lunedì 26 gennaio 2015

Proibizione & Superstizione. Davide Giacalone


Lesti son lesti, quando si tratta di proibire. Garantendo all’Italia un ulteriore elemento d’arretratezza e violazione del diritto dei cittadini. Quando il ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, tornò trionfante annunciando di avere indotto i colleghi europei a stabilire che, circa le coltivazioni Ogm, ciascun Paese avrebbe deciso per i fatti propri, scrivemmo subito che trattavasi dell’apoteosi dell’antieuropeismo, nonché la premessa, dalle nostre parti, per la proibizione oscurantista. E’ puntualmente, nonché malauguratamente, accaduto.

Si deve ragionare su basi razionali, senza accecarsi e farsi accecare da paure e stregonerie mediatiche. La prima domanda è: la coltivazione degli Organismi geneticamente modificati può arrecare danni collaterali o, addirittura, comportare pericoli per la collettività? La risposta è: no. Non è “forse”, è “no”. Non c’è nessuna evidenza scientifica di danni o pericoli. Questo non è un buon motivo per metterci tutti a coltivare Ogm, perché non basta una cosa non sia pericolosa perché sia anche conveniente e utile. Ma è un buon motivo per non proibirla. Oggi, e per la precisione dal luglio del 2013, un agricoltore italiano è meno libero di un agricoltore spagnolo. Ciò vuole dire che un cittadino italiano è meno libero di un cittadino spagnolo. Tanto è evidente la violazione dei diritti, collettivi e individuali, che non hanno il coraggio né la base giuridica per proibire definitivamente quel che altrove non è solo consentito, ma praticato, e allora ricorrono a un trucco: la proroga della proibizione temporanea. Un trucco che serve a evitare che un cittadino italiano si rivolga alla Corte di giustizia e ottenga la sicura condanna dello Stato.

Perché proibiscono? Perché, dopo avere in tutti i possibili modi tassato il settore dell’agricoltura, cedono alla pressione corporativa di organizzazioni che pensano, in questo modo, di tutelare le coltivazioni tradizionali. Tanto è vero che parlano di rispetto dei sapori e dei profumi della nostra tradizione. Il che è comico assai, visto che gli Ogm che taluni pensavano di coltivare erano mais, con cui far mangiare gli animali. Negli allevamenti italiani, del resto, il mais dei mangimi è per la quasi totalità importato e Ogm. E dato che si è quel che si mangia: loro mangiano Ogm e noi mangiamo loro, o beviamo il loro latte. A qualcuno sono spuntate le branchie?

Oltre al danno per il diritto e i diritti, oltre a quello che subiscono gli agricoltori che avrebbero voluto coltivare (e alcuni, in Friuli, già annunciano che lo faranno ugualmente), c’è anche il danno per la ricerca scientifica. Se c’è un problema, sicuramente legato agli Ogm, è che importando le sementi si dipende da chi le ha prodotte (Monsanto, il più delle volte). Poi c’è la fastidiosa cantilena delle lamentazioni per i nostri cervelli che fuggono all’estero. Ebbene, ma come si può pensare di non dipendere dalle multinazionali dell’Ogm, e come si può credere che i ricercatori restino in Italia, se qui è proibito fare quel che altrove sono premiati e pagati per realizzare? Dentro il valore di quelle multinazionali c’è anche il peso dei nostri cervelli che hanno portato le loro capacità e scoperte dove non fosse proibito utilizzarle. Quindi, anche in questo caso, il problema non sono i cervelli che vanno via, ma quelli che rimangono e non funzionano.

Uno speciale ringraziamento, allora, ai ministri dell’ambiente, dell’agricoltura e della sanità, che ci hanno conquistato, per altri diciotto mesi, uno spazio d’illibertà, povertà e superstizione.

Pubblicato da Libero

martedì 13 gennaio 2015

Bonino, la lotta come missione «Combatterò anche il tumore». Cristiano Gatti



Sarebbe il presidente ideale: non perché donna, attributo che non aggiunge e non toglie nulla a un politico, ma lo sarebbe semplicemente perché è un'ottima persona.
Nel mucchio del generone romano, certo una delle migliori. Lo sarebbe, ma il condizionale non dipende (più) dagli equilibrismi cervellotici, dalle manovre sottobanco, dagli intrighi e dai veti incrociati, bensì da un impedimento molto più insormontabile e carogna: mentre parte la battaglia per Quirinale, Emma Bonino comincia la sua personalissima battaglia contro il cancro.

In questi casi bisogna parlare di annuncio choc. Lo è. Secondo uno stile che si è fatto apprezzare negli anni, però, nessun mistero coltivato dietro lo schermo della privacy e nessun comunicato ufficiale al retrogusto burocratichese: la Bonino racconta la nuova storia della sua vita, senza scivolare in dettagli pietosi e strappalacrime, direttamente da Radio Radicale , la sua seconda casa. Solo una gran voglia di piangere, trattenendosi a fatica. Ma con enorme forza, la solita. «Da controlli di routine è emerso che ho il cancro ai polmoni - dice in diretta - Dovrò ridurre la mia attività, ma non ho intenzione di interromperla, perché da una passione politica non ci si dimette».

È una notizia dannatamente brutta, per tutta la nazione. Non bisogna essere radicali da un'eternità per avere comunque una buona opinione della Bonino. In questi decenni di paludi varie, non è mai finita nello squallore. Non è santa e non è perfetta, altro che. Ha condotto anche lei le sue battaglie un po' così, opinabili e discutibili. Ma è una delle poche ad avere sempre messo davanti la coerenza ideale ai bassi istinti di bottega, il che è tutto dire nell'ambientino frequentato. Una pasionaria dell'intelligenza, potremmo tranquillamente dire. Una donna come si deve, lontana dai pregiudizi, dai conformismi, una donna che magari non è il massimo ritrovarsi tutte le sere al rientro, pronta con la lista delle mancanze e delle negligenze, pronta a farti una testa così finché non ti decidi a capire, ma una donna che non ha mai assunto l'aria della suffragetta acida, della Giovanna D'Arco saccente, soprattutto una donna che non ha mai provato a fare l'uomo.

Adesso che si ritrova questa nuova belva in corpo, ha tutta l'aria di volerle rendere la vita difficile. Va bene, sempre a fumare come una turca e questo è il risultato, si sentiranno di dire i pasdaran del salutismo spinto, come se non sapessimo che comunque la belva si ritaglia spesso la libidine di aggredire anche chi non fuma, non beve, non fa nulla di nulla. Ma ha solo portato il primo colpo, questa fetentissima belva. Emma, come ci abitueremo tutti a chiamarla, è comunque pronta a rispondere senza paura. Ricorda già la Fallaci, nei toni e nei modi. L'aspetta la cayenna della chemio, le fatiche, le nausee e le spossatezze del ben noto protocollo anticancro, ma in diretta passa solo dignità. Dignità e coraggio. Basta sentirle, quanto sono belle le sue parole: «A tutti coloro che in Italia e altrove affrontano questa o altre prove, voglio dire così: dobbiamo solamente pensare che siamo persone chiamate ad affrontare una sfida. Insomma, io non sono il mio tumore e voi neppure siete la vostra malattia». Non è una sfida qualunque, è la madre di tutte le sfide: comunque una sfida da raccogliere e da combattere senza tremori e titubanze. È proprio ciò che pensano istintivamente gli indomiti lottatori della vita, quelli capaci di sopportare il peso dell'attacco e di non lasciarsi piegare subito, al primo ghigno malvagio del nemico. Ci vuole molta forza, non tutti sono tenuti ad averla. Si può morire di paura, prima ancora che di cancro. È umanissimo. Ma Emma conferma d'essere di roccia: se il cancro cercava rogne, ha trovato pane per i suoi denti. Toccante, quel suo modo di guardarlo dritto negli occhi, senza genuflettersi, incoraggiando i compagni di battaglia: «Noi non siamo la malattia. Noi dobbiamo sforzarci di essere persone e di voler vivere liberi fino alla fine». Già era un bel presidente di suo. Adesso lo sarebbe ancora di più. Senza fretta, cara Emma, amica degli italiani: prenditi tutto il tempo, ci sarà una prossima volta.

(il Giornale)

 

lunedì 12 gennaio 2015

Guerre islamiche. Davide Giacalone


Siamo noi ad avere vinto, senza che vi sia alcuna possibilità di dominazione islamica in Europa, con conseguente sottomissione della nostra civiltà. Che non è solo vincente, ma superiore perché fondata sulla laicità dello Stato. E se è bene rifuggire dalle guerre di religione, che nel nostro continente richiamano carneficine prodotte all’interno del mondo cristiano, è meglio rendersi conto che agli scontri di civiltà religiosa non ci si può sottrarre, riguardando tutti: credenti in fedi diverse e non credenti. Senza commettere l’errore di identificare l’islam con il fondamentalismo. Due concetti contro corrente, lo capisco. Ma anche due pilastri irrinunciabili, per non perdere e perdersi.

Qualcuno parla di guerra, che sarebbe già in corso. Ma a chi la facciamo? Ad Ahmed Merabet? Francese di origine algerina, musulmano. Ucciso a terra, vigliaccamente. Se guerra è, Merabet ha combattuto con noi. Quindi si deve distinguere. Quella roba che hanno chiamato “islamofobia” altro non è che una caduta di fiducia in noi stessi. Se la recuperassimo in pieno ci accorgeremmo che allo scontro di civiltà religiosa abbiamo interesse a partecipare. Senza per questo doverci convertire ad alcunché. E’ giusto chiedere ai mussulmani che non vivono la fede come dominanza su altri, singoli e istituzioni, all’interno o fuori dal loro Paese, di condannare il terrorismo fondamentalista. Ma è poi un errore non offrire il megafono a quanti lo fanno. Ed è errore ancora più grave considerare i peggiori fra loro come i più coerenti fra i fedeli. Lo si commise anche nella cristianità, pagandolo a caro prezzo. Invece abbiamo interesse a sostenere quanti indicano negli aviatori delle torri gemelle, nei suicidi che si fanno esplodere in Israele, negli assassini di Parigi, dei bestemmiatori di Allah e di Maometto.

Sono mussulmani i sunniti, come lo sono gli sciiti. Come lo sono i wahabiti (sunniti). Io, laico europeo, non sono chiamato a discernere, fra loro, il vero dal falso, perché questa è faccenda religiosa, che già li divide da secoli. Io sono chiamato a conversare con chi abita, ammette e condivide lo Stato laico e ad avversare chi pretende di piegarlo ai propri pregiudizi, considerando inaccettabile e blasfema la sua superiorità. Per far questo, cui non posso e non devo rinunciare, devo saper distinguere. I jihadisti di Boko Haram sono miei nemici, come le sono dei musulmani che rimasero e rimangono tali senza nulla concedere al fondamentalismo. Accadde e accade in Egitto, in Turchia, altrove. Le armi sono strumenti di potere, non di conversione, e si combattono con le armi.

Con questi fuochi abbiamo scherzato troppo a lungo, negandoli o sentendoci furbi nell’alimentarli. I francesi, come tutti noi europei, riflettano sulle castronerie dette durante le “primavere arabe”, sull’errore commesso in Libia, prima ancora sull’avere accudito Khomeini manco fosse un martire della libertà. Distinguere serve anche a colpire. Prima.

Sarebbe lungo, interessante ma diverso, il discorso sulla natura dell’islam. Ma quel che interessa è che la fede deve restare libera nel mondo libero, mentre la fede che comporta coercizione o soppressione dell’infedele è contro l’ordinamento civile, quindi qui degna di repressione, non di comprensione.

Il nostro non è solo il mondo in cui si possono pubblicare libri, articoli e vignette che altri ritengono blasfeme (il che capita per ogni sensibilità religiosa). Questo è solo un aspetto, sebbene importante, della realtà. Il nostro è il mondo in cui si ha il diritto di criticare quelle pubblicazioni, come tutte. E se le si ritiene oltraggiose oltre il tollerabile ci si può rivolgere a un giudice, chiedendo che ne siano puniti gli autori. Le due cose assieme ci rendono superiori. Lo Stato laico e la separazione della morale civile da quella religiosa rendono possibile la convivenza. Tali conquiste non solo non escludono i conflitti (e gli errori), ma esplicitamente li prevedono. Mancanti di verità assolute, quindi di ottusità dottrinarie, procediamo per approssimazioni. E’ bellissimo e fortissimo. Può costarci dolore, può dar luogo a scontri accesi, ma preserva il bene più grande: la libertà individuale.

Può la nostra civiltà resistere e persistere ove abitata anche da mussulmani? Non solo può, ma deve. Ove non lo volesse, ove lo rifiutasse, ne uscirebbe annientata. Può la civiltà della tolleranza tollerare gli intolleranti? No, non può, perché accetterebbe di negare sé stessa. Ma non toglie loro la parola, toglie loro le armi. E non in ragione di quel che credono, ma in ragione delle leggi. Che sono morale approssimativa e in continua trasformazione, ma per quel che sono se ne esige il rispetto. Chi non le osserva va fuori dal nostro mondo o dentro le nostre galere. Idem per chi non rispetta la libertà altrui, siano pure figli o figlie. Se ci combatte armato, armati lo eliminiamo.

Pubblicato da Libero