giovedì 26 febbraio 2009

Costituzione della Repubblica italiana

Art. 40.
Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano.

mercoledì 25 febbraio 2009

Una sconfitta cercata a lungo. Giovanni Sartori

Povera sinistra. Peggio messa di come è non potrebbe. E l`onda lunga che l`ha portata al tracollo viene da lontano, da molto più lontano di quanto i commentatori ricordino. L`altro giorno l`elezione di Dario Franceschini a nuovo segretario del Pd è stata una decisione sensata e forse l`unica possibile. Ma il salvataggio viene rinviato a elezioni primarie che dovrebbero spazzare via la vecchia nomenklatura e miracolosamente scoprire nuovi leader. Le primarie: sono state una fissazione di Prodi; e sinora si sono rivelate un enorme dispendio di energie senza frutto, che non hanno fondato o rifondato un bel nulla. Per carità, riproviamo ancora. Ma non illudiamoci che scoprano ignoti né quello che non c`è. A oggi ogni capopartito ha allevato i suoi e cioè potenziato la sua fazione, la sua corrente, promuovendo gli obbedienti (anche se deficienti) e cacciando gli indipendenti (anche se intelligenti). Pertanto la crisi di leadership della sinistra è una realtà dietro la quale non è detto che si nascondano geni incompresi, geni repressi.

Il guaio risale al fatto che per una trentina di anni abbiamo avuto la più grande sinistra dell`Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e forgiata dallo stalinismo di Palmiro Togliatti. Non era una sinistra addestrata a pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e semplice cinismo di potere; e il non pensare ideologico, il sonno dogmatico del marxismo, si è semplicemente trasformato nella sconnessa brodaglia del «politicamente corretto». Una brodaglia nella quale anche il semplice buonsenso brilla per la sua assenza. Dunque la malattia è grave e di vecchia data. Una malattia che coinvolge anche - passando al versante pratico del problema - l`erosione dei bacini elettorali tradizionali della sinistra. In passato la sinistra era, in tutta semplicità, il partito del proletariato operaio. Quel proletariato non esiste più. Lo ha sostituito un sindacalismo che in passato obbediva al partito, ma che ora lo condiziona.

Domanda: il collateralismo o condizionamento sindacale conviene davvero, oggi, alla «sinistra di governo» (come diceva Veltroni)? Ne dubito. La Cgil è oramai un sindacato antiquato «di piazza e di sciopero», abbandonato dai giovani, che rappresenta i pensionati (la maggioranza dei suoi tesserati), che difende gli sprechi e anche i fannulloni. E siccome siamo al cospetto di una gravissima crisi economica, la sinistra non la può fronteggiare appesantita dalla palla al piede della Cgil. O così mi pare. Altra domanda, questa volta sul collateralismo (dico così per dire) con la magistratura. Fermo restando che l`indipendenza del potere giudiziario è sacrosanta, il fatto resta che gli italiani sono indignati per la sua lentezza e inefficienza. Prodi si vanta di avere vinto due elezioni. Allora ci spieghi perché, in vittoria, non abbia alzato un dito per aiutare e anche costringere la giustizia a funzionare. La sinistra fa bene a difendere il potere giudiziario dagli assalti interessati di Berlusconi. Ma fa male a non difendere un cittadino così mal servito da una giustizia, diciamolo pure, ingiusta. (Corriere della Sera)

Razzisti con i romeni? Enzo Bettiza

Secondo il presidente del Senato di Bucarest, Mircea Geoana, gli italiani sarebbero affetti da una vera e propria «romenofobia», cioè da xenofobia e razzismo ormai a senso unico: tutto diretto contro gli immigrati provenienti, con passaporto comunitario europeo, dal più popoloso dei Paesi balcanici.

L’obiezione ci sembra alquanto stonata, al limite offensiva, dopo le equilibrate e anche severe dichiarazioni congiunte fatte l’altroieri dal ministro degli Esteri Franco Frattini e dal suo omologo romeno Cristian Diaconescu. Il fatto che l’altroieri i due ministri abbiano deciso di affrontare pubblicamente insieme, a Roma, uno a fianco dell’altro, la più perniciosa piaga immigratoria di cui da un paio d’anni soffre l’Italia, dimostra per se stesso che né i governanti italiani né tanto meno quelli romeni possono più ignorare un problema divenuto ossessivo e, per tanti aspetti, spaventoso: lo stillicidio ininterrotto di crimini con stupro e ferocia spesso mortale perpetrati da cittadini romeni, crimini che, dopo lo scempio della signora Reggiani, sono purtroppo continuati senza esclusione di colpi e di scelta: coppie di fidanzati inermi, ragazze quattordicenni, ottuagenarie disabili.

Inutile nascondersi dietro un dito o alzarlo per accusare di xenofobia indiscriminata l’ospite, ovvero la società italiana e le sue istituzioni, che semmai dovrebbero venire rimproverate di eccessiva tolleranza legale e umanitaria. Basta un paragone. La Francia, che pure ha avuto il vantaggio di ospitare per decenni emeriti intellettuali e scienziati romeni nei suoi laboratori, nelle grandi università, nei migliori teatri parigini, nelle più prestigiose case editrici.

Ebbene, questa Francia, che ha saputo vivere per lunghi decenni in simbiosi linguistica e culturale con Ionesco, Mircea Eliade, Émile Cioran, non ha esitato a espellere soltanto nel 2008 oltre 7000 indesiderabili romeni. Nel corso dello stesso anno l’Italia ne ha espulsi circa 40, a titolo più che altro simbolico, perché macchiatisi di atti illegali visibili e spesso recidivi.

Quale xenofobia dunque? Chi scrive ha sempre cercato di nominare rispettosamente nei suoi articoli il romeno con la «o» e mai con la «u» inserita da tanti colleghi con sprezzo più o meno consapevole nella parola «rumeno». Ero io stesso un esule dell’Est adriatico, e ne sapevo qualcosa degli scafisti d’arrembaggio che nel primo dopoguerra traghettavano a prezzo salato, a prezzo di fuga, ebrei sopravvissuti e profughi detti «giuliani» verso le coste povere e non sempre accoglienti di un’Italia in ginocchio dopo la sconfitta. Tuttavia, pur consci di essere gettati dalla malasorte allo sbaraglio, si cercava di comprendere che anche la miseria e l’angoscia degli ospiti peninsulari, compatrioti simili e dissimili da noi, erano in quegli anni per tanti aspetti vicine alle nostre miserie e alle nostre angosce: cercavamo di non offendere, non pretendere l’impossibile, non soppesare e commisurare col bilancino le diversità nella disgrazia, cercando d’amalgamarci e adattarci con discrezione e lavori umili al poco che la seconda patria poteva allora offrirci.

Si dirà, altri tempi. Altri, risponderò, peggiori, durissimi per l’ospite e per l’ospitato, nei quali l’incertezza del domani avrebbe potuto fomentare facili istinti di scontro e di rapina e di violenza astratta. Il che, a memoria mia, non accadde quasi mai. Al contrario d’allora, oggi l’immigrato corretto, non solo comunitario, può trovare in Italia protezione sindacale, assistenza sanitaria, contratti di lavoro, tredicesime pagate, in un ambiente che nonostante la crisi è tuttora ricco e, nell’insieme, solidale per legge e per animo rispetto alla sua nullatenenza originaria. Quello che riesce più difficile da capire è come i fuochi fatui di un benessere non solo materiale, ma rotocalcato dalle televisioni, dalla densità animata e fumosa delle metropoli, hanno potuto scatenare nelle successive ondate migratorie dai Paesi europei ex comunisti (assai più che da quelli islamici) brame e pretese di possesso immediato, totale, di carne e di danaro, che evocano tempi di guerra più che di pace: le donne di Berlino o di Belgrado assaltate dai soldati russi, le terre bruciate dai tedeschi in fuga dalle nazioni occupate, le bravate crudeli e le sevizie inferte dai servizi segreti francesi in Algeria, da ultimo, dopo le foibe, le orrende e infamanti pulizie etniche interjugoslave in Bosnia, in Croazia, in Kosovo.

È tutto questo che sembra ritornare e noi sembriamo riscoprire nelle spietate scorribande e nei delitti efferati di una fascia di criminali e spostati balcanici. Certo, come ci dicono, essi rappresentano l’uno per cento su una comunità che conta un milione e che nella sua stragrande maggioranza è composta di persone oneste e operose. Ma quell’uno per cento, censito su un milione, raggiunge su per giù la cifra non indifferente di diecimila individui, prossima a quella rinviata drasticamente da Sarkozy al loro Paese. Si tratta quasi sempre di individui instabili, ubiqui, spesso clandestini, dediti allo spaccio di donne e di droga, fuggiti dalla Romania per malefatte impunite, giunti dal profondo del postcomunismo ceauceschiano, taluni già espulsi più volte dall’Italia e poi ritornati indenni in Italia attirati e rassicurati dall’incertezza della pena con cui sovente li condonano tribunali indulgenti. Sono le minoranze aggressive che purtroppo, talora ingiustamente, nella nostra epoca di nuove invasioni, danno il tono e il timbro alle maggioranze pulite di cui parlano la stessa lingua. Non a caso da noi si trova il 40 per cento di romeni ricercati con mandato internazionale. Non a caso ci sono 1773 romeni in attesa di processo e 953 condannati in via definitiva. Sono i restanti 990 mila, la più grossa compagine straniera in Italia, che ne subiscono controvoglia la pressione immorale e la coloritura etnica. È la minoranza corrotta a dare corpo alla «questione romena» ormai divenuta questione di Stato e perfino di Chiesa sia a Roma che a Bucarest. I prelati delle comunità romene ortodosse in Italia invocano «comprensione e fratellanza» per i correligionari perbene, paventando anch’essi il rischio di contraccolpi xenofobi, mentre la Chiesa cattolica di Romania tramite una lettera del vescovo di Bucarest Ian Robu al cardinale Bagnasco, in cui non si grida al razzismo, chiede scusa all’Italia per i «suoi» criminali e con chiarezza dice che «tutto il male fatto da loro ci mortifica e ci riempie di sdegno».

Come si vede, c’è anche nelle autorità morali di Bucarest un filo razionale che discerne l’orrore e, se vogliamo, distingue l’impotenza paralizzata della società italiana dalla supposta «romenofobia». Sarebbe augurabile che anche quelli che accusano l’Italia di razzismo vedessero un intensissimo film italiano, Cover Boy di Carmine Amoroso, in cui si racconta il sodalizio disperato di due precari solitari e disperati: un giovane romeno e un meno giovane italiano, che appassionatamente quanto vanamente cercano di soccorrersi fino al sacrificio suicida dell’italiano: non il dissidio di razza ma il vincolo nel dolore condiviso lega, fino al gesto estremo del poverissimo «ospite», un’amicizia priva di speranza e di futuro. Un omaggio dolente a due candidi sventurati dell’Ovest e dell’Est.

Quanto ai governi delle due parti, essi certo aspetteranno con comprensibile interesse la prossima prova del nove legittimante l’identità europea della cospicua comunità romena che sarà la prima a votare, in massa, per i candidati italiani al Parlamento di Strasburgo. Alemanno, il sindaco di Roma, la città più orrendamente martoriata dalle recenti nerissime cronache, ha inviato ai residenti romeni nella capitale il modulo di iscrizione alle liste elettorali aggiunte. Sarà la prima volta che gli immigrati dalla Romania verranno pienamente equiparati ai votanti italiani nell’esercizio dei loro doveri e diritti di cittadini dell’Unione Europea. Sarà, più che un orpello emblematico, un patto di rinnovata convivenza nell’ambito di una stessa nazione e nella cornice di uno stesso continente. (la Stampa)

martedì 24 febbraio 2009

"Hanno eletto segretario del Pd il vicedisastro!". Carlo Panella

Matteo Renzi non ci sta simpatico, anche perché il trionfatore delle primarie di Firenze ci viene raccontato, in Transatlantico come ''uno che a 24 anni giravava già con l'autista, uno della casta, come pochi'', ma va detto che lo sfidante del blocco di potere fiorentino del sindaco Domenici ha il dono della sintesi. Definire Franceschini il ''vicedisastro'' ha del geniale, e va riconosciuto. Anche perché Franceschini, che invece ci sta realmente simpatico, ha subito iniziato col piede sbagliato. Che tristezza, che provincialismo, che errore da matita blu quel giuramento sulla Costituzione! E nelle mani del padre, poi! Roba da strapaese, da parvenu e strafalcione istituzionale gravissimo. Un segretario di partito non deve -ripetiamo- non deve giurare sulla Costituzione e se lo fa ne offende lo spirito e la lettera: scimmiotta un passo fondamentale della ''liturgia Repubblicana'', il giuramento dei presidenti della Repubblica, di Camera e Senato, del premier e dei ministri e lo trasforma in una kermesse mediatica (per di più davanti a un pubblico sparuto)!Pessimo inizio.

domenica 22 febbraio 2009

Come salvarci dall'abisso. Francesco Giavazzi

Ci siamo infilati in una situazione assurda. I prezzi delle attività finanziarie, e quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13 per cento; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri. È la sfiducia che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire. La prossima sarà una settimana cruciale.

Se la caduta di Wall Street non si arresta, il vortice rischia di accelerare: un’ulteriore caduta della ricchezza delle famiglie americane rallenterebbe ancor più i consumi e cancellerebbe gli effetti dello straordinario piano fiscale approvato la scorsa settimana dal Congresso. Che fare? Innanzitutto non dimenticare che (grazie alla globalizzazione) mai il mondo era cresciuto tanto rapidamente quanto nel decennio precedente la crisi. E non solo i Paesi ricchi: per la prima volta anche l’Africa sub-sahariana aveva cominciato a crescere. Certo, c’erano molte debolezze: il prezzo delle abitazioni in qualche Paese era salito troppo; negli Stati Uniti ad alcuni immigrati recenti erano stati concessi mutui che non potevano permettersi; le banche si erano illuse di aver diversificato il rischio e invece spesso non lo avevano fatto; la regolamentazione faceva acqua; il Congresso aveva consentito che Fannie Mae e Freddie Mac, istituzioni che avrebbero dovuto essere dei semplici fondi di garanzia, si trasformassero in speculatori aggressivi, trasferendo il rischio su contribuenti ignari.

Ma tutto questo non giustifica l’abisso in cui siamo caduti. I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa? È possibile e potrebbe non costare nulla. Il vortice in cui sono entrate le Borse dipende dalle banche: in una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è. Per far uscire i mercati dal vortice della sfiducia il governo americano dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle a un prezzo prefissato, superiore all’attuale prezzo di mercato.

Una simile garanzia rialzerebbe immediatamente i prezzi e con essi la ricchezza delle famiglie. Risolverebbe anche i problemi delle banche. Come per Citigroup, se le banche americane siano, o meno, fallite, dipende dai prezzi delle attività che hanno in bilancio: se il prezzo di questi titoli è zero sono tutte fallite; se il prezzo è ragionevole non lo è nessuna (ieri il governatore Draghi ha proposto garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle banche, ma sui nuovi prestiti, un intervento che va nella medesima direzione e aiuterebbe a far ripartire il credito alle nostre aziende). A quale prezzo dovrebbero essere offerte queste garanzie? Certo non ai prezzi precedenti la crisi, ma nemmeno ai prezzi di oggi, che per molti titoli sono prossimi a zero. Una possibilità è usare i prezzi precedenti il fallimento di Lehman, cioè quando i mercati già scontavano la crisi, ma prima del crollo.

E quanto costerebbero le garanzie ai governi? È probabile che su alcuni titoli il governo perda, cioè che i prezzi di realizzo siano inferiori al valore della garanzia. Ma per la maggior parte — quando il mondo tornerà alla ragionevolezza — il prezzo salirà ben oltre il valore della garanzia: in questi casi si potrebbe tassare la plusvalenza. Non solo le garanzie potrebbero non costare nulla: per i contribuenti potrebbero rivelarsi un grande affare. In questo fine settimana a Washington si è fatta strada anche un’altra idea: essa pure potrebbe spegnere il vortice senza costare nulla. Sul Washington Post Ricardo Caballero, economista del Mit, ha proposto che il governo si impegni ad acquistare fra due anni il doppio delle azioni delle quattro maggiori banche al doppio del prezzo di oggi. Il primo effetto sarebbe quello di raddoppiare il capitale delle banche tramite fondi privati.

Nello stesso tempo il prezzo delle azioni salirebbe immediatamente vicino al livello della garanzia pubblica, sollevando tutto il mercato. Anche questo provvedimento non costerebbe nulla ai contribuenti, a meno che davvero pensiamo che l’economia americana sia come la Germania del ’45. Il vantaggio rispetto alle garanzie sull’attivo delle banche è che in questo caso basta un annuncio: potrebbe accadere già domani. Delle garanzie sull’attivo delle banche ci sarà comunque bisogno, ma per quelle c’è un po’ più di tempo (qualche giorno, non qualche mese). Ciò che invece accelera il vortice è parlare di nazionalizzazioni. Nazionalizzare una banca significa azzerare (o almeno diluire) il capitale degli azionisti: non c’è da sorprendersi se questo rischio fa crollare le Borse. Fortunatamente ieri l’amministrazione Obama ha preso le distanze da chi chiede nazionalizzazioni. Nella scena più famosa di Mary Poppins, Mr Dawes, l’anziano impiegato di banca, spaventa il piccolo Michael tentando di sottrargli un penny. La gente non capisce, si impaurisce e travolge la banca. È per evitare questi panici che sono nate le garanzie pubbliche sui depositi bancari. La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti. Il mondo non è radicalmente diverso oggi da quanto fosse un anno fa, tranne che si è persa la fiducia. È da questa osservazione che deve partire l’opera di ricostruzione. (Corriere della Sera)

sabato 21 febbraio 2009

Gli stranieri e la mecca del crimine. Luca Ricolfi

Periodicamente l’opinione pubblica si allarma per il problema della criminalità e della violenza. I giornali soffiano sul fuoco. Il governo tenta di fare qualcosa (è di ieri l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto anti-stupri). Maggioranza e opposizione tirano acqua ai rispettivi mulini. Quando al governo c’è la sinistra e all’opposizione c’è la destra, il copione è già scritto: la sinistra minimizza e la destra drammatizza. Quando invece, come oggi, i ruoli di governo e opposizione sono invertiti, il copione va in crisi. La sinistra vorrebbe cavalcare la paura, ma non può farlo perché i suoi riflessi condizionati buonisti le suggeriscono di sdrammatizzare. La destra, per contro, vorrebbe tanto drammatizzare, ma deve trattenersi perché è al governo e teme di essere considerata responsabile di quel che succede. Dopo i recenti casi di stupro a danno di donne italiane e straniere siamo dunque tornati a farci le solite domande. La criminalità è in aumento? Gli stranieri delinquono di più degli italiani? I romeni hanno una speciale vocazione per i reati di violenza sessuale? O sono tutte «percezioni»? Sull’andamento della criminalità non si può dire molto. Con i dati finora disponibili (non definitivi e fermi al 1° semestre 2008) possiamo solo fissare qualche punto. La criminalità è aumentata molto subito dopo l’indulto: +15,1% in un anno, fra il primo semestre 2006 e il primo semestre 2007. Nel primo semestre del 2008 è diminuita rispetto al 2007, presumibilmente a causa dell’elevato numero di «indultati» recidivi, liberati e poi riacciuffati dalle forze dell’ordine. Ma la diminuzione non è stata sufficiente a compensare l’impennata del 2007, cosicché due anni dopo l’indulto il numero di delitti era un po’ maggiore di quello pre-indulto. Per esempio abbiamo più rapine (+4,9%), più omicidi volontari consumati (+7,7%), più truffe e frodi informatiche (+10,7%). In breve: le carceri sono strapiene, esattamente come lo erano prima dell’indulto (60 mila detenuti), e il numero di delitti è un po’ maggiore di allora. Sul tasso di criminalità dei cittadini stranieri è difficile lavorare con statistiche precise, perché si ignora il numero esatto degli irregolari, però la situazione è piuttosto chiara.

Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6). Fino a qualche anno fa la pericolosità degli stranieri, pur restando molto superiore a quella degli italiani, era in costante diminuzione, ma negli ultimi anni questa tendenza sembra essersi invertita: la pericolosità degli stranieri non solo resta molto superiore a quella degli italiani, ma il divario tende ad accentuarsi. Resta il problema della violenza sessuale e degli stupri. Qui la prima cosa da dire è che i mass media sono morbosamente attratti dalle violenze inter-etniche - lo straniero che stupra un’italiana, l’italiano che stupra una straniera - e riservano pochissima attenzione alle violenze intra-etniche, che a loro volta sono spesso intra-famigliari (donne violentate da padri, zii, suoceri, partner più o meno ufficiali). Ma i mass media, a loro volta, amplificano una distorsione che è già presente nelle denunce: l’assalto di un branco di adolescenti a una ragazzina all’uscita da scuola ha molte più probabilità di essere denunciato di quante ne abbiano le vessazioni di un padre-padrone, non importa qui se dentro un campo nomadi o in una linda villetta piccolo borghese. Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che - anche qui - il divario si sta allargando: l’ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio relativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004). Infine, i romeni. In base ai pochi dati fin qui resi pubblici, la loro propensione allo stupro risulta circa 17 volte più alta di quella degli italiani, e una volta e mezza quella degli altri stranieri presenti in Italia. Lo stupro non è però il reato in cui i romeni primeggiano rispetto agli altri stranieri. Nella rapina sono 2 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 15 volte rispetto agli italiani), nel furto sono 3-4 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 42 volte rispetto agli italiani). Nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose, invece, sono leggermente meno pericolosi degli altri stranieri, ma comunque molto più pericolosi degli italiani (7 e 5 volte di più rispettivamente). Si può discettare all’infinito sul perché il tasso di criminalità degli stranieri, anche regolari, sia così più alto di quello degli italiani. Razzisti e xenofobi diranno che l’alta propensione al crimine di determinate etnie dipende dai loro usi e costumi, se non dal loro Dna.

Ma la spiegazione più solida, a mio parere, è tutta un’altra: se gli stranieri delinquono tanto più degli italiani non è perché noi siamo buoni e loro cattivi, ma perché i cittadini stranieri che arrivano in Italia non sono campioni rappresentativi dei popoli di provenienza. Con la sua giustizia lentissima, con le sue leggi farraginose, con le sue carceri al collasso, l’Italia è diventata la Mecca del crimine. Un luogo che, oltre a una maggioranza di stranieri per bene, attira ingenti minoranze criminali provenienti da un po’ tutti i Paesi, e così facendo crea l’illusione prospettica dello straniero delinquente. Perciò hanno perfettamente ragione gli italiani che hanno paura degli immigrati, ma hanno altrettanto ragione gli stranieri onesti che si sentono ingiustamente guardati con sospetto. I cittadini italiani privi di paraocchi ideologici non possono sorvolare sul fatto che uno straniero è dieci volte più pericoloso di un italiano. Ma farebbero ancor meglio a rendersi conto che ogni comunità straniera è costituita da due sottopopolazioni distinte: gli onesti attirati dalle opportunità di lavoro, e i criminali attirati dalla debolezza delle nostre istituzioni. Il problema è che le due sottopopolazioni non si possono distinguere a occhio nudo, e quindi - in mancanza di segnali che consentano di separarle - la diffidenza diventa l’unico atteggiamento razionale. Un atteggiamento che non si supera con lezioncine di democrazia, tolleranza e senso civico, ma solo rendendo l’Italia un paradiso per gli stranieri di buona volontà e un inferno per i criminali, stranieri o italiani che siano. (la Stampa)

giovedì 19 febbraio 2009

Il blocco mentale. Pierluigi Battista

Nel 2002, a un anno dalle elezioni perse contro Berlusconi, la sinistra stordita e sopraffatta dalla sindrome della sconfitta consegnò agli intellettuali girotondisti la missione di riaccendere lo spirito della grande battaglia contro il «Caimano»: fu l’inseguimento affannoso del radicalismo estremista, il rifugio nella sfera onirica della guerra totale contro il nemico. La sinistra riconquistò voti e tensione emotiva fino alla risicata vittoria del 2006.

Ma quella fiammata, come i fatti si sono incaricati di dimostrare, era destinata a spegnersi nel peggiore dei modi. Oggi, a un anno dalla sconfitta del 2008 e dopo un’impressionante sequenza di rovesci culminata nella disfatta sarda e nella crisi devastante del Pd, la sinistra potrebbe trarre una salutare ispirazione da un altro intellettuale, un sociologo lontanissimo dalla tipologia girotondista ma che non ha mai nascosto la sua appartenenza alla cultura della sinistra: Marzio Barbagli. Nell’intervista rilasciata a Francesco Alberti per il Corriere, Barbagli racconta di una formidabile lotta tra i suoi «schematismi» culturali e i dati della realtà che lo hanno costretto, sul tema della criminalità connessa all’immigrazione, a rivedere drasticamente le proprie «ipotesi di partenza».

«Non volevo vedere », confessa con cristallina onestà intellettuale Barbagli, «c’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull’incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l’ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto». Il racconto di Barbagli riassume con grande pathos espressivo il senso di un percorso sofferto: «ho fatto il possibile per ingannare me stesso»; «era come se avessi un blocco mentale ».

Fino alla conclusione catartica, ma malinconica e solitaria: «sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore e l’uomo di sinistra. Ora sono un ricercatore. E nient’altro». La conclusione di Barbagli segna il dramma della sinistra italiana che si strazia nel vortice delle ripetute sconfitte. Il suo bagno nella realtà, il suo immergersi nei dati empirici per capire che cosa si muove nella società italiana senza essere percepito dagli occhiali deformanti del politicamente corretto, sanciscono un divorzio tragico tra il «ricercatore» e «l’uomo di sinistra». La sinistra lamenta ritualmente il proprio distacco dalla realtà, il proprio ripiegarsi autoreferenziale in una retorica incomprensibile al «vissuto » della società come realmente è e pensa.

Ma per lasciarsi «assalire dalla realtà », come usava dire tra i liberal americani sommersi dall’ondata culturale neoconservatrice, deve impegnarsi per ricomporre la frattura esistenziale raccontata da Barbagli. Deve dimostrare che tra la «ricerca » e la sinistra, tra i «dati» e il discorso dominante nei suoi circuiti autisticamente chiusi in se stessi non c’è guerra o alterità, e che per risollevarsi occorre disfarsi del «blocco mentale» che l’ha paralizzata in questi anni, precludendosi ogni comunicazione con ciò che sta fuori di essa. Scegliere Barbagli e non chi gli «ha tolto il saluto». La realtà e non i sacerdoti di una «correttezza» politica sempre più vuota. (Corriere della Sera)

mercoledì 18 febbraio 2009

Sinistri berlusconidi. Davide Giacalone

Le elezioni sarde le ha vinte Berlusconi, non c’è dubbio. Le hanno perse i berlusconidi che occupano la sinistra. Nel vuoto ideale e programmatico, l’identità della sinistra italiana è data da tre elementi: a. quel che erano, ovvero comunisti e democristiani; b. quello cui si oppongono, ovvero Berlusconi; c. quello cui aspirano, ovvero prendere il posto e recitare il ruolo di Berlusconi. Che, però, non capiscono.
Credono il suo sia il potere dell’apparire, mentre non di rado è protagonista di pistolotti televisivi piuttosto lunghi e non efficaci. Credono conti il dominio sulle televisioni, salvo il fatto che l’occupazione sinistra del piccolo schermo non teme rivali, ed ha in Berlusconi un complice, visto che quel che conta, per far soldi, non è agitare giuste battaglie, ma attirare ascolti alti, senza sofisticare su luoghi comuni e versioni omogeneizzate della storia. Credono il suo sia un partito senza radici, così tagliano progressivamente anche le loro, di cui, come ho ripetuto, hanno più di una ragione per vergognarsi. Invece Berlusconi è un fenomeno politico forte e duraturo perché ha radici profonde ed esprime il comune sentire di moltissimi italiani. Lui è parte dell’identità nazionale, nel senso che sa interpretarla in modo impareggiabile, senza l’uzzolo di volerla correggere.
La sinistra ha pensato di fargli il verso, finendo con l’imitare un’imitazione tarocca. Prendete Soru: ricco, libero dai partiti, sardo, presidente, s’è scelto la data per le elezioni ed ha lanciato la sfida a livello nazionale. Raso al suolo. Perché? Semplice: non era la sinistra, non era la destra e non era la sardità. Era un berlusconide che sfidava un berlusconide al cubo: Veltroni.
Restiamo alla realtà. La sinistra crede che la destra prenda voti perché, a fronte di stupri ed immigrazione, parla di legge ed ordine. Che non ci sono. Così ripete le stesse parole, come gli scemi che ripetono le formule magiche dei prestigiatori. Dovrebbero denunciare la malagiustizia e proporre riforme radicali, dalla separazione delle carriere all’esecuzione delle sentenze. Ma non possono, perché la corporazione togata li occupa e loro non hanno testa sufficiente. Fanno, allora, la faccia feroce, che risulta falsa, perché in contrasto con la loro cultura. Morale: perdono tutto, anche l’onore.

martedì 17 febbraio 2009

Di che vergognarsi. Davide Giacalone

Ringrazio Luciano Violante, ci offre la possibilità di suggerirgli di cosa, lui e quelli come lui, devono vergognarsi. Non si cruccino, non serve che siano loro a riconoscere i crimini del comunismo e dei comunisti. Quelli internazionali, che essi applaudirono, con la persecuzione degli intellettuali, che tanto piaceva a Napolitano, e quelli nostrani, che Togliatti negò ed i suoi successori occultarono.
Ha ragione Pansa, a ricordare che, ancora oggi, è temerario raccontare la storia della guerra civile italiana. Fu, del resto, descritta in presa diretta, ad esempio da “Rivoluzione Liberale”, diretto da Mario Panunzio. I comunisti negarono, accusarono, insultarono. Dissero: sono corrotti e venduti. Autobiografico, come sempre.
Non importa, la storia è lì, i fatti e la loro viltà incancellabili. Ma i Violante, come i Veltroni ed i D’Alema, intere generazioni, non devono vergognarsi (solo) per quel che hanno fatto i loro compagni di fede, ma per quello che hanno fatto essi stessi. Napolitano era presidente della Camera quando Moroni si sparò una fucilata in testa. Non si mosse un fiato, non si lesse il gesto disperato di chi non voleva vergognarsi, ma dire la verità: certo, abbiamo raccolto soldi, abbiamo finanziato illegalmente il partito, e, certo, fra di noi ci sono lestofanti e ladri, ma con questi non possiamo e non dobbiamo essere confusi, perché noi eravamo tenuti a non soccombere a vantaggio del più grande e ricco partito comunista d’occidente, che prendeva più tangenti di noi ed a quelle sommava i soldi sporchi di sangue, elargiti dalle dittature. Di questo, devono vergognarsi. Anche Violante, personalmente, che grazie a quei soldi sporchi ha vissuto una vita da parlamentare saccente e giustizialista. Come gli altri suoi compagni, del resto.La forza, la ricchezza, la viltà e l’immoralità dei comunisti italiani ha bloccato la nascita di una sinistra occidentale e di governo, per l’intera storia repubblicana, ed ancora oggi. Essendo rimasti eguali a se stessi, sono ora disposti a dirsi atlantisti, liberali, magari anche garantisti, purché si garantisca loro la permanenza nel privilegio e la copertura della bugia. Di questo dovrebbero vergognarsi, di sé medesimi. Ma sono omuncoli, la natura non li ha dotati dello spessore per poterlo prima capire e poi fare.

venerdì 13 febbraio 2009

Gli chiedono persino un risarcimento, Contrada si rivolga a Genchi. Lino Jannuzzi

La Corte dei conti di Palermo ha chiesto 150mila euro di risarcimento a Bruno Contrada per danni all’immagine dello Stato in seguito alla sua condanna a dieci anni di reclusione per concorso esterno all’ associazione mafiosa. Bruno Contrada è stato il più famoso poliziotto di Palermo, dove ha combattuto la mafia per quarant’anni, e quando non c’erano ancora i “pentiti” e le intercettazioni telefoniche e ambientali per la pesca a strascico e i diabolici incroci dei tabulati del poliziotto in aspettativa sindacale e aziendale Gioacchino Genchi. Contrada ha ricevuto dozzine di encomi solenni dalla magistratura e dal ministero dell’Interno e ha fatto una splendida carriera fino alla direzione della squadra mobile e della Criminalpol e alla nomina a capo di gabinetto dell’Alto commissario antimafia e a numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. Le gelosie e gli intrighi di qualche Caino della polizia e le lotte di potere all’interno stesso del Viminale hanno innescato contro di lui le calunnie dei “pentiti”, gli stessi mafiosi che Contrada aveva inquisito e arrestato e che lo hanno accusato per vendetta. Arrestato a sua volta la vigilia di Natale del 1992, mentre i mafiosi da lui denunciati e arrestati diventavano “collaboratori di Giustizia” e venivano scarcerati e stipendiati dallo Stato, Contrada ha scontato 31 mesi e sette giorni di carcerazione preventiva, in isolamento in un carcere militare riaperto appositamente per lui, ed è stato processato per quindici anni. Condannato a dieci anni in primo grado il 5 aprile del 1996, è stato assolto “perché il fatto non sussiste” nel primo processo d’appello il 4 maggio del 2001. Ma la Cassazione ha annullato l’assoluzione il 12 dicembre del 2002 e ha disposto un nuovo processo d’appello, che l’ha condannato, di nuovo a dieci anni, il 25 febbraio 2006, condanna che la Cassazione ha reso definitiva nel maggio del 2007. Quattro giorni dopo Contrada si è costituito nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e vi è rimasto quattordici mesi, fino al luglio del 2008, quando per gravi motivi di salute gli sono stati concessi gli arresti domiciliari, prima a casa della sorella Anna a Varcaturo, in provincia di Napoli, e poi dal 14 ottobre del 2008 a casa sua a Palermo, accanto alla moglie, anch’essa gravemente ammalata. Dall’inizio dell’anno minacciano di riportarlo in galera, nonostante le sue condizioni di salute siano peggiorate, perché a Palermo potrebbe riprendere i contatti, che peraltro non sarebbero mai cessati, con l’associazione mafiosa.

E’ dopo tutto questo che ieri gli hanno notificato il provvedimento della Corte dei conti che vuole essere risarcita in quanto la sua condotta di colluso con Cosa nostra avrebbe danneggiato l’immagine delle forze dell’ordine e delle Istituzioni della Repubblica. A questo punto nasce un problema: Contrada non ha una lira, tranne la magra pensione che lo Stato gli riconosce dopo quarant’anni di servizio. Infatti, dopo quindici anni di indagini e di processi, nonostante lo abbiano rivoltato come un calzino, non hanno trovato la minima traccia di un compenso o un beneficio incassato per i presunti favori che avrebbe fatto alla mafia. Tant’è che hanno riconosciuto, sia nelle sentenza di condanna in primo grado che in quella del secondo appello, di non aver trovato il movente del suo presunto concorso in associazione mafiosa: se ha fatto dei favori alla mafia, Contrada li ha fatti gratis. Come farà ora a pagare questi 150mila euro? Una soluzione ci sarebbe: glieli potrebbe prestare Genchi, il poliziotto in aspettativa che in questi quindici anni, gli stessi trascorsi da Contrada sotto processo e in galera, ha incassato dallo Stato, con i suoi diabolici incroci di tabulati, molti milioni di euro. (il Velino)

giovedì 12 febbraio 2009

Non su di lei, ma su di noi. Davide Giacalone

Non scrivo della ragazza. Su di lei si è largamente superato il segno. Mi occupo di quel che dal caso, talora a sproposito, è derivato, circa etica, diritto e Costituzione. Si sono sfidati due fondamentalismi: quello della fede senza pietà e quello dello scientismo senza ragione. C’è chi vuol farsi valere sopra la legge e chi pretende d’avere il monopolio del sapere, pronunciando “scienza” con toni da mago. I ragionevoli guardano perplessi, perché di storie simili son colme le famiglie, così come anche le corsie d’ospedale. Regolati secondo amore e compassione, lasciando che i dolenti, anche nella fede, vadano senza ostacoli ulteriori “alla casa del Padre”.
Abbiamo assaggiato la prepotenza dell’etica di parte, del volere vincere sul corpo altrui, al recitare grazie ad una vita senza vitalità. S’è detta “legale” la soluzione più turpe, quella giudiziaria: non la fine, non la speranza, ma l’agonia del morto per far contento un diritto defunto. Roba da pazzi. Un clima nel quale spero non si faccia nessuna riforma controriformista, modello fecondazione assistita. Meglio l’ombra, che una luce tanto oscura.
Con la morte marciante su se stessa s’è montato anche un conflitto istituzionale. Il Quirinale ha torto marcio, perché non esiste il potere d’interdizione, di per sé devastante dell’equilibrio costituzionale. Il governo ha torto stantio, perché la questione è nota da anni e se urgenza c’era consisteva nel rendere impossibile un pronunciamento illogico della magistratura, non nel porvi rimedio su un caso senza vie d’uscita. Ora l’urgenza è tolta, anche se il caso si replica di continuo. Niente palcoscenico, niente spettacolo, si sfollano gli spalti.
In quanto alla Costituzione influenzata dal filosovietismo, non so in quanti siamo rimasti ad essere democratici, antifascisti tanto quanto anticomunisti, ma quando fu scritta il nazifascismo era stato seppellito e l’impero comunista era alleato. I comunisti di Togliatti erano filosovietici e dalla dittatura nutriti, come anche appresso. Vogliamo cancellare ogni traccia della loro influenza costituzionale? Bene, ci sarebbe anche l’articolo sette, sui rapporti fra Stato e Chiesa, che portò in casa repubblicana i Patti Lateranensi firmati dal fascismo. Ah, quant’è severa e sadica la storia, con chi la maneggia incautamente.

La dittatura del Chicco. Salvatore Tramontano

I democratici europei degli anni trenta si chiesero a lungo se fosse necessario e utile «morire per Danzica». Era il tempo delle domande che fanno grande e tragica la storia, quel dilemma aveva un senso. I democratici italiani del terzo millennio, bontà loro, non mostrano dubbi e presi da autoreferenzialità a dir poco preoccupante, già si dichiarano pronti a «morire per Chicco» (ovvero Mentana). Ovviamente c’è già la farsa in agguato e nessuno riesce ad evitare il senso del ridicolo in questo nuovo inno alla democrazia violata.
Il manifesto titola in prima pagina che Berlusconi è «Il grande fardello» (orwelliano, s’intende) che fa strage degli spiriti liberi, a partire dall’ex direttore del Tg5. Il quotidiano comunista, ovviamente, si dimentica che per anni lo stesso Mentana era stato dipinto su quelle stesse pagine come il più furbo dei camerieri del Caimano. Gad Lerner annuncia con piglio epico che ha rifiutato sdegnato l’invito a Chiambretti night. E ne dà notizia sul suo sito con lo stesso orgoglio con cui le democrazie liberali annunciavano le sanzioni contro l’Italia mussoliniana. Come se discutere di informazione nella effervescente arena chiambrettiana fosse una pericolosa contaminazione con «il nemico», un peccato di impurità. Noi, però, non abbiamo dimenticato la lettera altrettanto irata con cui, solo un anno fa, Lerner accusava Mentana di essere un arrogante monopolista dell’informazione, ripagato con egual moneta dal conduttore di Matrix che lo sfotteva per gli ascolti lillipuziani del suo Infedele. Ma si sa. I nemici dei miei nemici sono miei amici e così adesso per Mentana si ammazza il vitello grasso e si fa festa grande.
Volevate, dunque, che non scendesse in campo Walter Veltroni, colui che denunciava il massacro democratico perché aumentava l’Iva per Sky (al pari di quello di Mediaset)? E che oggi offre la sua solidarietà a Mentana come se fosse un perseguitato politico, mentre è uno che semplicemente ha dato le dimissioni. «La sua indipendenza – ci informa il leader del Pd – non è stata tollerata». L’ex ministro Gentiloni sentenzia che «senza Mentana Mediaset cambia pelle», mentre Giovanna Melandri denuncia «il tentativo di colorire il servizio televisivo di un pensiero unico acritico eliminando al suo interno il pluralismo». Sono lo stesso trio di dirigenti politici che durante la campagna elettorale del 2006 stilava comunicati di fuoco quando si prospettava l’ipotesi che il confronto Prodi-Berlusconi avvenisse a Mediaset. E indovinate da chi? Ma da Mentana, ovviamente.
Siamo curiosi di vedere se, quando Mentana avrà un successore, questi paladini della libertà e del pluralismo rifiuteranno gli inviti nel nuovo programma, che a sentire loro dovrebbe essere – non si capisce perché – meno aperto e democratico di Matrix di Mentana. Infine la Federazione nazionale della stampa, permettendosi di giudicare i palinsesti di una azienda che stava trasmettendo ben due programmi di informazione dedicati alla vicenda di Eluana, ci dice che la scelta di Canale 5 di mandare in onda la puntata del Grande Fratello era «insensata e stridente».
A ben vedere, in questo coro scomposto, variopinto e involontariamente comico c’è tutta l’attuale povertà di idee del centrosinistra, quello che grida al golpe e poi chiede in ginocchio al Cavaliere di concedergli leggi di sbarramento elettorale (per frenare l’emorragia dei voti). Quella che per difendere la Costituzione non esita a «scalfarizzare» Napolitano. Quella che non prende mai atto della sua minorità, della propria sconfitta politica ed egemonica, ma che continua a trastullarsi nell’illusione di poter rilasciare patenti di democraticità e attestati di martirio. Anche dietro questa polemica di panna montata si nasconde l’antico vizio della sinistra post-comunista: la pretesa della superiorità morale. Che perde di vista anche il buonsenso. Perché se Mediaset è davvero il Grande Fratello, davvero non si capisce come il martire liberal Mentana abbia potuto essere in questa azienda per oltre venti anni uno dei massimi dirigenti, se non il principale volto dell’informazione. Ovviamente ci sono dei precedenti. Gli stessi politici gridarono già al martirio – qualche anno fa - per Lamberto Sposini. Doveva essere un grande epurato di Carlo Rossella, adesso conduce un noto programma di battaglia politica, «La vita in diretta». Il miglior augurio che si può fare a Mentana è che le solidarietà pelose del centrosinistra non distruggano anche la sua brillante carriera. (il Giornale)

mercoledì 11 febbraio 2009

Veltroni si accoda a Famiglia Cristiana e denuncia nuove "leggi razziali". Penoso. Carlo Panella

Don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, ha deciso da tempo di spararle grosse e ha fatto un titolo stile ''Il Male'' accusando il governo di riproporre oggi le leggi razziali sull'immigrazione. Un'accusa ridicola, anzi, grottesca, che peraltro dimostra una scarsissima sensibilità al tema della persecuzione degli ebrei.
Ma don Sciortino è un direttore di giornale -anche se particolare- e può fare e dire ciò che vuole (ma sarebbe interessante capire come mai il suo eidtore, le Edizioni paoline, gli lascia fare questi strafalcioni).
Walter Veltroni, invece, non è un giornalista spregiudicato, è il segretario del principale partito di opposizione e tutto può fare, tranne che spararle grosse. Oggi, invece, ha deciso di ''sposare'' don Sciortino (che giustamente il ministro Maroni vuole denunciare, perché si sente insultato da quel titolo)e di fare sua la denuncia di ''leggi razziali'' ad opera del governo.
Deriva demenziale, ancora una volta, isteria verbalista, demagogia di bassa lega. Veltroni ha perso il contatto con tutto, anche col buon gusto.

lunedì 9 febbraio 2009

Riscaldamento che? Carlo Stagnaro

Prima pagina di Repubblica di oggi. Non ci posso credere. Il pezzo di cronaca sulle vittime dei tragici incendi in Australia non trova miglior colpevole del riscaldamento globale. A questo punto mi arrendo. Di fronte a tanto, non ho argomenti. (Realismo energetico)

sabato 7 febbraio 2009

Con tutto il rispetto è Napolitano a sbagliare non Berlusconi. Giancarlo Loquenzi

Questo è un editoriale sulle regole e non su Eluana o Beppino, quindi mettete da parte insulti e maledizioni almeno fino ad aver letto l’ultima riga. Oggi tutti i giornali – con tutti i loro opinionisti in gran spolvero – ci raccontano dell’immensa ferita che Berlusconi avrebbe inflitto alla democrazia, ci spiegano la sua sconfinata arroganza, e il suo inaudito ardire nella sfida con Napolitano. Sull’altro versante, il capo dello Stato viene descritto dolente e pensoso, mentre asserragliato nei suoi quartieri con pochi fedelissimi, tenta di respingere l’assalto del barbaro Cavaliere e infine ne esce vincitore sebbene scosso e ferito.

Ma le cose non sono andate così, anzi somigliano molto di più alla versione opposta. C’era il governo e la sua maggioranza unanimemente schierati nel tentativo di salvare la vita di Eluana Englaro, tentativo ormai trasformatosi in una corsa contro le ore. E c’era l’unico strumento possibile, secondo le regole, per interrompere il conto alla rovescia che già da ieri scandisce il tempo alla clinica la Quiete: un decreto legge immediatamente efficace a porre uno stop al quel conteggio.

Era possibile un simile decreto? I pareri, nel governo, tra i parlamentari e persino tra i costituzionalisti di area, erano discordi, ma l’idea era che valesse la pena provare, trovare una soluzione. Di quel decreto infatti sono venute alla luce due versioni. La prima prevedeva di prendere di peso il testo di legge già in discussione al Senato, quello approntato dal relatore Calabrò, e trasformarlo in un decreto. Ma l’ipotesi non ha retto a lungo al vaglio dei giuristi e a quello dello stesso Quirinale, troppo palese era il conflitto tra le prerogative del governo e quelle del Parlamento già a lavoro su quello stesso testo.

Nasce così l’ipotesi “Onida”, anche se l’illustre costituzionalista, vista la mala parata, ha poi disconosciuto il suo intervento. L’idea era di ridurre il decreto a una norma ponte che in sostanza dicesse: fino a quando non ci sarà una legge sul testamento biologico l’alimentazione e l’idratazione non possono essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi.

La soluzione trovata, ormai quasi a ridosso del Consiglio dei ministri di ieri, era apparsa subito convincente ai più e in grado di rispondere alle obiezioni giunte sino a quel momento. Non si sovrapponeva al lavoro del Parlamento e non lo ipotecava, colmava però quello stesso vuoto normativo che aveva indotto la corte di Cassazione a pronunciarsi sul caso Englaro, e – secondo i proponenti – aveva sia i requisiti di necessità e urgenza che un fondamento generale o “erga omnes” come dicono i giuristi. Il decreto infatti entrava in azione per tutelare il bene della vita di Eluana, la cui perdita sarebbe stata irreversibile quando una legge definitiva fosse intervenuta a stabilire il divieto di ucciderla. E d’altro canto si riferiva ad una generalità di casi simili – non era solo un “decreto Eluana” – poiché ci sono almeno 300 situazioni simili in Italia su cui la norma avrebbe avuto effetto. Restava il dubbio più grande: il conflitto con la sentenza definitiva della corte d’Appello. Sempre Onida, aveva però suggerito agli estensori del decreto, che nel caso Eluana non si era dinanzi all’accertamento autonomo di un diritto ma di un provvedimento di volontaria giurisdizione. In sostanza la corte non si era mossa di sua iniziativa ma su sollecitazione dell’interessato, Beppino Englato, si era dinanzi cioè ad un decreto più che a una sentenza.

Altri esperti avevano poi osservato che il testo del decreto non conteneva alcun riferimento ad Eluana, ma era generico e generale, quindi promulgabile, salvo poi stabilire, in sede di interpretazione se poteva applicarsi o meno ad Eluana. E’ d’altronde vero che il legislatore non può in teoria agire contro il “giudicato”, ma se si produce una nuova norma che riempie il vuoto normativo che ha prodotto e giustificato quel “giudicato”, si può sostenere il suo effetto retroattivo, specie se viene inteso come più favorevole ai casi coinvolti dalla sentenza.

Insomma come vedete si tratta di regole, di interpretazioni, di pesi e contrappesi: non si lavorava a strappi, a ferite, a colpi di mano. Il governo tentava di camminare in equilibrio su quella linea stretta e tortuosa che abbiamo faticosamente (e noiosamente) descritto nella speranza che portasse alla salvezza di Eluana, senza cadere nel baratro dell’eversione. Un tentativo sincero, credo, a meno di essere sempre dietrologi, complottisti e iperideologici, di salvare vita e regole.

Molti hanno conservato dubbi fino all’ultimo. Io stesso non ero fino in fondo convinto che la soluzione del decreto reggesse a qualsiasi urto. E mi sembrava rischioso anche se suggestivo sostenere che davanti al valore anche di una sola vita le regole e i formalismi andassero ammainati. Così come non ero convinto che trasformare la battaglia per la vita di Eluana in un simbolo bastasse di per sé a rendere tollerabili al tessuto democratico gli eventuali strappi che si fossero prodotti. I simboli hanno questa carica “terapeutica” sulle democrazie quando sono profondamente radicati e condivisi, non quando sono controversi e divisivi.

Ma si trattava di dubbi non di certezze tali da gridar scandalo davanti a un tentativo che mi sembrava teso non già all’interesse di questa o di quella parte politica ma a risolvere un autentico conflitto etico. Ero invece e sono tutt’ora sorpreso dai toni degli avversari di questa soluzione. A leggere i giornali di oggi o le dichiarazioni di ieri, sembra che Berlusconi si sia impegnato in uno scontro epico per salvare, chessò, Fiorello dalle grinfie di Sky, o Villa Certosa dalle minacce degli ambientalisti. Non c’è nessuna comprensione della posta in gioco, ma solo la solita rappresentazione del Cavaliere Nero, un po’ Hitler un po’ Caligola.

Veniamo ora alle mosse del Quirinale. Se aveste dato retta ai giornali di ieri mattina, l’ipotesi del decreto-salva Eluana doveva già essere morta e sepolta. Possiamo solo immaginare l’azione della presidenza della Repubblica su quirinalisti e direttori per far emergere il dissenso totale di Napolitano. Il risultato però era stato perfetto: nessuno dava più credito all’ipotesi che palazzo Chigi avrebbe proceduto contro la volontà del capo dello Stato. Possiamo solo immaginare quindi il disappunto di quirinalisti e direttori quando, ieri pomeriggio, si sono visti smentire dal governo.

Come dottamente ci viene spiegato oggi, quando l’esecutivo si appresta a varare un decreto legge, si attiva sempre una diplomazia riservata e silenziosa, che viaggia tra i palazzi del potere e previene, quando possibile, scontri e dissidi palesi. Niente di male, anzi la “moral suasion” è una prerogativa propria del presidente della Repubblica. Nell’ombra accogliente di questi colloqui, si evita che le tensioni e i dissidi tra i poteri giungano all’opinione pubblica, si smussa, si aggiusta, si sopisce.

Questa volta però è successo qualcosa di diverso. Il Quirinale non è stato felpato e silenzioso come da tradizione, ma ha gridato ai quattro venti il suo no. L’arrivo di una lettera di Napolitano a Berlusconi, che oggi i giornali sostengono fosse destinata a rimanere gelosamente riservata, era stato ampiamente anticipato dalla agenzie, prima ancora che il consiglio dei ministri iniziasse. Anzi dal Quirinale era giunta una richiesta a Palazzo Chigi di inversione dell’ordine del giorno e semmai di sospensione dei lavori in attesa che la lettera fosse giunta, letta e meditata. Insomma al governo era stato più che esplicitamente richiesto di rinunciare ad una sua facoltà, quella di legiferare.

Il presidente della Repubblica ha tutto il diritto di ritenere sbagliato il decreto su Eluana e ha il sacrosanto potere di respingerlo negando la sua firma. Ma non ha la facoltà di chiedere al governo di non emanarlo, non nel nostro ordinamento. E’ bene che i conflitti tra istituzioni si sopiscano ogni volta che è possibile, ma quando non è possibile, come in questo caso, è bene che ogni potere si assuma le sue piene e pubbliche responsabilità: il governo quella di andare avanti con la strada del decreto, il Quirinale quella di non firmarlo.

Abbiamo spesso difeso e apprezzato Giorgio Napolitano sulle pagine di questo giornale. Questa volta ci sentiamo di osservare che si è spinto troppo oltre e che nel comprensibile tentativo di evitare un contrasto istituzionale ne ha creato uno ben maggiore a cui il governo non poteva sottostare senza ammettere un ben strano precedente: il controllo preventivo del Quirinale sulla sua azione politica.

Il decreto che Napolitano alla fine non ha firmato poteva non essere convincente fino in fondo, poteva essere aperto a diverse interpretazioni, poteva anche non essere firmato dal capo dello Stato per sue legittime e inviolabili convinzioni, ma non meritava di essere condannato prima di nascere come se fosse un’ingiuria o un'eresia democratica.

Ora il governo ha avviato l’iter del disegno di legge che ricalca il contenuto del decreto. Visto che il Senato ne inizierà a parlare lunedì c’è da credere che nella migliore delle ipotesi l’approvazione definitiva della Camera possa giungere non prima di venerdì prossimo. Troppo tardi per Eluana, troppo tardi per tutti. (l'Occidentale)

giovedì 5 febbraio 2009

I due volti di Barack. Vittorio Emanuele Parsi

Sono almeno due le cose che colpiscono, e non certo positivamente, nell’apprendere la notizia che l’«America di Obama» continuerà con le «rendition», il programma che prevede la possibilità di arrestare ed eventualmente detenere segretamente all’estero i sospetti terroristi. La prima riguarda il Presidente e, in particolare, la coerenza tra le sue decisioni e i principi in nome dei quali è stato eletto e ai quali fa ampio ricorso nella sua comunicazione prima e dopo la vittoria; la seconda l’atteggiamento nei suoi confronti da parte degli osservatori, in particolar modo di quelli liberal. Potremmo definire l’una e l’altra come le due facce di una sorta di sindrome del «doppio standard», per cui il giudizio sull’accettabilità o meno di una qualunque pratica dipende esclusivamente o prevalentemente da chi la attua e non dalle caratteristiche proprie dell’azione.

E così, se ad arrestare l’imam di Milano Abu Omar, e a spedirlo in Egitto per «ammorbidirlo un po’», è la Cia di Bush si grida allo scandalo, ma se domani un’analoga operazione viene compiuta dal nuovo «potere intelligente» appena insediato alla Casa Bianca allora è tutta un’altra cosa. Certo, l’amministrazione assicura che queste operazioni saranno eseguite in «maniera diversa», che le detenzioni avranno durata limitata e che si chiederanno garanzie ai governi dei Paesi in cui i sospettati verranno inviati affinché essi non vengano torturati. Tutto ciò assomiglia però al massimo a una brutta «lettera di manleva morale», utile per scaricarsi la coscienza o, più prosaicamente, per evitare di dover mentire, con il rischio, magari, di finire nelle maglie di una possibile procedura di impeachment. In fondo l’attuale segretaria di Stato è pur sempre la moglie di quel Presidente che tali pratiche le ha autorizzate nel 1993 e che sotto impeachment c'è quasi finito.

Alla fine, almeno su questo punto, è stato più trasparente George W. Bush, che con la sua retorica dell’America sotto assedio e la sua logica di guerra giustificava le «rendition» e Guantanamo in nome dell’emergenza. Ma chi ha denunciato, opportunamente, quella logica e quella retorica, e ha impiegato ben diversi registri comunicazionali, invitando l’America e il mondo a credere in un cambiamento non solo di amministrazione e di stili o comportamenti, ma addirittura di un’epoca (l’epoca della responsabilità) dovrebbe andarci un po’ più cauto. O per lo meno evitare il ridicolo, ricordandosi che anche l’apertura di Guantanamo era stata concepita «su base transitoria».

Ma tra le tante qualità del virtuoso Obama e del suo staff sembra che l’autoironia e il senso dell’umorismo difettino un po’. Basti pensare all’involontaria comicità che oggi colpisce l’autocertificazione di «sana e robusta costituzione etica» che l’allora «Presidente eletto» aveva chiesto ai suoi futuri collaboratori di firmare, e che aveva procurato qualche imbarazzo a Hillary Clinton. Proprio lo staff si sta rivelando essere assai meno virtuoso di quanto era lecito aspettarsi: che nel «dream team» dell’era della responsabilità, ardentemente volto a ristabilire l'equità sociale, saltino fuori continuamente evasori fiscali e contributivi non è certo un bello spettacolo. Di questo passo finiremo per rimpiangere la moralità dei tempi di Bill Clinton, il quale in fondo si limitava a correr dietro a qualche sottana.

Chiudere Guantanamo e autorizzare la prosecuzione delle rendition e delle detenzioni segrete all’estero si direbbe davvero incoerente. A meno che non si consideri che, mentre è ormai ampiamente ostile a Guantanamo, il pubblico americano sembra invece molto meno interessato a procedure che riguardano innanzitutto cittadini stranieri e rapporti con i governi stranieri: alcuni dei quali (come l’Egitto) sono ben contenti di poter mettere le mani su potenziali dissidenti, mentre altri (come quelli europei) ritengono illegali le modalità di quegli arresti e di quelle detenzioni.

Che dire poi del fatto che la stessa Human Rights Watch, vero e proprio mastino dei diritti umani durante l’amministrazione Bush, si sia ora trasformata in un grazioso barboncino (come il Daily Mirror definì Blair ai tempi di un tempestoso G8 nel luglio 2006), ammansita al punto di prendere per oro colato le giustificazioni presentate dallo staff presidenziale. Il sospetto, che speriamo possa venire fugato al più presto, è che, in America come in Italia, il mondo liberal si consideri «antropologicamente superiore» ai cowboys della destra repubblicana, dimostrando di essere afflitto da quel pregiudizio (a proprio favore) così brillantemente descritto da Luca Ricolfi in alcuni lavori tanto documentati quanto micidiali sulla sinistra italiana.

I problemi che Obama deve affrontare sono tanti e complessi, a cominciare dalla crisi economica che rischia di far saltare il contratto sociale anche in America. Sarebbe quindi ingeneroso non concedergli il beneficio d’inventario, come a lungo venne riconosciuto a George W. Bush: che dovette misurarsi con l’«inaudito» dell’11 settembre, non riuscendo a dimostrarsi all’altezza di un compito così tremendo. Non possiamo che augurare a Barack Obama miglior fortuna del suo predecessore, confortati nella speranza dalle qualità che l’uomo sembra davvero possedere. Ma, proprio a fronte della gravità degli impegni, dell’enorme investimento emotivo che ha circondato la sua elezione e delle aspettative che il mondo nutre su di lui, l’ultima cosa di cui il Presidente ha bisogno è un coro di adulatori acritici. (la Stampa)

Dopo un mese l'Onu dice la verità su Hamas. L'Occidentale

Durante la guerra di Gaza, qualsiasi cosa dicesse l'Onu, o il suo braccio palestinese, l'Unrwa, sfondava le prime pagine di tutti i giornali del mondo, italiani compresi. Il motivo era chiaro: si trattava quasi sempre di accuse alla brutalità israeliana.

Passato un mese, l'Onu e l'Unrwa sono spesso costrette a correggere il tiro con pubbliche dichiarazioni che però cadono puntualmente nel vuoto o finiscono in minuscoli trafiletti. Di ieri è l'accusa dell'Unwra contro Hamas (già di per sé una notizia, come l'uomo che morde il cane) colpevole di aver "sequestrato con la forza" aiuti destinati alla popolazione civile di Gaza per poi rivenderli. La stessa cosa era stata a lungo denunciata durante la guerra dal Jerusalem Post senza nessuna eco e senza che l'Onu si fosse preoccupata di confermarla.

Ancora più grave è la notizia, segnalata qualche giorno fa da un giornale canadese e lì rimasta fino all'ammissione ufficiale dell'Unrwa, che l'esercito israeliano è stato scagionato dall'aver sparato contro una scuola dell'Onu. All'epoca il fatto suscitò un clamore incredibile: il dirigente dell'Unrwa, intervistato da tutte le tv del mondo disse tra le lacrime: "quelle all'interno della scuola erano tutte famiglie che cercavano scampo, non c'è nulla di sicuro a Gaza". Nemmeno un mese dopo, lo stesso funzionario dichiara: "Vorrei mettere in chiaro che il lancio di proiettili di artiglieria e le vittime sono fatti accaduti fuori dalla nostra scuola". Cioè nei vicoli dove erano asserragliati i miliziani di Hamas e i loro mortai.

Di tutto questo si arriva a sapere ben poco. Intanto l'arma della disinformazione e della criminalizzazione di Israele ha potuto dispiegare i suoi effetti. E Hamas può dire al mondo di aver vinto la guerra. Facile, con certi alleati.

martedì 3 febbraio 2009

Quelli che ... in toga. Davide Giacalone

Affliggo spesso i lettori con considerazioni sulla nostra ingiustissima giustizia, poi si apre l’anno giudiziario, la cosa è su tutte le prime pagine e non ne scrivo una riga. Me ne hanno chiesto il perché, eccolo: è un rito inutile, che andrebbe cancellato. Inutile anche il commento. Quest’anno, poi, il protagonista occulto era Enzo Jannacci. Un suo pezzo, metà monologo e metà musica (1975), puntava il dito contro le ipocrisie ed i luogocomunismi di “quelli che…”, ed in un passaggio diceva: “quelli che, peggio che da noi solo in Uganda”. La realtà ha superato l’ironia: la giustizia ugandese funziona meglio della nostra.Ci sono cose che si possono leggere solo pensando ad autori comici. Ad esempio le parole del procuratore generale presso la cassazione, secondo cui è ora di finirla con i “giudici narcisi e tribuni”, avvertendo che i magistrati non devono cercare il consenso delle piazze. Meravigliosamente giusto, ma mi domando dove fossero, certuni, mentre mi facevo processare per avere sostenuto l’inciviltà di magistrati che parlavano e scrivevano di “momenti magici”, legati agli arresti, o erano tronfi del fatto che “il processo pubblico” era già stato fatto in piazza. Avranno imparato a leggere e scrivere grazie ad Alberto Manzi, la cui trasmissione s’intitolava “non è mai troppo tardi”, ma spiace osservare che, in effetti, sono largamente fuori tempo massimo ed i barbari dilagano. Si sono svegliati, guarda un po’ i casi della vita, quando le piazze si rivoltano contro i provvedimenti della magistratura.
In quanto al desiderio di visibilità mediatica, non è molto significativo prendersela con qualche esibizionista di provincia quando, come solo qui si è rilevato con ruvida chiarezza, la Costituzione è stata piegata all’insano desiderio di far fare a tutti un giro come presidente della Corte Costituzionale, accettando sì l’umiliazione di svolgere la funzione solo per qualche settimana, ma incassando le foto sui giornali e la presenza teleripresa a convegni, nel corso dei quali si ha il superbo coraggio di navigare nell’ovvio.
Quindi mi astengo, senza rinunciare a nessuna delle cose scritte. L’Italia ha un drammatico problema di classe dirigente. In politica, certo, ma anche nella cultura e nella produzione. In quanto alla giustizia … dell’Uganda già si disse.