giovedì 22 ottobre 2015

Salviamo i risparmiatori. Davide Giacalone


Non abbandoniamo nessun risparmiatore italiano. Proteggiamolo anche nel caso i suoi soldi si trovino in banche a rischio fallimento. Non farlo sarebbe come pugnalarlo alle spalle, dato che quando mise i soldi in banca non aveva idea che una scelta sbagliata potesse incorporare un pericolo così alto. Proteggiamolo quale che sia la cifra depositata, mentre lasciamo al loro destino gli azionisti e i dirigenti che avessero specifiche responsabilità, coloro, insomma, che erano e sono tenuti a sapere quel che fanno. Questa la proposta di Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum, destinata a far storcere la bocca ad alcuni suoi colleghi banchieri. Una proposta il cui senso supera il confine prettamente bancario: noi italiani dobbiamo imparare a fare sistema. I tedeschi sanno farlo e ne traggono vantaggio.

Per capire la portata della proposta si deve sapere quale sarebbe l’alternativa, chi si oppone e perché, quanti soldi ci vogliono e quali vantaggi se ne potrebbero trarre.

Dal primo gennaio 2016 entra in vigore la normativa europea sui salvataggi bancari, denominata “bail in”. Prevede che in caso di fallimento di una banca i soldi per assicurare i diritti dei clienti si prenderanno, nell’ordine: a. prima dagli azionisti; b. poi dagli obbligazionisti subordinati (non garantiti, con in mano titoli assimilabili alle azioni); c. dai depositanti che abbiano più di 100mila euro, i quali perderebbero la parte eccedente; d. da un fondo interbancario; e. per poi giungere all’intervento degli Stati e del Meccanismo europeo di stabilità. Con ciò si rispetta l’articolo 47 della nostra Costituzione, nel quale si prevede la tutela del risparmio. Il solo neo riguarda i depositi superiori a 100mila euro. La cui ragione è: se metti una simile cifra sul conto corrente (non se compri titoli o certificati od obbligazioni garantite, che restano tutelati) compi una scelta informata, quindi ne rispondi. Si possono, però, verificare casi in cui quella condizione non è soddisfatta, come quando il cliente s’è appena visto accreditare un mutuo, o quando ha appena incassato una fattura e deve subito far fronte ai costi relativi a quello stesso lavoro. Insomma, se si vuol far valere quel principio sarà bene affiancare al tetto dei 100mila anche un criterio temporale, relativo alla giacenza: se sono arrivati il giorno prima del fallimento è evidente che il risparmiatore non ha compiuto alcuna scelta.

Resta il fatto, comunque, ragiona Doris, che queste cose, fin qui, le conoscono in pochi. E, specialmente se si dovesse decidere di applicare anticipatamente il meccanismo del bail in, sarebbe un po’ come cambiare le regole nel mentre il gioco è in corso. Non si fa. Prima della nuova norma, infatti, e fin dal 1936, l’ipotesi del fallimento bancario era praticamente esclusa. Non che non potessero fallire, ma sarebbe intervenuto lo Stato a salvare i depositanti (concetto che non cancella il rischio, ma lo sposta sul contribuente). Nella pratica, inoltre, non è successo nemmeno quello, perché le banche fallimentari sono state salvate dalle altre banche. Da qui la proposta: ciascuna altra banca, in ragione della propria quota di mercato, versi il necessario non a salvare le banche concorrenti, non i loro azionisti o i loro dirigenti, ma i loro clienti.

A naso, l’idea dovrebbe piacere sia alla Banca d’Italia che all’Associazione bancaria italiana. Non piace a chi ragiona corto, vedendo nel fallimento del concorrente una possibilità d’espansione propria, anziché un ulteriore crollo, destinato ad alimentare sfiducia e ostilità verso tutte le banche. Non piace alle banche estere che hanno sportelli in Italia, che obietteranno contro gli “aiuti di Stato”. Ma, a parte il fato che le altre banche non sono lo Stato, c’è da dire che fra queste ci sarebbe anche Deutsche Bank, a sua volta difesa e salvata dal suo azionista: lo Stato. Senza contare che, fra il 2008 e il 2014 ci sono state 450 deroghe europee, in modo da concedere aiuti di Stato. Non in Italia. Non ne chiediamo, ma neanche intendiamo prendere lezioni, in materia.

Per tutelare tutti, compresi i depositanti sopra i 100mila, e considerate le banche effettivamente a rischio, serviranno 3 miliardi. Metterceli significherà entrare nella nuova normativa, fra due mesi e mezzo, senza avere subito amputazioni anticipate o preannunciate, avendo fatto sistema e non avendo accettato che quel che si fa altrove non si possa fare in Italia. Significherà entrare nell’era delle aggregazioni continentali senza dovere mettere in conto disgregazioni nazionali. L’impressione è che sia una buona idea, oltre che del tutto legittima. Sarà bene aggiungere un dettaglio: le banche che vendevano ai propri clienti le proprie azioni e obbligazioni, legando a quell’acquisto la concessione di crediti, sarà bene che assistano alla scomparsa dal mercato di chi le ha dirette e amministrate.

Pubblicato da Libero

venerdì 2 ottobre 2015

La retorica di Bella Ciao ho rotto i c... Francesco Maria Del Vigo

Pietro Ingrao per me non è un mito. Ne ho altri, finti, veri, cartacei. Ma non pretendo che siano universali. Non è un padre della Patria. Non può essere un padre della Patria uno che questa diavolo di Patria voleva svenderla a quella che sentiva la sua, di patria. Cioè la madre Russia comunista. Ma è possibile che qui ci si debba dividere tutti tra russi e americani? Ma uno che fa il tifo per l’Italia non è un’opzione disponibile? (Non la nazionale, per carità, di quelli ce ne sono troppi).
Ingrao, per me, non è un esempio. È uno che dalle colonne dell’Unità difendeva gli eccidi delle truppe russe in Ungheria e che oggi, dagli stessi che si genuflettono davanti al suo cadavere, sarebbe stato licenziato come un sovversivo criminale. Ma lui rappresenta i vincitori, anche adesso che è stato vinto dalla vita, come succede e succederà a tutti noi. Pietro Ingrao, per me, è un vecchio morto a cento anni, davanti al quale non posso che elevare un arrivederci ossequioso e laico. Perché amo gli anziani e ammiro i coerenti e gli idealisti. Anche di idee che non condivido. E invidio le comunità. Quella folla di pugni alzati, quelle bandiere rosse con la falce e il martello, quelle ugole che si squarciano intonando Bella Ciao. È roba d’altro tempo, di un’altra era. Archeologia politica e umana. Come quelle poltrone di modernariato che dici: cavolo che design strano. Ma a casa non le vorresti mai.
Ma facciamo una precisazione: evviva le comunità, evviva le idee. Ma Bella Ciao non è un inno nazionale. È un canto da ultras. Dell’antifascismo. Quella è una comunità che rispetto, ma non è una nazione. Non è di tutti, ma di parte. Divide e non unisce. Come direbbero i moderni: è divisiva. Il mito della resistenza non è realtà, ma finzione. Se va bene fiaba. È il Babbo Natale della sinistra. Shhh. Non diciamolo a voce alta che sennò poi ci sentono. Chè l’Italia l’hanno liberata gli americani. Bella Ciao non è pace, ma guerra. E pure civile. Che è il massimo dell’inciviltà. Basta. Basta con questo culto della resistenza, con questa religione laica della Liberazione. Pure il Papa apre ai divorziati, ma le vestali di piazzale Loreto non riescono nemmeno a parlare agli a-partigiani. Basta coi talebani del 25 aprile, con i santificatori del comunismo, con quelli che ci vogliono infilare in testa il burka del politicamente corretto. Con quelli che pensano che mettere la gente a testa in giù sia un atto di libertà.
Renzi, Grasso e Mattarella avrebbero chinato il capo davanti al feretro di Giorgio Almirante? No. Perché era un fascista. Redento. Democratico. Ma c’aveva sempre quel problema lì. Non parlo del peccato mortale di aver eletto Fini come proprio delfino. Ma di quella camicia non troppo intonata coi colori alla moda. Invece erano tutti lì, davanti alle falci e ai martelli. Immobili davanti a simboli di morte. Persino Fini era uscito dal sepolcro. E pure Marino. Ma quello si imbuca ovunque: dal Vescovo di Roma al patriarca dei bolscevichi, che differenza c’è?
Anche il comunista Ingrao avrebbe mandato a quel paese quella massa di sciacalli che cerca di vivere su una (presunta) rendita di posizione. Io vorrei mandare a quel paese Renzi, Grasso, la Boldrini, la religione (catto)comunista dei partigiani, le falci e il martello, il galateo del 25 aprile e Bella Ciao. Che, ripeto, non è Fratelli d’Italia, ma una canzone più secessionista della Lega di Bossi: spacca il paese, allarga la piaga e divide gli italiani. Ma, soprattutto, rompe i coglioni. È l’ora di dire ciao. Anche a Bella Ciao.

(il Giornale)