissione il giorno in cui comparve quel fax».
 
BICAMERALE D’ALEMA AFFOSSATA. Nella successiva commissione bicamerale D’Alema (1997), Boato fu relatore del disegno di riforma del sistema delle garanzie costituzionali. «Nel gennaio del 1998 iniziò l’esame della bozza alla Camera. Tre giorni dopo, il sindacato dei magistrati organizzò il proprio congresso, che si tenne nel salone della corte di Cassazione. Partecipò anche il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro». «Quella era la prima volta in cui un Capo dello Stato si recava al congresso di un sindacato», ha ricordato Boato. «In quell’occasione, Scalfaro prese la parola per condividere le sparate alzo zero del presidente dell’Anm, Elena Paciotti, che si scagliò contro la proposta di riforma costituzionale della giustizia».
 
Si lamentarono, incuranti del fatto che la bozza Boato, come oggi è chiamata, fosse stata «approvata all’unanimità dall’intera commissione eccettuata Rifondazione Comunista». Secondo Boato, da quel giorno, screditata da Scalfaro e dal sindacato dei giudici, «la bicamerale D’Alema iniziò a morire».
 
DISASTRO TANGENTOPOLI. «Il rapporto fra politica e magistratura è un tema che si trascina non da vent’anni ma dall’immediato dopoguerra», ha proseguito Boato. «Nei primi atti dell’assemblea Costituente del 1947 si può trovare una stigmatizzazione di Piero Calamandrei nei confronti del procuratore generale della Cassazione perché aveva attaccato l’organo che doveva provvedere all’approvazione della Costituzione». Già allora i magistrati mettevano becco in affari che non li riguardavano.
 
Però, i veri problemi iniziarono «dalla metà degli anni ’70 agli anni ’90», quando per risolvere «tre emergenze vere, cioè mafia, terrorismo e Tangentopoli, la politica rispose con atti emergenziali, delegando una fetta delle proprie responsabilità alla magistratura». Questa delega, conclude Boato, «implementò il potere dei magistrati oltre ogni misura, tanto che oggi non solo esercita ancora quel potere di supplenza che gli è stato affidato dalla politica, ma una parte ne oltrepassa i limiti per protagonismo».
 
(Tempi)
 
 

Follia Bankitalia. Davide Giacalone


La stiamo perdendo. Stiamo assistendo ad un’operazione che baratta campi di grano, mulino e forno in cambio di un tozzo di pane. Il 23 dicembre si terrà l’Assemblea della Banca d’Italia, per cambiare lo statuto, propedeutica alla rivalutazione e cessione delle quote. Poi il Parlamento, cieco alle conseguenze e accompagnato dal complice silenzio di gran parte della stampa e delle tante coscienze inquiete, solitamente ciarliere, approverà il decreto legge con il quale si dispone l’operazione e la si giustifica con l’immediata necessità di coprire il buco dell’Imu. Dopo di che l’avremo persa.

Metto nel conto l’ipotesi di star dicendo delle sciocchezze, tanto è impressionante l’isolamento in cui queste parole cadono (unico conforto il prof. Francesco Forte). Ma temo di non sbagliare. Per questo comincio dalle obiezioni che mi sono state mosse, riservatamente, dato che di questa storia nessuno vuole parlare. 1. L’idea di trasformare la Bd’I in una public company è una bubbola. E’ vero, lo ha detto il ministro, Fabrizio Saccomanni, ma l’anglicismo deve averlo tradito. Che obiezione è? Il ministro lo ha detto. Una public company non è una società con molti soci, ma una società quotata in cui nessuno esercita il controllo ed è affidata al management. Se si è sbagliato deve ammetterlo chiaramente. E se non lo ammette ogni sospetto non è lecito, ma doveroso. Non una sola banca centrale ha le caratteristiche descritte dal ministro. 2. L’indipendenza della banca centrale non è garantita dall’assetto proprietario, ma dallo statuto e dalle leggi. Vero, ma è una tesi che dimostra troppo: se è così la cosa migliore consiste nel renderla pienamente e totalmente statale (come altre banche centrali) e rivalutarne le quote, patrimonio pubblico.

3. La ricapitalizzazione è vitale per ripatrimonializzare le banche italiane. Questa obiezione apre la strada a una versione grossolana: si tratta di un regalo alle banche. Respinte entrambe le cose: il sistema bancario italiano conta più di 800 banche (troppe), quelle presenti nella proprietà di Bankitalia sono una sessantina (meno, per le fusioni), quindi più di 740 soggetti restano fuori. Sia dal regalo che dalla ricapitalizzazione. Sotto tale profilo, quindi, questo sarebbe il più squilibrato e dissennato rimedio alla sottocapitalizzazione. 4. Il governatore della Bd’I, Ignazio Visco, ha auspicato che i proventi della ricapitalizzazione servano a “favorire il credito”. Ma il credito non è la benevolenza, bensì il mestiere delle banche: se solo alcune ricevono i proventi, potendo anche rivendere le quote in eccedenza, si distorce irrimediabilmente il mercato. 5. Le banche “beneficiate” sono tali perché investirono a suo tempo, sicché non fanno che raccogliere il frutto della loro lungimiranza. Stiamo scherzando? Nel 1936 le quote vennero intestate alle banche pubbliche, che non scelsero un bel niente né investirono: obbedirono. Non c’è alcun merito, in ciò. Da allora a oggi il sistema ha subito una mutazione genetica, quindi l’enorme vantaggio andrebbe in capo a soggetti che nulla hanno a che vedere con quelli “costretti” allora. 6. Perché le banche “escluse” non protestano? Perché dei tre miliardi necessari a coprire il buco Imu 1.2 verrebbe dalla rivalutazione e 1.8 da altre tassazioni sulle banche, pertanto quelle temono di doversi accollare anche l’1.2. Ma è ragionamento di sconfinata miseria e cecità politica.

7. La rivalutazione è comunque necessaria. Verissimo, anche perché siamo gli ultimi a farla, in Europa. Si tenga presente che Bd’I è la banca centrale più patrimonializzata d’Europa (altro primeggiare italiano, umiliato da una classe dirigente inadeguata), ma anche quella con minore capitale. Sempre a causa della legge del 1936. Si rivaluti, dunque. Ma si tenga presente che saremmo anche gli unici a tassarci (12%) nel rivalutare quel che è già collettivo. Tutto per coprire il mancato gettito Imu: il tozzo di pane, per il quale si liquida un patrimonio immenso. 8. La Bundesbank, banca centrale tedesca, obietta circa la rivalutazione per due ragioni: a. perché è mal calcolata; b. perché cerca merce di scambio con la quale mantenere fuori dai controlli della Banca centrale europea le Landesbank. Scambio inaccettabile. Premessa di ulteriore concorrenza sleale. Ragione in più per non fare le cose così male.

Sono un sostenitore della vendita di patrimonio pubblico, al fine di abbattere il debito. Mi sento spesso rispondere che tale dottrina favorisce le svendite. Rispondo come si può e deve evitarle. Mentre si chiacchiera, però, non solo si svende, ma si strasvende, per giunta una cosa, la Bd’I, che si finge sia privata e in realtà è (come tutte le banche centrali) pubblica. E si strasvende consentendo poi di rivendere meglio le quote, portando ricchezza a poche banche private, nonché consentendo l’ingresso nel cuore della sovranità nazionale a investitori non italiani. Può ben darsi che io non abbia capito nulla, ma se ho capito anche solo un friccico c’è, fra i sostenitori di tale operazione, solo una categoria di persone meritevole di un qualche, sebbene lombrosiano, apprezzamento: quelli che ne traggono profitto.

Pubblicato da Libero


martedì 17 dicembre 2013

Se gli studenti rossi hanno licenza di devastazione. Stefano Zurlo

Hanno un salvacondotto senza scadenza. Bloccano il traffico, invadono le sedi istituzionali, qualche volta spaccano le vetrine.
Ma non sono come gli altri: vuoi mettere, loro sono gli studenti di sinistra, qualcuno a quanto pare bivacca sui banchi del liceo o dell'università da una ventina d'anni e promette di rimanerci ancora, tanto le regole che valgono per gli altri, per gli studenti di CasaPound e per quelli che protestano, giù giù fino agli aborriti Forconi, termine che indica una condizione quasi primitiva, per loro hanno la forma dolce dell'elastico. Lo studente di sinistra ha la licenza di fare un po' quello che gli pare, in una cornice di comprensione perché il ragazzo che pende è portatore di disagio, esprime inquietudine, vorrebbe raddrizzare il mondo malato ed egoista. Se il dirigente di CasaPound porta via una bandiera Ue gli cadono in testa tre mesi di carcere, se lo stesso copione ha per protagonisti i giovani liceali che urlano contro in tagli alla scuola pubblica c'è il rischio che ricevano pure una medaglia.
Ieri a Milano si rivede il solito film. Il corteo, composto da quattrocento, cinquecento persone, attraversa il centro congestionando le strade già congestionate dal blocco del trasporto pubblico. E così la città già al tappeto subisce un altro ko, però di stampo democratico. Allietato da lancio di uova e bottiglie di vernice, come alle prime ruggenti della Scala. Gli agenti in tenuta antisommossa devono intervenire per arginare il corteo. I creativi, forse convinti di essere gli eredi dei dadaisti, raggiungono poi il Castello e colorano di rosso l'acqua della fontana. Quindi, degno finale, raggiungono la sede della Regione e qui quattro di loro, spalleggiati da due professori, interrompono la riunione del consiglio fra urla, striscioni, slogan. Quattro poliziotti vengono medicati in ospedale. Siamo al solito armamentario della cultura progressista: alzare il volume per coprire la voce degli altri. Una volta c'era l'eskimo, e in tasca le biglie di ferro, oggi, per fortuna, basta una felpa e magari un cappuccio. I dimostranti «emeriti» se lo possono permettere perché l'immunità è garantita, perché le loro ragioni galleggiano sul mare dolciastro della retorica, perché sono considerati antropologicamente diversi. Perché la colpa della Moratti, della Gelmini, mentre se i piccoli imprenditori strozzati dalle tasse alzano un dito allora vengono bollati, denunciati, verificati da Equitalia come cave di laboratorio. E se lo fanno gli agricoltori dei Forconi, i giornali scattano nell'ipotizzare infiltrazioni della criminalità e dell'estrema destra, i sociologi scuotono la testa, la polizia indaga, la magistratura punisce. Due pesi e due misure: dipende dal colore del serpentone. Blocchi, scioperi, prove di forza: c'è qualcuno cui è permesso tutto e chi viene bloccato prima ancora di fare un passo. I ragionamenti degli studenti di sinistra vengono classificati come ragionevoli; gli altri vengono marchiati con un vocabolario più apocalittico: anarchia, corporazione, deriva estremista. Di qua giovinezza e generosità vanno a braccetto, anche se sfasciano e devastano; di là sono solo rigurgiti dell'egoismo di lobby ripiegate su se stesse. Arrivederci al prossimo scontro.

(il Giornale)

lunedì 16 dicembre 2013

Strage di Bologna. La vera pista è quella "palestinese". Elleci

 

La verità ufficiale sulla strage di Bologna è quella della matrice interna fascista. E’ una verità di Stato, giudiziaria ed indiscutibile, portata avanti da una parte politica sin da un secondo dopo lo scoppio della bomba: sono stati i neo-fascisti! Scrivevano tutti i giornali dopo poche ore.
Quella che presto divenne la verità ufficiale non corrisponde, però, alla realtà. La verità ufficiale nasce da una speculazione politica, personale (carriere politiche e libri venduti grazie a questa versione) ed ideologica che ad ogni ricorrenza trova, nelle celebrazioni, la sua messa in scena.

I fatti, invece, sono questi: Thomas Kram, trascorsi decenni, conferma alla stessa Procura di Bologna che subito dopo lo scoppio, quella stessa mattina, si allontanava di corsa da luogo della strage. Il suo ingresso all’albergo Centrale di Bologna è datato 1 agosto 1980, era arrivato con il rapido 307 delle 12:08 da Karlsruhe a Milano il primo giorno di agosto e, quella sera stessa, arriva a Bologna. Il check out dall’albergo è previsto per la mattina del 2 agosto 1980. All’incalzare delle domande dei Pm sulle ragioni della sua presenza a Bologna e ad ogni altra domanda, Kram rifiuta di rispondere e si allontana.
Thomas Kram è un terrorista dell’ultra-sinistra tedesca. Con lui, quella notte, nello stesso albergo c’è una donna, arrivata in treno anche lei, si chiama Christa Margot Frohlich, è la terrorista tedesca filo-palestinese legata a Ilich Ramírez, meglio conosciuto come Carlos, lo Sciacallo, il terrorista sudamericano, islamico e comunista del Fronte Popolare della Liberazione della Palestina. Il gruppo Carlos, strettamente legato al terrorismo arabo, era l’unico che poteva disporre di quella quantità di esplosivo e l’Italia era il centro logistico dove transitavano, grazie al Lodo Moro, armi ed esplosivi destinati a tutti i gruppi terroristici affiliati in Europa e Sudamerica. Lo stesso Carlos, attualmente detenuto in Francia, avrebbe confermato che quell’esplosivo era suo salvo poi aggiungere che i veri responsabili sono stati gli americani, gli israeliani e i fascisti italiani. Gianni De Gennaro, futuro capo della Polizia, segnalo’ subito della presenza di uomini di Carlos quel 2 agosto a Bologna ma l’indagine su questa pista fu fatta chiudere il 16.08.1980.
Questi sono i fatti. La verità fu denunciata, dopo molti anni, dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga a cui fu dato del pazzo non appena svelò questa realtà, dal parlamentare Vincenzo Fragalà, ucciso il 23 febbraio 2010, dopo le sue dichiarazioni, con modalità sicuramente estranee al contesto mafioso a cui la stampa progressista attribuì l’origine (fu massacrato da tre uomini a bastonate) del delitto, infine, può considerarsi una certezza che Mambro e Fioravanti non avevano minimamente i mezzi, la rete e i motivi per compiere quella strage.
Quelli sopra esposti sono fatti. Le conclusioni sono demandate all’intelligenza e all’onestà intellettuale di ciascuno.

Giustizia Giusta

 

sabato 14 dicembre 2013

Quei "doppiopesisti" alla corte di re Matteo. Andrea Mancia

 
Sarà la vecchiaia che, inesorabile, avanza. Sarà che, ogni volta che tocca ad una “generazione nuova”, la mia generazione (quella dei “Born in the Sixties”) viene sistematicamente ignorata. Ma questa retorica giovanilista del renzismo rampante stenta a convincermi. Dovrebbe essere la competenza, non l’età, il criterio per la selezione di una classe dirigente. Anche perché di giovani nati stanchi – o nati vecchi – ne ho visto più d’uno.
 
In queste 48 ore di “luna di miele” del sistema mediatico con Renzi e il renzismo, poi, è riesplosa la solita politica del “doppio binario” utilizzata per raccontare i fenomeni politici nel nostro paese. Silvio Berlusconi si circonda di giovani e belle ragazze per rilanciare Forza Italia? Nella migliore delle ipotesi si tratta di un satrapo attorniato da “falchetti” ed entraîneuse. Matteo Renzi rispolvera la tecnica berlusconiana del “casting” per scegliere i membri della propria segreteria? Un rivoluzionario che salverà il paese. E non provate a raccontarmi che i prescelti, in realtà, sono stati messi lì in base alle loro capacità. I dodici componenti della segreteria Renzi – 5 uomini e 7 donne, età media inferiore al cast di “Violetta” – rispondono a due requisiti vecchi come il mondo: hanno appoggiato il sindaco di Firenze alle primarie e sono vagamente bellocci (o almeno telegenici). Dove sono finiti gli Orfini e le Carmassi? Il renzismo berlusconiano li ha spazzati via, in nome dell’apparenza.
 
Che dire poi, della retorica vagamente mussoliniana con cui, proprio oggi, questi poveri giovanotti sono stati trascinati giù dal letto all’alba per dimostrare efficienza e voglia di lavorare? Ci mancava solo Marianna Madia (Lavoro) a mietere il grano come il Duce, magari a petto nudo, con Debora Serracchiani (Infrastrutture) a decantare la puntualità delle auto blu romane.
 
Quando Berlusconi e Beppe Grillo si avventurano sugli scoscesi pendii del populismo, le pagine dei giornali italiani si riempiono di editorialisti pronti a bacchettarne le cattive abitudini. Se Renzi si comporta esattamente allo stesso modo, a stento si coglie il mormorio sconsolato di qualche dalemiano sul viale del tramonto.
Matteo Renzi
 
Se un leghista cattivo spara idiozie contro amnistia e indulto, i talk show del politicamente corretto puntano immediatamente il ditino inquisitore contro la barbarie del sole delle alpi. Se a farlo è Alessia Morani, responsabile della giustizia nella segreteria renziana, si tratta di una scelta politica sofferta e coraggiosa.
 
Se il Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano ricicla vecchi arnesi della Prima repubblica per ricostruire il Grande Centro, si tratta di un’operazione neo-democristiana di basso livello. Se Renzi vince a Salerno grazie a un sindaco che, nella miglior tradizione democristiana, resta attaccato alla propria doppia poltrona come la proverbiale cozza al proverbiale scoglio, i grandi giornalisti d’inchiesta del Belpaese si girano dall’altra parte.
 
Se qualche esponente di SEL si accanisce contro l’ingiustizia sociale dell’abolizione dell’Imu, gli economisti di buon senso lo trattano come un vetero-marxista fuori dalla storia. Se la stessa, brillante, trovata la espone Filippo Taddei, nuovo responsabile economico del Pd, i giornali lo definiscono come “l’anello mancante tra Renzi e Civati”. Misteri dell’evoluzionismo moderno.
 
Come è possibile fidarsi di questi presunti analisti, se le analisi che ci propinano sono sempre e comunque viziate dal pregiudizio insopportabile del “doppiopesismo”? Senza contare che, sistema dei media a parte, il sindaco di Firenze (un altro doppio incarico) ci mette spesso del suo. Ha promesso di visitare la martoriata Terra dei fuochi appena eletto segretario. E poi si è ridotto a visitare Enrico Letta. Una rivoluzione epocale, non c’è dubbio.
 
(Clandestinoweb)
 
 

giovedì 12 dicembre 2013

A la spagnola. Davide Giacalone


La Spagna ha passato due anni infernali, ma vede la ripresa come un fatto reale. Non un miraggio, come dalle nostre parti. Loro hanno fatto tre cose, che a noi sono mancate: a. il governo socialista ha alzato le mani, non hanno provato governi tecnici o figli del re, e le elezioni, fatte in piena crisi, hanno dato al centro destra la maggioranza per governare; b. hanno chiesto gli aiuti europei, messo in sicurezza le banche e concordato un piano di rientro dal deficit che non li ha inchiodati (debito ne avevano poco “prima”); c. hanno fatto riforme profonde e dolorose, ma le hanno fatte. Mariano Rajoy annuncia un calo della pressione fiscale, già nel 2014, abbassando le più alte aliquote sui redditi. Noi siamo ancora in pieno satanismo fiscale, con la punizione del risparmiatore e delle famiglie che posseggono case.

Enrico Letta va ripetendo che lo spread è, finalmente, molto basso. I giornali mettono tale dato nei titoli. Qui non siamo mai stati feticisti dello spread, ma almeno lo leggiamo nell’unico modo in cui ha senso farlo: guardando tutti gli altri. Così vediamo che sta crescendo quello dei francesi, ma tutti gli altri sono calati, per l’ovvia ragione che in tal senso ha agito la Banca centrale europea. Senza meriti di questo o quello. E vediamo la cosa più significativa: lo spread spagnolo è più basso di quello italiano, in ogni caso i due indicatori sono appaiati da lunghissimo tempo, il che è già una condanna per noi, visto che siamo economicamente più potenti e assai più affidabili come debitori. Che si festeggi a Roma, anziché a Madrid, è segno che i festanti sono stolti.

Anche l’indice del prodotto interno lordo va visto in parallelo con quello degli altri. Il nostro è crollato più di quello altrui ed erano anni che cresceva meno degli altri. Da noi si brinda perché dal segno meno s’è passati allo zero, ma gli spagnoli sono già in attivo. Ad appesantirci, nel passato, è stato il debito pubblico troppo alto e una spesa pubblica fuori controllo. Sono ancora lì.

Nelle esportazioni andiamo meglio degli spagnoli, crescendo significativamente anche dal 2011 a oggi (ne prendano nota, quelli che credono tutto dipenda dall’euro). Ma lo dobbiamo alla capacità delle imprese e al valore dei lavoratori, non a politiche pubbliche. Che non sono inesistenti, ci sono e sono negative, punitive e predatrici. Ci manca solo che a una potenza manifatturiera e trasformativa si tolgano anche materie prime alimentari provenienti dall’estero (ditelo al ministro dell’agricoltura), o si aumenti il costo dell’energia (ditelo a quelli che credono il cambio funzioni a senso unico), posto che già ha un accesso al credito più caro e più difficile. A tacere del fisco e della giustizia. Siamo andati bene perché gli italiani che ci lavorano sono bravissimi. Ma il risultato complessivo rimane negativo.

La Spagna non è ancora in zona di sicurezza. Molti problemi restano aperti e molte debolezze non rimediate. Hanno più disoccupati che da noi, anche perché noi ne nascondiamo molti sotto la voce cassa integrazione. Ma la ripresa promette di riassorbirne una parte, mentre da noi, nel 2014, i disoccupati cresceranno. Lo so che nessuno lo dice, ma temo sia così. Allora, posto che il disagio sociale esiste anche nella penisola iberica, come hanno fatto a far digerire riforme così dure? In due modi: avendo governanti capaci di spiegarne il perché, lo scopo e i tempi in cui dei risultati potranno vedersi (e già si vedono); e avendoli capaci di capire che c’era una cosa da fare, prima di ogni altra: colpire la classe politica. Quella che da noi, con orrido concetto, è chiamata la “casta”. Così hanno un sistema legislativo e politico nazionale che costa meno del 10% del nostro. E anche loro hanno il bicameralismo. Hanno un re che costa il 6% di quel che costa il nostro presidente della Repubblica.

Certo, sappiamo tutti che non sono quelli i soldi che fanno la differenza. Ma non la fanno nei bilanci, la fanno, invece, eccome, nella credibilità e affidabilità di chi governa. La fanno nel rendere accettabile quel che, altrimenti, non sarebbe accettato.

Detta in due parole: da quando è iniziata la crisi gli spagnoli non hanno avuto paura di ammetterla e non hanno perso tempo, sia votando che riformando, nonché utilizzando gli aiuti che l’Unione europea metteva a disposizione; noi abbiamo a lungo negato d’essere in crisi, abbiamo sprecato il tempo in cortilate e piccinerie politicanti, non abbiamo riformato altro che le pensioni e siamo andati in Europa a portare soldi del contribuente e prendere ordini, per poi tassarlo ancora di più. Che i risultati siano diversi, non dovrebbe stupire.

Pubblicato da Libero