giovedì 28 febbraio 2013

Moine a 5 Stelle. Davide Giacalone

Il problema non è Beppe Grillo, ma l’ortottero che frinisce nella mente di chi dovrebbe concentrarsi sui propri errori e sui propri doveri. In democrazia non deve far paura il voto, ma il vuoto. Certo, il dato appariscente è il boom di 5 Stelle, ma il dato significativo è la fuga dagli interpreti del bipolarismo. Da qui in poi il problema consiste nel ridare sostanza alla politica, non nell’inseguire un fenomeno che, per la sua stessa esistenza è la negazione degli inseguitori. Penso a due esempi, i Verdi e la Lega. Il problema non fu la loro esistenza e consistenza, ma l’altrui desistenza programmatica e inconsistenza politica.

I Verdi comparvero sulla scena negli anni ottanta, conquistando molta attenzione e spazio politico. I numeri elettorali non sono mai stati quelli di Grillo, ma anche perché il sistema politico era assai più solido dell’odierno (incredibile, ma vero). Le persone che li animavano venivano quasi tutte dalla sinistra, in qualche caso estrema (si pensi a Edo Ronchi, da Democrazia Proletaria al governo Prodi) e fra loro c’è chi s’è sistemato nel più schietto costume partitocratico (si pensi a Mauro Paissan, dal Manifesto a garante per la protezione dei dati personali). Sta di fatto che indossarono uno dei più antichi e multicolori fra i costumi italici: gli anti che poi si ficcano dentro. Già nel 2001 cominciarono a calare, ma non bastò a tenerli fuori, fino all’indimenticabile prova di affidabilità offerta da Alfonso Pecoraro Scanio. Tanto per ricordarci che Tommaso Aniello, detto Masaniello, è anch’egli figura permanente del nostro vivere collettivo.

Tutto questo conta poco, quel che rileva è che il resto delle forze politiche, impressionate dalla presenza verde, diventarono verdi. L’ambientalismo diventò presenza permanente in tutti i programmi, producendo alcuni disastri ambientali. Ci evirammo con voluttà, quando i socialisti di Claudio Martelli vollero farci sapere che anche loro erano ambientalisti e antinuclearisti. Poi ci buttammo sul rinnovabile, dove di rinnovato, più che altro, c’è l’aggravio nella bolletta elettrica di tutti. Il guaio, insomma, non furono i Verdi, ma le menti verdificate di quelli che provarono a mettersi sulla loro scia.

La Lega arriva sulla scena alla fine di quello stesso decennio. La prima reazione è dileggio, come sempre. Alterigia mal riposta, perché Umberto Bossi si dimostrò subito un tattico raffinato. Almeno tanto quanto non lo era su tutto il resto. Prima, pur di sostenere che i partiti di governo erano finiti (invece raccoglievano la maggioranza assoluta dei voti, che alla luce degli odierni risultati segnala che schiattavano di salute, e, in effetti, schiattarono), si esagerò la loro vittoria. Si cominciò a scrivere che la Repubblica era così marcia da favorire l’arrivo dei barbari. I quali non giunsero, in compenso agirono le procure. Poi, stabilito che oramai esistevano, partirono i soliti fenomeni imitativi, talché tutti si misero a parlare di una cosa che nessuno era neanche in grado di definire: il federalismo.

Esito, infausto: mentre la sinistra varava la pessima riforma costituzionale, che scassava lo Stato, i leghisti si romanizzavano alla grande e il loro condottiero sistemava i congiunti. Ancora una volta: il problema non è stato la Lega, ma le teste vacanti che si sono legate a parole vuote.

Il 25 aprile scorso il presidente della Repubblica si recò a Pesaro e fece una gran sparata contro Grillo. Fummo i soli a criticarlo esplicitamente: il suo ruolo nega i comizi di parte. Quel movimento sia un effetto e non una causa dello sconquasso. Ne considero inquietanti certi aspetti settari. Quando eravamo in pochini (sulle dita di una mano) a criticare il malaffare di Telecom Italia, Grillo era fra questi. Ci fu un’assemblea degli azionisti e lui intervenne. Scrissi: possibile che solo un comico dica il giusto? Apriti cielo: fui sommerso da messaggi a dir poco ostili, quando non direttamente minacciosi: servo, venduto, il buffone sei tu. Un’anima pia avvisò i suoi amici: guardate che quello scrive cose giuste, le stesse che diciamo noi. Si placarono, ma mi bastò per capire l’aria che tirava, da quelle parti. Per chi non lo sapesse: la mitica “rete” è uno dei posti più violenti (verbalmente) che esistono.

Quando vedo gli intelligentoni della sinistra far le moine a 5 Stelle, magari scoprendo che anche loro, come la Lega, sono “costola” della sinistra, mi chiedo se si spingeranno ad automandarsi affanculo. E vedrete che a breve ci sarà anche qualche destro scopritore delle ragioni profonde del grillismo. Sveglia, compagni, o ci si mette a fare le persone serie, ponendo in sicurezza i conti e facendo riforme fin qui bloccate, oppure non c’è ragione d’affaticarsi. Ci andrete lo stesso.
Pubblicato da Libero

Se il Paese punisce i veri eroi anti-casta. Nicola Porro

Agli italiani degli sprechi della politica non importa davvero nulla. Non stracciate il Giornale e seguite il ragionamento. Diciamo meglio: gli italiani si dicono indignati per gli sprechi, ma non si comportano di conseguenza.
Franco Fiorito, ex capogruppo del Pdl
Così come tutti si dicono contro l'evasione. Ma quella degli altri: poi, una ricevutina farlocca l'accettano in molti. Ma come, si dirà, con i milioni di voti ottenuti da Grillo come si fa a sostenere una panzana simile? Stop. Fermiamoci un attimo. Il voto di Grillo è tante cose e non staremo qui a fare il predicozzo o l'analisi di chi sapeva tutto, anche se il giorno dopo. Al contrario vogliamo sostenere come si sapesse tutto il giorno prima. Esiste un solo laboratorio in cui è stato testato scientificamente un gruppo politico nemico del consociativismo nello spreco pubblico: era presente alla Regione Lazio dei Fiorito e dei Mariuccio. Era il gruppo della lista Bonino-Pannella. Sì, sì, certo quelli del grande Satyagraha, radicale, liberale, libertario, liberista e antipartitocratico, a favore del divorzio, dell'aborto, dell'obiezione di coscienza, contro la cupola partitocratica della corte incostituzionale, che odiano il fascismo degli antifascisti e compagni e amici e quello che diavolo viene in mente nella lunga filastrocca del capelluto Pannella. Vi avranno pure stufato. Ma i suoi due unici rappresentanti nel Lazio, Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo sono stati l'esempio di una vera battaglia politica e democratica contro lo scempio dello spreco pubblico. Eppure nessuno li ha voluti, quasi nessuno li ha votati. Sono stati loro a denunciare gli assurdi finanziamenti ai gruppi regionali, che andavano avanti (rimpolpati) da trent'anni. Sono stati loro a far scoppiare lo scandalo Fiorito. Sono stati loro a innescare la miccia per la quale le Procure di mezza Italia inseguono gli scontrini dei consiglieri in ogni regione. Sono stati loro a chiedere il 10 dicembre del 2010 per quale dannato motivo si dovessero istituire alla Regione Lazio quattro nuove commissioni. Per quale strano destino su 70 consiglieri regionali del Lazio la bellezza di 60 erano presidenti o vicepresidenti di qualcosa. Compresa la favolosa commissione per i Giochi Olimpici del 2020 (che ha portato una certa sfiga). Si sono battuti ispirati dall'idea semplice e liberale che i costi di una commissione provengono dai quattrini pagati con le tasse dai cittadini. E questo lo hanno detto, denunciato, urlato, scritto nei loro siti. Ma... Ma nessuno se li è portati a casa. Sì certo, con un beau geste di quelli di cui è capace, Francesco Storace aveva provato ad apparentarli alla propria lista. Ma il Pd (orfano dell'intuizione di Veltroni per cui i rompiballe radicali erano utili) li ha «schifati». E così sono andati da soli. Per carità nulla di male. È la democrazia. Ebbene Rossodivita e i suoi amici (da queste parti compagni non si riesce proprio a dire, sul genere di «Scusa» per Fonzie) alle ultime elezioni hanno preso 14.567 voti. I grillini 662mila. Niente, rasi al suolo. Zingaretti è stato eletto con 1,3 milioni di voti.

In questo caso dei radicali importa poco, ma dell'ipocrisia molto. Quando qualcuno si alzerà e si lamenterà degli sprechi in Regione e del bla bla sui costi della politica, converrà rammentargli del bazooka che aveva a disposizione e che non ha saputo usare: il proprio voto. (il Giornale)

sabato 23 febbraio 2013

Io voto per la rivoluzione liberale. Vito Schepisi

               
sabato 23 febbraio 2013

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E’ il momento di riflettere sul voto per dargli un significato, senza consumarlo nell’inutilità.
Si vedono in prospettiva le linee di una svolta epocale. Forse è così, ma non si vota sulle suggestioni. Si vota per scegliere.
Ogni idea ha la sua dignità, purché sia nell’interesse dell’Italia e se ha capacità d’essere condivisa. Non hanno dignità la violenza, l’odio, la sopraffazione, la denuncia senza idee, il voto strumentale, le pratiche clientelari, i ricatti, le minacce, le promesse fumose, l’inganno. Le scelte poi vanno rispettate, quali esse siano.
Al momento si hanno due ipotesi che si confrontano tra loro con possibilità di successo.
Una è quella di Bersani che, calato il sipario di Renzi, ripropone la sinistra con Vendola, senza aver rottamato nessuno, né Prodi e né D’Alema, né Amato e neanche la Bindi.
L’altra è quella di Berlusconi, senza Fini e senza casini e Casini, che ritorna a battere sul tam tam della rivoluzione liberale.
“Tertium non datur” per dirla con Plauto.
Non esiste un’altra soluzione. Il resto è inganno. Tante suggestioni, tante denunce senza idee di soluzione, tanti rancori e dispetti, tanti tentativi di conquistare nicchie di spazi politici, come se il vento dell’antipolitica non ci sia mai stato, anche tanti espedienti per ottenere i finanziamenti pubblici e giochi politici per ritagliarsi ruoli di condizionamento in cambio di spazi di potere.
C’è anche chi spera in un risultato contraddittorio per offrirsi a salvare la Patria.
C’è anche chi, per farsi aiutare a sottomettere l’indipendenza nazionale, si fa sostenere da improponibili personaggi istituzionali stranieri che, in un vuoto di dignità e di orgoglio di chi ha il dovere di garantire la sovranità nazionale, si sono sentiti autorizzati ad intromettersi nelle questioni elettorali italiane.
Tra chi propone un modello per il governo della Nazione, questa volta le differenze di programma sono abbastanza chiare. Anche la campagna elettorale, seppur nella confusione e nelle grida, ha fatto sì che emergessero con sufficiente chiarezza.
Il centrodestra propone una politica di sviluppo attraverso la riduzione della pressione fiscale, il taglio delle spese, la burocrazia amica, il rilancio delle piccole e medie imprese, il sostegno ai redditi delle famiglie, l’occupazione, l’aumento delle pensioni minime, l’inviolabilità fiscale della prima casa, la rivisitazione dei sistemi di riscossione delle imposte per calmierare la prepotenza e le degenerazioni di Equitalia, le riforme dell’architettura rappresentativa ed istituzionale dello Stato, la rinegoziazione in Europa dei patti del’Unione.
La sinistra propone, invece, rigore fiscale, patrimoniali, aumento della spesa, politiche più permissive sull’immigrazione, unioni civili se non matrimoni gay, nessuna rivisitazione dei patti con l’Europa.
Chi ha idea di votare per altri, se non per Bersani o Berlusconi, ad esempio per Monti o per il movimento di Grillo, finisce solo col favorire l’uno o l’altro dei due, ma certamente, per ovvi calcoli matematici, l’opposto della scelta politica che avverte più vicina.
Per chi tiene ad una scelta moderata per l’Italia, per ostacolare la deriva velleitaria, per uscire dallo squilibrio di un’Europa germanocentrica, per riformare il Paese, per dar voce alle domande del popolo senza distinzioni e classismi, perché arrivi la rivoluzione liberale che liberi risorse, fantasie e speranze, il voto al centrodestra dovrebbe essere scontato.
Io voto, infatti, per la rivoluzione liberale. (il Legno storto)

Oroscopo elettorale. Davide Giacalone

La legge sui sondaggi elettorali è stata platealmente violata. Posto che le leggi andrebbero rispettate e le violazioni punite, quel che credo sia necessario chiedere è che venga cambiata. Non solo non funziona, ma finisce con l’avere un effetto diverso, e per certi aspetti opposto, a quello che si proponeva. Il fatto che si annunci il dilagare dei consensi indirizzati a Beppe Grillo e il possibile crollo di quelli destinati alle liste di Mario Monti (con i due che hanno in comune una condizione paradossale: non sono candidati), sebbene lo si faccia senza mettere in pagina o leggere i numeri dei sondaggi che suggeriscono tali ipotesi, viola la sostanza della legge. Con effetti non scontati.

Proibendo la pubblicazione dei sondaggi elettorali nei quindici giorni precedenti l’apertura delle urne, quindi, nel caso della campagna in corso, dalla mezzanotte dello scorso 8 febbraio, la legge (articolo 8 della legge 22 febbraio 2000, numero 28) si propone di evitare che gli elettori siano influenzati dagli orientamenti prevalenti. Ma se poi si omette la pubblicazione del sondaggio, salvo pubblicarne il succo, quindi il messaggio, si ottiene esattamente quel risultato, ovvero li si influenza. Siamo sicuri che sia un fatto negativo, o da proibirsi? Credo di no.

Questa legge, che porta il pessimo e fastidioso nome di “par condicio”, quindi erede degli appelli lanciati da Oscar Luigi Scalfaro contro le campagne pubblicitarie dell’allora Forza Italia, è uno dei frutti della lunga stagione personalistica e faziosa: siccome i sondaggi li usava, e sapeva usare, solo Silvio Berlusconi ecco che si trova il modo di sterilizzarli, proibendoli. Quando quel capo politico comparve sulla scena e cominciò a citarli la reazione di molti fu il dileggio. Poi la riprovazione. Il fatto è che i sondaggi non sono né buoni né cattivi, dipende da come i politici li usano: se servono per sapere cosa gli elettori pensano e quali ritengono essere i problemi più importanti, sono strumenti utili; se li si usa per sapere cosa si deve dire, allora si tratta di politici inutili. Il giudizio, come sempre in democrazia, spetta agli elettori. Fatto è, comunque, che da allora a oggi non solo i sondaggi li usano tutti, senza più risatine cretine, ma hanno preso a commissionarli i mezzi di comunicazione. Quindi, ai fini del nostro ragionamento, dobbiamo porci la domanda relativa alla loro influenza sugli orientamenti di voto.

Si dà per scontato che se i sondaggi indicano un vincitore l’elettorato gregge tende a premiarlo. E’ la realistica fotografia scattata a suo tempo da Ennio Flaiano: tutti a correre in soccorso del vincitore. Questa reazione esiste, naturalmente. Ma può esistere anche quella opposta. Ad esempio: l’elettore crede che quella determinata lista è sì bella e convincente, ma estremamente minoritaria, talché votarla sarebbe come sprecare il voto (i voti non sono mai sprecati, però), se, invece, un sondaggio dell’ultima settima certifica la possibilità che superi il quorum ecco che i voti possono aumentare, non diminuire. All’opposto: se l’elettore guarda con fastidio alla politica, sicché potrebbe votare chi si propone di mandarla a quel paese, il sapere che come lui la pensano in troppi potrebbe indurlo a scelte più prudenti, dato che le democrazie crollano per varie vie, ma spesso proprio nelle urne. O, ancora: l’elettore intende privilegiare i propri interessi (scelta saggia, niente affatto riprovevole), ma ritiene che chi meglio li incarna prenderà già una valanga di voti e non ama intrupparsi, in questo caso sapere che il successo non è poi così garantito può indurlo a riporre la scheda là dove lo porta il portafogli. In ogni caso, gli elettori non sono né minorenni (per legge), né minorati (per dovuto rispetto), quindi non c’è motivo di proibire che arrivino loro delle informazioni.

Anche perché, invece, di quelle dispongono sia chi gestisce interessi economici rilevanti (e commissiona sondaggi), sia chi, come me, produce opinioni (le mie sono fatte in casa a mia esclusiva cura) e ha accesso alle ultime rilevazioni. In questo modo si crea un’asimmetria informativa ai danni dell’elettore. Anche consentendo a qualche imbroglione di fare gli oroscopi del giorno già passato, fingendo d’indovinare quel che sa già.

Infine, si deve evitare l’effetto partita della nazionale durante la proiezione della corazzata Potemkin: in assenza di notizie girano voci pazzesche e scenari immaginifici. Fatti i conti, insomma, il divieto inquina il mercato elettorale più dei sondaggi taroccati. Sarebbe saggio cancellarlo.
Pubblicato da Il Tempo

sabato 16 febbraio 2013

8 settembre giudiziario. Davide Giacalone

La giustizia italiana è totalmente fuori controllo, costituendo un pericolo per la convivenza e per gli interessi collettivi. Si mescolano questioni diverse, neanche paragonabili fra loro, ma che concorrono a descrivere il disfacimento dello Stato. Intanto la campagna elettorale si conduce verso la sua ingloriosa conclusione, senza che le forze politiche siano state in grado di biascicar altro se non la difesa di sé medesime o il profittare delle difficoltà altrui, in un tremebondo silenzio urlante che ne descrive la vacuità. Fa anche un certo effetto tornare su questo tema all’indomani dell’arresto di Angelo Rizzoli, delle cui odierne vicende non so nulla, ma so che riportare in custodia cautelare un uomo che fu distrutto da analogo provvedimento e poi assolto, che nel corso della sua carcerazione vide morire il padre per infarto e a seguito di quelle vicende la sorella per suicidio, so che assistere a ciò e non provare un brivido d’orrore è segno d’imbarbarimento collettivo.

Il fatto è che l’Italia ha perso sensibilità. Ha perso cultura del diritto e dei diritti, ma anche buon senso. Orrendo il silenzio seguito alla condanna del generale Pollari, perché dimostra quanto chi pretende di governare non abbia idea di ciò che comporta. Quella condanna è una sorta di 8 settembre, di fuga dello Stato. E’ irrilevante che sia giusta o sbagliata, semplicemente non sarebbe dovuta esistere: se il governo (tre governi) pone il segreto di Stato lo Stato rispetta quel segreto. Vale per il militare come per il magistrato. Vale per tutti. Invece più tribunali hanno potuto fare una sonora pernacchia allo Stato. E’ l’anticamera della fine. Forse senza neanche anticamera.

Nel caso di Saipem-Eni ci viene detto che sarebbe stata pagata una prestazione collaterale, denominata “tangente”, pari a 200 milioni. Per l’acquisto di 11 miliardi di materia prima energetica. Naturalmente non tocca ai magistrati rispondere alla seguente domanda: come altro si acquista, quella roba? In galera soggiorna il capo della più tecnologicamente preziosa azienda controllata dallo Stato, la Finmeccanica. Io credo (lo scrissi) che Orsi doveva essere allontanato nel momento stesso in cui ha provato a ricattare un ministro in carica (Grilli). Il presidente del Consiglio doveva scegliere: o cacciava il ministro o cacciava il manager. Anche entrambe, nel caso. Nessuno no, non è ammesso. Dall’inerzia si passa all’arresto, con l’emergere nel mandato di cattura del caso indiano. Dopo che noi ripetevamo da mesi: guardate che i due militari trattenuti in India sono ostaggi per un affare Finmeccanica, qualcosa è andato storto e la materia è governativa. Nulla. Allora, qual è la morale? Due: a. gli italiani non sono capaci di risolvere i loro problemi, visto che nessuno se ne assume la responsabilità; b. una qualsiasi concorrente di nostre aziende strategiche ha un modo facile per annientarle: preparare un dossierino e farlo arrivare alla procura. Così descritto, è un Paese che si sta suicidando.

200 milioni Saipem per l’energia di tutti sono intollerabili, ma 4 miliardi al Monte dei Paschi di Siena vanno bene. I primi sono un reato, i secondi una scelta prudente. All’Mps le cose sono andate in modo banale: un gruppo dirigente di malfattori ha portato via soldi, tanti, per sé e per i propri amici. Quella banca ha 14 consiglieri d’amministrazione su 16 nominati dalla politica. La politica, da quelle parti, si chiama Pd. Ma non solo, fate attenzione: si chiama Pd più affaristi di altri colori, per garantire la connivenza. Andrà a finire che dopo le elezioni alcuni dei casi citati si sgonfieranno e spariranno, mentre questo crescerà. Senza fretta. E’ normale?

A Taranto in governo interviene ripetutamente per tenere aperta l’Ilva, anche nella consapevolezza che l’unica speranza di bonifica ambientale coincide con la continuazione della produzione. La procura, dopo avere fatto il possibile per chiudere l’Ilva, ricorre alla Corte costituzionale avverso il decreto. Credete che sia una normale procedura penale? Niente affatto, è il tentativo di porre il giudizio di legittimità non solo al di sopra di tutto, ma anche a prescindere dal processo, dal tribunale e dalla sentenza. Giudizio insindacabile, a opera di chi non ne sarà responsabile.

La sommatoria di questi casi, differenti e non assimilabili, porta a una conclusione: il governo perde sovranità politica, lo Stato perde sovranità nazionale, l’Italia perde affidabilità internazionale. A fronte di ciò ci sono due cose assolutamente ridicole: la prima è credere che le inchieste rilevanti siano quelle sui politici; la seconda è che si ripeta di avere fiducia nella giustizia. Quel meccanismo è saltato. Il diritto, senza il quale non esiste lo Stato, s’è gettato dalla finestra.
Pubblicato da Libero

Una Repubblica fondata sull'ipocrisia. Federico Punzi

              
  
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«Quando la praticano gli americani [ma aggiungerei gli inglesi, i francesi, i tedeschi...], si chiama lobby; quando la fanno gli altri [ma direi, noi italiani] diventa corruzione». Questa la significativa battuta che Jagdish Bhagwati, del Council on Foreign Relations, ha rilasciato a La Stampa sul caso Finmeccanica, spiegata così: «Supponiamo che un Paese importante mandi una delegazione in India guidata dal capo del governo, e prometta alle autorità di nuova Delhi di aiutarle in Kashmir, in cambio di una grande commessa a cui tiene. Non si spostano soldi, non ci sono tangenti, ma arriva sostegno politico a livello internazionale e magari qualche fornitura di armi. Come la chiamate, questa? Oppure si costruiscono scuole, ospedali, strade, in cambio dello sfruttamento di un giacimento [non era proprio questo che tutti i nostri governi hanno fatto per decenni con Gheddafi?]. I più sofisticati si comportano così e sono inattaccabili, quasi generosi. Gli altri, un livello più sotto, pagano le tangenti, e finiscono nel mirino dei procuratori».
Piaccia o meno, il ragionamento non è molto distante da quello di Berlusconi, che ovviamente ha destato un ipocrita polverone di indignazione.
Certo, il reato esiste, la convenzione internazionale anche. La magistratura fa il suo dovere. Ma se vogliamo ragionare sui fatti laicamente e conservando un minimo di contatto con la realtà, ci sono almeno un paio di pesanti "però".

Il primo riguarda il fatto che le commissioni pagate da Finmeccanica devono ancora essere giudicate come reato, quindi come tangenti, a seguito di un reale processo. Insomma, si tratta ancora di una tesi dell'accusa. Se qualcuno di quei 50 milioni è tornato indietro, nelle tasche di Orsi o di qualche politico, sarebbe un fatto gravissimo, che però va dimostrato e per ora mi pare ci siano solo illazioni a mezzo stampa. Se invece quei soldi sono serviti a corrompere solo qualche politico o funzionario indiano, allora c'è da augurarsi che la procura abbia in mente qualche nome indiano, ma pare di capire di no. Perché resta difficile provare la corruzione se non si conosce nemmeno il nome di chi si è fatto corrompere. Nonostante quindi la corruzione sia ben lungi dall'essere provata, l'azione della procura di Busto Arsizio ha già determinato a Finmeccanica e al suo indotto un danno di 550 milioni di euro e la perdita di milioni di ore di lavoro.

Una grande responsabilità, ammetterete. E' accettabile un simile danno patrimoniale ed economico per inseguire quello che è, ad oggi, un indizio, una pista d'indagine? Assumiamo che sì, abbiamo una visione massimalista della giustizia per cui al minimo sospetto non si guarda in faccia a nulla, in totale spregio del rischio di sbagliarci e dell'entità dei danni provocati dal nostro eventuale errore. Questa grave responsabilità si può affidare ai pm di Busto Arsizio, dove a stento si potrebbe giustificare che abbia sede una procura?? O non richiederebbe, semmai, di essere in capo a magistrati di ben altra esperienza e responsabilità? Chi risarcirà a Finmeccanica e ai suoi lavoratori un danno di 550 milioni di euro se la procura si sbaglia? Se, come tutti, anche i magistrati fossero chiamati a rispondere dei loro errori professionali, in termini sia di carriera che patrimoniali, ci sarebbero tanti più scrupoli e verifiche prima di avviare l'azione penale quanto più alta è la posta in gioco. E si ridurrebbero sensibilmente le possibilità d'errore. La sensazione, francamente, è che la magistratura spesso spari nel mucchio, preoccupandosi solo in un secondo momento - a danno ormai provocato - di procurarsi delle prove. L'autonomia e l'indipendenza della magistratura sì, l'irresponsabilità e l'arbitrarietà, solo alla ricerca del clamore e della fama personale, costi quel che costi, no, non è accettabile.

Il timing delle manette, poi, per inchieste che duravano da mesi, se non anni, fa pensare ad un uso spettacolare della giustizia, ad una deriva verso il «populismo giudiziario», come la definisce Antonio Polito sul Corriere: una giustizia anch'essa lenta e impotente come la politica, e quindi alla ricerca della condanna mediatica. Le prove, il processo, diventano dettagli di cui preoccuparsi anni dopo.

C'è, poi, l'aspetto politico ed economico. Se Finmeccanica ha violato la legge, benissimo: che paghi. Se così fan tutti, però, e a tagliarci i cosiddetti siamo solo noi italiani, be' la questione esce dai confini strettamente giudiziari e coinvolge l'interesse generale: la nostra industria, la nostra economia, quindi il benessere di tutti noi. Senza moralismi, dobbiamo preoccuparcene e addivenire a soluzioni un poco più elastiche. Nel mondo reale non ci sono feticci, né soluzioni perfette. E' evidente che estremizzando il concetto di "tangente", bisognerebbe per coerenza concludere che il lobbismo interno, per esempio dei sindacati, o l'intera diplomazia commerciale tra Stati, e forse la diplomazia tout court, è un immenso intreccio di corruzione e scambio di favori più o meno nobili. E non credo neanche che nella vicenda Finmeccanica c'entri la governance influenzata dalla politica, come per Mps: fosse stata privata, la presunta tangente per aggiudicarsi la preziosa commessa indiana l'avrebbe versata comunque.

A proposito, oggi è trascorso esattamente un anno dal "sequestro" dei nostri marò proprio da parte delle autorità indiane: «Un anno di inerzia, silenzi e gaffe internazionali», come ricorda Pautasso. Se non ricordo male lo Stato italiano versò, o era disposto a versare, centinaia di migliaia di euro alle famiglie dei pescatori indiani uccisi, prim'ancora che iniziasse il processo per stabilire la responsabilità dei due marò, ma evidentemente come gesto di amicizia e generosità volto a migliorare la posizione dei nostri soldati. Non è forse anche questa una forma di tangente?

JimMomo

mercoledì 13 febbraio 2013

L'abdicazione. Davide Giacalone

Ammirazione, rispetto, costernazione. C’è di tutto nelle reazioni ufficiali alle dimissioni di Joseph Ratzinger dal trono di Pietro, ma non molta sincerità.

Benedetto XVI non è il primo Papa ad abdicare. Oggi si dice “dimettersi” o “lasciare”, quasi che l’uso del verbo possa cambiare la realtà del fatto: si tratta di un monarca il cui potere è assoluto. Chi lo fece prima di lui, però, visse circostanze in cui prevalevano o la carcerazione e l’esilio, talché non gli era materialmente possibile sedere al suo posto, oppure la decadenza e la corruzione, sicché quella carica poteva essere oggetto di simoniaci commerci. L’abbandono per ragioni di salute, o senilità, non ha precedenti, se non quello vicinissimo e che depone in senso esattamente opposto: Giovanni Paolo II.

Ma Ratzinger è troppo profondo cultore di quel trono per non avere previsto qualche scivolone nelle interpretazioni, quindi ha messo due volte le mani avanti: nel 2010, sostenendo che il Papa non solo può, ma forse deve lasciare nel momento in cui non sia più in grado di proseguire “fisicamente, psicologicamente, mentalmente” la sua missione; poi proprio ieri, specificando che “lascio per l’età avanzata e per il bene della Chiesa”. Quindi: si può abdicare ove si constati l’impossibilità di andare avanti, anche senza impedimenti fisici, purché prevalga il bene ecclesiastico. Il resto è contorno.

Credo non si capisca nulla di questo pontificato, e di come si conclude, se non si fa una doppia operazione, apparentemente contraddittoria: collocarlo nella storia e considerarlo continuatore di una tradizione millenaria, che sfida la storia. Karol Wojtyla fu un possente protagonista del tempo. Un combattente nella trincea della guerra fredda. Un vincitore, da Pontefice e da polacco, che poté vedere il crollo dell’impero sovietico, negante il diritto a praticare la fede. Un argine, nel contrastare le derive politiche della Chiesa, specie in America Latina. Un leader capace di espandersi verso nuove terre. Cambiò il modo d’intendere il papato, ma si lasciò molti problemi alle spalle. Macerie che l’allora capo del Santo Uffizio, poi divenuto Papa, avrebbe dovuto sistemare. Compito assai arduo, anche se quelli che noi chiamiamo “scandali”, sia in campo sessuale che finanziario, non sono materie inedite, nella storia del Vaticano. Il punto non sono gli “scandali”, ma quel che celano e quel che li genera.

Giovanni Paolo II fece passi decisi verso la convivenza e il reciproco riconoscimento di fedi diverse, anche in questo figlio e protagonista del suo tempo. Il futuro Benedetto XVI non approvava, essendogli chiaro che perdere specificità e diversità era come perdere identità. Il secolo lo ha pugnalato: nella volgare banalizzazione l’islam è accostato alla violenza suicida, la cristianità alle violenze sessuali. Papa Benedetto ha saputo reagire, ma la rivendicazione del valore culturale della fede lo ha portato su un terreno sdrucciolevole, nel quale si finisce con il rivendicare la diversa (quindi superiore, per dirla senza ipocrisie) civilizzazione. Sostenere, come egli fece, che democrazia e laicità sono figlie della cristianità è esercizio che porta a considerare la cristianità superiore agli altri monoteismi. Il che è fin troppo ovvio, visto con gli occhi della Chiesa. Ma terribilmente difforme dall’abitudine alle banalità del religiosamente corretto.

Sul core business, sulle questioni di fede, Benedetto non teme rivali. E’ sul collateral business che il suo passo è stato meno sicuro. Un Wojtyla poté gestire Marcinkus, per poi licenziarlo, perché non aveva dubbi sul ruolo da giocarsi nella storia. Un Ratzinger fa più fatica a reggere il confinamento del proprio Stato nella black list, fino al blocco dei pos per le carte di credito, appena oltre le mura leonine. Cambiò i vertici dello Ior, ma non il corso delle cose. Un Wojtyla supera di slancio la guerra interna alle guardie svizzere e ripone fra le questioni umanitarie due rapimenti. Un Ratzinger si ritrova aggredito non negli uffici della segreteria di Stato, dove non c’è più Agostino Casaroli a seguire una politica diversa da quella del Papa, ma direttamente nella propria stanza, con il maggiordomo forse raggirato, poi condannato, infine graziato. Deve aver capito che per vincere nella storia doveva uscire dalla storia, tornando alla materia dove domina.

Lui, che recuperò il camauro, è stato definito, nell’esplosione di dichiarazioni post abdicazione, un innovatore. Forse è bene riflettere senza fretta, prima di dire scemenze su chi guida un’istituzione che vive nel tempo, ma punta a quel che è fuori dal tempo.
Pubblicato da Il Tempo

E se le aziende inquisite avessero ragione? Nicola Porro

E se avessero ragione le imprese? Per anni abbiamo subito una cultura anti industriale (leggetevi piuttosto la lirica di Angelo Mellone «Acciaio Mare» sull'Ilva) per la quale impresa e profitto erano due bestie da combattere.
Oggi il pregiudizio si è fatto più sofisticato. C'è un generale compiacimento per le indagini giudiziarie che bloccano le nostre aziende. Una brutta eco risuona più o meno così: «Ben gli sta». Il presidente di Finmeccanica è stato arrestato per una tangente (tutta da dimostrare) su un appalto riguardante degli elicotteri. «Stecca» che, anche per l'accusa, non sarebbe però finita nelle tasche del boss di Finmeccanica. Pochi mesi fa, sempre in Finmeccanica, si dimise lo storico amministratore, Pierfrancesco Guarguaglini, per le dichiarazioni di un pentito. Quasi nessuno ha riportato la richiesta (avvenuta mesi dopo) di archiviazione proposta dagli stessi pm che indagavano e poi accolta dai giudici. E Saipem? La stessa Eni, che la controlla, aveva iniziato a far pulizia.

Eppure è arrivata l'indagine sul numero uno del cane a sei zampe, Scaroni, per una gravissima ipotesi di reato: corruzione. E l'Ilva? Stiamo distruggendo un comparto fondamentale della nostra industria pesante sulla base di un'inchiesta che deve ancora passare al vaglio del primo grado. In cui i magistrati si oppongono financo allo sblocco delle merci sequestrate del valore di un miliardo. La Fiat ha 62 procedimenti in corso per la vicenda delle rappresentanze sindacali in fabbrica, aperti su denuncia della Fiom. Ha avuto 45 sentenze favorevoli, sette hanno invece accolto il ricorso del sindacato di Landini e altrettanti giudici hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale. Come i più grandi, migliaia di invisibili subiscono ogni giorno controlli, indagini, fermi, sequestri da parte di diversi organi dello Stato, che arrestano, multano e chiudono. Tutti innocenti? Certo che no. E nessuno chiede l'immunità per imprenditori o manager marci che abbiano violato la legge.

Ma dobbiamo stare attenti. La cultura anti industriale oggi ha fatto un salto generazionale e di ruolo. Si è istituzionalizzata. Non sono più le piazze a gridare contro i padroni. Sono le istituzioni che hanno fatto proprio quel clima di trent'anni fa. Sono i poteri burocratici che strozzano il fare impresa in Italia. Forti dello scudo di irresponsabilità di cui godono (chi paga per gli errori commessi, per il carcere mal dato, per le multe che fanno fallire?) e delle bizantine leggi che ci siamo dati (per le quali ad esempio un barbiere deve trattare i propri rifiuti con le stesse procedure che si applicano al petrolchimico).

La politica e le Istituzioni dettagliano con minuzia possibili comportamenti fuori linea delle imprese. Creando un doppio danno: rendono l'onere burocratico di fare impresa gravoso e lasciano a pubblici ufficiali e magistrati campi di intervento vastissimi. E se il prezzo da pagare è chiudere l'industria italiana, beh, quello è un effetto collaterale. Negli anni '70 manifestavano nelle piazze e picchettavano le industrie, oggi agiscono con le ordinanze e i decreti. Ma la musica non cambia.(il Giornale)

venerdì 8 febbraio 2013

Il silenzio degli arroganti. Claudio Velardi


Ora, finalmente, la sottile escalation dell’allarme ha trovato il suo ubi consistam: dal sempre opinabile voto utile possiamo tornare all’approdo impositivo del voto necessario.

Caro, eternamente dubbioso elettore di sinistra, se fino a ieri ti chiedevamo di scegliere il Pd contro il rischio dell’ingovernabilità (argomento esposto a mille obiezioni e discussioni fastidiose: ci si può fidare più di Monti o di Vendola? Mi raccomando, se proprio non ce la fai, dacci una mano al Senato, in Lombardia o in Sicilia poi non puoi mancare), da questo momento l’asso è calato, e tu non hai scuse. Mobilitazione totale contro il nemico. Poche chiacchiere.

Quanto l’ha cercato questo momento, lo stato maggiore. Al punto che nei giorni scorsi, in vista dell’uscita di Berlusconi, il notorio silenzio del principale partito italiano si era fatto – come si dice – assordante. Non una proposta, un’idea, una novità. Non dico il tentativo di fare agenda, ma neppure di consentire alle redazioni di di spuntare un giorno del calendario per scriverci: “Bersani!”. (Sì, con un bel punto esclamativo, come dire: ecco, lì bisogna esserci). Niente. Giusto il pallido comizietto di Firenze con l’ex-giovanotto: tutti e due in maniche di camicia, il remake dei Blues Brothers con tanto di occhialetti, una pena. Per tacere della battuta da oratorio su Messi al Bettola.

Vi sento già dire: cosa vuoi farci, è un vecchio problema, la sinistra non sa comunicare. Tante buone idee, serie, articolate, certo un po’ complesse, perché-nelle-società-complesse-non-ci-sono-soluzioni-semplici (l’altra volta 281 pagine, quest’anno non si sa), esposte male. Quell’altro invece, si sa, è un maestro della comunicazione, signora mia.

No. No. No. La comunicazione non c’entra niente. E’ una scusa del cazzo. Non dico una formazione politica – con lo stuolo di dirigenti, sondaggisti, comunicatori di cui dispone – ma un qualunque fruttivendolo, di fronte all’annunciato arrivo sulla piazza di un aggressivo competitor, si sarebbe attrezzato per tempo. Domenica alle 12 esporrai il tuo nuovo banchetto? Perfetto. Alle 11.30 salgo sul Colosseo e espongo la mia, di merce. Annuncio al popolo che le tasse saranno abbassate. Non subito, tra due anni (perché siamo seri). Che i costi della politica saranno tagliati. Del 50% (perché non siamo populisti). Che… (non so più che cosa, perché ho cercato in rete “programma Bersani 2013” e ho trovato solo chiacchiere non immagazzinabili in un post).

No, non è incapacità comunicativa. E’ che bisogna averla a disposizione, la merce. Fresca. Buona. Presentabile. Quando e se ce l’hai, hai voglia a venderla. Non c’è bisogno di nessun guru.

Invece l’intero stato maggiore aspettava con ansia l’arrivo della proposta shock, più di quanto la sognasse un militante del Pdl. Perché dispone solo di merce vecchia, in qualche caso avariata. E può rifilarla solo se sul suo avversario cala la mannaia morale. Non andare da quell’altro: imbroglia sul prezzo, la frutta luccica ma è piena di estrogeni. Tutto più semplice, tranquillizzante.

Così da oggi torna lo schema di sempre. Basta interrogarsi su Monti e Vendola, non si discute più di Lombardia, Sicilia e Senato. Bisogna solo impedire all’imbroglione di tornare su piazza. Capisci bene, caro elettore, che evitarlo è necessario.

Dice: ma allora questo è un ricatto. Certo che lo è. Con l’aggravante di un’arroganza consapevole, esibita, beffarda. Mio caro, ora devi votarci per forza, non c’è neppure bisogno che te lo ripetiamo. Possiamo continuare a tacere, che è la cosa che ci riesce meglio. Le tue obiezioni, i tuoi dubbi? Sorrisetto: ne parliamo un’altra volta, non vorrai mica diventare complice del ritorno di quello là? Va be’, allora sei un fesso. O un provocatore. Insomma dillo: sei un berlusconiano.
Forse. Se lo dite voi.
(Front Page)

Deprecabili amnesie. Davide Giacalone

Interessante la riflessione di Giorgio Napolitano, circa il rapporto politico fra il Partito comunista e il nostro mondo, occidentale ed europeo. Peccato che persista una deplorevole confusione: di idee, fatti e date. Nel discorso pronunciato all’Istituto per gli studi di politica internazionale, il presidente della Repubblica ha, fra le altre cose, sostenuto che: a. avere rifiutato il rapporto con gli Stati Uniti fu, nel 1948, un errore dei comunisti, poi divenuto una palla al piede della forza “divenuta egemone nella sinistra”; b. un “sostanziale ripensamento”, rispetto alla guida sovietica, “si fece strada” a partire dall’invasione di Praga, nel 1968; c. già a partire dagli anni 60 il Pci ripensò l’impegno europeista “innanzitutto nella partecipazione al Parlamento europeo”, culminando ciò nel riconoscimento della Nato, nel 1977. Troppo poco, troppo tardi e troppo reticente. Per le ragioni che seguono.

1. Nel 1948 il Partito comunista era parte stessa del blocco sovietico. Palmiro Togliatti era cittadino sovietico. Non compì alcuna scelta, la fece la storia. Però Napolitano confonde le carte: il Pci non fu lontano dall’occidente nonostante divenisse forza egemone della sinistra, bensì divenne forza egemone proprio perché finanziata e sostenuta dai nemici dell’occidente. La Germania, del resto, uscì dalla guerra divisa, noi con il ribaltamento dei rapporti a sinistra. Due effetti della stessa realtà.

Non poteva essere diversamente? Questo assolve da ogni responsabilità personale? No. Pietro Nenni era l’altro titolare del Fronte popolare, eppure seppe rifiutare il premio Stalin. Si poteva, se solo non si fosse stati interni al sistema staliniano. Come furono i comunisti italiani.

2. Cosa realmente era il sistema sovietico lo sapevano tutti quelli che lo volevano sapere, e lo ignoravano solo quelli che lo volevano ignorare. Non c’era alcun bisogno di attendere il 1968, se non altro perché l’invasione di Budapest risale al 1956, quando significativi esponenti del Partito comunista la considerarono incompatibile con i propri ideali e se ne andarono. Fra loro Antonio Giolitti, che Napolitano celebra da morto tanto quanto lo avversò da vivo (fu candidato, da Bettino Craxi, alla presidenza della Repubblica, senza raccogliere il consenso dei compagni).
Il Pci non poteva abbandonare il blocco sovietico, né mai, dicasi mai, lo abbandonò. Non poteva perché ne era parte. Una cosa fu esprimere delle critiche, altra rompere. Le critiche furono formulate come se l’Urss fosse colpevole di non essere del tutto coerente con i comuni ideali comunisti. E’ imbarazzante, lo so, ma è così.

3. Che il Pci abbia ripensato l’Europa a partire dagli anni 60 è curioso, che la prova sia la partecipazione al Parlamento europeo è comico: non era eletto, ma composto da rappresentanze parlamentari nazionali. I comunisti ne facevano parte di diritto. E c’è di più: l’europeismo di allora era chiamato “eurocomunismo”, il cui compagno di strada era il francese George Marchais, filosovietico con il botto (poi scaricato dal socialista Mitterrand), l’altro compagno era lo spagnolo Santiago Carrillo, cui i sovietici tolsero la parola, in ragione della sua indisciplina ideologica. Il Pci non ruppe neanche in quell’occasione.

Nel 1977 i comunisti firmarono e votarono una mozione parlamentare che considerava l’Europa il riferimento della politica estera italiana, ma l’anno successivo votarono contro l’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo, facendo cadere il governo. Comincia lì la storia dell’euro, e i comunisti erano contrari. Chi fece il discorso di rifiuto? Napolitano.

Sulla Nato è vero: dopo averla avversata e chiesto che l’Italia ne uscisse unilateralmente i comunisti, e precisamente Enrico Berlinguer, dissero che si sentivano più sicuri sotto quell’ombrello. Tre anni dopo, però, contro le scelte della migliore sinistra europea, tedesca e italiana, i comunisti si batterono contro gli euromissili, il cui schieramento era stato deciso per rispondere a quello degli SS20 sovietici, che erano puntati contro di noi. Sfilarono e mostrarono con orgoglio il telegramma ricevuto da Leonid Breznef. Il capo del Patto di Varsavia, alleanza militare ostile all’occidente e all’Europa.

La storia, come si vede, è un po’ più complessa. Se per ammettere gli errori commessi si sente il bisogno di manipolarla è brutto segno. Il punto nodale, alla fine, è uno solo: i socialdemocratici tedeschi non furono mai filosovietici e ripudiarono il marxismo nel 1959; i comunisti italiani furono filosovietici, non ripudiarono mai il comunismo e si chiamarono “comunisti” fin quando quella turpe ideologia non uscì dalla storia, con il crollo sovietico. Serve a nulla, oggi, provare a imbrogliare le carte. La partita fu troppo grossa e milioni di esseri umani la pagarono con il sangue e la perdita della libertà. Una tragedia non si cancella con le amnesie.
Pubblicato da Libero

domenica 3 febbraio 2013

Lettera del Presidente Berlusconi

Caro Mauro,
E’ doloroso dirlo, ma oggi il rapporto di fiducia del cittadino verso lo Stato è in grave crisi.
E’ un rapporto che è stato turbato dagli scandali provocati da qualche vecchio mestierante della vecchia politica, dal discredito prodotto dalla cattiva politica, dal clima di intimidazione che si è affermato nei confronti del cittadino contribuente, e dal sovvertimento della volontà degli elettori con l’insediamento di un governo definito tecnico che si è segnalato per la distanza dai cittadini e dai loro bisogni.

Ma c’è qualcosa di più grave e profondo, c’è qualcosa che ha a che fare con la concezione stessa della relazione che lega ognuno di noi e lo Stato.
Per noi liberali, è lo Stato che deve porsi al servizio dei cittadini; per troppi altri, a sinistra e non solo, vale l’opposto. Costoro pensano che siano i cittadini a doversi porre al servizio dello Stato.
Uno Stato che offre servizi troppo spesso inadeguati, che crea difficoltà burocratiche al libero dispiegarsi delle iniziative imprenditoriali, che si pone sovente come ostile alle famiglie e alle imprese, e che soprattutto appare – attraverso una tassazione insopportabilmente alta - come un padrone che ci sfrutta e per il quale dobbiamo lavorare per più di metà dell’anno. Solo dopo, possiamo iniziare a lavorare per il benessere nostro e delle nostre famiglie.
Questa situazione non è accettabile. In più ora, è sotto gli occhi di tutti il bilancio fallimentare di un anno di Governo Monti: siamo dentro una spirale recessiva fatta di caduta di consumi, di caduta degli investimenti, di troppe tasse, di aumento della disoccupazione.

Guardando ciò che è accaduto nel 2012 abbiamo individuato nell’imposizione dell’IMU sulla prima casa l’atto pià dissennato e odioso del Governo Monti, che ha dato il via alla crisi.
La prima casa non si doveva e non si deve toccare: è il pilastro su cui ogni famiglia ha il diritto di costruire la sicurezza del proprio futuro.

Questa imposta ha indotto nelle famiglie italiane preoccupazione, ansia, timore nel futuro; e il fattore psicologico è stato il primo fattore di crisi. L’IMU ha assorbito in molti casi le tredicesime degli italiani, ha abbattuto i consumi, ha fatto precipitare il valore degli immobili; ha dimezzato i mutui erogati alle famiglie nell’ultimo anno; ha abbattuto gli investimenti in nuove abitazioni; ha ridotto in un solo anno quasi di un quarto, le compravendite di abitazioni; ha fatto crollare l’industria delle costruzioni residenziali trascinando in giù altri importanti settori come quelli dei mobili, degli arredi, delle ceramiche, delle stoffe, ha lasciato senza lavoro muratori, artigiani, fabbri, elettricisti e falegnami. Basti pensare che il settore delle costruzioni, dall’inizio della crisi, ha perso oltre 360.000 occupati.

A questo punto, come abbiamo già anticipato nel nostro programma, confermiamo l’impegno che assumiamo davanti a tutti i cittadini italiani: quello di cancellare l’IMU sulla prima casa nel primo Consiglio dei Ministri dopo la vittoria, esattamente come facemmo nel 2008 abolendo l’Ici, secondo quanto avevamo promesso.
Sentiamo però che con tutto quello che è successo e sta succedendo, serve qualcosa di più, serve una atto di sutura, di riavvicinamento, un atto di ricucitura civile, un atto di pace dello Stato e del fisco verso le nostre famiglie, un atto simbolico ma concretissimo che apra una pagina nuova, che ricrei fiducia nello Stato, che consenta un nuovo inizio. E allora?

Nel nostro primo Consiglio dei Ministri delibereremo, come risarcimento per una imposizione sbagliata e ingiusta dello Stato, la restituzione dell’Imu sulla prima casa, pagata dagli italiani nel 2012.

Le famiglie italiane saranno rimborsate per quanto hanno versato. Una famiglia ha versato 1200 euro? Riceverà indietro i 1200 euro. Un pensionato ha versato 900 euro? Avrà diritto a un rimborso di 900 euro, e così via.

La restituzione potrà avvenire:
-attraverso un rimborso vero e proprio sul conto corrente,
-oppure, in particolare per i pensionati o per chi preferirà questa modalità, in contanti, attraverso gli sportelli delle Poste.

A tal fine, l’Amministrazione finanziaria invierà una lettera a ciascun contribuente, firmata dal nuovo Ministro dell’Economia e dello Sviluppo, cioè dal sottoscritto: e per la prima volta, ricevendo una lettera dell’Amministrazione finanziaria, gli italiani non avranno nulla da temere, ma potranno finalmente sorridere. La lettera comunicherà infatti il titolo a ricevere il rimborso e l’ammontare spettante. Una volta ricevuta la lettera, i contribuenti potranno recarsi presso gli sportelli delle Poste Italiane a riscuotere il rimborso.
Oppure, se preferiscono, comunicheranno all’Amministrazione finanziaria gli estremi bancari per l’accredito sul loro conto corrente.

Abbiamo un ragionevole motivo di pensare che, una volta completata la fase di invio delle lettere ai soggetti interessati, il processo di rimborso possa concludersi nell’arco di un mese.

Per la copertura finanziaria di questa operazione, che vale intorno ai 4miliardi (cioè, è bene ricordarlo, la duecentesima parte degli 800miliardi che lo Stato costa e spende complessivamente ogni anno), abbiamo individuato una soluzione che non solo garantirà molte più risorse, ma che ha anch’essa una forza simbolica eloquente: l’accordo con la Svizzera, come hanno fatto anche altri Stati (tra gli altri, Gran Bretagna, Germania, Austria), per la tassazione delle attività finanziarie detenute in quel Paese da cittadini italiani.
Il gettito previsto è di 25-30 miliardi una tantum, più 5 miliardi all’anno di flusso a regime.

In attesa della sottoscrizione dell’accordo, la liquidità necessaria potrà essere anticipata dalla Cassa Depositi e Prestiti previo accordo stilato sul modello di quello peraltro già sperimentato in occasione del recente terremoto in Emilia.
Per quanto riguarda la copertura strutturale per l’eliminazione definitiva dell’IMU (altri 4 miliardi circa), si provvederà mediante una revisione delle accise su giochi, lotto, scommesse e tabacchi, su cui abbiamo un disegno di legge già predisposto, come abbiamo annunciato nelle scorse settimane.

Quindi, come ognuno può constatare, si tratta di una misura senza aggravi per lo Stato, utilissima per ogni famiglia, che si vedrà restituita la tassa ingiustamente pagata (o, se preferite, che riceverà una "nuova tredicesima"), ma soprattutto un grande atto di ricostruzione di quel clima di positività, di fiducia e di ottimismo che è indispensabile al nostro Paese, indispensabile come pietra angolare per passare dalla spirale recessiva in cui ci troviamo alla ripresa della crescita e dello sviluppo.

Io sono molto orgoglioso dell’impegno che oggi assumiamo davanti agli italiani.
Sono in una specialissima condizione personale di libertà per età, esperienza, traguardi e obiettivi raggiunti nella mia vita. Non ho nulla da chiedere per me stesso.

Voglio combattere un’ultima grande battaglia elettorale e politica, ora e nella legislatura che si aprirà, per allargare gli spazi di libertà nel mio Paese, e per aiutare l’Italia a uscire dalla prospettiva cupa in cui l’hanno costretta i tassatori tecnici, e in cui la confinerebbero i tassatori di sinistra.
Quella di oggi è una novità, è una notizia che spero possa portare un po’ di serenità e di ottimismo nelle case di molti italiani. L’impegno di oggi è l’esempio di quello che noi vogliamo fare.

Sentiamo di essere vicini ad un risultato storico. Se gli italiani lo vorranno siamo pronti ad assumerci la responsabilità di governo.

Ti abbraccio.

Silvio Berlusconi




venerdì 1 febbraio 2013

Fuga dall'università. Davide Giacalone

L’università italiana viaggia in retromarcia, registrando un continuo calo delle immatricolazioni (-17% in dieci anni, 58.000 studenti in meno). Colpa del calo demografico? Niente affatto: colpa della dequalificazione degli studi e della loro percepita inutilità. Da qui un apparente paradosso: abbiamo l’università meno selettiva, diamo la promozione anche a chi considera il congiuntivo una malattia oculare, ma abbiamo un numero bassissimo di laureati (19% fra i 30 e i 34 anni, contro il 30% della media europea, siamo al posto 34 su 36 paesi Ocse). Capita perché se la laurea non consente l’accesso al mondo del lavoro e non promette di guadagnare assai più degli altri, finisce con l’essere un pezzo di carta, ed è ragionevole che i feticisti del titolo non siano numerosi.

Le cattedre sono feudi i cui signorotti non producono cultura (ne abbiamo di bravissimi, ma sono osteggiata minoranza). La spesa è quasi tutta corrente. L’opacità totale. Molte università, nel mondo, pubblicano i risultati ottenuti da ciascun professore e i redditi poi raggiunti dai loro studenti. Noi: zero. Non solo il calo demografico non c’entra nulla, ma dovrebbe essere largamente compensato dall’afflusso di studenti dall’estero, se solo trovassero qualità. Invece ciò accade solo in pochi atenei. Semmai il flusso è opposto: i nostri giovani più premettenti prendono la valigia, cosi riproducendo una selezione per censo. Dato che l’istruzione costa, nel mondo. Da noi no, le tasse sono basse e per il resto si prendono i soldi dalla fiscalità generale, sicché i poveri finanziano i ricchi. Così perdiamo terreno non solo sulla frontiera tecnologica, ma anche in arti dove dovremmo dominare.

Per spezzare il maleficio ci vogliono iniezioni massicce di meritocrazia. Perché funzionino fra i banchi è necessario che partano dalle cattedre. Molti di quelli che le occupano dicono: abbiamo vinto un concorso. Risposte: a. non sempre è vero; b. chi se ne frega. Brutale? Può darsi, ma l’interesse da tutelare è quello degli studenti, non quello di chi pretende la sicurezza del posto in un mondo che può funzionare solo a condizione di non dare sicurezza a nessuno. Se sei bravo produci scientificamente e sai formare chi frequenta i tuoi corsi. Non devi dimostrarlo una volta nella vita, ma ogni giorno. Troppo faticoso? Avanti un altro.

Stesso discorso per i finanziamenti: i soldi vadano dove rendono. Una cattedra, un ateneo, una sede distaccata che non producono cultura sono un doppio spreco, che non va finanziato. Basta dire queste cose e trovi una pletora di dipendenti universitari che salgono sul tetto e occupano le sedi. Ricordo ancora il ghigno soddisfatto di un Bersani che li raggiungeva, arrampicandosi su una scaletta e morsicando il sigaro. Sono scesi, hanno ottenuto quello che volevano, non è cambiato nulla ed ecco il risultato: gli studenti se ne vanno.

La prima università italiana compare dopo il centesimo posto del ranking mondiale. Abbiamo reagito con orgoglio, chiamando i professori che le animano a governare l’Italia. Loro hanno aumentato le tasse per comprimere il debito pubblico, che è cresciuto. Gli studenti che possono si sono iscritti altrove.

Pubblicato da Libero