mercoledì 30 settembre 2009

Scudo fiscale: le ragioni e le necessità di una scelta. (www.governoberlusconi.it)

Le reazioni della sinistra allo scudo fiscale deciso dal governo, e che dovrà essere votato definitivamente entro il 3 ottobre, meritano l’oscar dell’ipocrisia. Per una serie di motivi tutti assai concreti.

La Guardia di Finanza stima in 300-500 miliardi i capitali italiani fuggiti oltre confine. Una cifra che non ha paragoni con altri Paesi, e dunque altrettanto eccezionali devono essere le misure per farli rientrare.

Quando la sinistra obietta che Germania o Gran Bretagna impongono un’aliquota più alta per i loro scudi fiscali, dimentica l’entità del fenomeno che dobbiamo affrontare.

Dimentica, soprattutto, il motivo che ha determinato un così imponente esodo di denaro nei paradisi offshore. E cioè che sotto i governi di sinistra l’aumento di tasse per cittadini e imprese, ed un comportamento vessatorio del fisco, ha di fatto incoraggiato chi se lo poteva permettere a portare i soldi all’estero.

La riprova? Con i primi due scudi decisi dal centrodestra nel 2002-2003 rientrarono e vennero dichiarati al fisco 80 miliardi di euro. Sono bastati neppure due anni di governo Prodi per farne uscire di nuovo alcune centinaia.

Che cosa ha fatto la sinistra, quando era al potere, per riportare in patria questi capitali? Per stringere i freni intorno alle imprese che domiciliavano nei paradisi le loro sedi legali e lì pagavano (anzi: non pagavano) le tasse? Per andare a scovare barche, ville, aerei e beni di lusso e confrontarli con i redditi dichiarati in Italia? Nulla. Nulla di nulla.

Anzi: ha trattato gli evasori come fossero eroi. Molti ricorderanno la trattativa per far pagare le tasse al compianto Luciano Pavarotti: il governo di sinistra gli applicò un generoso sconto, e lo ossequiò con mille complimenti. È un esempio tra molti.

Lo scudo contiene una sorta di condono limitato ai reati tributari e contabili; eppure la sinistra si ostina a divulgare la falsa verità che questa immunità sarà estesa anche a reati penali, addirittura di malavita organizzata e di terrorismo. Nulla di più falso, non sta scritto da nessuna parte.

Altro bluff: la sinistra parla di “scempio edilizio” e di “premio ai furbi”. Sul primo punto, basta ricordare che nessuno scempio è ipotizzabile in Italia, visto che i beni tassabili sono all’estero. Quanto ai furbi, ci chiediamo qual è il maggiore premio: lasciare questi evasori in pace, come ha fatto la sinistra, oppure andare a stanarli come sta facendo il governo?

Ma poi: da quali pulpiti vengono certe prediche se l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, è stato condannato nel 2001(con sentenza definitiva della Cassazione) addirittura all’arresto per abusivismo della sua villa di Pantelleria, e poté beneficiare del condono non solo fiscale, ma anche edilizio? Chi sono i furbi?

Sul piano economico generale, il condono potrà fruttare, se rientreranno almeno 100 miliardi, cinque miliardi da destinare al sostegno alle aziende ed ai lavoratori che si trovano ad affrontare la coda più dura della crisi economica. La sinistra che chiede continuamente benefici fiscali, ha qualche idea su come trovare la copertura per questi interventi?

Non solo. L’operazione contro i capitali all’estero non comprende solo lo scudo edilizio, ma anche: 1) l’inversione dell’onere della prova per chi tiene soldi in qualche banca oltreconfine, non importa se in un paradiso tributario o meno; chi li ha dovrà cioè dimostrare a che cosa gli servono. 2) Un censimento di barche, ville e beni di lusso e l’incrocio di questi dati con l’anagrafe tributaria. 3) Per le aziende, la fine della possibilità di pagare le tasse in qualche paradiso lussemburghese o olandese per il semplice motivo che lì è stata domiciliata la holding di controllo: si dovrà dimostrare dove vengono distribuiti i dividendi agli azionisti (e cioè in Italia), e lì – dunque da noi – pagare le tasse.

La sinistra ha mai fatto un’operazione simile? Si è mai impegnata come questo governo, assieme agli altri governi europei e agli Stati Uniti, per costrngere la Svizzera, Monte Carlo ed altri paesi un tempo nel “libro nero” a rendere noti i depositi dei cittadini stranieri, per ciò che ci interessa italiani?

Quando la sinistra riuscirà a dare una risposta concreta a tutte queste domande, potrà anche criticare lo scudo fiscale. Diversamente sarà la solita operazione di ipocrisia e di propaganda.

Beyond. Christian Rocca

Oggi il Fatto – il quotidiano diretto da Bracardi, quello di "in galera, in galera" – apre con un incredibile scoop. Mara Carfagna ha comprato un appartamento a Roma di 160 metri a un prezzo eccezionale: 930 mila euro. Un'inezia, per milionari come Travaglio. Il punto meraviglioso è che Carfagna non ha acquistato l'appartamento da un ente pubblico, ma da un privato. Ma per i manettari è lo stesso un oltraggio. E sapete perché? "Un magistrato e un giornalista offrivano 300 mila euro in più" (tre anni prima, prima della crisi, ma vabbé). Come si sono permessi di negare l'appartamento a un magistrato? Vergogna. Regime. In galera. (Camillo)

martedì 29 settembre 2009

Il canone spuntato. Massimo Gramellini

Molti lettori mi chiedono di aderire alla campagna del Giornale contro il canone Rai. Vittorio Feltri ha ragione, sostengono, non se ne può più di sovvenzionare col nostro denaro «Porta a Porta» e il Tg1.

A dire il vero certe battute me le sarei aspettate dall’opposizione, se solo fosse guidata da esseri viventi. Invece da lì sono uscite le consuete lamentazioni ispirate al politicamente corretto: vergogna, evasori, giù le mani dal servizio pubblico. Ma siamo sicuri che per la buona tv sarebbe così terribile se il canone si trasformasse da tassa di possesso a tassa d’uso e ognuno di noi finanziasse soltanto i programmi che intende guardare? Una pay-per-view a prezzi popolari. Adesso io pago il balzello in un colpo solo, poi me ne dimentico e per un anno intero mi sorbisco le peggio sconcezze con l’atteggiamento tollerante di chi sta ricevendo qualcosa gratis. Immaginiamo invece che ogni trasmissione mi costi, anche solo cinque centesimi. Sarei curioso di vedere quanti di noi li investirebbero ancora in certi spettacoli della mutua. La nevrosi dello zapping subirebbe una contrazione salutare. L’indice di ascolto coinciderebbe finalmente con quello di gradimento. E la pubblicità sarebbe obbligata a diventare adulta, rivolgendosi a un pubblico selezionato e spostandosi in parte su altri media, come avviene nelle nazioni che frequentano l’alfabeto. Sì, più ci penso e più mi convinco che Feltri abbia ragione. Con le dovute eccezioni. Pensando a chi soffre d’insonnia, continuerei a somministrare gratis Marzullo, dietro presentazione di regolare certificato medico. (la Stampa)

lunedì 28 settembre 2009

Il paradosso dell'agenda rossa. Lino Jannuzzi

C’è un infame paradosso nella tesi di quanti sostengono, in buona o in cattiva fede, che Paolo Borsellino aveva con sé nel momento in cui fu ucciso, diciassette anni fa, l’"agenda rossa" che sarebbe stata fatta sparire perché conterrebbe i segreti delle stragi di mafia,i nomi dei "mandanti politici",a cominciare dal mandante dell’assassinio di Giovanni Falcone,e i nomi dei responabili della presunta "trattativa" tra lo Stato e la mafia, sicchè, come ha scritto il nuovo giornale di Marco Travaglio, questa agenda sparita sarebbe la "scatola nera" della seconda Repubblica. Il paradosso è questo: sono proprio loro, che si presentano come i più gelosi custodi della memoria dell’eroe trucidato a via D’Amelio e scendono in piazza agitando agendine rosse per invocare e pretendere la verità sulla strage, sono proprio loro che lo denigrano e lo infamano. Il giudice Paolo Borsellino, secondo la loro tesi sull’agenda rossa, sarebbe venuto a conoscenza dei più spaventosi segreti sulle stragi e sui mandanti e sulla “trattativa” tra lo Stato e la mafia,e non ne avrebbe mai fatto parola non solo con i suoi più stretti e fidati collaboratori, poliziotti e carabinieri, ma anche con i suoi colleghi magistrati inquirenti, e specialmente quelli preposti a indagare sulle stragi.

Peggio, secondo costoro, in buona sostanza, il giudice Paolo Borsellino avrebbe appreso dai “pentiti”, e in particolare dall’ultimo “pentito” che ha interrogato, Gaspare Mutolo, poco più di due settimane prima della strage, i segreti delle stragi e delle trattative e i nomi dei “traditori”, come quello del più famoso poliziotto di Palermo, Bruno Contrada, e non li avrebbe verbalizzati, non li avrebbe trascritti nel verbale dell’interrogatorio del “pentito”, e solo li avrebbe annotati nella sua personale e segretissima agenda rossa. Non è un’infamia il solo ipotizzare che questo eroe dell’antimafia abbia potuto far questo, violando la legge e i più elementari doveri di un giudice?

E non basta questa sola considerazione, questo paradosso infame, se mancassero altri più che convincenti e contrastanti elementi (e ce ne sono tanti), a dimostrare che in questa polemica tutto è artefatto e strumentale e falso, che nel mistero dell’agenda scomparsa tutto ci può essere meno che i terribili “segreti” delle stragi e dei “mandanti politici” e del “traditori” dello Stato complici della mafia? Ed è possibile che non ci si renda conto che credere alle “rivelazioni”di Gaspare Mutolo (il “pentito” più sbugiardato e più sputtanato di vent’anni di antimafia,quello che riuniva a casa sua gli altri mafiosi per concordare con loro le “rivelazioni” da fare ai giudici) significa automaticamente denigrare e infamare Borsellino? E bisogna credere a Mutolo, infamando Borsellino che avrebbe tenute nascoste le sue "rivelazioni", e non a Vittorio Aliquò, a quel tempo procuratore aggiunto a Palermo, e al vice questore Francesco Gratteri, che erano presenti all’interrogatorio di Mutolo e che hanno dichiarato e deposto che niente rivelò Mutolo a Borsellino di segreti delle stragi e di nomi di mandanti e di politici e tutto di quanto fu detto invece Borsellino fece correttamente mettere a verbale?

Del resto, questo dell’agenda rossa contenente chissà quali segreti e sparita per nascondere o ricattare i politici mandanti dell’assassinio di Paolo Borsellino non è il solo falso strumentalmente accreditato nella vicenda della strage di via D’Amelio: già all’indomani stesso della strage tentarono di coinvolgervi Bruno Contrada accreditando la leggenda che l’ex capo della squadra mobile di Palermo, e al momento alto dirigente del Sisde, il servizio segreto civile,fosse presente in via D’Amelio al momento dell’esplosione o immediatamente dopo, e che fosse stato lui a impadronirsi dell’agenda rossa e a farla sparire.Tentarono di inquisirlo e processarlo per la strage e come tramite tra i politici e la mafia, e soltanto quando fu irrimediabilmente provato che in quel momento Contrada era su una nave al largo della Sicilia con altre dieci persone, tra cui esponenti delle forze dell’ordine, ci rinunciarono, ripiegando sul sempre facile e comodo concorso esterno all’associazione mafiosa e alle solite sempre puntuali accuse dei “pentiti” (gli stessi mafiosi che Contrada nel tempo aveva perseguito e arrestati).

E dai tempi dell’inchiesta per strage a carico di Marcello Dell’Utri e di Silvio Berlusconi a quelli ultimi del processo per concorso esterno a Dell’Utri gira ancora una favola, parallela a quella della agenda rossa, la favola della “ultima” intervista di Paolo Borsellino, una specie di testamento che Borsellino avrebbe consegnato, appena due giorni prima della strage di Capaci, dove fu assassinato Giovanni Falcone, a un giornalista francese e dove il giudice per primo avrebbe denunciato i rapporti di Berlusconi con la mafia. Borsellino aveva effettivamente ricevuto a casa sua a Palermo il 21 maggio del 1992 un certo Fabrizio Calvi, accompagnato da un operatore televisivo, e aveva parlato con lui per un paio d’ore. Ma dell’intervista non si era più sapito niente né in Italia né in Francia, finchè due anni dopo, l’8 aprile del ’94,in coincidenza con le prime accuse di mafia insinuate da Luciano Violante contro Dell’Utri, era comparso sull’Espresso un “resoconto” della “conversazione” tra Borsellino e questo Calvi, e dovevano passare ancora sette anni prima che, nell’aprile del 2001, proprio alla vigilia delle elezioni politiche, Michele Santoro in una puntata del “Raggio verde” trasmettesse un filmato della durata di soli dieci minuti: una “sintesi” dell’intervista realizzata arbitrariamente con un sistema di tagli e cuci, dove il giornalista francese insiste con le domande, partendo dal solito caso dello “stalliere” Vittorio Mangano, e cerca di strappare qualcosa di bocca al giudice, che ostinatamente nega e si sottrae. Risponde Borsellino: ”Non sono a conoscenza di questo episodio...probabilmente non si tratta della stessa intercettazione...Dell’Utri non è stato imputato nel maxi processo, che io ricordi...non ne conosco i particolari...si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla...non mi dovete fare queste domande su Dell’Utri...che Mangano e Dell’Utri sono di Palermo tutti e due non è una considerazione che induce alcuna conclusione...questa vicenda che riguarderebbe i rapporti con Berlusconi è una vicenda che non mi appartiene, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla...”

E nulla in effetti Borsellino dice in proposito, nonostante ciò che cercano di far risultare con il trucco del taglia e cuci. Ma il falso principale, il punto sul quale i professionisti dell’antimafia e i loro epigoni nel giornalismo e in tv insistono, l’elemento più emozionale ed emozionante, è quello di far passare questa intervista taroccata come “l’ultima” di Borsellino, il suo testamento. E’ invece un mese dopo, trenta giorni dopo la strage di Capaci e la morte del suo amico Falcone e un mese prima di essere ucciso a sua volta, che Borsellino riceve nello studio di casa sua, in via Cilea a Palermo, un altro giornalista, un giornalista italiano, e si racconta. E questa è un’intervista veramente drammatica e può essere considerato il suo testamento. C’è persino il presagio di ciò che sta per succedergli: ”Dalla morte di questo mio vecchio amico e compagno di lavoro-dice Borsellino-la mia vita è cambiata...mi sento un sopravvissuto...ricordo che mi disse Ninni Cassarà (il questore anche lui ucciso dalla mafia) allorchè ci stavamo recando insieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana...mi disse: "Convinciamoci che noi siamo dei cadaveri che camminano….’”.

E ha chi l’ha data Borsellino questa intervista, veramente la sua ultima intervista, il suo testamento? L’ha data al vicedirettore di Canale 5, la televisione del “mafioso” Silvio Berlusconi, quello che secondo i professionisti dell’antimafia e i cronisti loro epigoni, che ancora lo scrivono negli articoli e nei libri, lo ripetono in televisione, Borsellino per primo avrebbe denunciato, insieme a Dell’Utri, come amico e complice della mafia. Un altro paradosso, infame come quello dell’agenda rossa. (il Velino)

sabato 26 settembre 2009

Dizionario del santorismo tra Gramsci e Celentano. Massimiliano Parente

Mio caro lettore di sinistra o di destra, mon frère, ipocrita eppure mon semblable, come scriveva Baudelaire nell’introduzione ai Fiori del male, ecco un piccolo dizionario del santorismo, utile sia a riconoscerlo nelle sue varianti infettive (alcune voci valgono anche per il gabanellismo), sia per riprodurlo in casa per gli amanti del fai-da-te non solo nel sesso (benché, malgrado qualità scadente, sempre pornografia sia), sia per gli storici dei decenni a venire, quando si chiederanno di cosa stavamo parlando quando parlavamo di Annozero.

Il vittimismo da censura

È uno strumento tipico del santorismo, variante gramsciana del celentanismo anni Novanta, e che si sta diffondendo come un virus (il savianismo ne è una prova, dove ti giri c’è Saviano, vai in libreria e ci sono pile di Saviano, apri un giornale e c’è un articolo di Saviano, ricomincia la Bignardi ieri sera e c’è Saviano, ed è proprio il Saviano che firma appelli per la libertà di stampa). Il funzionamento è elementare: si grida alla censura da un mese prima fino a un giorno prima e perfino durante, quando è evidente che non c’è stata. Santoro nasce già censurato, come un feto che per nascere meglio e strillare più forte e strozzare i genitori in culla gridi all’aborto e nel frattempo ha già cinquantotto anni (sarà per questo che si chiama Annozero?). La retorica della censura è il tema, lo spot, la linfa vitale, l’hybris, l’humus, l’habitat, il trogolo di Michele. Quando infine va in onda si parla, per tre ore di trasmissione, di quello di cui non si può parlare «in Italia», come se fosse Radio Londra e non la solita Rai 2 in prime time. Qualche volta viene invitato Enrico Mentana, che fa la parte del saggio e dice «Beh, ne stiamo parlando no?».

Travaglio, I: il quadernino

All’inizio, quando guarda il quadernino, dà l’impressione del bambino che legge la poesia davanti agli ospiti dei genitori o alla recita scolastica, invece è uno scioglilingua a funzionamento ipnotico-subliminale, almeno questo è l’intento. (Il surrealismo lo chiamava “cadavre exquis”, cadavere squisito). Ricetta per preparare in casa un monologo di Travaglio: andate su Google, inserite la chiave di ricerca «Berlusconi processi», stampate una cinquantina di pagine, tagliatele in quattro parti ciascuna, mischiatele, cucitele insieme e leggetele senza interruzione e a velocità sostenuta. Per servire a cena, in diretta, condite con un paio di battute apparentemente contro la sinistra, qualcosa di irrilevante ma che faccia pensare voi siate imparziali, tipo «anche D’Alema è stato una volta a una cena con Tarantini, chissà che ci faceva...». Dopo potete portare tutto alla Rizzoli e farne un libro, il genere letterario è il «cut and paste» e Travaglio più che da Nanni Balestrini o William Burroughs è figlio della Microsoft Word Generation.

Travaglio, II: il sorrisino

Lo inquadrano quando parlano gli altri, non ho mai capito se gli fanno un segno e lui accende il sorrisino o se viceversa quando parlano i nemici tiene sempre d’occhio la lucina rossa della telecamera per fare il sorrisino. Quando inquadrano il sorrisino di Travaglio significa che Travaglio la sa lunga e l’altro è un impostore. Credo che il sorrisino sia preceduto, per esempio mentre parlano Belpietro o Ghedini o la Santanché o qualsiasi pezzo di m... fascista del centrodestra, da un cenno di Santoro (per esempio un occhiolino) a Travaglio che guarda il cameraman che inquadra Travaglio che fa il sorrisino.

Servizietto esterno I

Caposaldo del santorismo, il servizietto esterno è riservato a coloro che devono risultare brutti, sporchi, cattivi, fascistissimi. L’inviato modello deve avere una faccetta da Studentello Secchione e Moralista, si presenta con una cartellina piena di appunti, tabelle, diagrammi di flusso, articoli sottolineati. Chiunque faccia entrare l’inviato modello è fottuto in partenza: se lo sbatti fuori fai la figura del colpevole, se lo fai entrare e rispondi alle domande ti fa girare le scatole finché non lo mandi a quel paese e fai la figura del colpevole, se rimani calmo come il Mahatma Gandhi ti inquadrano in modo tale da farti sembrare, al cospetto dello Studente Secchione e Moralista, come minimo Adolf Hitler nella tana del lupo. I montatori e tagliatori della postproduzione fanno il resto.

Servizietto esterno II

È il contraltare del servizietto esterno negativo, teso a dimostrare la tesi santoriana e far sembrare lo Studente Secchione e Moralista davvero obiettivo e a far sì che il telespettatore santorizzato ti dica «Eh beh, ma allora è proprio obiettivo». La tecnica è far finta di contestare quello che si vuole far dire, per poi lasciarlo dire senza ulteriori contestazioni. A Giorgio Bocca, tanto per citarne uno, lo Studente Secchione chiede qualcosa del tipo «Non penserà davvero che è in pericolo la democrazia in Italia e siamo in un regime berlusconiano e Berlusconi è un terribile figlio di..., vero? Ce lo dica lei, che è così autorevole e noi le crediamo tutti».

L’invocazione alle oppresse

Nel corso di un dibattito, quando si è a corto di argomenti, l’invocazione alla minoranza funziona a meraviglia per distogliere l’attenzione e creare una cortina fumogena edificante. Esempio: mandano in onda un’intervista a Patrizia D’Addario e Concita De Gregorio si erge in difesa delle donne sfruttate e trattate come merce, segue applauso. Se l’avesse detto la Binetti sarebbe stata fischiata come moralista. Viceversa qualcosa di analogo tentata dalla Santanchè, magari in difesa di una figlia sgozzata dal padre musulmano, risulterebbe razzista e non rispettosa delle minoranze islamiche.

La giovane «zero»

Chiamata a rappresentare i giovani della «Generazione zero» e dunque a porre le domande dei «giovani» e a rappresentare i giovani, qualcuno si chiede dove Santoro trovi queste zero (d’estate? tra Capalbio e Cortina?), e perché le scelga sempre così fighettine «radical shaggy chic» e perché parlino tutte nello stesso modo, un italiano basic scandito quasi sintetizzato, come se fossero programmate, e come se avessero tutte la erre moscia (nobile ma di sinistra) anche se non ce l’hanno. Il modello di base è una Barbie acqua e sapone che abbia letto solo Uomini e no, di Elio Vittorini. Non credo che le ragazze zero di Santoro esistano realmente, sono ologrammi, software, intelligenze artificiali al contrario. La Borromeo, per esempio, una notte mi pare di essermela scaricata anche sull’iPhone, la mia però diceva «Ancova, ancova».

Servizione esterno

Chiunque può farlo anche da casa, istruzioni per realizzare anche voi un perfetto servizione esterno santoriano. Partite da una tesi qualsiasi, per esempio quella secondo cui la maggior parte della popolazione ritiene che Berlusconi sia cattivo. Uscite con una telecamera, e intervistate chiunque vi capiti. Una volta a casa tagliate tutti quelli che non lo pensano, tranne quelli che sembrano più idioti, e lasciate gli altri che confermano la vostra tesi.

Servizietto interno

Poiché ogni ospite di destra sporco e cattivo sa che Santoro, oltre a inquadrare a tradimento i sorrisini di Travaglio, ti toglie la parola proprio quando stai per dire quello che stai cercando di dire, ormai accade questo: l’ospite sporco e cattivo, continuamente interrotto chiede «Lasciatemi parlare!», Santoro può ben rispondere «Ehhhh, ancora con questa storia che non vi lascio parlare, sta parlando, parli!». Gli irriducibili del centrodestra ancora ci provano con dei «Mi consenta» vintage.

Vaurismo

Stessa tecnica del travaglismo, a fine trasmissione l’ultimo comunista rimasto (il dinovauro) sforna le sue vignette. Si dovrebbe ridere, ma la satira e i contenuti della trasmissione sono indistinguibili, quindi l’effetto è quello di un riassunto della puntata illustrato. Perché è fondamentale Vauro? Perché se da una parte ha una funzione didascalico-riassuntiva, dall’altra serve da parafulmine: il giorno dopo tutti si arrabbieranno con la vignetta di Vauro (esempio: Berlusconi per il terremoto abruzzese realizzerà solo l’aumento della cubatura dei cimiteri) e non per la puntata che ha teorizzato per tre ore esattamente quello che Vauro ha disegnato. (il Giornale)

L'ultima crociata di Odifreddi: vince il "premio intolleranza". Matteo Sacchi

Per l’ennesima volta Piergiorgio Odifreddi ha deciso di varcare il Rubicone che dovrebbe separare la matematica dalle idee politiche, l’eterea e perfetta scienza dei numeri dagli odi personali e dagli strali che lancia contro chi ha convinzioni diverse da quelle ateo-materialiste (cioè la maggioranza degli italiani). E come al solito l’ha fatto da par suo, ossia caricando a testa bassa e sfruttando al meglio la propria visibilità mediatica. L’altro ieri, infatti, una mail, a firma del professore e indirizzata anche ad alcune delle più importanti testate quotidiane come La Stampa e Repubblica, ha avvisato l’associazione Subalpina Mathesis (che gestisce il premio Peano, uno dei più prestigiosi d’Italia per la divulgazione matematica) che voleva immantinente il suo nome cancellato dall’albo d’oro della medesima. Odifreddi, vincitore nel 2002 con C’era una volta il paradosso (Einaudi) non gradisce più fregiarsi di un premio che, quest’anno, andrà a uno storico della matematica: Giorgio Israel. Non che abbia da ridire sulle capacità scientifiche del collega piuttosto ritiene (parole sue): «che le posizioni espresse da Israel in ambito politico, culturale e accademico sul suo Blog, sul sito Informazione Corretta e in ripetuti interventi su Il Foglio; Il Giornale e L’Osservatore Romano; culminate con la sua collaborazione con il ministro Gelmini come consulente per la “riforma” della scuola, trascendano i limiti della normale dialettica, e si configurino come un pensiero fondamentalista col quale non intende essere associato intellettualmente, nemmeno nel senso... di condividere con lui l’albo d’oro dello stesso premio». Idee che ha ribadito intervistato in un lungo articolo sulle pagine del Corriere a firma Antonio Carioti che, ciliegina sulla torta, ha attribuito al presidente di Subalpina Mathesis l’indiscrezione che anche alcuni membri della giuria avessero avuto perplessità sull’idea di premiare Israel. Insomma una «scomunica» lanciata contro un rispettato collega a partire dalle sue convinzioni politiche e religiose e che trasforma in una colpa il fatto di essere un consulente dell’attuale governo. Abbastanza per lasciare di sasso il professor Israel che ha vinto il premio con Il mondo come gioco matematico, scritto assieme a sua moglie Ana Maria Millan Gasca e dedicato al matematico John Von Neumann. E se il professor Israel non vuole alimentare le polemiche personali, si limita a dire che il suo libro è distantissimo dalle questioni politiche e che racconta della vita di un grandissimo uomo di scienza, diversa è la posizione di Franco Pastrone. Il presidente di Subalpina Mathesis coinvolto direttamente smentisce, parlando con Il Giornale, di aver fatto qualsivoglia accenno a dubbi su Israel: «Come ho scritto al giornalista del Corriere non ho mai detto che la vicinanza di Israel al governo abbia suscitato perplessità nella giuria... Nella discussione non sono mai intervenute valutazioni di tipo ideologico... Noi ci occupiamo di libri che aiutino la divulgazione matematica». E quanto al gesto di Odifreddi lo definisce «incomprensibile... fuori dalla deontologia che dovrebbe caratterizzare i comportamenti di uno scienziato». E lui? Il «Matematico impertinente» è convintissimo del suo gesto, come dice al Giornale: «Sono le idee di Israel a trascendere la normale dialettica politica, sono di un sionismo estremo... E anche la sua scelta di collaborare con un ministro come la Gelmini per me è inaccettabile... Lui ha il diritto di pensarla come vuole ma io ho il diritto di non stare nello stesso albo d’oro con lui...». Se poi provate a dirgli che anatemi di questo tipo non fanno bene al dialogo culturale: «Ma quale anatema ho scelto la protesta più moderata di tutte, non ho mica fatto un sit-in...». (il Giornale)

venerdì 25 settembre 2009

Il Pdl, la modernità, la persona, le nuove sfide strategiche. Renato Brunetta e Daniele Capezzone

Nell’Italia degli ultimi decenni si è determinata una geografia politico-sociale pressoché unica nell’Occidente avanzato, basata su una sempre più netta distinzione tra due diverse realtà.

Da una parte, c’è l’Italia - ultramaggioritaria - che rischia tutti i giorni; che è legata al merito, alla competitività, alla trasparenza; che sta sul mercato; che è esposta al vento della concorrenza; che mette in gioco se stessa, la propria famiglia, i propri beni. E’ l’Italia che lavora e produce; è l’Italia dei lavoratori dipendenti che rischiano il posto; è l’Italia delle piccole e piccolissime imprese dell’industria, del commercio, dell’artigianato, dei servizi; è l’Italia dei professionisti; è l’Italia dei disoccupati e dei sottoccupati non tutelati; è l’Italia di quanti, oggi anziani, hanno già dato il loro contributo alla propria famiglia e al Paese.

Dall’altra parte, c’è l’Italia - più piccola e minoritaria - che non vive con queste regole: è l’Italia della rendita, delle corporazioni, dei furbi, dei fannulloni, dei garantiti. Naturalmente, non si può e non si deve fare di ogni erba un fascio, ma questo aggregato è composto dall’Italia dei cattivi dipendenti pubblici, della cattiva politica, della cattiva magistratura, delle cattive banche e della cattiva finanza, della cattiva editoria, dei cattivi sindacati (arricchiti economicamente ma impoveriti politicamente e civilmente dalla trattenuta automatica praticata su lavoratori e pensionati spesso ignari); in altre parole, siamo dinanzi all’Italia che vive in modo parassitario e improduttivo sulle spalle della prima Italia. Questa seconda Italia, pur numericamente più ridotta e marginale, dispone di mezzi e strumenti per farsi rappresentare e addirittura sovrarappresentare in modo potente e efficacissimo; le riesce perfino di accreditarsi come classe generale, come espressione e coscienza del Paese tout-court, come riferimento etico, culturale, civile della Nazione. Si tratta, a ben vedere, dei protagonisti di residui pseudoculturali del ’68 e dei settori più egoisti della borghesia italiana: la loro cifra civile è spesso quella del cinismo, della diffidenza rispetto agli esiti e ai metodi democratici, della chiusura in una dimensione tutta interna al perimetro dell’establishment.

Costoro hanno beneficiato di un doppio paradosso. Intanto, la prima Italia, impegnata a lavorare e a produrre, ha di fatto finito per delegare alla seconda Italia l’organizzazione e la gestione dei beni e dei servizi pubblici (scuola, cultura, università, salute, giustizia, burocrazia), attualmente egemonizzati da una ridotta e potentissima casta. E così, chi rischia ogni giorno per sé e i propri figli, ha affidato e consegnato i beni della coesione sociale ad una classe che vive secondo regole opposte ai principi del mercato, del merito, dell’accountability, e - da quel ceto - subisce perfino giudizi di carattere moralistico, come se la seconda Italia potesse vantare una dimensione etico-politica superiore. In più - paradosso ancora clamoroso - la sinistra tradizionale ha incomprensibilmente scelto di difendere e rappresentare proprio questa Italia peggiore, tradendo ogni speranza di rinnovamento e schiacciandosi a tutela della parte meno dinamica e innovativa della società italiana. Simmetricamente, gli eredi del ’68 e le borghesie più chiuse hanno avuto grande spazio ai vertici della sinistra politica: gli uni captati e cooptati dagli altri, e viceversa, con la trasformazione degli “indipendenti di sinistra” di altre stagioni in vere e proprie guide di ciò che resta dell’apparato del Pci-Pds-Ds-Pd. Lo spettacolo dei banchieri in coda per le primarie prodiane resta una testimonianza plastica di questo fenomeno.

Buona parte di questo fenomeno trae anche origine dal golpe mediatico-giudiziario degli anni ’90, con un’azione selettiva e faziosa volta a colpire ed eliminare soltanto una parte ben individuata del ceto politico di allora, aprendo la strada non solo ad un violento e forzoso “ricambio” di governo, ma anche ad una marcata sudditanza rispetto ad interessi non italiani. A questo proposito, non va dimenticato il modo - grave e dannoso per il Paese - in cui sono avvenute tante cosiddette “privatizzazioni”, che meglio andrebbero definite come vere e proprie spoliazioni: con l’Italia che si è ritrovata improvvisamente priva - in tempi serrati e a prezzi da svendita - di gangli essenziali del proprio sistema produttivo, e senza alcun beneficio concorrenziale e di mercato per i cittadini, ma con un frequente passaggio da monopoli o oligopoli pubblici a monopoli e oligopoli privati.

Diversi lustri dopo quegli eventi, resta questa, in termini strutturali, la sfida tuttora in corso. Da una parte ceti produttivi, dall’altra ceti parassitari e burocratici; da una parte chi spinge per le riforme e il cambiamento, dall’altra chi parteggia per il mantenimento dello status quo e di un comodo immobilismo sociale; da una parte uno schieramento popolare e interclassista, dall’altra una élite autoreferenziale con scarsi ancoraggi nell’Italia reale; da una parte un partito libero di determinare le sue politiche grazie all’outsider Berlusconi, dall’altra un’aggregazione vincolata dal rapporto con alcuni interessi forti che vorrebbero dirigere il Paese senza consenso. E’ espressione evidente di questa contrapposizione il fatto che il centrodestra berlusconiano, oltre a conservare intatta la sua tradizionale area politico-elettorale, ottenga oggi anche il doppio dei voti operai rispetto al Pd e alla sinistra, e sappia anche beneficiare di un ulteriore spostamento di voti riformisti e di sinistra moderata verso il Pdl.

Esattamente per queste ragioni, il Popolo della Libertà è capace di sciogliere antiche contrapposizioni e antinomie, e in primo luogo quella tra datori di lavoro e lavoratori, oggi storicamente uniti dall’esigenza vitale di puntare sulla crescita e sull’espansione dell’area del benessere. Questo movimento politico entra nel nuovo secolo sciogliendo e portando a sintesi le antitesi del Novecento: è l’incontro dei riformatori liberali e solidali, e può orgogliosamente dirsi - nello stesso tempo - conservatore e rivoluzionario. Conservatore perché è un grande movimento capace di esprimere il senso comune di un popolo, la sua tradizione e le sue radici; rivoluzionario perché è il partito che vuole e sa sconfiggere l’Italia delle rendite e del privilegio. Solo un grande movimento legato ai valori popolari, infatti, ha poi l’ansia e la tensione necessari per essere il motore della modernizzazione, il partito-guida dell’Italia che cambia e che cresce.

In questo quadro, si inseriscono le sfide della stagione politica che si apre. Noi arriviamo al dopo-crisi essendo riusciti, nell’ultimo anno, a garantire la migliore condizione possibile dei conti pubblici, e insieme una buona difesa della base produttiva e occupazionale. Il Governo Berlusconi ha agito per perseguire tre obiettivi fondamentali: tenuta della finanza pubblica e rispetto dei parametri europei, liquidità per le famiglie e le imprese, allargamento della rete di protezione sociale. E’ anche grazie a questa azione che l’Italia ha retto meglio di altri Paesi, nonostante i due grandi vincoli rappresentati dal debito pubblico (che impedisce di usare la finanza pubblica come volano per favorire l’uscita dalla crisi) e dal declino demografico (che ci priva di quantità e qualità di capitale umano). Su questa strada, e sulla definizione di un nuovo e più dinamico assetto di relazioni industriali, è stata mantenuta la coesione sociale, nonostante che l’opposizione e un pezzo di sindacato abbiano vanamente cercato di provocare un autunno caldo: e invece, si è stretta intorno al Governo la gran parte delle rappresentanze sociali e imprenditoriali, un blocco sociale leale e responsabile rispetto all’Italia e agli italiani, capace di perseguire l’interesse nazionale.

Così, dopo neanche un anno e mezzo dall’apertura dell’attuale legislatura, il fatto nuovo è che il Governo Berlusconi e la maggioranza stanno non solo assicurando una rigorosa ed efficace gestione del presente e il più rapido aggancio possibile verso la ripresa, ma, con le riforme messe in campo, hanno davvero iniziato a mettere in discussione l’area della rendita, del privilegio, dell’immobilismo sociale. In questo, cioè su questo fondamentale obiettivo strategico, Pdl e Lega sono già uniti: di più, rappresentano un unico blocco riformatore, un’unica rappresentanza sociale e politica del popolo dei produttori rispetto al blocco dei difensori dello status quo.

Questa è la posta in gioco, e insieme l’oggetto della rivoluzione in corso. Di fronte all’importanza di tutto ciò, è assolutamente naturale e fisiologico che, in un partito già del 40% e che punta al 50%+1 dei voti, vi siano su altri e più specifici temi, a partire dalle questioni eticamente sensibili, approcci e opinioni diverse, che contribuiranno ad arricchire e irrobustire il Popolo della Libertà.

E davvero si può dire che al centro dell’intera azione politica del Governo e della maggioranza ci sia la persona, e - soprattutto - l’allargamento della sfera della decisione e della scelta privata rispetto a quella della decisione e della scelta pubblica e collettiva. E’ così per la riscrittura del rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione impostata dal Ministro della Funzione Pubblica; è così per le iniezioni di meritocrazia e responsabilità che animano le riforme incardinate dal Ministro dell’Istruzione dell’Università; è così per il doppio obiettivo di non lasciare nessuno indietro e di costruire un più dinamico e meno ingessato sistema di relazioni industriali da parte del Ministro del Welfare; è così per il recupero di efficienza in sede civile e di terzietà del giudice rispetto alle parti in sede penale, sulla base delle riforme perseguite dal Ministro della Giustizia; è così per la razionalizzazione, e in qualche caso la riduzione, delle risorse pubbliche destinate dal Ministro della Cultura a iniziative spesso improduttive, incapaci di vivere sul mercato e di attrarre risorse e investimenti, desiderose sempre e solo di sussidi e finanziamenti pubblici, e perfino ignare dei rischi di una statalizzazione e politicizzazione della cultura; è così per ogni altro settore dell’azione dell’Esecutivo, sempre in linea con un approccio di sussidiarietà centrato sul favor per la concorrenza, per la scelta tra più opzioni nei servizi essenziali, per l’intervento del privato o eventualmente dell’ente territoriale più vicino alla persona.

Esistono alcune sfide strategiche, da questo punto di vista, che potrebbero segnare i prossimi lustri della politica italiana:

· la piena realizzazione del federalismo fiscale, capace di mettere sotto controllo la spesa pubblica ad ogni livello territoriale, di innescare meccanismi competitivi tra territori nell’attrazione di risorse e investimenti, di determinare una maggiore e più penetrante vigilanza dei cittadini sui loro amministratori e sull’uso e il prelievo del denaro pubblico, di contribuire ad una significativa compressione del nero e dell’evasione fiscale, e, soprattutto, di creare le condizioni per l’avvio della riduzione della pressione fiscale nei confronti sia delle persone che delle imprese;

· l’attuazione di un grande Piano per il Sud da realizzare attraverso l’efficienza, la produttività, la trasparenza, la lotta alla corruzione, la qualità della burocrazia e il federalismo fiscale; portando a compimento le grandi opere e le infrastrutture materiali e immateriali necessarie allo sviluppo del Mezzogiorno; infine, chiedendo all’UE di credere nel Mezzogiorno non solo in nome della coesione interna ma anche di una coesione esterna;

· una politica estera di rilancio della nostra economia capace di cogliere le grandi occasioni di sviluppo offerte, da un lato, dall’emergere prepotente sulla scena mondiale delle economie dell’Asia dell’Est e del Sud-Est (con al centro la Cina) e dell’Asia del Sud (con al centro l’India) e, dall’altro, dalla fuoriuscita dalla crisi;

· l’avvio della detassazione della contrattazione di secondo livello, favorendo rinnovi contrattuali maggiormente legati al territorio e alle aziende, valorizzando per tutti l’elemento della produttività;

· la ripresa di un percorso di liberalizzazioni che apra davvero il mercato, che non sia solo rivolto contro la base sociale ed elettorale del centrodestra, com’è sistematicamente avvenuto nella stagione di governo del centrosinistra, e che non sia concepito “contro”, cioè per spaventare o impoverire qualcuno, ma “per”, cioè per aprire nuove opportunità al cittadino-consumatore-utente: in questo senso, appare ineludibile la messa in discussione dell’attuale, appesantito e anticoncorrenziale assetto dei servizi pubblici locali;

· una maggiore possibilità di scelta per il cittadino, e insieme di concorrenza tra pubblico e privato, nei settori della scuola, dell’università e della sanità, attraverso i meccanismi del “buono” o del credito d’imposta;

· un nuovo assetto istituzionale più adeguato alle esigenze di velocità e decisione della modernità in cui siamo immersi, centrato sul presidenzialismo, sul monocameralismo, sulla netta riduzione del numero dei parlamentari, sull’abolizione delle Province.

***

Rispetto alla fase politica che si apre, il Pdl, pur appena nato, può già far tesoro di tre grandi punti di forza rispetto al campo avverso. Il primo è naturalmente rappresentato dalla leadership popolare, fortissima, non consumata dai rituali della politica, di Silvio Berlusconi. In secondo luogo, il centrodestra ha manifestato la capacità, nei momenti elettorali, di puntare su una assoluta compattezza programmatica, isolando le poche questioni su cui chiedere agli elettori di esprimere il proprio consenso, costruendo una base programmatica immediatamente comprensibile ed evitando i programmi-zibaldone. Infine, il nuovo Pdl può già farsi forte di una rete di think tank, centri studi, fondazioni, giornali, riviste, agenzie, come luoghi chiamati non ad un generico o astratto dibattito, ma alla concreta produzione di software, di contenuti politici, di “attrezzi” e proposte immediatamente trasferibili nel momento elettorale e poi soprattutto in quello di Governo.

Nasce e si afferma così un grande partito moderno e soprattutto post-ideologico. Nessuno è esposto al rischio di perdere qualcosa della propria identità, delle radici e delle matrici culturali e politiche a cui è legato: il tema, invece, è quello di una offerta politica che non deve mai assumere profili e connotati non inclusivi, di chiusura, o legati a riflessi minoritari. Il che non vuol dire assumere sfuggire alle scelte: anche sulle questioni più complesse o controverse, solo che lo si voglia, c’è tutto lo spazio per giungere a una sintesi e a un punto di equilibrio ragionevole. Poi, sarà compito di una vita di partito intensa e segnata da regole precise, così come del network di realtà culturali che ruota intorno al partito, animare la discussione e garantire piena cittadinanza anche alla posizione che, nell’una o nell’altra occasione, non sarà risultata prevalente. Il resto sarà virtuosamente affidato alla grande medicina del “mercato” politico-elettorale. E’ quello che lo straordinario popolo degli elettori del Pdl chiede al nostro - e soprattutto loro - partito. (l'Occidentale)

Condoni e condonati. Davide Giacalone

Lo scudo fiscale, la possibilità di far rientrare o regolarizzare capitali irregolarmente posseduti all’estero, ebbe un grande successo, nel 2001-2002. Altri Paesi europei ce lo invidiarono, mentre gli Stati Uniti, attraverso la pragmatica via della non procedibilità contro chi patteggia, lo imitano. Ebbe anche una vasta opposizione, in parte popolata, però, dagli stessi che lo utilizzarono.
Ogni condono ha un duplice profilo. Da una parte favorisce chi non ha dichiarato al fisco quel che avrebbe dovuto, quindi ha un sapore d’ingiustizia nei confronti di chi è stato leale, per scelta o per costrizione. Dall’altra porta a tassare capitali e beni che, altrimenti, non avrebbero versato un tallero nelle casse statali, quindi contiene un elemento di giustizia a favore di tutti. L’equilibrio fra queste due cose è dato da molti fattori pratici, il successo si misura in un mondo solo: il gettito che procura. E lo scudo, nelle versioni passate, ha dato ottimi risultati.Capita a questo, come ad altri condoni, che l’ipocrisia collettiva imponga di dire che non sono una bella cosa, ingigantendo il primo profilo e cancellando il secondo.
Capita anche, specie nel Paese della doppia morale, che chi si oppone in pubblico li utilizzi in privato. Ci sono molti esempi concreti, ed è bene ricordare che anche chi strilla di più, reclamando punizioni esemplari, come fa Antonio Di Pietro, poi acchiappa i condoni al volo. Così com’è bene ricordare i tanti quattrini che certa sinistra dell’intermediazione si ritrovò all’estero (basti pensare ai vertici delle cooperative rosse, agli scalatori bancari, a quelli che s’arricchirono grazie alla malaprivatizzazione di Telecom Italia), resi disponibili e reinvestibili grazie allo scudo.
Se la politica facesse il suo mestiere, se i politici fossero uomini di pensiero che parlano solo quando hanno qualche cosa da dire, la divisione non sarebbe astrattamente pro o contro i condoni, ma circa la loro finalità e funzionalità. Un condono fiscale all’indomani del cambio delle regole è cosa buona e giusta, ad esempio, perché consente agli evasori di mettersi in regola e riconosce che molti di loro, se non proprio tutti, sono stati spinti o costretti a deragliare da regole sbagliate. Il nuovo sistema, inoltre, si spera funzioni, quindi il condono aumenta la quantità di ricchezza sulla quale potrà operare, arrecando un beneficio a tutti. Al contrario, invece, sono perniciosi i condoni destinati esclusivamente a far cassa, quasi fossero giubilei dell’evasore e dell’abusivo, perché finiscono con l’essere armi di diseducazione di massa, spingendo ad emulare i furbi. Parlare, invece, solo in termini di equità e giustizia serve ad evocare grandi principi e riempirsi la bocca, in modo da celare il vuoto che rimbomba nella testa.

giovedì 24 settembre 2009

A proposito di puttane...Marco Francesco De Marco

Usiamo lo stile di Travaglio. E’ così di moda e di successo. Chissà che non si riesca anche noi, nel nostro piccolo, a diventare tanto famosi da guadagnarci un bel contratto in Rai. Un sogno che inseguiamo fin da bambini.
A proposito di puttane e puttanopoli. Alcuni giornalisti italiani lanciano il ricorrente allarme: “siamo in un regime”. Non c’è libertà di espressione, c’è la censura, le nostre idee sono minacciate. Poveretti. Come li capisco.
Vorrebbero scrivere che il popolo italiano paga una tangente chiamata “interesse sul debito pubblico” di oltre 70 miliardi di euro, e la paga ad una associazione a delinquere fatta di banche e banche centrali, “criminali che andrebbero processati per crimini contro l’umanità, tra i quali Draghi (parole di Elio Lannutti dell’Italia dei Valori)”.
Ma nessun editore permette ai valorosi giornalisti italiani di scrivere su questi temi così importanti. Così le nostre migliaia di “penne libere”, gli alpini della verità, i Santoro, Travaglio, Floris, Colombo, Maltese, Giannini, Padellaro, Mauro, Beha e compagnia cantando, sono costretti a negare il giusto risalto a notizie come quella sull’assoluzione di Angelo Rizzoli, depredato dalla solita banda di banchieri, pescecani, affaristi, malavitosi ed alti prelati. I nostri eroi, impegnati nella crociata contro Silvio il Saladino, schierati sul fronte opposto, ovvero a favore della lobbie che gli contende il potere, cioè il sottopotere, hanno ignorato la notizia sulla vera storia del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, che oggi appartiene ai soliti noti parassiti, e che secondo giustizia non dovrebbe essere loro, perché è stato illegalmente e con modalità truffaldine sottratto ad Angelo Rizzoli. Il quale, giusto per continuare a parlare di puttane, puttane vecchie, navigate ma ancora in servizio, è stato incarcerato dai soliti magistrati al servizio dei potentati economici, al fine di distruggerlo, nel fisico e nella mente, al solo scopo di sottrargli il patrimonio di famiglia. In quei giorni, Gianni Agnelli, con la freddezza tipica dei rettili e la finezza di uno scaricatore di porto, chiamò Rizzoli appena uscito dal carcere per dirgli: “Siamo nel mondo degli affari dove vale la legge della giungla: il più forte vince il più debole. E lei, dottor Rizzoli, in questo momento è il più debole”. Questo era il raffinatissimo “principe” dell’aristocrazia piemontese: un magliaro (definizione estratta da Dagospia)! Lo stesso magliaro che fu l’idolo dei giornalisti italiani per mezzo secolo, il Papi ante litteram, visto che anche lui “cantava canzoni napoletane” alla diciottenne (e chissà da quanto tempo, forse da quando era minorenne) Monica Guerritore, come sapevano in tanti anche se mai nessuno osò scriverlo. “Con la vicenda Corriere ho perso 26 anni di vita - prosegue Rizzoli”. “Mio padre ci è morto d’infarto nel 1983, mia sorella Isabella, la più piccola, si è suicidata nel 1986. Mi hanno incarcerato tre volte e portato in cinque carceri diverse. Porto i segni sulla pelle di quello che mi hanno fatto”.
Ma non state in pensiero, amici miei. Ora arriva Padellaro e sistema tutto, con l’aiuto di Colombo e Travaglio, e a quanto sembra anche Massimo Fini. Cosa ci farà in mezzo a queste scarpe vecchie è un mistero, è ovvio che li lega solo l’odio per Berlusconi. Tuttavia, mentre quella di Fini è un’avversione ideale e culturale, quella dei soliti noti ha il suo nucleo negli interessi di parte, la sponda di De Benedetti e della finanza vampirica italiana ed internazionale, la stessa che sussurrava all’orecchio di Ciampi, Amato e Prodi, e che non vede l’ora di liberarsi di Berlusconi e Tremonti e di quei cafoni dei leghisti. Credo che Massimo Fini durerà poco in questa compagnia di vecchie combattenti del marciapiede, giusto il tempo di farsi censurare qualcosa sull’Afghanistan e sull’Iraq, vista la presenza dei filo-israeliani e filo-americani Colombo e Travaglio. Ciò non di meno attendiamo con trepidazione di poter leggere che il comparto bancario italiano (insieme a tutto quello occidentale) impedisce autentiche indagini per conoscere le vie finanziarie del riciclaggio del mondo della droga. Scopriremo che alcune multinazionali vendono inspiegabilmente medicine cancerogene, che il latte artificiale è dannoso per i nostri bambini, che l’Europa paga la tangente agli USA per non volere autorizzare il commercio di carne agli estrogeni.
A proposito di puttane, puttane di lunga carriera, travestite da verginelle, questi non scriveranno niente di tutto questo, se non nella solita maniera generica, pavida ed alibistica con la quale si sono creati la fama di “Ernesti sparalesti” della verità, senza mai e dico mai scrivere qualcosa contro i veri poteri. D’altronde sono gli stessi cresciuti e pasciuti all’epoca del consociativismo, della spartizione delle tre reti Rai, una alla Chiesa, una ai socialisti ed una ai compagni e compagnucci. A proposito di vecchie zoccole e delle loro notti accanto al fuoco, questi sono gli stessi che si sono scaldati per decenni accanto ai fuochi del clientelismo, delle raccomandazioni, delle lobbie, degli amici degli amici. La loro ennesima, squallida, povera campagna di terz’ordine contro Berlusconi non è degna di passare per battaglia per la libertà. La libertà di stampa in Italia non esisteva prima di Berlusconi e non esisterà dopo. E quando si potrà tornare a scrivere liberamente, non sarà certo per merito loro. A proposito di puttane, quelle di Berlusconi, al cospetto di queste vecchie baldracche, sono delle educande dodicenni che studiano in un collegio di orsoline. (Arianna Editrice)

Il diritto penale non può tollerare...Lodovico Festa

“Il diritto penale non può tollerare un così frequente ricorso ad amnistie” Dice l’Anm alla Stampa (24 settembre) L’Anm non “tollera” più il parlamento. Che si fa? Separiamo le carriere dei deputati dai senatori e questi ultimi li facciamo eleggere dal Csm? (l'Occidentale)

martedì 22 settembre 2009

Gli anti italiani che offendono il lutto di un popolo. Francesca Angeli

Simonetta Salacone colpisce ancora. Ieri niente minuto di silenzio per ricordare i sei giovani soldati morti a Kabul nella scuola romana Iqbal Masih, diretta appunto dalla Salacone, ex Rifondazione comunista, ex Sinistra arcobaleno e per il momento Sinistra e Libertà. Purtroppo la Salacone anche nell’ultima tornata elettorale delle europee non ce l’ha fatta ad arrivare a Strasburgo, dove paradossalmente forse avrebbe fatto meno danni. Ed è dunque rimasta a dirigere la scuola romana dove da anni conduce le sue personali battaglie contro i governi di centrodestra che si sono succeduti negli anni ed in particolare contro i ministri dell’Istruzione. Prima Letizia Moratti ed ora naturalmente Mariastella Gelmini. Battaglie assolutamente legittime se svolte fuori dalle aule scolastiche. Molto più discutibili invece quando vengono coinvolti in prima persona gli alunni dell’istituto che ospita materne ed elementari. Si parla dunque di bambini molto piccoli. Più volte sono state proprio le famiglie, che avevano i figli iscritti alla Iqbal, a segnalare scelte didattiche davvero sconcertanti. All’inizio dello scorso anno scolastico le maestre si presentarono con il lutto al braccio e fuori dalla scuole vennero messe in vendita a 5 euro magliette già pronte con scritte contro la riforma Gelmini. Con i bambini dell’asilo invece di disegnare fiori e casette si preparavano begli striscioni con scritte contro il ministro.
Questa volta però le riforme scolastiche non c’entrano. Ieri, mentre si svolgevano i funerali dei sei parà uccisi in Afghanistan, nella maggioranza delle scuole italiane è stato osservato un minuto di silenzio in ricordo delle vittime dell’attentato. Anche qualche altra scuola (due istituti elementari a Roma oltre ad alcune segnalazioni arrivate dalla Lombardia e dal Veneto, ndr) non ha aderito ma l’istituto diretto dalla Salacone è l’unico che ha tenuto a pubblicizzare questa scelta in polemica con la Gelmini, che aveva diramato una circolare proprio per chiedere che si rispettasse quel minuto di silenzio alle 12 durante i funerali. Un modo semplice per far sentire tutti gli italiani vicini a quelle famiglie. Le motivazioni alla base di questa scelta della Salacone sono tante ma trovarne una credibile è impresa impossibile.
«I bambini della scuole materne ed elementari sono troppo piccoli per discutere di questi temi», sostiene la Salacone. Dunque per la dirigente i bimbi hanno sufficiente senso critico e non sono troppo piccoli per capire il significato delle maestre vestite a lutto contro la riforma il primo giorno di scuola ed indossare magliette con slogan politici nei cortei. Ma sono invece troppo piccoli per condividere un minuto di silenzio con bambini della loro età rimasti orfani.
«La circolare del ministro Gelmini è arrivata alle 11.30 ed in alcune scuole non è stata recapitata», spiega poi la Salacone. Anche qui scusa debole. La richiesta del ministro era già stata ampiamente diffusa domenica scorsa in tutti i notiziari. Molte scuole poi avevano deciso di propria iniziativa di informare i ragazzi su di quanto era accaduto in Afghanistan. Ciascuno nella propria autonomia e libertà poteva fare scelte diverse. Anche discutere dell’inutilità della guerra, volendo. Ignorare quanto è accaduto mentre il resto del Paese condivide uno stesso evento, pure con sentimenti contrastanti, è scelta incomprensibile.
Tra i “nemici” dei lutto nazionale pure Francesco Caruso, portavoce della Rete No Global, che promette «non verserò una lacrima per questi morti». Caruso parla di «ipocrisia intorno alle bare» perchè i primi colpevoli della morte dei parà «siedono in prima fila ai funerali di Stato». Non appena la Gelmini ha ricevuto le segnalazioni sulle scuole che non hanno partecipato al minuto di silenzio ha voluto chiedere «scusa alle famiglie dei nostri soldati». «La missione fondamentale delle scuole è educare alla cittadinanza - dice la Gelmini -. E l’idea che per motivi di polemica politica alcuni docenti e dirigenti scolastici abbiano voluto deliberatamente mancare di rispetto a chi ha dato la propria vita per portare pace e sicurezza nel mondo è una cosa che riempie di amarezza». (il Giornale)

Ora il Neuroparlamento processa il Cavaliere. Marcello Veneziani

Il Neuroparlamento di Bruxelles e Strasburgo discuterà e addirittura voterà una risoluzione proposta dal partito di Di Pietro sulla libertà di stampa in pericolo in Italia perchè Berlusconi ha querelato la Repubblica e l'Unità. Ditemi che sto sbagliando, che ho frainteso. Arrivo a capire che Di Pietro nel suo furore rustico-giudiziario paragoni Berlusconi a Saddam e auspichi la stessa fine; arrivo a capire che per fare ammuina il suo partito italo-talebano investa il Parlamento europeo di una tesi del genere e arrivo persino a capire che un'opposizione di sinistra ormai alla frutta, anzi all'ammazzacaffè, si possa accodare a questa disperata trovata.

Ma non posso pensare che nel Parlamento europeo - e su iniziativa del gruppo che si dice liberale - si prenda in seria considerazione, si discuta e addirittura si metta ai voti una mozione del genere. È una triplice pazzia da ricovero immediato o da interdizione dai pubblici uffici. Dico una triplice pazzia non a caso. La prima follìa è quella di prendere sul serio la tesi che la querela di un presidente del Consiglio dopo una serie di attacchi violentissimi sulla sua vita privata, da cui non è emerso neanche uno straccio di reato da contestargli, possa configurarsi come una minaccia alla libertà di stampa. Non conosco un regime totalitario, autoritario, dispotico, ma anche vagamente paternalistico e poco liberale, che abbia fatto ricorso alla querela per zittire o perseguitare chi si oppone al governo. Che razza di tiranno è uno che ricorre all'arbitrato della magistratura, cioè di un soggetto terzo e di un potere giudiziario, per giunta tutt'altro che compiacente verso di lui, per dirimere una controversia con la stampa?

Mi fa ridere, e poi piangere, solo immaginare Stalin che querela Trotzky anziché farlo massacrare. Ma anche le democrazie più furbe e malcavate usano mezzi più efficaci e meno vistosi per mettere a tacere la stampa d'opposizione: subdoli ricatti agli editori, viveri tagliati, sordina, pressioni di altro tipo. Accadeva anche nella prima Repubblica nostrana e accade in tante democrazie occidentali... La querela è la più ingenua, disarmata e plateale reazione che un potere possa usare contro la stampa. La seconda pazzia è quella di ritenere la querela di Berlusconi un'anomalìa senza precedenti. La nostra Repubblica, dai tempi di De Gasperi a quelli di De Mita, fino al tempo di D'Alema e Prodi, ha visto premier che querelavano giornali e giornalisti.

E in alcuni casi li ha fatti sbattere in galera: pensate al povero Guareschi che aveva dato una robusta mano alla Dc nel '48 e poi finì in galera con l'accusa di aver diffamato il premier Alcide De Gasperi. E nonostante ciò, chi dubita che De Gasperi fosse democratico e liberale? Di azioni legali di politici contro giornalisti è pieno il carnet europeo. Da noi c'è stato persino l'abuso di querele da parte di politici contro la stampa: Di Pietro ne sa qualcosa. Non parliamo poi delle querele dei magistrati alla stampa, quasi sempre vinte dai medesimi, con risarcimento immediato e congruo, avendo il coltello dalla parte del manico.

La terza follìa è l'ingerenza dell'Europarlamento nella vita e nella sovranità di una nazione libera, adulta e democratica, che ha il suo Parlamento, i suoi organi giudiziari, la sua opposizione e la sua stampa d'opposizione. E che ha un tasso di risse e campagne violente contro il governo come nessuno in Europa. È un'offesa a tutti gli italiani, a noi popolo sovrano, alla nostra credibilità nel mondo, ad un paese che ha votato a maggioranza, con votazioni limpide e dall'esito assai netto, per il governo Berlusconi, mandandolo per la terza volta alla guida del paese. È come considerarci immaturi, degni di eurotutela, minorenni e minorati. Una ferita gravissima; verrebbe voglia di rimettere in discussione la nostra permanenza in quel tetro cimitero della democrazia che è il Neuroparlamento. E in questa vigliacca Unione Europea che si vergogna di ricordare la propria carta d'identità e di riconoscere che è nata dalla civiltà cristiana, greca e romana; ma non si vergogna di diffamare un suo socio fondatore, il popolo italiano, accusandolo di aver voluto alla guida del paese un dittatore. Il tutto per un paio di querele con richiesta di risarcimento danni.

Leggevo ieri, con divertito stupore, un libro-intervista del professore comunista Asor Rosa che a costo di passare per un revisionista, riabilita il fascismo in rapporto al berlusconismo: «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo». E leggevo che un giurista letterato come Franco Cordero, sosteneva la stessa cosa su la Repubblica giorni fa. Tutto ciò mentre pubblicano liberamente i loro testi, tutti ne parlano e nessuno osa neanche pensare di scalfire la loro libertà di diffamare con quelle gravi accuse il capo del governo. Ma la cosa che più disgusta è l'oltraggio che questi intellettuali e questi europarlamentari compiono verso coloro che hanno davvero perso la vita e la libertà per difendere le loro idee. Vittime di regimi totalitari, a cominciare e a finire dal comunismo (perchè il comunismo precede l'esperienza del fascismo e del nazismo e sopravvive per svariati decenni alla loro morte); ma più vastamente a tutti coloro che nel corso dei secoli hanno patito davvero la mancanza di libertà di espressione e sono stati perseguitati. È un'offesa far passare per martiri questi giornalisti che proseguono indisturbati il loro lavoro, compresi gli insulti. Non confondete vere e tragiche vittime con questo libero e gratuito tiro al bersaglio.

Questa gente che denuncia un'inesistente perdita della libertà in Italia è divisa tra rozzi giacobini aglio-oglio-e-ghigliottina che ignorano la storia e non sanno cosa voglia davvero dire perdere la libertà; e rancidi intellettuali, magari comunisti e teorici non pentiti della violenza, in preda a deliri maniaco-depressivi. Gente che ha perso il senso della misura e della realtà, della storia e della verità. Sarà poi divertente spiegare all'Europarlamento che una querela fatta a un giornale dal presidente Berlusconi è una minaccia alla libertà mentre una querela fatta a un giornale dal presidente Fini è una difesa della libertà. Si dovrà ricorrere ad Orwell e alla neolingua per spiegare la differenza abissale tra due cose identiche. Chiamate un'ambulanza; questa non è un'Europa normale. L'ideologia è morta ma i suoi fetidi miasmi ammorbano teste, testate e partiti. (il Giornale)

lunedì 21 settembre 2009

Appello de L'Espresso contro il commissario Calabresi. da Wikipedia

Il 13 giugno 1971 il settimanale L'Espresso pubblicò un articolo di Camilla Cederna, intitolato "Colpi di Scena e Colpi di Karatè. Gli Ultimi Incredibili Sviluppi del Caso Pinelli". L'anarchico Giuseppe Pinelli, ferroviere, trattenuto in questura di Milano per accertamenti in seguito alla strage di piazza Fontana, morì dopo essere caduto da una finestra. Il titolo dell'articolo fa riferimento all'ipotesi che Pinelli avesse subito un colpo di karaté all'interno della Questura di Milano, dove era sotto la responsabilità del commissario Luigi Calabresi, prima di cadere dalla finestra, facendo anche sospettare che potesse essere a quel momento già gravemente ferito.

A margine di questo articolo c'era un appello, presentato come una lettera aperta alla pubblica sottoscrizione e firmato da dieci persone [1]. Questo appello ricevette un numero crescente di adesioni nei giorni seguenti e fu ripubblicato nei due numeri successivi. In calce alla copia pubblicata il 27 giugno si contato 757 firme.

Testo dell'appello
Segue il testo della lettera aperta alla pubblica sottoscrizione.

« Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.

Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l'indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.

Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini. »
(L'Espresso, 13 giugno 1971, pag. 8)

Elenco dei firmatari
Segue l'elenco dei 757 sottoscrittori in ordine alfabetico.

A
Ezio Adami
Mario Agatoni
Clelia Agnini
Nando Agnini
Enzo Enriques Agnoletti
Giorgio Agosti
Alberto Ajello
Nello Ajello
Gianmario Albani
Vando Aldovrandi
Elio Aloisio
Marina Altichieri
Anselmo Amadigi
Laura Ambesi
Giorgio Amendola
Sergio Amidei
Luigi Anderlini
Antonio Andreini
Franco Antonicelli
Filippo Arcuri
Giulio Carlo Argan
Giorgio Ariorio
Annamaria Arisi
Anna Arnati
Aldo Assetta
Gae Aulenti
Orietta Avernati
Ferruccio Azzani
B
Giorgio Backaus
Franco Baiello
Anna Baldazzi
Nanni Balestrini
Aurelio Balich
Carlo Ballicu
Aldo Ballo
Pietro Banas
Julja Banfi
Arialdo Banfi
Marcello Baraghini
Mario Baratto
Andrea Barbato
Mario Bardella
Giovanna Bartesaghi Campanari
Ada Bartolotti
Mirella Bartolotti
Carla Bartolucci
Franco Basaglia
Vittorio Basaglia
Andrea Basili
Eugenia Bassani
Aldo Bassetti
Marisa Bassi
Emanuele Battain
Giovanni Battigi
Betty Bavastro
Renato Bazzoni
Marco Bellocchio
Piergiorgio Bellocchio
Aroldo Benini
Giorgio Benvenuto
Marino Berengo
Gualtiero Bertelli
Giorgio Bertemo
Alberto Berti
Bernardo Bertolucci
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Laura Betti
Alberto Bevilacqua
Bruno Bianchi
Luciano Bianciardi
Mario Biason
Walter Binni
Renzo Biondo
Mercedes Bo
Norberto Bobbio
Giorgio Bocca
Gaetano Boccafine
Cini Boeri
Renato Boeri
Rodolfo Bollini
Pietro Bolognesi
Ermanna Bombonati
Laura Bonagiunti
Agostino Bonalumi
Angela Bonanomi
Giuseppe Bonazzi
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Luciana Bonetti
Arrigo Bongiorno
Vittorio Borachia
Giuliana Borda
Giampiero Borella
Angelo Borghi
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Sergio Borsi
Carlo Bosoni
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Aldo Braibanti
Rina Bramè in Zanetti
Tinto Brass
Claudio Brazzola
Nerina Breccia
Maria Luisa Brenner
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Giampaolo Bultrini
C
Giorgio Cabibbe
Corrado Cagli
Mauro Calamandrei
Alba Cella Calamida
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Valeria Calzeroni
Giovanna Campi
Nino Cannata
Michele Canonica
Teodolinda Caorlin
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D
Roberto D'Agostino
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E
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Franco Ermini
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F
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Mario Fabretto
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Alberto Fuga
Mario Fumero
Maria Grazia Furlani Marchi
Floriana Fusco
G
Benedetta Galassi Beria
Giancarlo Galassi Beria
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Virginia Galimberti
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Severino Gambato
Lucio Gambi
Renato Gambier
Antonio Gambino
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Mariella Genta
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Anna Ghiretti Magaldi
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Enzo Golino
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Vittorio Gorresio
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Romano Stefano Granata
Paola Grano
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Carlo Gregoretti
Ugo Gregoretti
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Laura Grisi
Laura Griziotti
Anna Gualtieri
Franca Gualtieri
Luciano Guardigli
Pierluciano Guardigli
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Salvatore Guglielmino
Armanda Guiducci
Roberto Guiducci
Renato Guttuso
H
Margherita Hack
I
Ulrica Imi
Delfino Insolera
Gabriele Invernizzi
Renato Izozzi
J
Alberto Jacometti
Lino Jannuzzi
Emilio Jona
L
Pietro La Gioiosa
Vittorio La Gioiosa
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Oliviero La Stella
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Giuliana Lattes
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M
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Elio Maraone
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Salvatore Morvillo
Franco Mulas
Mimi Mulas
Adriana Mulassano
Ezio Muraro
Paolo Murialdi
Cesare Musatti
Mariuccia Musazzi
Sergio Muscetta
Carlo Mussa Ivaldi
Franca Mussa Ivaldi
N
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Grazia Neri
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Luigi Nono
Mimma Noriglia
Guido Nozzoli
O
Luigi Odone
Annamaria Olivi
Pietro Omodeo
Giulio Onici
Fabrizio Onofri
Valentino Orsini
Silvana Ottieri
P
Giulio Pace
Enzo Paci
Luciano Pacino
Zulma Paggi
Walter Pagliero
Giancarlo Pajetta
Aldo Paladini
Giannantonio Paladini
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Salvatore Palladino
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Silvia Parmeggiani Scatturin
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Giordano Pascali
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Ernesto Pasquali
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Baldo Pellegrini
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Andrea Penso
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Maria Pericoli
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Q
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R
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S
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U
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Z
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Antonio Zanuso
Francesco Zanuso
Marco Zanuso
Ornella Zanuso
Domenico Zappettini
Marvi Zappettini
Cesare Zavattini
Giorgio Zecchi
Sandro Zen
Alfredo Zennaro
Bruno Zevi
Alberto Zillocchi
Carla Zillocchi
Mario Zoppelli
Fulvio Zoppi
Nicoletta Zoppi
Giovan Battista Zorzoli
(L'Espresso, 27 giugno 1971, pag. 6)