venerdì 28 marzo 2014

Renzi è come Matrix: parla tanto ma non esiste. Giampaolo Rossi

Matteo Renzi non esiste. Tutto ciò che noi vediamo di lui in tv o leggiamo sui giornali italiani, è solo una proiezione del nostro inconscio collettivo.

Renzi è come Matrix, una neuro simulazione interattiva; una finzione digitale che percepiamo come reale.

Ha invaso i media, i social network, è costruita a tavolino da fabbricatori di immagini e dispensatori di sogni ma in realtà, nel mondo reale, di lui non c’è traccia: è come un cartoon della Disney.
 
Basta vedere cosa è successo in occasione della visita di Obama: i media italiani ci hanno invaso di immagini e parole per descrivere lo storico incontro tra il capo della più grande democrazia del mondo e il premier italiano; lo hanno descritto attimo per attimo, svelandoci i retroscena più umani e divertenti, il feeling di sorrisi e ammiccamenti che li ha legati; hanno contato quante pacche sulle spalle i due si sono dati, hanno analizzato la precisa gradazione di colore del vestito che li accomunava, chiaro segno di un destino condiviso; hanno descritto le grandi strategie concordate.
 
Poi, una volta usciti da questa proiezione, leggiamo i giornali americani e di Matteo Renzi non c’è traccia, il suo incontro con Obama non è pervenuto ed il premier italiano è al massimo una citazione tra la visita al Colosseo del Presidente americano e i commenti su come i romani sopportino il traffico caotico. Per la stampa Usa, Obama è venuto in Italia ad incontrare Papa Francesco; addirittura l’inviato del New York Times al seguito non scrive da Roma ma da “Vatican City”, perché per gli americani non esiste una capitale della Repubblica Italiana ma solo la Città Eterna, sede temporale della Chiesa Cattolica e l’unico leader sul suolo italico veste di bianco, parla argentino e viene chiamato Holy Father (Santo Padre). Persino nel resoconto video della Casa Bianca il premier italiano non compare neanche come comparsa.
 
Ecco perché sorge il sospetto che Renzi non esista; o se esiste davvero, che i due non si siano mai visti e che quelle foto Renzi le abbia fatte con la sagoma di cartone di Obama che l’ambasciata Usa ha utilizzato nei giorni scorsi per promuovere l’arrivo del Presidente americano.
 
Il problema in realtà è politico. L’Italia di Renzi sbruffona e megalomane che si celebra su twitter, si sbrodola da Fazio e dalla Bignardi e si ride addosso di battute toscane, all’estero è percepita meno che nulla; per ora, è scomparsa dai radar della politica internazionale. Sarà che in America la democrazia è una cosa seria, e un leader salito al potere senza consenso popolare e con manovre spudorate, in genere non gode di grande credibilità, a meno che non sia un esecutore di tecnocrati e di banchieri (come lo era Monti).
 
Sono lontani i tempi in cui un premier italiano si recava negli Usa e veniva accolto dall’intero Congresso americano con una standing ovation di 5 minuti, mai riservata ad un leader straniero (per la cronaca quel premier si chiamava Silvio Berlusconi).
 
Oggi Matteo il rottamatore non è ancora pervenuto nella percezione dell’opinione pubblica internazionale. L’egocentrismo non è una qualità in politica estera.
 
Renzi l’americano si è convinto di essere l’Obama italiano. In realtà sembra più la versione toscana del mitico Nando Mericoni, il personaggio che consacrò Alberto Sordi: altro che “yes we can”; piuttosto “Americà facce Tarzan!”.
 
(il Giornale)
 
 

Il Cav. e i rompicoglioni. Giuliano Ferrara


C’è da domandarsi, e me lo domando, e ce lo domandiamo: perché rompono tanto i coglioni a Berlusconi? Maramaldeggiano secondo il vecchio costume codardo del giornalismo italiano, e spettegolano ogni giorno, con poca fantasia ma spietatamente: è out, finisce agli arresti domiciliari, non potrà più comunicare, non è più cavaliere, il partito è distrutto, la dinasty di famiglia lo imbriglia, Barbara è eager, vuole tutto, Marina non ci sta, Pier Silvio rilutta e mugugna, la fidanzata Pascale s’impiccia, Scajola minaccia, Cosentino minaccia, Verdini se ne va, sono pronti nuovi gruppi parlamentari, non decide abbagliato dalle sue grane giudiziarie, non ci sta con la testa, è fuori dal Senato, il cerchio magico si chiude a riccio e lo isola sotto l’inflessibile governo della badante Maria Rosaria Rossi, è senza passaporto e non può fare il popolare europeo, non si può candidare, i sondaggi lo danno intorno al 20 per cento, più sotto che sopra, è stretto nella tenaglia tra Grillo e Renzi, siamo ormai alle testimonianze di Bossi, provocato, che strologa sul futuro di un supersconfitto, lui sì che se ne intende, e poi carinamente dice “ora lasciatemi in pace, voglio fumare”.
Il Cav. (ora l’ex Cav. per i vecchi ruffiani della stampa dattilografa) è sempre stato impresentabile e inaccettabile. Per motivi diversi. Ha un vita privata incompatibile. Ha una vita pubblica disseminata di gaffe. Fa le corna, fa cucù, parla in modo spigliato di Mussolini, oltraggia la memoria (che secondo il bel romanzo su don Ciotti di Luca Rastello è, dico la memoria specie se condivisa ed esornativa, uno degli ultimi rifugi delle canaglie degli idolatri del Bene Sommo). Inoltre non ha scrupoli, è pregiudicato, è Caimano, è amico di Putin l’Orrendo Tirannico, è sempre in agguato, come forza reazionaria, per sbaragliare la Repubblica, smontare il Quirinale che odia eccetera.

I fatti dicono che Berlusconi è l’ultimo campione dell’autogoverno democratico, l’ultimo capo di un esecutivo voluto a mani basse dall’elettorato. In seguito a trame varie, costellate da suoi errori, in un contesto di perdita della sovranità nazionale, fu dissellato nel novembre del 2011, ma la caduta del cavaliere avvenne nelle forme blande di sue dimissioni, nel quadro di un accordo con l’allora capo dell’opposizione, il Bersani dalla pompa di benzina, benedetto e ispirato da Giorgio Napolitano. Tra poco saranno tre anni: in questi tre anni Berlusconi ha appoggiato un governo di emergenza tecnocratica che ha fatto la riforma delle pensioni e poi si è perso nei meandri della vanità e di una infelice discesa in politica del suo capo, il professor Mario Monti; ha sbloccato lo stallo postelettorale, dopo una clamorosa rimonta che ha impedito il formarsi in questa legislatura di una maggioranza di sinistra fondata su un premio di maggioranza incostituzionale secondo la tardiva ma chiara decisione della Corte, e lo ha sbloccato proponendo e ottenendo la rielezione del capo dello stato, una prima assoluta, e la formazione di un governo di larga coalizione presieduto dal nipote del suo Cardinal nepote Gianni Letta; ha fronteggiato con stile una condanna definitiva ratificata dalla famiglia giudiziaria del dottor Esposito, che famiglia!, per un reato di quelli che adesso, considerando il processo a Dolce & Gabbana per maneggi fiscali all’estero, passa per essere la capacità di pensare in grande di un imprenditore (il procuratore generale dixit); ha subìto con un rapido e indolore passaggio all’opposizione, costruttiva, una piccola secessione ministeriale senza conseguenze, che rientrerà e non ha basi politiche serie; ha ricostruito il suo ruolo di player e pater patriae avviando Renzi a Palazzo Chigi, un cambio generazionale della Madonna, attraverso la stipula di un accordo sulla riforma elettorale e sulle riforme istituzionali che ha spiazzato tutti, dal Nipotissimo floscio e furbo ai poveri profeti dell’Antipolitica comica all’establishment pigro e sornione, consentendo al paese di riprendersi un poco in sintonia con un attenuarsi della crisi. E per il futuro vedremo.

Risultato provvisorio: non è il Caimano, non si sono visti i fuochi, non tira aria di tempesta masaniellesca, c’è un uomo di stato responsabile che non molla e tiene insieme l’altro polo della democrazia compiuta, il centrodestra, consolidando il profilo istituzionale di un paese tanto scombiccherato. Ecco. Questo è lo scandalo che impone ai bru bru della stampa e della televisione più faziose e penose del mondo di maramaldeggiare e spettegolare ad libitum.


(il Foglio)

giovedì 27 marzo 2014

L'Orlando bocciato. Davide Giacalone


Un ministro italiano è andato a fare richieste precise in una sede europea. Auspico siano rigettate. Il ministro è quello della giustizia, Andrea Orlando. Il tema è quello delle carceri sovraffollate. La sede non è l’Unione europea, ma il Consiglio d’Europa, per la precisione la Corte Europea Diritti dell’Uomo. Ci hanno già condannati. Spero confermino la condanna. Smettiamola di prenderci in giro, evitiamo di provare a prendere in giro gli altri, finiamola di fare gli incivili e affrontiamo il problema vero, che è quello della malagiustizia. Le carceri sono “solo” una conseguenza.

Nel gennaio del 2013, giustamente, la Cedu condannò l’Italia a risarcire sette detenuti, che si erano trovati ad avere a disposizione meno di tre metri quadrati a testa. Condizioni considerate illegali negli allevamenti di bestiame, figuriamoci nel trattamento di umani. Siamo arrivati al punto che un giudice inglese rifiuta un’estradizione in Italia perché il detenuto andrebbe incontro a trattamenti disumani. La stessa Cedu, sapendo che non si trattava di casi isolati, ci diede tempo fino al prossimo 28 maggio, per rimediare. I rimedi fin qui approntati, ripetutamente denominati “svuota carceri”, adottati dai governi Monti e Letta, sono inaccettabili e tutti incentrati sugli sconti di pena. Il piano di Orlando è in coerenza con questa vergogna, sicché propone: a. le cause oggi pendenti a Strasburgo siano riassorbite in Italia; b. per chi è stato detenuto e non lo è più ci sia un risarcimento che va dai 10 ai 20 euro per ogni giorno scontato in quelle condizioni; c. per chi è ancora detenuto si faccia un ulteriore sconto, pari al 20% della pena residua. Tre proposte, tre errori.

Il trucco di riportare le cause di Strasburgo in Italia lo abbiamo già sperimentato nel 2001, quando fu approvata la legge Pinto. Con quella erano le Corti d’appello che avrebbero dovuto decidere per la giustizia negata, dovuta all’eccessiva durata dei procedimenti. Anche allora scrissi contro, prevedendo che il trucco avrebbe provocato un ulteriore allungamento dei tempi, oltre che una beffa per i danneggiati. E’ andata così. Ero (e sono) favorevole ai ricorsi a Strasburgo, che provai a incentivare e facilitare pubblicando un manuale su come potevano e dovevano essere fatti, così come personalmente usai la legge Pinto, vincendo la causa e ottenendo risarcimento per le ingiustizie subite. Ma lo scopo dei ricorsi europei doveva essere quello di spingere a riformare la moribonda giustizia italiana, mentre la legge Pinto voleva solo riportare il coma nei confini nazionali. Orlando, ora, propone la stessa cosa. Stesso trucco, stesso errore.

Secondo: le cause pendenti a Strasburgo (per questa specifica ragione) sono 3000, il che comporta una spesa che va da 30 a 60.000 euro al giorno, quasi 22 milioni in un anno. Senza contare che portando la giurisdizione in Italia quelle cause aumentano (come è già successo con la Pinto). Soldi che non pagano i responsabili, ma i cittadini. Un chirurgo che ti macella, per colpa o dolo, paga il risarcimento. In diversi casi sono stati allontanati dalle sale operatorie. Per i detenuti, invece, pagano i cittadini e i responsabili restano al loro posto.

Terzo: se si accede allo sconto di pena, già recentemente diminuita con decreto legge, non solo si fa marameo alla certezza del diritto e un gran regalo ai delinquenti, ma si commette la più incredibile delle ingiustizie, perché, come capitò con l’indulto (altra legge contro cui scrissi, prevedendo che non avrebbe risolto nulla, come è stato) ne beneficiano i condannati, quindi i colpevoli, e ne restano esclusi gli innocenti in custodia cautelare o in attesa di giudizio. Una fragorosa pernacchia al più elementare senso del diritto.

Il problema delle carceri esiste (sempre meritoria la lunga battaglia radicale), ma non si risolve in questo modo. Prima di tutto si affronta il tema del 40% dei detenuti, che non sono condannati e non scontano la pena. E già con quelli sparisce il sovraffollamento. Poi si rivede l’applicazione della custodia cautelare, che nella metà dei casi colpisce cittadini che non saranno condannati. Quindi si introduce la (vera) responsabilità dei magistrati. E, a seguire, si riforma la giustizia in modo che i suoi tempi non siano il trionfo dell’ingiustizia. A quel punto, se si deve spurgare il bubbone, si faccia anche l’amnistia, che è provvedimento ingiusto, ma utile. Il legame fra riforma e clemenza deve essere strettissimo, altrimenti si generano mostri che non risolvono il problema, ma si limitano a rinviarlo per poi ritrovarselo sempre più grosso e sempre meno risolvibile. Per queste ragioni, spero che le richieste del governo italiano siano respinte. Con sdegno.

Pubblicato da Libero

giovedì 20 marzo 2014

L'ipocrisia del Cavaliere Augias. Giampaolo Rossi


Corrado Augias è stato netto e perentorio: dal salottino tv di Daria Bignardi ha dichiarato, con il suo solito stile british con il quale dissimula le prediche, che “Berlusconi è un interdetto e un condannato quindi non può tenersi il titolo di Cavaliere”. Augias è uomo di grande morale, anzi di grande moralismo; è da sempre un fustigatore del berlusconismo, che osserva con la solita superiorità antropologica degli intellettuali radical-chic. Da moralista dell’Italia migliore, a Corrado Augias non basta che Berlusconi si sia autosospeso: vuole che gli venga tolto con ignominia quel titolo di Cavaliere del Lavoro che si è guadagnato grazie alla sua straordinaria attività di imprenditore di successo.

D’altro canto anche Corrado Augias è un Cavaliere; per la precisione è Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, onorificenza e titolo che condivide con un altro illustre Cavaliere al Merito: tale Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito. Eh sì, perché Augias, che si scandalizza perché Berlusconi è Cavaliere, non si scandalizza del fatto che l’onorificenza di cui lui si fregia sia la stessa conferita, nel 1969, ad uno dei più feroci dittatori comunisti della storia, responsabile delle foibe e della pulizia etnica di decine di migliaia di italiani in Istria e Dalmazia.

Ora, la prima questione è capire come sia possibile che la Repubblica Italiana abbia conferito la sua più importante onorificenza ad un massacratore di italiani. La seconda questione è che, come tutti i moralisti, Augias tende a moralizzare la vita degli altri per non affrontare la moralità della propria. Nell’intervista alla Bignardi lui stesso ha cercato di banalizzare, ridendoci sopra, una storia emersa quattro anni fa da un interessantissimo libro del giornalista d’inchiesta Antonio Selvatici e costruito studiando scrupolosamente gli archivi della StB (la polizia segreta cecoslovacca); la storia riguarda un intero dossier, ritrovato negli archivi, dedicato all’informatore italiano Corrado Augias, nome in codice “Donat”.
In 135 pagine si elencavano gli incontri, i rapporti, i resoconti che tra il 1963 ed il 1967 interessavano il giovane Augias, allora funzionario Rai.

Ovviamente all’inizio Augias ha negato, annunciando querele mai presentate e dovendo poi ammettere che quei contatti c’erano stati sotto forma di “blande frequentazioni”. Rimane sorprendente la capacità camaleontica di molti intellettuali e corposi pensatori della sinistra italiana di nascondere la propria storia e le proprie responsabilità rispetto ad un passato ingombrante. Coloro che hanno giustificato gulag, Pol Pot, foibe, dittature caraibiche, rivoluzioni proletarie, che sono stati “frequentatori” di apparati stranieri non certo alleati dell’Italia, sono riusciti a cambiarsi d’abito alla velocità della luce, inserendosi tranquillamente nei gangli del potere. È la stessa capacità camaleontica che consentì a Berlinguer di denunciare la “questione morale” in politica, dimenticando la “doppia morale” del PCI. Il caso del cavalierato di Berlusconi va oltre la miseria della polemica politica e riguarda l’ipocrisia di un paese che non fa mai i conti con la propria storia.

Ora ci aspettiamo due cose: primo, che la Presidenza della Repubblica revochi la vergognosa onorificenza di Cavaliere al Maresciallo Tito. Secondo, che Corrado Augias, il grande moralizzatore, si autosospenda da Cavaliere al Merito in attesa di spiegarci per filo e per segno chi era l’agente Donat. Se, come lui ha detto, “uno che è condannato per frode fiscale non può essere Cavaliere”, allora non lo può essere neppure uno che “frequentava” i servizi segreti nemici.

(il Giornale)

martedì 18 marzo 2014

Votare non serve, l'Ue è solo una farsa. Ida Magli

 
Renzi “sfida l’Europa”, come afferma il Corriere della Sera, gridando ai quattro venti che l’Italia terrà fede ai parametri di Maastricht. Se non fosse che tali affermazioni riguardano sessanta milioni di cittadini italiani troveremmo paradossale o addirittura grottesca la situazione in cui si muove il capo del governo e le leggi che promette di mettere in atto entro i prossimi mesi. Sembra, infatti, che Renzi e tutti i politici insieme a lui, si siano dimenticati che la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge con la quale l’attuale Parlamento è stato eletto. Di che cosa parla, dunque, Renzi? Riformare la Costituzione mentre si è fuori dalla Costituzione? È così sproporzionato alla realtà il suo vagheggiare: ad aprile questo, a maggio quest’altro, che si finisce col lasciarsi trasportare nel mondo surreale dei suoi sogni.

È atrocemente squallido invece, e tuttavia altrettanto paradossale, l’affannarsi di tutti i politici per convincere gli italiani a votarli alle prossime elezioni europee, assicurandoli che combatteranno così contro l’euro, contro i tanto odiati burocrati di Bruxelles. Poveri italiani! Non si rendono conto che a coloro che perseguono la mondializzazione distruggendo i singoli Stati, ai veri unici Capi di cui non conosciamo il nome, l’unica cosa che serve è che i cittadini votino, riconoscendo così la validità dell’Unione europea. Non ha nessuna importanza a quale scopo votino: il “parlamento europeo” è una finzione visto che l’Unione europea non è uno Stato. Serve a fornire ricchissime poltrone ai politici, ma il trattato di Lisbona ha certificato l’impossibilità dell’Ue di diventare uno Stato. Soltanto uno Stato, ovviamente, può godere di un “parlamento”, tanto che perfino i costruttori dell’Unione europea non hanno riconosciuto al parlamento un’autonoma capacità di fare leggi. Siamo dunque, anche in Europa, nel mondo surreale di cui parlavamo a proposito di Renzi il quale infatti assicura, navigando a vele spiegate nel suo Superuranio, che si vedrà di che cosa l’Italia è capace quando assumerà con il prossimo semestre la guida dell’Europa.

In Italia, però, i politici somigliano tutti a dei piccoli e forse meno simpatici “renzi”. Mantenere la finzione rappresenta la parte più cospicua della loro attività. L’impero europeo deve continuare a esistere, o meglio a fingere di esistere agli occhi dei poveri cittadini che del trattato di Lisbona così come dei parametri di Maastricht non sanno nulla. La bandiera europea, che il trattato obbliga ad esporre soltanto nel giorno della festa dell’Europa, in Italia affianca sempre i governanti e sventola perfino sulla caserma del Comando generale dei Carabinieri, non si sa in base a quale precetto. Roma sembra la succursale di Bruxelles o di Strasburgo: è tutto uno sventolio di bandiere celesti piene di stelle che fingono l’esistenza di un Impero immaginario. Dato che non è uno Stato ma semplicemente un’organizzazione internazionale, l’Ue non può concedere nessuna cittadinanza, concessione che pertanto è illegittima; è illegittima la costituzione di una Banca estranea agli Stati come la Bce (che infatti appartiene per la sua massima parte ad azionisti privati) ed è illegittima, e dunque invalida, la cessione della sovranità monetaria ad una banca privata che i governanti italiani hanno fatto in nome dell’articolo 11 della Costituzione.

E i famosi parametri di Maastricht, quelli per i quali ci siamo svenati fin dall’inizio quando i cari Prodi, Ciampi, Amato ci esortavano a soffrire pur di poter entrare nell’eldorado dell’euro? Ebbene di quei parametri è stato detto di tutto. Ci si sono messi i maggiori economisti, banchieri, Premi Nobel d’Europa e d’America, a definirli: arbitrari, cervellotici, bislacchi, perfino “stupidi” (parola di Prodi, il quale non si vergogna mai di se stesso), ma Renzi insiste: “Dimostreremo che siamo capaci di tenervi fede”. Surreale, grottesca, folle? Non si trovano parole per descrivere la situazione di degrado logico, di straripamento da qualsiasi regola di ordine politico e sociale, di abbandono di ogni principio di realtà nel quale nuotano ormai senza sapere dove vanno politici, giornalisti, intellettuali. Esaltano l’Europa gridando: “Credo perché è assurdo”.

È indispensabile che almeno quei gruppi di cittadini che criticano le istituzioni europee, che vogliono la riappropriazione della sovranità sulla moneta e su tutto l’ambito che riguarda la Nazione e il suo territorio, non vadano a votare alle elezioni europee e convincano il maggior numero possibile di cittadini a non andarvi a causa della loro illegittimità. Bisogna che piuttosto si uniscano in un solo partito per ottenere al più presto il ritorno alla legalità con nuove elezioni e imporre nel parlamento italiano l’uscita dall’euro e dalle normative europee.

(il Giornale)

 

venerdì 14 marzo 2014

Liquidazioni. Davide Giacalone


Non lasciatevi distrarre dalla coreografia, per sdilinquirvi in piaggeria o allenarvi nella supponenza, e guardate la sostanza: Matteo Renzi ha posto in liquidazione sindacati e Confindustria; messo la mordacchia al suo partito; mentre guida un governo privo di opposizione politica. Il che gli consente di affrontare anche il tema della copertura finanziaria delle cose annunciate.

La più impressionante inversione a U è quella della Cgil, con Susanna Camusso che, per tenere il volante, è costretta a far finta di gioire. Ma non è che la Uil di Luigi Angeletti e la Cisl di Raffaele Bonanni siano messe meglio. Tutti stringono i denti e dicono: ha fatto quel che chiedevamo. Non ci credono minimamente, ma non hanno scelta: da molti anni il sindacato rappresenta gli interessi di una ridottissima minoranza di lavoratori dipendenti, ovvero dei soli beneficiati dall’operazione fiscale impostata dal governo. Che volete che dicano? Solo che non è una loro vittoria, bensì la dimostrazione della loro inutilità. La maggioranza degli iscritti al sindacato sono pensionati, inoltre, esclusi dall’operazione, ma singolarmente ricompresi per un taglio ipotizzato dal commissario Cottarelli che, però, è basato sul livello della pensione e non sulla differenza fra quel che è generato dai contributi versati e quel che è stato regalato nel tempo. Il sindacato chiede che la soglia sia più alta, ma togliere a chi incassa in ragione di quanto ha versato si chiama solo in un modo: furto.

La Confindustria tace, ma con quali sponde potrebbe porsi all’opposizione di un governo che promette la possibilità di contratti di lavoro triennali senza motivazioni e vincoli? E se è vero che sull’Irap c’è un’elemosina è anche vero che una parte degli industriali era favorevole all’operazione Irpef. Diciamo che si sono presi il lusso di potere star zitti. Il loro quotidiano, Il Sole 24 Ore, è dovuto andare di cerchio e di botte, al più dubitando.

Forza Italia ha un accordo di ferro, sul terreno di riforme elettorali e istituzionali che si danno per già fatte laddove sono sì e no avviate. Solo il tempo e le delusioni potrebbero portare ruggine, al momento pare oro. La destra di governo è riuscita a definirsi “sentinella delle tasse” e assistere alla presentazione di un programma che da una parte esclude gli autonomi da ogni beneficio, dall’altro porta la tassazione delle rendite finanziarie al top europeo. Che volete che facciano? Se rompono il problema non è perdere i posti, che già intristisce, ma le elezioni, che getta nella disperazione. Abbozzano, sorridendo per la foto. L’unica opposizione che nasce dal cuore è quella della gran parte del Partito democratico, maggioritaria nei gruppi parlamentari. Ma dove possono andare? A dire che vogliono il sistema elettorale proporzionale, che rifiutano gli sgravi fiscali per i dipendenti e inorridiscono per la tassazione delle rendite? (A me resta il dubbio che l’esclusione del titoli di Stato sia illegittima, però).

Ma i conti non tornano, si osserva da diverse parti. E perché? I soldi dell’edilizia e dei debiti ci sono, come qui descritto (da tempo). Gli sgravi porteranno a far salire il deficit, questo è sicuro, ma il governo potrà scaricare sul Parlamento l’onere di tenere fede agli impegni europei, barattando elasticità con riforme (è questa la logica dei contratti bilaterali). Che fanno, i signori parlamentari, non votano? Così non solo vanno a casa, ma con la colpa di avere affondato il Paese. Non vota il Pd? Per vedere il proprio segretario sostenuto dall’odiato nemico? Va loro ancora bene se Renzi non avverte l’impellente e berlusconiano bisogno di cambiare nome al partito, affinché sia chiaro che il passato è stato tumulato.

Tutto bene e alla grande, allora? La cosa più scombiccherata è la partita elettorale e costituzionale. Quella più pericolosa è l’eventuale scarto delle autorità europee (ieri la Bce ha fornito un assaggio). Ma attenti a non sottovalutare la liquidazione di forze un tempo considerate imprescindibili. Altro che concertazione di stampo ciampista, qui siamo a un passo da quel che non osò sognare neanche un illuso liberista. Posto che il confine con l’incubo è ancora labile.

Pubblicato da Libero



venerdì 7 marzo 2014

La grande bellezza sarebbe riconoscere l'Oscar di Berlusconi. Alessandro Sallusti


Per Renzi, l'Oscar alla Grande Bellezza è la prova che «non dobbiamo aver paura ad allargare le nostre ambizioni». Per Franceschini, ministro della Cultura, che «se l'Italia crede in se stessa, ha fiducia e investe nei propri mezzi può vincere».
Vendola ringrazia «tutti coloro che hanno reso possibile questa magnifica opera», la Boldrini afferma che «il cinema è risorsa fondamentale per la cultura».

Napolitano parla di «una grande vittoria per l'Italia», e la ministra europea alla Cultura Vassiliou esclama: «Fantastica Italia».
L'Italia della sinistra postcomunista e quella renziana (al momento teniamo una separazione in attesa di giudizio) si intestano il merito dell'Oscar di Sorrentino. Loro sì che sanno come si fa a far trionfare il made in Italy. Ma tacciono colpevolmente due cose. La prima. Il film è la presa per i fondelli del loro mondo, vuoto e ipocrita. La seconda è ancora più ridicola. Perché chi ha permesso a Sorrentino di salire sul palco, quello che - per citare i signori di cui sopra - non ha avuto paura di allargare le sue ambizioni, di investire propri soldi, quello che va ringraziato, quello che ha capito che il cinema è una risorsa e che ha contribuito a fare vincere l'Italia ha un nome e un cognome volutamente assenti dai loro commenti.

Si chiama Silvio Berlusconi, fondatore e azionista di maggioranza del gruppo Mediaset, la cui controllata Medusa ha creduto nel progetto di Sorrentino, prodotto (insieme a piccoli partner) e distribuito la pellicola.
Scusate Renzi, Franceschini, Vendola, Boldrini, Napolitano e soci: dire un grazie alla più importante e prestigiosa azienda culturale privata del Paese, Mediaset, è chiedere troppo? La risposta è scontata: troppo. Perché ammettere che Berlusconi, la sua famiglia e i suoi manager (Carlo Rossella e Giampaolo Letta a Medusa) sono il volano del migliore sapere italiano vuole dire sconfessare vent'anni di linciaggio mediatico. Significa rinnegare i fischi di giornalisti e cinefili di sinistra che alla mostra di Venezia accompagnano la vista del logo Medusa in testa di pellicola (anche per questo alla scorsa edizione del festival Medusa non presentò alcun film in concorso).
Ci sono voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è quell'associazione a delinquere immaginata dai magistrati italiani.

Oggi siamo orgogliosi di Sorrentino, ma anche di Mediaset e di quel folle di Berlusconi che continua a investire in un Paese così. E adesso, cari compagni, continuate pure a fischiare Medusa e a spiegarci che cosa è cultura e come si fa: siete come le patetiche caricature della Grande bellezza. Poca cosa.

(il Giornale)


giovedì 6 marzo 2014

Bocciatura da bocciare. Davide Giacalone


La Commissione europea gioca sporco. Che il debito pubblico italiano vada ridotto non è poco, ma è sicuro. Che le riforme vadano fatte, anche. Che qui se ne parla e non si quaglia, purtroppo è vero. Ma gli squilibri non sono solo nostri. I dati a nostro favore sono molti, ma omessi e nascosti. Elencare quali cose deve fare il governo italiano, ove non voglia incorrere in sanzioni e restrizioni che peggiorerebbero la nostra condizione, non è da leale collaborazione, ma da commissariamento. Mentre il surplus commerciale della Germania non è un’infrazione da buffetto sulla guancia, amorevolmente dato dai commissari, bensì una delle cause che genera squilibri gravi. La dimostrazione che c’è chi guadagna, dall’inerzia europea.

Surreali le parole del commissario Olli Rehn, pronunciate illustrando il rapporto della Commissione: “L’Italia dovrà mantenere il surplus primario per molti anni”. Peccato che non abbia avuto modo di citare i dati della stessa Commissione, dai quali risulta una solare verità: l’Italia è in avanzo primario da 21 anni (nel 2009 andammo in disavanzo per appena lo 0,8%). Nessuno è stato capace di fare altrettanto. Solo nel 2013 il nostro avanzo primario ha raggiunto i 36 miliardi, mentre la Francia, in tutta la sua storia, ha toccato il massimo avanzo primario nel 2001, per un ammontare di 21 miliardi. Non solo, ma posto che arrivammo alla crisi dei debiti sovrani con un debito pubblico troppo alto (colpa nostra), dal 2008 a oggi il nostro è cresciuto assai meno di quelli altrui, solo poco più di quello svedese, meno del tedesco, la metà del francese. Eravamo patologici, ricoverati nel reparto malattie infettive, in isolamento, ora siamo in corsia, con gli altri. Però la Commissione ci mette fra i soli tre con “squilibri eccessivi”: noi, la Slovenia e la Croazia. Spiacente, ma questa non è una constatazione contabile, bensì un’offesa politica e istituzionale. L’Italia non è solo uno dei paesi fondatori, la seconda potenza industriale e la terza economica, è anche il Paese che ha sganciato più di 50 miliardi, in quattro anni, per aiutare gli europei in crisi. Anche quelli vanno messi nel conto.

Perdiamo competitività, dice la Commissione. Ce ne lamentiamo con noi stessi da anni, invocando le riforme che anche la Commissione chiede. E’ colpevole non averle ancora fatte. Sottoscrivo. Ma il resto no: in questi anni siamo cresciuti nelle esportazioni in area extra Ue, e lo abbiamo fatto grazie a imprese, lavoratori e innovazioni capaci di navigare la globalizzazione e la competitività. Non crescono le esportazioni interne all’Ue, ma questo anche perché la Germania tiene chiuso il proprio mercato interno. E qui è necessario chiarire: un Paese può ben scegliere di esportare, arricchirsi e non far crescere la propria domanda interna, rientra nella sua autonomia politica e sovranità economica; ma non può farlo se ha in tasca la stessa moneta degli altri, se in questo modo importa risparmio altrui, tiene alto il cambio facendo scendere la competitività degli altri e paga tassi d’interesse minori per finanziare i propri debiti, grazie ai difetti strutturali dell’euro. Questo non è uno squilibrio è il massimo di ostilità e aggressività economica possibile. Un secolo addietro si sarebbe chiamata in modo più crudo: guerra.

Ne volete un bilancio provvisorio? Dal 2008 al 2012 gli investimenti nel debito pubblico, provenienti dall’estero, sono cresciuti di (soli) 24 miliardi per l’Italia (il 35% del debito lo abbiamo dentro i confini nazionali), di 297 per la Francia e di 345 per la Germania. Non c’è nulla d’innocente, negli attacchi che abbiamo subito. Le odierne parole della Commissione sono in quel filone.

La nostra colpa, qui continuamente denunciata, consiste nel procedere senza cambiare. Mica solo il mercato del lavoro, perché si deve aggredire la malagiustizia tanto quanto il satanismo fiscale. Chiedere deroghe senza riformare è da scemi. Ma pensare di riformare nel mentre si pagano più di 80 miliardi di interessi e ci si appresta a dovere tagliare ogni anno di un ventesimo il debito pubblico è da pazzi. Tedeschi e francesi sforarono ripetutamente quei parametri, senza che nessuno dicesse nulla, ora la Commissione annuncia che a noi potrebbe dire cosa, come e quando fare. In pratica commissariandoci. Non è accettabile. E non è da europeisti, perché in quel modo salta l’euro.

Alla nascita del governo Renzi scrivemmo che a parte i giovani e le donne, le chiacchiere e i calembour, la sostanza era una sola: avere la forza di trattare con la Commissione, facendo valere i nostri (notevoli) punti di forza e mettendo in moto il processo riformatore. Avevo supposto che, in quel senso, si potesse disporre di un certo appoggio americano, posto che la politica à la tedesca nuoce anche a loro. Qui, ancora, non s’è fatto nulla. Si va in giro per scuole, lasciando che i bimbi leggano discorsetti, in uno stile un po’ troppo alla Ceausescu. La prima mossa l’ha fatta la Commissione. Ed è oltraggiosa. Non si tratta di offendersi, ma di reagire. O sparire, perché inutili.

Pubblicato da Libero

martedì 4 marzo 2014

La lettera di Brunetta agli organi di stampa

 


“Stimati direttori, con il dovuto rispetto, avendo apprezzato la vostra poderosa e collettiva protesta contro il torto subito dall’“Ora della Calabria”, vorrei segnalare un caso di chiusura forzata di un sito, di libera espressione di critica e di pensiero, causata dal combinato disposto di Rai e di magistratura”.

È quanto scrive Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai, in una lettera aperta a tutti i direttori di giornali e telegiornali.

“Lo faccio oggi (ieri, ndr) – sottolinea Brunetta – in una occasione felice. Non ci siamo arresi infatti, e con altro nome quel pezzettino di libertà uccisa riprende vita: www.raiwatch.it dopo circa due mesi di oscuramento torna alla luce con il nome di www.tvwatch.it. Nel frattempo – prosegue Brunetta – ci spiace constatare che non si è udita alcuna sia pur sommessa voce di solidarietà o tantomeno di protesta per la ferita all’Articolo 21 della Costituzione, allorché il 5 gennaio scorso, il Tribunale di Bologna, su ricorso urgente della Rai, ha soppresso questo strumento di conoscenza e di democrazia, poiché figurava nel suo titolo quel nome che credevamo appartenesse a tutti gli italiani, per l’ovvia ragione che è dello Stato ed è finanziato con il canone. Quel sito – continua Brunetta – ospitava i testi delle interpellanze parlamentari e le risposte della dirigenza della Rai, le sentenze dell’AgCom, i liberi commenti di clienti paganti delle trasmissioni della televisione del servizio pubblico, convinti che il servizio pubblico debba essere giudicato, come dice la parola stessa, dal pubblico. Riprendiamo da dove avevamo iniziato. Mi sono assunto personalmente la responsabilità giuridica del nuovo sito. Confidando in un cenno di benevolenza – conclude – ancorché non ci sia da esigere le dimissioni da sottosegretario di un modesto senatore calabrese, ma assai più modestamente da eccepire sulla condotta del potentissimo direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, saluto cordialmente augurando buon lavoro e buona libertà di stampa per tutti, ma proprio tutti, persino per chi non è di sinistra”.

(l'Opinione)


 

domenica 2 marzo 2014

Beppe for God. Gianni Pardo


 
L’obbedienza come vantaggio e come abiezione

Una crudele ma immortale definizione dei boyscout così suona: quindici bambini vestiti da cretini guidati da un cretino vestito da bambino. E tuttavia quella benemerita organizzazione un suo senso l’ha.

L’uomo è un animale sociale che, isolato, ha difficoltà a sopravvivere. È solo in associazione con altri che riesce a cacciare, a produrre, a difendersi. Le donne in tanto possono avere figli ed occuparsene in quanto l’uomo pensi al loro sostentamento nel tempo in cui esse stesse non possono farlo. Da tutto ciò deriva che l’individuo, ogni volta che si sente isolato, ha giustamente paura. Naturalmente tutto ciò è molto meno vero nella società progredita. Un’avvocata di successo, anche senza avere un compagno, può benissimo procacciarsi ciò che le serve per vivere, incluso chi badi ai figli mentre lei è al lavoro. E tuttavia il sentimento di pericolo, quando si è isolati, rimane. È questa la causa del conformismo. Chi caccia con gli altri e come vogliono gli altri, non solo avrà maggiori possibilità di catturare una preda, ma anche maggiori possibilità di averne una parte.

Per tutti gli animali sociali la salvezza è nel gruppo. È questa la ragione per la quale i ragazzi amano tanto essere boyscout. Innanzi tutto, mentre in casa sono “figli”, e dunque dipendenti e sottoposti agli ordini degli adulti in quanto adulti, fra i boyscout hanno finalmente una promozione e sono fra eguali. L’uniforme, come dice la stessa parola, è identica a quella degli altri e dunque è una prova dell’appartenenza al gruppo e contemporaneamente dell’indipendenza dalla famiglia. La stessa struttura paramilitare, anche se implica ordini e l’esecuzione di compiti, è fra pari. Chi comanda non è qualcuno che ha il solo merito di essere più vecchio, ma qualcuno che “ha fatto carriera”. Come potranno farla loro. Inoltre l’ordine non è dato “per il bene di chi lo riceve”, con ciò stesso proclamandolo inferiore, ma per il bene della comunità e di un ideale condiviso. Le regole sono prefissate e sovrastano tutti i singoli in quanto tali. Nel gruppo il ragazzo sente di avere raggiunto la massima sicurezza e la massima valorizzazione.

L’organizzazione dei boyscout è utilissima alla società. Questa tende infatti a fare dei ragazzi membri obbedienti della comunità e all’occasione buoni soldati. I boyscout sono stati molto ben visti dalla Chiesa e dagli Stati che più tengono alla coesione e all’inquadramento dei propri cittadini. Persino nell’Unione Sovietica, dove non osarono chiamarli col nome inglese di boyscout, per i ragazzi fu creato il corpo dei “Pionieri”. Ma la sostanza era la stessa.

La società tende ad insegnare ciò che è utile a sé stessa, non ciò che è utile al singolo. E proprio perché è utilissimo alla società, lo scoutismo è pernicioso per la personalità dell’individuo. Nel gruppo impara ad avere paura della solitudine e a cercare la protezione nel gregge. E se vorrà ragionare con la propria testa, se vorrà soppesare le varie opinioni, se si riserverà il diritto di decidere per sé, sarà tendenzialmente un reietto. Mefistofele prometteva la gioventù in cambio dell’anima, la società promette la sicurezza in cambio dell’indipendenza.

Una simile dicotomia tra potenza del gruppo e dignità intellettuale del singolo si ritrova anche nel mondo politico. Un partito veramente democratico - che lasci ai propri adepti la libertà di critica e, all’occasione, di voto - è meno forte di un partito tendenzialmente autoritario che pretenda dai propri membri, mentalmente in uniforme, la più totale obbedienza. Naturalmente per seguire una simile formazione bisogna avere ben poca stima della propria libertà di pensiero. Bisogna essere disposti a giurare sulla superiore saggezza dei capi, reputati infallibili. Ed è ciò che è avvenuto per lunghi decenni nei partiti comunisti.

Nel Pci il dissenso era concepibile soltanto ai più alti livelli e purché nulla ne trapelasse all’esterno. Per tutti valeva invece il verbo del Partito. Ciò che esso aveva stabilito era giusto, indiscutibile e obbligatorio: non rimaneva che obbedire. Se il Comitato Centrale arrivava a dire che quella ungherese non era una rivoluzione di popolo contro l’oppressione di uno Stato straniero ma una sommossa organizzata e pagata dagli imperialisti, timidi galantuomini come Giorgio Napolitano erano disposti a gridarlo nelle piazze.

È questo uno dei lati più patetici del M5S. Il comunismo, fenomeno grandioso sia nei progetti sia nei crimini, si nutriva almeno di una grande illusione palingenetica e si fondava sulle teorie di un supposto genio come Karl Marx. Qui invece è indiscutibile il pensiero di un tecnico capelluto come Roberto Casaleggio, o di un comico intollerante come Beppe Grillo. Francamente, la storia ha offerto pifferai migliori.

pardonuovo.myblog.it

Quella leadership forte che la sinistra non ama. Giampaolo Rossi


Finalmente la sinistra ha un leader. Un passaggio storico di non poco conto. Ha un leader giovane, brillante e incisivo; un leader non conformista e non impaludato nella ritualità della vecchia politica ma che dalla vecchia politica ha preso la migliore abitudine: quella di dire una cosa e fare esattamente l'opposto.
Un leader spregiudicato quel tanto che basta per accoltellare alle spalle il suo amico mentre continua a dirgli «non lo farò mai». Uno di quelli che parla a braccio con la mano in tasca ma che è meglio non avere dietro. Un leader, insomma, capace di piacere alla gente che piace, alle élite, ma anche capace di parlare alla gente a cui della gente che piace non frega nulla; uno di quelli che potrebbe conquistare la mitica «casalinga di Voghera», simbolo di quell'Italia inferiore per gli intellettuali radical-chic, ma che poi è quella che fa vincere le elezioni. Insomma, un leader «gagliardo», come dicono dalle parti di Forza Italia dove di leader gagliardi sul serio se ne intendono assai. Ma allora, perché la sinistra, di fronte al fenomeno Renzi, rimane inquieta e intimorita? Cosa la spaventa tanto del leader?
Semplice: la leadership. E la questione non è solo politica ma psicologica. Dalla morte di Berlinguer la sinistra italiana non si è mai confrontata con la complessità di un leader, di un capo, di uno statista. Per trent'anni, un'intera generazione di dirigenti politici e burocrati di partito ha liquidato il suo rapporto con la storia attraverso le idee: che queste fossero infarcite di antiberlusconismo o costruite attorno alle fumose parole del Novecento (progresso, uguaglianza, solidarietà, redistribuzione, Stato) andava bene comunque, perché seguire un'idea è molto più facile che seguire un uomo. Le idee sono ecologiche, non sporcano, sono sempre stirate, anche quelle sgualcite dagli anni. Un'idea è pulita, maneggevole, comoda per ogni evenienza; la usi, la ricicli, la riadatti alle circostanze. L'idea è democratica e rassicurante perché consente a tutti di credere di saper pensare qualcosa. Le idee sono accomodabili perché aiutano a costruire la realtà non partendo da ciò che è ma da ciò che tu credi che sia; le puoi proiettare sul maxischermo della tua mente e far apparire il mondo come un posto dove tu non sei, basta che ci siano gli altri: gli ideologi sono per loro natura degli alienati. Al contrario la leadership non è ecologica, è antidemocratica e non rassicurante. Il leader sporca, si sgualcisce nel tempo che scorre sulla sua vita. Seguire un'idea è facile, seguire un leader è difficile, perché di un leader devi seguire tutto: non solo il suo potere ma anche le sue contraddizioni, le sue umane cadute, le sue difficoltà, i suoi entusiasmi e le sue sconfitte. Un leader lo devi amare, temere, odiare, rispettare; lo puoi tradire o conquistare, ma la sua parabola storica diventa inevitabilmente anche la tua, perché un leader è carne e anima; qualcosa con cui ti devi mischiare se vuoi far parte di lui. Il genio pensatore di Jean Guitton immaginava Socrate parlargli così: «Mille miliardi di idee non valgono una sola persona. È per le persone che bisogna vivere e morire». Chi segue un leader segue un uomo e quindi può amare oltre se stesso; chi segue un'idea sa amare solo se stesso. Non sappiamo se la leadership di Renzi cambierà l'Italia; ma forse riuscirà a cambiare la sinistra, trasformandola in qualcosa di meglio dell'impersonale macchina di odio che abbiamo conosciuto in questi anni.

(il Giornale)