venerdì 30 ottobre 2009

Quando il gioco si fa duro il popolo di centrodestra deve alzare la voce. Giorgio Demetrio

Il sonno è di quelli profondi. E nonostante le bastonate alla collottola e i ganci sotto la cintura, non c’è verso di svegliare il dormiente centrodestro.

Su altri fronti il Nostro, all’opposto, pare non volersi prendere un attimo di riposo. E’ ipercinetico. Ha fatto e - c’è da scommetterci – continuerà a fare per non sbattere i denti contro il muro delle attese tradite. Tra le più meritevoli, fra le tante, ha varato un pacchetto di norme per la sicurezza di cui taluni ricordano solo i pezzi utili a fare polemica da suburra. E perfino esportabile. Imboccano i corrispondenti dei fogli esteri chiedendo loro di scrivere in vermiglio che l’Italia è preda di invasati governativi che girano per strada, machete tra gli incisivi, a caccia di stranieri da affettare. Che quegli stessi stranieri vengono respinti, e quindi fatti crepare in mare, per “xenofobia” teorizzata e praticata.
Forse che ha qualche fondamento, allora, il travaso di bile del premier che addita le gazzette straniere di sputtanamento sistematico di sé e dell’Italia intera. E ha qualche ragione a inalberarsi non perché sia l’Unto che mai toppa, ma perché i numeri che non temono smentite hanno una faccia troppo diversa dalle ricostruzioni impastate con la demagogia.

Così è se si considera che i respingimenti sono iniziati per normalizzare un apparato di accoglienza in affanno. Così è se si introduce il reato di immigrazione clandestina non per autocompiacimento razzista ma per dare senso ed efficacia al sistema delle espulsioni, prima affidato al cortese invito di lasciare i confini patri.

Così è se le leggi antimafia contenute nel pacchetto sicurezza (l’unico precedente di pari incisività è nel decreto “Scotti-Martelli” del ‘92, ma stavolta si è agito indipendentemente dalle bombe. Non si chiama “volontà politica” di azzoppare i clan?) stringono il cappio attorno al collo della mala.

Le norme che agevolano il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi, che inaspriscono il “carcere duro”, che tengono lontani dagli appalti pubblici gli imprenditori strozzati che hanno “dimenticato” di denunciare gli estorsori, che colpiscono anche l’apparato burocratico (e non solo gli eletti) in caso di scioglimento di un’amministrazione per infiltrazione mafiosa, non sono leggi che a un colluso (come è il Cavaliere per D’Avanzo e compagnia) converrebbe non proporre? O si dirà che sono “coperture costose ma doverose”?

Così è perché dall’insediamento di Berlusconi a oggi sono stati arrestati 270 latitanti, con una media di otto arresti al giorno durante l’anno scorso; sono stati sequestrati alla criminalità organizzata beni per un valore complessivo superiore a cinque miliardi di euro, diecimila miliardi del vecchio conio. Si sta operando nella direzione sperata dai magistrati che fanno e hanno fatto, dilaniati dal tritolo, l’antimafia concreta, non quella dei teoremi. Si sta prosciugando il brodo di denari in cui prosperano i boss, che considerano l’arresto poco più di un “incidente di percorso” ma si spezzano senza i capitali che, in molti casi, li rendono capitani di impresa esemplari, finissimi.

Maroni e Mantovano sembrano due dischi rotti; li ripetono fino allo sfinimento i numeri plastici del successo, ma anche i più grandi primati, se ridotti a trionfo aritmetico, paiono roba da ragionieri. Dovrebbero essere sostenuti da pezzi e servizi “caldi”, che uniscano la matematica ai principi umanamente bollenti (fatti di determinazione, di messianismo civile) che innervano la lotta contro la barbarie mafiosa.

Si è bussato in patria, per allargare il giro dei soliti Feltri, Belpietro e Ferrara, alle porte di Repubblica e di Padellaro, ma non hanno aperto impegnati com’erano a fare pornodomande e a consolidare la fama di picciotto, “a prescindere”, del premier. Si è citofonato all’estero, ma dei 270 latitanti finiti al gabbio non interessa al club dei fogli progressisti, disponibili a ciarlare di feste e baldracche, ma a corto di inchiostro se bisogna illustrare l’Italia, un Paese che – a dispetto del “tanto peggio tanto meglio” dei travagli e dei dipietri nostrani – la schiena dritta ce l’ha.

Il Nostro, il governo tutto, macina chilometri e su parecchi versanti: dalla sicurezza alle emergenze ambientali, dall’economia alla biopolitica (non volendo ascriversi il titolo di governo omicida, che fa morire di fame e di sete i disabili gravi e fa abortire le donne col pesticida domestico). Su un fronte però dorme. Come un sasso.

Se per raccontare i successi reazionari ci si deve affidare sempre e solo ai tre di cui sopra, forse è ora di finirla con l’autocensura preventiva. Il timore è noto: se già ora a Berlusconi danno del duce caraibico, figurarsi cosa accadrebbe se tirasse fuori il suo Floris, la sua Dandini, il suo allegro deejay azzurro. Risposta facile: cosa c’è da perdere? Una palata di letame in più rispetto alla discarica che gli riversano quotidianamente addosso fa la differenza? Non scherziamo. E non si dica che in passato si è tentato di farlo, perché qui si parla di tirare fuori decine di gladiatori con gli attributi, che dettino il dibattito e suscitino - per l’annozero cavalleresco - le stesse aspettative del circo di Santoro.

Basta col complesso di inferiorità perenne, con le gambe che tremano davanti alle scempiaggini sulla libertà di stampa schiacciata. Fanno sanguinare le orecchie con il premier che controllerebbe – coi soldi e col potere - tutto il sistema dei media che contano. Che lo dicano a ragione, allora, visto che finora si è pagato dazio per portare a casa solo briciole e contumelie.

Cacci dalla naftalina i suoi Santoro, Berlusconi; moltiplichi i giornali, gli avamposti della Rete per dare voce e scrivania ai tantissimi ragazzi di talento allergici al sinistrismo; apra le scuole dei cabarettisti, degli attori non allineati; lanci le radio (che siano megafono di tutta la cultura non conformista) sul modello delle antenne che danno linfa al movimento conservatore americano e fanno impazzire i liberal obamiani. E non si dica che non ci sono, sarebbe imperdonabile.

Li tiri fuori, dia loro visibilità. A meno che non ci si voglia suicidare continuando a vincere alle urne e a lasciare nel silenzio quella maggioranza che, stanca di essere additata come antropologicamente inferiore (tra i tanti, il pezzo di Pirani su Repubblica del 28 ottobre docet), ora vuole urlare. (l'Occidentale)

Perché i giudici perseguitano il Cavaliere. Alessandro Sallusti

I giudici sono sul piede di guerra. Non è una novità. Lo sono da tempo, più precisamente dal 1994 quando Berlusconi scese in politica e impedì ai comunisti (allora lo erano davvero), usciti indenni da Tangentopoli, di prendere il controllo del Paese. Ieri però si sono agitati parecchio, affermando che il Cavaliere si vuole sottrarre alla giustizia attraverso nuove leggi che lo salvino dai processi presenti e futuri. Ci vuole davvero coraggio a sostenere questa tesi considerato che il premier è forse l’uomo più indagato al mondo. In questi ultimi quindici anni contro Berlusconi sono stati aperti 109 processi, fissate 2.500 udienze, effettuate 530 perquisizioni. E praticamente tutti atti giudiziari per fatti precedenti alla sua entrata in politica. Ogni atto, affare e transazione del gruppo Mediaset-Fininvest è stato passato al microscopio, ricostruito ad anni di distanza. Nessun malfattore, criminale, serial killer, ma anche nessun imprenditore grande o piccolo è mai stato sottoposto a tale trattamento che all’interessato, cosa non secondaria, al momento è costato oltre trecento milioni, seicento miliardi di vecchie lire, in avvocati e consulenze. Il più delle volte Silvio Berlusconi è stato chiamato in causa non direttamente ma in quanto capo di un impero con oltre cinquantamila dipendenti dei quali, secondo l’accusa, non «poteva non sapere» eventuali malefatte. Teoria mai applicata nei confronti di altri industriali, Agnelli e De Benedetti (tanto per non fare nomi), che sono così usciti indenni dalle disgrazie dei loro rispettivi gruppi.
E questo sarebbe un uomo che vuole «sottrarsi alla giustizia»? Sarebbe meglio dire che questo uomo è braccato dalla giustizia con un accanimento senza precedenti. Tentare di divincolarsi, oltre che umano dovrebbe avere almeno l’attenuante della legittima difesa. E invece no. Pur di inchiodarlo l’accoppiata diabolica giudici-politici è riuscita anche nel capolavoro di togliere alle persone che guidano il Paese qualsiasi filtro, cioè immunità temporanea, nei confronti della magistratura. Che ora può decidere chi e come deve governare senza nessun controllo o mediazione. Ma la casta delle toghe non si accontenta ancora. Vuole di più, cioè sostituirsi anche al Parlamento e decidere quali leggi debbano essere approvate e quali no. Non dico all’università, ma alle scuole elementari ci insegnano che ci sono tre poteri distinti: governo, Parlamento e magistratura. Il primo propone, il secondo legifera, il terzo controlla. Oggi scopriamo che non è più così: i controllori vogliono arrogarsi il diritto di decidere le leggi, a partire da quella che li riguarda più da vicino, cioè la riforma della giustizia. Eppure non ci vuole un esperto per decretare che i nostri tribunali non possano più andare avanti così, che oggi chi incappa nelle reti della legge affronta un calvario infinito, che anni di politica invasiva, impicciona e debole hanno permesso alla casta dei magistrati di diventare il primo partito della sinistra italiana.
Ieri, contro la possibilità che il Parlamento affronti la questione di petto, nei Palazzi di giustizia è riecheggiata la parola «sciopero». Come accadde nelle fabbriche della Fiat quando Cesare Romiti tentò di rimettere mano a qualità e bilanci dell'azienda, come urlano gli studenti quando la Gelmini prova a far passare il concetto che chi non studia deve essere bocciato, come fanno i ferrovieri che vogliono l’aumento nella busta paga. L’obiettivo è chiaro: gettare il Paese nel caos e addossare anche questa colpa a Berlusconi. Ma di che cosa hanno paura questi giudici? Di non poter più condannare il cattivo di turno? Non credo. Con Berlusconi ci hanno provato 109 volte e non ci sono riusciti con le leggi, i poteri e i privilegi attuali. In realtà temono di dover tornare a fare semplicemente il loro lavoro, per il quale sono lautamente pagati. Un governo, direi un’intera classe politica che si rispetti dovrebbe andare avanti diritta sulla sua strada senza farsi spaventare o peggio ricattare come un Marrazzo qualsiasi. Costi quel che costi. (il Giornale)

giovedì 29 ottobre 2009

Nella direzione giusta. Luca Ricolfi

Ieri, con il via libera del Consiglio dei ministri, è iniziato il cammino della Riforma universitaria, che dovrà approdare in Parlamento.

Poi dovrà essere discussa, eventualmente emendata, e infine approvata dalle due Camere. È presto dunque per formarsi un’opinione definitiva. Come professore universitario posso però testimoniare su un punto: il clima è già profondamente cambiato. Ho partecipato giusto qualche giorno fa a un incontro di Facoltà sui criteri di valutazione della didattica e della ricerca, e ho constatato che un po’ tutti - anche gli oppositori della riforma - sono consapevoli che, comunque le cose vadano a finire nei dettagli (importantissimi, in questo caso), un’epoca è finita e tutto sommato è un bene.

Quale epoca?

L’epoca in cui le università avevano mano libera nella promozione dei candidati locali, spesso pessimi. Un’epoca in cui i clan accademici la facevano da padroni, e nessuno era veramente tenuto a rendere conto del proprio operato. Un’epoca in cui si sapeva che i bilanci in rosso sarebbero stati ripianati, sempre e comunque. Un’epoca in cui, in nome di una malintesa autonomia, si potevano moltiplicare impunemente corsi di laurea e insegnamenti. Un’epoca in cui la valutazione si cominciava, faticosamente, a fare, ma i suoi risultati non venivano utilizzati per premiare i migliori. Un’epoca in cui i fondi seguivano la spesa storica (e i suoi sfondamenti) anziché premiare le università migliori. Un’epoca in cui, a dispetto del dettato costituzionale (art. 34), quasi nulla veniva fatto a favore dei «capaci e meritevoli».

Quell’epoca è al tramonto non per merito di una riforma che non c’è ancora, ma perché i disastri delle riforme precedenti (e innanzitutto del 3+2) sono sotto gli occhi di tutti. Perché più l’Università si apre all’estero, più diventa difficile evitare il confronto, o continuare a lodarsi da soli. E infine perché i soldi sono sempre di meno, e lentamente si sta capendo che non possiamo più permetterci di gettarli al vento.

Però va detto che la riforma del ministro Gelmini, nonostante i limiti che ognuno di noi può trovarvi (io ad esempio avrei qualche domanda sul valore legale della laurea e sulle tasse universitarie), va nella direzione giusta, almeno nell’impianto generale e nei principi ispiratori. La stella polare della riforma è la piena responsabilizzazione delle istituzioni e degli individui. Se i dettagli saranno ben congegnati, cosa non scontata, le università non potranno dissipare risorse come in passato, le prepotenze nei concorsi incontreranno qualche ostacolo, il merito individuale sarà premiato un po’ più di prima (del resto non ci vuole molto). Ci vorranno anni, ma la direzione è questa.

Naturalmente è anche possibile che non se ne faccia niente. La riforma potrebbe non passare in Parlamento. Gli emendamenti di maggioranza e opposizione, anziché migliorarla, potrebbero stravolgerla. I professori potrebbero trovare il modo di continuare a pilotare i concorsi, come prima e più di prima. Gattopardescamente, potrebbe anche accadere che tutto venga cambiato perché tutto resti come prima. E’ questo, a mio parere, il rischio più grande.

Ma se questo rischio si vuole evitare, occorre che tutti facciamo la nostra parte. Il ministro dovrebbe sempre tenere presente che la macchina che ha deciso di toccare è delicatissima, e che il rischio di non rendersi conto delle conseguenze pratiche delle norme che si introducono è sempre molto alto. L’opposizione, anziché demonizzare la Gelmini, farebbe bene a prenderla in parola, vigilando sul fatto che le intenzioni si traducano in norme davvero efficaci: l’ha già fatto quando con Pietro Ichino (senatore del Partito democratico) ha contribuito a migliorare la riforma della Pubblica amministrazione del ministro Brunetta, può benissimo rifarlo oggi nel caso dell’Università. E infine noi, docenti, studenti e personale dell’Università, dovremmo smetterla di pensare che tutto dipende dalle leggi, dalle norme e dai regolamenti: la qualità della riforma dipenderà certo dal fatto che non contenga sciocchezze e aberrazioni, ma molto dipenderà anche da noi, dal modo in cui sapremo parlarne, farla nostra, usarla per costruire un’Università più degna di un Paese civile. (la Stampa)

mercoledì 28 ottobre 2009

Ora che ha deciso di lasciare il Pd Rutelli parla come Occhetto. Lodovico Festa

“Marrazzo non l’ha fatto” Dice Giovanni Maria Bellu sull’Unità (28 ottobre) Far intendere la superiorità morale di Marrazzo rispetto a Berlusconi perché non ha comprato il filmino che lo ritraeva con un trans è un gravissimo oltraggio al comune senso del ridicolo.

“Serviranno candidati forti come Casini, Rutelli nel Lazio, magari io stesso in Lombardia” Dice Bruno Tabacci all’Unità (28 ottobre) Bé, se Tabacci si porta dietro tutti i 1800 voti che si era preso alle comunali di Milano, Formigoni tremerà.

“Il mio tragitto si separa” Dice Francesco Rutelli al Riformista (28 ottobre) Va bé essere nel marasma, ma fino al punto di mettersi a parlare come Occhetto: tutto un tragitto, una carovana, un nuovo inizio, un percorso che si percorre e una fregnaccia che si fregna?

“Il Pd è stato in questi anni un partito a tendenze leaderistiche (anche, il che è più ridicolo, a livello locale) e cioè goffamente impegnato a ricalcare il modello berlusconiano” Dice Alberto Asor Rosa sul Manifesto (28 ottobre) E’ carina questa idea asor- rosiana che i vecchi del Pci confluiti nel Partito democratico per imparare il leaderismo abbiano dovuto rivolgersi a Berlusconi, noto inventore del culto della personalità, della definizione “piccolo padre”, dei milioni e milioni di persone più o meno spontaneamente radunate per sfilare sotto i suoi ritratti. (l'Occidentale)

lunedì 26 ottobre 2009

In linea di Massimo (D'Alema) Bersani guiderà il Pd a modo suo. Lodovico Festa

"Guiderò a modo mio". Dice Pierluigi Bersani alla Stampa (26 ottobre).
Bersani guiderà a modo suo. Quasi sempre. Come si dice.
In linea di Massimo. (l'Occidentale)

sabato 24 ottobre 2009

Marrazzo e lo scandalo politico. Davide Giacalone

La vicenda che coinvolge Piero Marrazzo ha spetti politici che non devono essere oscurati da quelli scandalistici. Dopo avere letto la notizia, avere saputo del presunto video, dei quattro carabinieri e dell’eventuale ricatto, stavo buttandomi a scrivere, di getto e senza imbarazzo, un pezzo che poteva intitolarsi: “Dalla parte di Marrazzo”.
Perché c’è un limite all’uso politico delle inchieste giudiziarie, che in questo caso non riguardano il politico ma altri soggetti, c’è un limite all’uso politico delle servate da postribolo, c’è un limite al diritto di pubblicare tutto. E si tratta di limiti già abbondantemente superati. Solo che ho dovuto raffreddare lo slancio e ragionare sul seguente fatto: anche per altri si è trattato d’inchieste giudiziarie che non li riguardavano direttamente, anche per altri erano echi del materasso, e per questi altri s’è pubblicato tutto, compreso il sesso sventolante di un governante estero. In quei casi, dov’era il politico Piero Marrazzo, per giunta giornalista di lungo corso e vasta esperienza?
E c’è di più. Avrei voluto assistere alla caccia al filmato, tanto più che se taroccato avrebbe tolto il dubbio a tutti, avrei voluto constatarne la presenza sui siti che hanno diffuso gli altri. Non lo avrei visto, come non ho visto gli altri, perché non è il caso di abbassarsi. Ma avrei criticato quelle pubblicazioni, come ho criticato le altre. Oggi, invece, mi tocca constatare un male ancora più profondo del fanatismo da tifoseria, ovvero la doppiezza morale, il doppiopesismo scandalistico.
Non solo. Nel caso di Marrazzo, anche se fosse vero quel che lui assicura essere falso, non c’è alcun reato da lui commesso. Anche per altri, non c’era alcun reato commesso. Ma se fosse vero che è stato tentato, anche solo tentato, un ricatto, se fosse poi vero che l’estorsione è andata a segno, in quel caso il reato ci sarebbe eccome, e Marrazzo ne sarebbe la vittima. Solo che una persona con funzioni istituzionali, un pubblico ufficiale, ha il dovere civico e l’obbligo giuridico di denunciarli i reati, non potendoli tenere per sé. E, se questo fosse lo scenario, leggerò mai dieci domande di Repubblica, destinate a conoscere il perché di questa grave omissione?
Marrazzo ha detto una cosa evidente: si colpisce la persona per indebolire il candidato politico. E’ vero, quella è la conseguenza, anche se non necessariamente la causa. Perché, però, una simile affermazione è irricevibile e additata al pubblico ludibrio se si trova sulla bocca di altri. Ancora oltre: se il filmato non c’è, il ricatto non c’è, l’estorsione non c’è, il festino meno che mai, se non c’è nulla di tutto questo, chi è che colpisce la persona per indebolire il candidato? Se Marrazzo si riferisce all’inchiesta farebbe bene a dirlo chiaramente, altrimenti siamo alle mezze parole ed alle allusioni.
Tutto questo non sarebbe in questi termini se il politico Marrazzo, come con costanza e senza distinzioni di schieramento facciamo noi, da molti anni, avesse trovato il tempo ed il modo di dire che l’andazzo della diffamazione collettiva porta solo alla perdizione politica. Invece se n’è guardato bene, sicché la sua reazione di oggi è tutta incentrata su quel che è capitato a lui. E’ umano, lo capisco, ma è il contrario di quel che dovrebbe fare chi crede che la politica sia un servizio alla collettività, e non solo la soddisfazione delle proprie, pur legittime, ambizioni.
L’articolo in difesa di Marrazzo lo scrivo lo stesso, dunque e, dal punto di vista personale, non ho difficoltà ad esprimergli la mia solidarietà. Ma ho il dovere di accompagnarlo con una critica severa al modo in cui ha interpretato la sua funzione politica, al lungo tempo passato senza accorgersi che la macchina infernale delle inchieste giudiziarie usate a fini politici può massacrare chiunque. Lui compreso.
Questo nel caso siano vere le sue smentite, come ho il dovere di credere che siano vere. Nel caso opposto, però, scrivemmo, per altri, che la condotta privata ha rilievo pubblico, quando si è chiesto il voto dei cittadini e li si rappresenta. Scrivemmo che chi rappresenta tutti non può e non deve pensarsi come la media dei vizi collettivi. Gli eletti, non solo in termini divini, hanno il dovere d’essere migliori. E una cosa cui sono tenuti è la coerenza. Ricordate la saggia canzone di Fabrizio De Andrè (La città vecchia)? che descriveva un vecchio professore nel salire le scale verso la camera con prostituta: “quella che di giorno chiami con disprezzo: pubblica moglie/ quella che di notte stabilisce il prezzo, alle tue voglie”. Questa ipocrisia non è mai giustificabile, ma per chi ha un ruolo politico non è ammissibile. Se ritiene accettabile quel comportamento, il politico ha il dovere di sostenerlo per tutti, non solo per sé. Né cambia alcunché, ove al posto di Bocca di Rosa si trovi Bocca di Rosario.
Non ci penso neppure ad erigermi guardiano della morale, che mi fanno orrore quanti praticano questo sport. Solidarizzo con Marrazzo, personalmente, anche se la storia fosse vera, al netto di tutte le altre considerazioni. Ma la coerenza è parte della morale politica, e non è derogabile.

venerdì 23 ottobre 2009

Franceschini sconfina nel razzismo e neanche se ne accorge. Carlo Panella

Sconcertano le parole usate da Dario Franceschini per motivare la sua scelta di nominare Leonard Touadi suo vice nella corsa alla segreteria del Pd: ''l'ho scelto perchè è bravo e perchè è nero''. Non ha detto come doveva ''quel che conta è che sia bravo ed è un immigrato che si è perfettamente inserito e il colore della pelle non conta''. No, ha proprio detto ''perché é nero''. Altroche ''Obama ben abbronzato'' di Berlusconi, qui siamo di fornte alla confessione di una scelta opportunista di una persona sulla base del colore della sua pelle, non della sua biografia. Peggio ancora suonano i tempi di questa scelta, perché Franceschini -se era una cosa saeria- doveva indicarlo all'inizio della campagna congressuale, permettergli di esprimersi, di farsi conoscere. Invece no, il ''nero'' è stato tirato fuori dal cilindro all'ultimo momento, buono solo per un paio di photo opportunity opportuniste. Al peggio non c'è mai fine.
Bersani ringrazia

giovedì 22 ottobre 2009

Libertà di stampa. Davide Giacalone

La libertà di stampa ha, in Italia, seri problemi, nessuno dei quali è stato colto da Reporters sans frontières e dal loro annuale rapporto. Naturalmente il nostro è il Paese, a loro dire, dove chi scrive le cose come stanno, senza guardare in faccia nessuno, rischia frequentemente d’essere frustato in sala mensa.
Nella graduatoria ci collochiamo al posto 49, su 175. Perdendo cinque punti rispetto all’anno scorso e ben quattordici rispetto al 2007. Ora, vorrei sapere, che cosa è successo, dal 2007 ad oggi? Niente.
Allora, passiamo alla seconda domanda: come fanno, i curatori del rapporto, a fare le misurazioni? Semplice, distribuiscono questionari ai giornalisti stessi. Ed è qui, che mi sono preoccupato, perché se siamo al quarantanovesimo dopo avere ascoltato l’opinione di quelli che sfilano e si sentono minacciati solo perché non tutti si spellano le mani ad applaudire, allora vuol dire che da noi c’è una libertà di stampa incontenibile e senza confini. Ma c’è un ultimo dato che lascia capire di che stiamo parlando: secondo Rsf gli Stati Uniti passano dal posto 40 al 20 per il solo fatto che è stato eletto Obama, il quale, oltre tutto, nel corso della campagna elettorale buttò fuori dei giornalisti dal suo seguito, e da Presidente si rifiuta di avere contatti con una rete televisiva che considera al pari di un partito avversario. E’ nei suoi diritti, ci mancherebbe altro, ma quando questo capita dalle nostre parti subito partono i funerali della libertà e della democrazia.
Posto, dunque, che con questa roba senza frontiere ci si possono fare solo discorsi privi di senso, il problema vero del nostro mercato editoriale è che la quasi totalità degli editori ha interessi industriali che superano, di gran lunga, quelli editoriali. Il che li porta, inevitabilmente, ad utilizzare i primi come strumentali ai secondi. Ad un certo punto era venuto fuori un editore che, in effetti, pur avendo mosso i primi passi nell’edilizia, ed avere poi tentato l’ingresso nella grande distribuzione, comunque aveva creato una società il cui interesse prevalente era quello editoriale. Trattasi di Silvio Berlusconi. Lo stesso cui si fa riferimento ogni volta che la stampa in perdita di copie spera di annetterne la responsabilità alla diminuita libertà.
Il conflitto d’interessi, pertanto, nel nostro mercato è endemico: riguarda gli editori che usano l’editoria, e riguarda chi, da editore, è divenuto soggetto politico. Se una buona legge sul conflitto d’interessi non s’è mai veramente fatta è perché non potrebbe riguardare solo Berlusconi.
Il secondo motivo per cui non siamo messi bene consiste nel fatto che giornali e giornalisti sono querelabili da parte di magistrati, quindi trascinabili in tribunali dove a decidere sono i colleghi del querelante. Ne ho personalmente viste, in materia, di ridicole e di disgustose, ma non ho mai sentito una seria protesta a difesa della libertà di chi scrive. Sono stato, come altri, querelato da magistrati che ritenevano offeso l’onore dei magistrati stessi e chiedevano ad un magistrato di stabilire quale fosse la punizione adeguata per quanti attaccano i magistrati. Avrebbero meritato, tutti, un gran pernacchio, invece, da cittadino modello e senza scampo, mi sono fatto processare.
A fronte di questi, che sono i problemi veri, quella di Reporters sans Frontières è robetta all’acqua di rose, poco più dell’aggregazione di pettegolezzi e lamentele generiche. Perché, ad esempio, non si sono chiesti in quale modo la stampa è finanziata, chi, nelle diverse parti del mondo, ci mette i soldi perché non chiuda. Lo avessero fatto avrebbero scoperto che qui in Italia i soldi li mettono i lettori, ma prima di loro ce li mette lo Stato, con il finanziamento pubblico e la copertura delle spese. Poi ci sono gli introiti pubblicitari, che se restassero da soli tutti avrebbero già chiuso.
Non c’è libertà di stampa, quindi, in un Paese che finanzia la stampa con la spesa pubblica? Purtroppo, i giornali che oggi pubblicheranno quei dati non avranno il coraggio di mettere in pagina la verità più sgradevole: non mancano le strutture e non mancano i soldi per reggere ed alimentare la libertà, scarseggiano, invece, gli uomini liberi, che non siano luogocomunisti in servizio permanente effettivo, che sappiano difendere le proprie idee senza pensare che siano quelle di tutti.

martedì 20 ottobre 2009

L'estremista, il fazioso e il pluralista. Angelo Panebianco

Viviamo in una fa­se, simile ad al­tre della nostra storia, di incana­glimento della lotta politi­ca, siamo immersi in un clima di guerra civile vir­tuale. Siamo, pur con i no­stri difetti, una democra­zia ma rispettabili pensa­tori di altri Paesi, aizzati da demagoghi nostrani, vengono a spiegarci che viviamo sotto una dittatu­ra. Abbiamo un dibattito pubblico apertissimo ma c’è chi racconta che la li­bertà di stampa è minac­ciata. Alcuni parlano del­­l’Italia come se si trattas­se dell’Iran o della Birma­nia. Abbiamo libere e re­golari elezioni ma una parte non esigua degli elettori dello schieramen­to sconfitto non ricono­sce la legittimità del go­verno in carica (ma la stessa cosa facevano certi elettori dell’attuale mag­gioranza quando governa­vano i loro avversari).

E’ in questi momenti che conviene tornare ai «fondamentali»: che co­sa permette a una demo­crazia di sopravvivere? Di quali virtù o qualità deve essere dotata la cittadi­nanza democratica? La de­mocrazia è un regime mo­derato. Ha bisogno che a guidare i governi siano sempre forze moderate, di destra o di sinistra, e che le componenti estre­miste siano tenute a ba­da. Ma perché ciò accada occorre che, fra i cittadi­ni, prevalgano certi atteg­giamenti anziché altri. Nelle democrazie, in tut­te, la maggioranza dei cit­tadini ha interesse nullo, scarso o sporadico per la politica. E’ sempre una minoranza, magari consi­stente ma pur sempre mi­noranza, a seguire con continuità le vicende poli­tiche. Sono gli atteggia­menti prevalenti in que­sta minoranza a dettare tono e qualità della demo­crazia.

Sono tre i tipi umani che più frequentemente si incontrano in tale mi­noranza: l’estremista, il fa­zioso, il pluralista. Li indi­co nell’ordine che va dal meno al più compatibile con la democrazia. Gli estremisti veri e propri, così come qui li intendo, sono (fortunatamente) sempre pochi, anche se rumorosi e, spesso, peri­colosi. La loro presenza dipende da certe caratteri­stiche della politica, dal fatto che la politica, più di qualunque altra attivi­tà umana, si presta ad es­sere il luogo in cui si pos­sono scaricare le frustra­zioni personali. Per l’estremista la politica è una grande discarica nel­la quale egli getta la parte peggiore di sé. L’estremi­sta è uno che odia. Odia se stesso in realtà ma tra­sforma l’odio per se stes­so in odio per il «nemico politico». La politica, da­ta la sua natura competiti­va e conflittuale, si presta bene per questa operazio­ne. Lo sventurato giovane che su Facebook si è chie­sto perché nessuno abbia ancora ficcato una pallot­tola in testa a Berlusconi è una vittima del clima che gli estremisti alimen­tano (per inciso, quel brutto incidente potreb­be essere la sua fortuna: se non è uno stupido ri­fletterà, capirà che un uo­mo è tale solo se pensa con la sua testa, se non si fa comandare o suggestio­nare dal clima dominante negli ambienti che fre­quenta).

Poi c’è il fazioso. A differenza dell’estremi­sta il fazioso, come qui lo intendo, non è un caso psichiatrico. Però è spaventato dalle opinioni in contrasto con la sua. Nei mezzi di comunicazione cerca più conferme ai suoi pregiudizi che informazioni o dibattiti di idee. È rassicurato dall’idea che esista, in materia di politica, la «verità», unica, chia­ra, indiscutibile, e che egli, essendo onesto e intelligente, la conosca. Per lui, quelli che non vogliono accettare la verità in cui egli crede sono disonesti o stupidi.

Il fazioso teme lo stress che gli procure­rebbe il riconoscimento che il mondo è dav­vero complesso e ambiguo. Ha bisogno di contare su un quadro di certezze: di qua il bene, di là il male. Un grande economista, Joseph Schumpeter, diceva che spesso eccel­lenti persone, brave nel loro mestiere, sono in grado di parlare con competenza e matu­rità dei problemi della loro professione ma regrediscono all’infanzia appena comincia­no a parlare di politica: il Bene, il Male, le fate e gli orchi, gli sceriffi col cappello bian­co e i banditi col cappello nero. Il fazioso, essendo spesso tutt’altro che stupido, vive con patimento la sua contraddizione: la coe­sistenza, in lui, dell’orrore per le opinioni di­verse dalla sua e del riconoscimento della necessità del pluralismo delle opinioni in una democrazia.

C’è infine il pluralista. Accetta il fatto che il mondo sia complesso e, dunque, che non ci sia, sui fatti contingenti della politica, una Verità acquisita per sempre. Accetta che il problema sia, ogni giorno, quello (fati­coso) di impadronirsi, confrontando le opi­nioni e riflettendo sui fatti, di quel poco di precarissima «verità» che si riesce ad affer­rare. Senza abdicare alle proprie convinzio­ni più profonde non teme di ascoltare pare­ri diversi. Pensa che, se sono ben argomen­tati e presentati con garbo, possano anche arricchirlo.

Quanto più nella minoranza che si inte­ressa con continuità di politica prevale il ti­po pluralista, tanto più la democrazia è sal­da e sicura. Non è questione di destra o sini­stra o, attualmente, di berlusconiani e anti­berlusconiani. Ci sono faziosi e pluralisti di ogni tendenza. Ad esempio, la differenza fra un fazioso antiberlusconiano e un plura­lista antiberlusconiano è che per il primo Berlusconi è il nemico mentre per il secon­do è solo un avversario.

C’è poi la questione dell’uovo e della galli­na. Ci sono fasi in cui, entro la minoranza che segue la politica, i pluralisti si trovano in difficoltà e sembrano quasi soccombere di fronte alla prepotenza dei faziosi (sempre seguiti da un imbarazzante codazzo di estre­misti). È difficile stabilire se in quei momen­ti i faziosi prevalgono perché aizzati dalle ur­la di furbi demagoghi o se, invece, i furbi demagoghi hanno successo a causa dell’esi­stenza di una folta pattuglia di faziosi. (Corriere della Sera)

domenica 18 ottobre 2009

Il nemico in casa a sindrome che dilania il Pd. Francesco Verderami

Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi»

Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta co­lonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Spe­cie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversa­rio è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tut­ti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vec­chio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segrete­ria, senza aver definito ancora le alleanze.

E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fosse­ro al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democrati­ci avevano lanciato il tema della riforma degli ammortiz­zatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sa­natorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifo­nico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al con­fronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — com­menta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centrali­smo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una co­sa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».

Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaf­fezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «parti­to mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una vol­ta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi ma­li. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il do­po chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizio­ne al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».

Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va mes­sa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il di­rettore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvi­vranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riac­cenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavalie­re. (Corriere della sera)

venerdì 16 ottobre 2009

Il feticcio del diverso. Gabriele Cazzulini

Il naufragio della legge sulla cosiddetta «omofobia» è soltanto l'ultima manifestazione di uno spirito avvelenato che sta contagiando la vita italiana. Ad ogni elemento, oggettivo e soggettivo, che in qualche modo contrasti con l'identità e le tradizioni viene automaticamente assegnato il massimo valore. E' un paradosso, ma di fronte all'affacciarsi, spesso prepotente, di rivendicazioni di diritti da parte di elementi estranei all'identità italiana, la reazione dominante delle forze laiche e di sinistra è sempre la solita: carta bianca. Può essere lo straniero, chiunque esso sia. Può essere anche colui, o colei, che ripudia la propria identità sessuale biologica, per ogni motivo possibile. Si vede nel caso dell'immigrazione clandestina, con l'opposizione, e non solo quella politica, che è finita con l'adorare, l'idolatrare, il difendere sempre e comunque lo straniero, trasfigurato in una vittima dei mali moderni. Idem per l'omosessualità, che viene considerata come il bersaglio di discriminazioni costanti e che perciò va ricompensata in modo acritico.

Se il parlamento non approva la legge sull'omofobia, allora è un parlamento omofobo che odia i «diversi» - così come il governo che cerca la sicurezza dei cittadini è subito marchiato come razzista e xenofobo. La paura, la fobia, diventano le determinanti che fanno scattare reazioni politiche esagitate, rabbiose, sconclusionate. E' il mito del «diverso», chiunque esso sia. E la paura del diverso è così incontrollata che, invece di reagire per trovare un compromesso equilibrato, si finisce per cedere a priori. Porte aperte all'immigrazione, tolleranza sbracata verso qualunque culto religioso, sovra-rispetto per l'omosessualità. Facile: è una mentalità di comodo per scaricare il barile della responsabilità per scelte davvero difficili. C'è una diversità. La reazione? Assimilarla, accoglierla a braccia aperte e magari collocarla sul piedistallo. Non importa come, chi, e soprattutto a spese di chi.

Chiunque osi muoversi contro è nemico dei diritti e portatore di una visione culturale retrograda e antimoderna. L'importante è che quella diversità, quel diverso, non creino problemi. La vera paura di fondo è scoprire la propria vacuità di fronte alla diversità - ecco lo scacco matto che i paladini della diversità vogliono inutilmente eludere. Ovviamente c'è anche una traduzione politica quando una minoranza, per quanto ristretta, pretende di sostituirsi alla maggioranza. La politica non è solo numeri e voti; è anche l'identità, cioè corpo e spirito, di un popolo, con le sue contraddizioni e le sue zone d'ombra, così come coi suoi punti di forza. Il compromesso è l'inizio e non la fine, ma l'armistizio è una catastrofe. Cioè: nessuno intende escludere o discriminare le minoranze. Ma neppure lasciare che le minoranze, di qualunque tipo, surclassino la maggioranza.

Alla fine della storia la stessa idea del «diverso» è un feticcio. E' un'idea priva di realtà, quindi è un'ideologia. E' una costruzione del pensiero. Un'invenzione. Orfani del comunismo, i comunisti devono trovarsi un surrogato: ecco il feticcio della diversità, che chiama in causa i «nuovi diritti», un'altra foglia di fico con cui coprire la nudità culturale dei nipotini della falce e il martello, ridotti ad impugnare la felce e il mirtillo. Nessuno è diverso. Siamo tutti uguali. Razza umana. Basta coi ghetti e basta con la mentalità del ghetto e della segregazione volontaria - la diversità non è una rendita politica e identitaria, altrimenti diventa una maschera. Facile dirsi diversi per pretendere diritti che non sono altro che protezioni speciali. Perciò l'accanimento contro l'omofobia vale tanto quanto la discriminazione: sono entrambe estremizzazioni di una diversità che, ai fini della legge e della biologia, non esiste. Sì, così crolla il castello di carte che ospita l'ideologia del diverso e spinge a retrocedere di fronte ad esso, invece che a guardarsi negli occhi. Il vero coraggio è uscire dalla propria diversità immaginata e confrontarsi su un piano paritario. Questa falsa diversità non è da usarsi come scudo o come lama per colpire. Sennò si passa dal subire antiche discriminazioni all'infliggerne di nuove per spirito di vendetta e rivalsa. Non è così che si lavora per l'integrazione delle novità. Chi cerca la guerra ha già perso. (Ragionpolitica)

Partito delle toghe e toghe di partito. Davide Giacalone

Ho letto di un Luciano Violante che riflette sui guasti della giustizia e sul corporativismo dei magistrati, prendendo le distanze dall’Associazione Nazionale Magistrati. La notizia è presentata come una specie di conversione, o, almeno, inversione di marcia. Si tratta, in realtà, di recensioni preconfezionate, di una lettura assai superficiale di un suo libro, “Magistrati”. Violante è uomo di grandi responsabilità e solida intelligenza. Quel che oggi scrive non è diverso da quel che ieri fece, sicché non gli è contestabile l’incoerenza, né riconoscibile l’evoluzione. Più semplicemente, ha preso le misure del mostro cui una politica dissennata ha dato vita. Ha davanti le proprie stesse colpe, che gli incutono timore, al punto da cercare di cambiare le carte in tavola.
Violante fu giovane magistrato, a Torino, da dove emerse quale uomo di riferimento del Partito Comunista nel mondo della giustizia, fino a divenire il non occulto regista della politicizzazione dei magistrati. Certo, lo fece con grandezza. Non ambiva alla carriera, puntava allo Stato. Non disdegnando, nel frattempo, il far carriera. E’ giunto ad avere un potere enorme. Ha prima fatto fuori Giovanni Falcone e poi messo al suo posto un proprio sodale, Giancarlo Caselli. Oggi fa finta di scandalizzarsi per quanti avversarono Falcone, e fa finta di raccontare che prevalse il criterio dell’anzianità, nella scelta del capo della procura di Palermo. Bubbole, furono lui ed Elena Paciotti, prima presidente dell’Anm, poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura, infine parlamentare europea eletta dai comunisti, a silurare quello che oggi ricordano bugiardamente. Il suo potere lo portò ad indicare la via per processare Giulio Andreotti, lasciando il lavoro perdente a Caselli, dopo che l’operazione politica era conclusa. Alla fine del percorso, però, anche Violante ha perso, il mostro gli si è rivoltato contro, e la sconfitta cominciò alla procura di Milano, durante l’inchiesta Mani Pulite. Datemi qualche minuto, perché questa è una storia interessante.
Lui lo dice con parole diverse, ma nel libro si allinea ad un’interpretazione che noi sosteniamo da anni: la deviazione cominciò con la lotta al terrorismo. Fu in quell’occasione che la politica firmò una delega in bianco alla magistratura. Offrì uno strumento importante, il reato di “banda armata”, che consentiva un enorme potere discrezionale nel mettere e tenere in galera. I magistrati di sinistra furono i più attivi, meritoriamente. Al terrorismo seguì la mafia, anche in questo caso mediante l’approntamento di un’arma impropria: il reato di “associazione di stampo mafioso”, che, accompagnata dal “concorso esterno”, consentì ai magistrati di inquisire e rovinare, quando non ingabbiare, chiunque. Nel biennio 1992-1994 la magistratura s’era già trasformata da ordine in potere, aveva già affermato la propria indipendenza dalla legge scritta, e ritorse le due deleghe passate contro il delegante, cancellando parte del mondo politico. Violante, che aveva costruito ed accudito le prime due violazioni, rizzò subito le orecchie. La vecchia scuola leninista s’avvide di un pericolo che sfuggiva all’Italia stracciona e vociante: l’usurpazione della politica.
Non è un caso che Violante ricordi il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), per sottolineare che il Pci si espresse a favore, contrastando l’interesse corporativo delle toghe. Lo fece a ragion veduta, perché Violante non è mai stato favorevole al partito dei magistrati, semmai ai magistrati funzionali all’interesse del partito. Il suo. Cade, però, in contraddizione, quando afferma che cinque anni dopo gli italiani erano tutti dalla parte della magistratura, e lo erano da tempo. Al citato referendum avevano votato in massa (80,20%) contro l’irresponsabilità giudiziaria!
Veniamo al punto fondamentale. Violante non fa una piega, nel ripetere che i partiti democratici della prima Repubblica caddero a causa del loro finanziamento illecito. E, ancora una volta, dimentica di dire qualcosa su quello del Pci. Ma ricorda che già allora, nel 1993, aveva avvertito l’intollerabilità di un “governo dei giudici”. Solo che si mantiene sul teorico, omette l’analisi politica: al contrario di quel che era avvenuto con terrorismo e mafia, quella volta i magistrati non erano i suoi. Francesco Saverio Borrelli era stato appoggiato dai socialisti. Antonio Di Pietro è considerato di sinistra solo da chi non sa cosa la sinistra dovrebbe essere. Gerardo D’Ambrosio salvò il Pci (che poi lo portò in Parlamento), ma non aveva in mano le indagini. Violante capì subito il pericolo, cominciando a denunciare l’“alterazione dei rapporti”.
Fino a quel momento l’opera di Magistratura Democratica e di Violante era stata diretta ad assumere la Costituzione come unica guida, profittando della indeterminatezza declamatoria (e cattocomunista) di non pochi articoli e, quindi, piegando l’interpretazione giuridica agli interessi di parte. Una deviazione profonda e pericolosissima, che, però, fu assecondata, trovando solo in Cassazione qualche residua resistenza (sicché provvidero a far fuori, sempre per via giudiziaria, chi in quella sede s’opponeva). Ma il rito milanese si discostava da quell’andazzo, e sebbene portasse benefici ai ribattezzati comunisti, conducendo lo stesso Violante a presiedere la Camera dei Deputati, non di meno non erano più loro a tenerne la guida, ma le non rosse toghe di quella procura.
Preso atto della sconfitta politica, pertanto, Violante passa ad avvertire dei pericoli connessi, compresa la degenerazione dell’Anm e del Csm. Ha perfettamente ragione, ma limitarsi a descrivere questa, omettendo il resto, può farlo solo chi ha una vocazione alla falsificazione, o una naturale propensione all’ignoranza ed al luogocomunismo. Noi conosciamo i nostri polli, e ricordiamo la loro marcia contro il diritto.

mercoledì 14 ottobre 2009

Rai, Minzolini: "Un mio diritto fare gli editoriali". il Giornale

"Fare editoriali da direttore del Tg1 è un diritto". Durante la sua audizione davanti alla commissione di Vigilanza, il direttore del telegiornale della rete ammiraglia, Augusto Minzolini, difende i propri diritti dalle accuse che gli sono piovute addosso nelle ultime settimane. Da quando è alla guida del Tg1, Minzolini assicura di aver "interrotto ogni collaborazione" e, a differenza di altri, non aver mai rilasciato interviste.

Il diritto agli editoriali "Ho diritto di fare l’editoriale, secondo quell’articolo 21 della Costituzione per cui altri hanno manifestato dieci giorni fa". Il riferimento è all’editoriale sulla manifestazione per la libertà di stampa, definito "irrituale" dal presidente della Rai, Paolo Garimberti. "Sono stato accusato di censura e il mio editoriale è stato giudicato così, sono un censore censurato", dice il direttore del Tg1, convinto di aver solo "espresso un’opinione in modo chiaro", secondo un suo diritto. E, come ha fatto il direttore precedente, "l’amico Gianni Riotta, che ha fatto quindici editoriali durante la direzione più altri perché veniva chiesta la sua opinione su varie questioni intervistato in studio, penso anche all’editoriale su Curzi. Perché non posso farne io? Non si può tirare in ballo il giudizio pubblico in termini contraddittori, perché secondo alcuni vale solo per i Tg e non per altri programmi. E' una posizione incomprensibile".

Il doppiopesismo nel giudizio "Dovrei esimermi - insiste ancora il direttore del Tg1 - dall’esprimere giudizi quando c’è chi in altre trasmissioni li esprime su mio operato. Per cui, almeno sull’argomento, eviterei delle ipocrisie". Minzolini ha sottolineato che "c’è chi si è lamentato perchè non è stato dato spazio alla tematica, diciamo così, escort, chi invece ha polemizzato perché è stata data la notizia sulle tangenti per la sanità, unica tematica per la quale sono stati emessi avvisi di reato per politici. È la croce di ogni tg. C’è una differenza tra le vicende di Tangentopoli e quelle di questa estate, almeno per quanto riguarda il coinvolgimento di personaggi pubblici". "Se allora si partiva da un avviso di garanzia - ha rilevato Minzolini - ora abbiamo assistito al susseguirsi di personaggio coinvolti in processi squisitamente mediatici senza essere accusati di alcun reato, senza aver ricevuto nessun avviso di garanzia. Non solo Berlusconi, ma anche la famiglia Agnelli, De Benedetti, il direttore di Repubblica Ezio Mauro, e l’ex direttore di Avvenire Dino Boffo". Per Minzolini "qui si può teorizzare, non fosse altro per il pluralismo, che quello che è scritto su qualche giornale debba essere ripreso come se fosse la verità in terra, e quello che è scritto su altri no. Una differenza che ha indotto il Tg1, che parla a milioni di persone, ad affrontare i casi con prudenza e sobrietà. Cosa sarebbe successo se avessi proposto al Tg1 lo scenario di guerra mediatica che ha caratterizzato l’estate scorsa?".

Galassia. Marcello Buttazzo

I Verdi si spaccano: forse Bonelli e Boato vanno con i Radicali di Pannella e Bonino, strizzando l’Occhio al Pd, e non disdegnando i voti di destra; De Petris, Francescato, Cento vorrebbero rinsaldare Sinistra e Libertà. Alfonso Pecoraro Scanio, che notoriamente è trasversale anche a sé stesso, sta pensando seriamente di andare con tutti. (il Riformista)

Se questa non è libertà. Dimitri Buffa

“Questa della D’Addario è la storia vera che si trovò a Palazzo quella sera...e il premier che la vide così bella, sul letto di Putin la mise a pecorella”. Questa canzoncina, divertente, parafrasata dalla nota Marinella di Fabrizio De Andrè è andata in onda su Canale 5 in prima serata per bocca del comico Checco Zalone. Dite ancora che Berlusconi non tutela la libertà di satira e di stampa? Il problema vero di una sinistra che manifesta perché Berlusconi comprimerebbe la libertà di espressione con un paio di citazioni civili e una querela penale, che oltretutto difficilmente saranno vinte in giudizio contro il potentissimo gruppo editoriale che fa capo all’ingegner Carlo De Benedetti (che è il “coccolo” di tutte le procure anti Cav d’Italia) sta tutto qui: come fare digerire queste balle, queste mistificazioni, che poi vengono contraddette ogni giorno che Dio manda in terra? Magari da un comico di casa Mediaset che con uno sketch prende per i fondelli il Cav molto più pesantemente che le dieci fatidiche domande di D’Avanzo. Che sembrano fra l’altro il parto di uno psicanalista di provincia istruito alle stesse scuole montessoriane dove la ex first lady Veronica ha fatto erudire i suoi pargoli. Che sembrano temere per la propria quota ereditaria più di quanto lo stesso Scalfari tema un giorno di venire mandato in pensione dalla attuale proprietà del giornale che lui ha fondato. D’altronde per quelli del gruppo Caracciolo-De Benedetti è difficile criticare Berlusconi nel merito perché sarebbe un autogol: questo presunto Frankenstein, se veramente esiste, come ricorda spesso Pannella nelle soavi conversazioni domenicali con il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin (e da qualche settimana allargate a intellettuali di sinistra in studio per ravvivare l’ambiente), è sfuggito dal loro laboratorio. Un giornale partito come “Repubblica”, che ha fatto dell’endorsement di De Mita il cardine della propria visione del mondo dal 1981 al 1989, e questo solo per dispetto a Craxi, è veramente titolato per parlare di libertà di stampa?

Cronisti noti per la loro onestà intellettuale come Daniele Mastrogiacomo, se ci parli in privato, ti dicono che loro, cioè quelli che ci lavorano quasi dalla nascita, considerano “Repubblica” come “un giornale leggendario degli intrighi di palazzo”. E danno per scontato che gli altri lo percepiscano come tale.

D’altronde un quotidiano che ebbe il proprio vero “start up”, anzi il successo, dalla infame campagna per la “fermezza” durante il caso Moro, una fermezza omicida a uso di chi voleva che quel signore non tornasse in Parlamento per dire “di che lacrime grondava e di che sangue” lo stato catto-comunista che Scalfari e soci ci stavano preparando, non è davvero quello più adatto per farci la predica. Un giornale che tentò la stessa operazione con il giudice D’Urso tre anni dopo e che poi, nello scandalo della ricostruzione camorristica e della Dc di sinistra dell’epoca (De Mita e Mastella i padrini riconosciuti insieme ai Gava e ai Cirillo del Grande Centro) dopo il terremoto dell’Irpinia, fu assai timido a denunciare le ruberie della Dc, che credibilità può avere oggi nel guidare questa ridicola crociata? Non parliamo poi del giustizialismo che investì Enzo Tortora, delle campagne contro Scascia quando parlò del professionismo dell’Antimafia alla Leoluca Orlando, della campagna contro il giudice Corrado Carnevale, dell’endorsement alla parte più politicizzata dell’inchiesta “mani pulite”. Trentatrè anni di “Repubblica”,dalla fondazione a oggi, hanno messo in croce tutta la nostra vita pubblica e privata per perseguire i miraggi politici di Scalfari e di De Benedetti. Da De Mita a Franceschini passando per Occhetto. Magari si potrà dire che il loro fallimento ha aperto la strada, come reazione uguale e contraria, all’Italia delle tanto deprecate veline di Berlusconi. E’ il risultato del “riflusso”, e dura ormai dagli anni ’80. Proprio da quando gli italiani hanno scoperto che “l’uomo serio e austero” proposto come modello da “Repubblica” era un bluff. Ora l’ultima carta, paradossale, si gioca nel parlare di mancanza di libertà di stampa nelle tv di un uomo che è quasi stato ucciso dalla propria stessa auto ironia e dalle proprie battute. A cui sembra non potere rinunciare neanche se stesse aggrappato con un solo braccio a una tenue fune che lo tenesse in equilibrio fuori dalla finestra di un grattacielo di 180 metri. Alla fine gli italiani, tra la seriosità in malafede di Scalfari e la “gnocca” berlusconiana hanno scelto quest’ultima. Come dar loro torto? (l'Opinione)

martedì 13 ottobre 2009

L'appello di Rep. contro la mercificazione e il sito di Rep. con ragazze nude. Annalena Benini

Repubblica sta raccogliendo firme contro l’uso oggettistico del corpo femminile (contro Silvio Berlusconi), contro la donna ridotta ad “avvenenza giovanile, seduzione fisica ma in primissimo luogo completa sottomissione al capo”. Repubblica on line si è data subito da fare in modo appassionato per ribaltare questa prospettiva sciovinista e offensiva: nella galleria immagini ci si può piacevolmente soffermare su una serie di foto artistiche sadomaso in cui la ragazza è sì completamente nuda (tranne i guanti di lattice e gli stivali a mezza coscia), però tiene in mano un frustino e un guinzaglio e ai suoi piedi c’è un uomo accucciato, sempre nudo, con maschera e collare, a significare a Barbara Spinelli, Nadia Urbinati e Michela Marzano (hanno scritto e firmato per prime l’encomiabile appello) che qualcosa è già cambiato. E’ un primo passo per uscire dalla logica della mercificazione e sottomissione del corpo femminile, e non deve trarre in inganno il fatto che le altre gallerie fotografiche siano sul genere: “Il calendario delle cameriere Usa”, dove signore per nulla umiliate ma molto ammiccanti si coprono mezzo sedere con mezzo asciugamano, o “Bellezza e bisturi: miss plastic”, nel senso di silicone, con belle ragazze il cui pezzo sopra del bikini sta per esplodere.

Pare che nei siti dei quotidiani italiani questa zona spesso confinante con il porno soft abbia un gran successo di pubblico, e il sito di Repubblica è di certo il più accurato: spogliarelli burlesque, tutti i backstage esistenti dei calendari per motociclisti, da quello con aspirazioni chic a quello fatto in casa da casalinghe esuberanti, ragazze in mutande fotografate su letti sfatti, una bionda in autoreggenti, reggiseno esagerato e microslip di raso fucsia e nero alla fermata dell’autobus in una serie di scatti dal titolo: “Signori si scende, alla fermata c’è Sophie”.

E Pamela Anderson, un po’ passata e gonfiata ma sempre sexy, che si tira su il vestito (più che vestito, alcuni piccoli pezzi di stoffa a significare: c’era un incendio, sono scappata, mi sono salvata ma l’abito è quasi del tutto bruciato, però sono contro quest’uso umiliante del corpo femminile. Titolo: “Pam, l’esuberanza batte lo stile”). Ci sono anche i primi piani delle donne che si ritengono offese dal premier, poi basta cliccare un centimetro più in là per bearsi di centinaia di fanciulle molto svestite o del tutto nude (una su tacchi alti e con spada, per “un effetto di fascinazione non violenta, di seduzione giocosa che unisce glamour e suspense”), c’è anche un locale che organizza brunch senza mutande ed è molto affollato, c’è una ragazza che si avvicina le tette con le mani per farle inquadrare meglio. Per tutte quelle che, dopo aver letto l’appello, hanno deciso che da grandi faranno le donne oggetto. (il Foglio)

Libertà di stampa. Christian Rocca

"Li tratteremo come un partito d'opposizione, poiché stanno conducendo una guerra contro e non possiamo far finta di pensare che questo sia il comportamento legittimo di un organo di informazione"
(Cicchitto? Bonaiuti? Bondi? No, Anita Dunn, direttore della comunicazione della Casa Bianca di Obama a proposito della Fox).

lunedì 12 ottobre 2009

Lunga vita a Gadolinio Berlusconi. Affari Italiani

Avete presente il liquido di contrasto, ossia quella sostanza che ci viene iniettata nei tessuti a fini diagnostici con l'effetto straordinario di riprodurre immagini nitidissime degli organi interni del nostro corpo? Come il Gadolinio, ad esempio, il più diffuso, usato nella risonanza magnetica. Iniettato per via endovenosa, entra nei tessuti e grazie alla sua natura paramagnetica restituisce al medico un'alta intensità di segnale e dunque una straordinaria visibilità con una ben maggiore capacità di lettura e discernimento. Ecco, il Gadolinio sta al nostro organismo come Silvio Berlusconi sta all'Italia. Il Cavaliere di Arcore opera come un liquido di contrasto nel corpaccione malato della Repubblica italiana. Iniettato nei gangli sia centrali che periferici dello Stato e della società, ne schiarisce le zone d'ombra accentuandone la leggibilità. Solo il tempo consentirà di valutare con serenità, in sede storica, il bilancio complessivo, i pro e i contro, della discesa in campo di Silvio Berlusconi. Ma sin da ora si può tranquillamente affermare, senza essere di parte, che con la sua azione di liquido di contrasto accentua fortemente la leggibilità del sistema consentendo di cogliere i fenomeni meno evidenti, più intimi e nascosti, più surrettizzi e, come dicono i medici, più subdoli.

Che sia il Quirinale o la Corte Costituzionale, la magistratura o il sindacato, i giornali o le banche, la stampa estera o i salotti culturali e finanziari, le agenzie di rating o gli enti di ricerca economica, il Vaticano o la Cei, il G8 (0 G2 o G20) o i vertici internazionali, la Ue o il Parlamento di Strasburgo, Berlusconi è il Gadolinio della politica, dell'economia, della società. Una volta venuto a contatto con questo o quell'organo, ne rivela meglio la reale funzionalità, le connessioni e le sinapsi, le patologie, le disfunzioni. E allora lo ribattezziamo Gadolinio Berlusconi. E gli auguriamo lunga vita. Perché il Gadolinio è neutro, è adatto a tutti i soggetti, svolge la sua funzione fondamentale e poi va via con la pipì, al massimo suscita qualche allergia e solo in pochissimi casi la morte del paziente. In compenso aiuta a capire, a farsi un'idea esatta, a scorgere le patologie, a cogliere meglio la verità delle diverse situazioni. Per assumere poi meglio, con maggiore cognizione di causa e con la massima libertà, le giuste diagnosi e le libere terapie.

domenica 11 ottobre 2009

Iran, tre dimostranti condannati a morte

Nessuna protesta in piazza del Popolo.
Repubblica & Compagni fanno sapere che in Iran si è manifestato solo contro presunti brogli elettorali e non contro le querele di Papi.

Offerte. Jena

Entra anche tu nel Pd, costa poco e potrai eleggere il tuo leader in comode rate. (la Stampa)

sabato 10 ottobre 2009

Immunità e colpe politiche. Davide Giacalone

Durante il ventennio fascista non esisteva un libero Parlamento, ma restò l’immunità parlamentare. Non solo le forze di polizia, ma neanche la milizia mussoliniana, non solo i magistrati, ma nemmeno quelli del fascistissimo tribunale speciale, potevano azzardarsi ad aprire la lettera di un parlamentare, per non dire ad imputarlo di un qualche reato, senza l’autorizzazione della camera d’appartenenza. Potevano arrestarlo, ma solo in flagranza di un reato per cui l’arresto era obbligatorio (dovevano, insomma, trovarlo mentre scannava qualcuno). Questo antico e sano costume, nato a tutela della democrazia, era sopravvissuto alla soppressione della democrazia stessa. Si ritrovò, naturalmente, nell’Italia repubblicana. Fino a quando, in pieno delirio manipulitista, l’istituto fu soppresso, mettendo la democrazia nelle mani delle procure. Spiace ricordare che presidente della Camera era Giorgio Napolitano, lo stesso presidente che ricevette la lettera dell’onorevole Sergio Moroni, suicida, e non seppe fare altro che archiviarla.
Non c’è dubbio che dell’immunità si abusò, difendendo parlamentari i cui presunti reati non avevano nulla a che vedere con la manifestazione delle opinioni o con l’attività politica. Bastava vi fosse un “fumus persecutionis”, l’impressione che la procura lo perseguisse con sospetto ardore, per fermare tutto. Si sarebbe dovuto correggere l’abuso, invece si cancellò un baluardo dello Stato di diritto. La democrazia assediata, dalle procure, fece quello che neanche il fascismo aveva avuto il coraggio di fare. Così, oggi, abbiamo uomini delle istituzioni che si trovano sotto procedimento penale da quindici anni. O siamo un popolo di delinquenti, o, più verosimilmente, il sistema è impazzito.Perché l’assenza dell’immunità, l’essere senza difesa alcuna innanzi all’azione delle procure, nuoce alla democrazia? In fondo, non è forse giusto che si perseguano i colpevoli? Certo, che è giusto. Ed aggiungo che un antico costume di galantomismo imponeva ai sospettati di dimettersi, o, almeno, allontanarsi dalla vita pubblica, in modo, si diceva, da “essere liberi nel dimostrare la propria innocenza”. Questo, però, presupponeva due cose: una magistratura non politicizzata e tempi brevi per il giudizio. Nell’Italia d’oggi mancano tutte e due le cose. La nostra malagiustizia funziona così: la procura ti accusa, passando le carte ai giornali e procedendo allo sputtanamento, poi comincia un’attesa decennale, o più, al termine della quale gli stessi magistrati preferiscono chiudere la faccenda con le prescrizioni, in modo da non essere costretti ad ammettere che, la gran parte delle volte (e sono numeri, non opinioni), l’accusa era una boiata. Se, pertanto, l’accusato s’era uniformato al galantomismo, automaticamente si era fatto fuori, per sempre. Risultato: procedendo in questo modo sarebbero le procure a stabilire sia chi governa che chi siede in Parlamento. E questo non è un golpe, ma il suo risultato.
L’errore opposto, però, consiste nel credere che il suffragio popolare sia un giudizio che supera quello penale. L’autonomia fra le due cose è la natura stessa dello stato di diritto. Opporre i voti alle carte d’accusa non solo non è corretto, ma è deviante. La via d’uscita, pertanto, consiste nell’utilizzare i voti raccolti per far funzionare la giustizia, accorciandone i tempi e riqualificandone il personale. Non servono più soldi, perché ne spendiamo fin troppi. Fin quando non lo si farà, fin quando si proporrà a tutti i cittadini una giustizia che fa schifo, non si sarà in grado di riequilibrare il rapporto istituzionale fra giustizia e politica, fra magistrati e governanti.
La Corte Costituzionale queste cose non le ha viste, e non mi stupisco. Oramai è composta da giuristi-arrivisti, privi di spessore culturale e spina dorsale, senza alle spalle alcun pensiero originale, compilatori di tomi mediocri e scopiazzati, protesi ad attendere il turno per fare i presidenti, in omaggio ad un criterio d’anzianità che segna il trionfo dell’incostituzionalità nella carica più alta della Corte Costituzionale. Che vi aspettate, da gente simile? C’è chi si salva, da questo severo giudizio, ma non si salva il consesso, come testimonia, del resto, il numero ridicolo di presidenti emeriti, vale a dire di ex presidenti, che ingorgano la corsa alla merenda nei ricevimenti quirinalizi.
La politica, però, non è vittima, è colpevole. Spetta al legislatore ed al governante porre rimedio. Per farlo servono sia competenza che coraggio. In giro, invece, vedo molti smargiassi, adusi all’approssimazione.

venerdì 9 ottobre 2009

Nobel per la pace a Barack Obama

Da quando, nel 2007, è stato assegnato ad Albert Arnold Gore, il Nobel per la pace viene deliberato dalla giuria di miss Italia.

Ma Berlusconi non ha sempre ragione. Orso di Pietra

Mica è vero che per i berlusconiani il Cavaliere abbia sempre ragione! Alle volte può avere anche torto! Ad esempio Berlusconi ha sicuramente ragione quando sostiene che la Consulta ha una maggioranza di sinistra. Non sbaglia quando rileva che il Presidente della Repubblica viene da sinistra. E coglie assolutamente nel giusto quando denuncia che il 72 per cento dei giornalisti italiani è schierato a sinistra e gioca di sponda con le correnti giustizialiste della magistratura italiana. Ha torto, però, quando si stupisce di quel 72 per cento. Perché se la percentuale è tale da oltre quindici anni e se, nel frattempo, a dispetto del bipolarismo e di una società a maggioranza schierata con il centro destra, non è scesa neppure di mezzo punto, la colpa non è del destino cinico e baro o della protervia dei comunisti. Chi è causa del suo mal pianga se stesso! E crei un ufficio stampa e propaganda degno di questo nome! (l'Opinione)

Quei teppisti chic della sinistra pronti allo sfascio. Marcello Veneziani

Un Paese svogliato viene spinto sull’orlo della guerra civile. Un Paese ammosciato, chiuso nel proprio ambito privato, viene eccitato e avvelenato ogni giorno, con dosi sempre più massicce, al punto da spingerlo, come non accadeva da decenni, a odiare il prossimo suo più di se stesso. Un Paese assediato da una minoranza di colore (ideologico) che gioca allo sfascio del Paese e del suo governo in tutte le sedi, interne e internazionali, giudiziarie e mediatiche. È quel che accade nell’Italia del 2009 attraverso un fuoco incessante che passa dai giudici alle escort, dagli europarlamentari ai giacobini feroci del video, della politica fino alle loro milizie, armate di veleno che ulcerano redazioni, scuole, università, programmi e salotti.
Dal de bello fallico di quest’estate al de bello civili autunnale, parafrasando Cesare: ora non resta che Bruto con le sue pugnalate. Finora abbiamo parlato della guerra nei Palazzi, e tra i Palazzi, quelli ove siedono i governi voluti dal popolo a quelli ove siedono i signori delle oligarchie. Ma lo spettacolo più feroce e preoccupante è in giro, nei luoghi pubblici. C’è un Paese incattivito, dove le discussioni politiche un tempo s’animavano ma poi si spegnevano perché nella vita e nei rapporti umani ci sono tante cose oltre il conflitto politico. Adesso, invece, se ti scoprono con la maggioranza silenziosa degli italiani, se sentono che non sei d’accordo con la campagna di guerra di Repubblica e dei suoi congiurati contro Berlusconi, o se addirittura vedono che leggi il Giornale (se poi ci scrivi non vi dico), ti inceneriscono di un odio totale che ricorda gli anni di piombo. Si spezzano i rapporti. Un Paese incupito, con una lugubre minoranza che sogna la morte biologica o civile del Nemico.
Tra i più accaniti miliziani e guerriglieri ci sono gli insegnanti, in particolare le donne. Sono acide, furenti, secernono veleni in classe e fuori, considerano l’intolleranza una virtù perché prova il loro impegno civile, la loro lotta di resistenza a oltranza. In treno, in aereo, per strada, al cinema perfino, mi capita di imbattermi in questi campioni: l’odio si avverte nell’aria. A Napoli l’altra sera presentavo il mio libro sul Sud, mica sul Lodo, e gli organizzatori mi hanno detto che hanno invitato come sempre fanno le insegnanti delle scuole: reazioni furibonde delle suddette menadi, professoresse che gettano a terra l’invito, espressioni ineleganti, ferocia e inciviltà come non ci sarebbe da aspettarsi da una docente detta un tempo educatrice. Ma è solo un caso tra mille. So di famiglie lacerate e di amicizie ferite dal Lodo Alfano o Mondadori. E leggendo i giornali scopro toni di insulto e di offesa come non pensavo fosse più possibile nella nostra epoca fredda e cinica; toni da guerra civile con omicidio mediatico-giudiziario. Per fortuna la società è piena di vigliacchi e non si passa dalla violenza verbale a quella fattuale, ma gli ingredienti ci sono tutti.
Ecco io di questo accuso quella minoranza furiosa che vorrebbe vedere stecchito o detenuto Berlusconi per punire l’intero Paese, l’Italia, che a loro non piace; per dare una lezione a questi italiani merdosi, per dirla con un’espressione in voga. Ogni sondaggio che decreta il consenso in favore di Berlusconi solleva palate di sterco contro l’Italia e i suoi cittadini.
Non so quanto tempo potrà sopportare il Paese un clima del genere. Che è poi un clima innaturale, fuori stagione. Perché, almeno, ai tempi della guerra civile, si difendeva la vita, la dignità e la memoria di soldati al fronte o di figli mandati a morire in guerra, si disputava tra due visioni del mondo. E c’era la guerra, i bombardamenti, i rastrellamenti, insomma si pativa davvero. Un clima cruento, tra la vita e la morte, generava scontri mortali. Qui invece ci stiamo scannando in clima di pace e benessere, per il Lodo o peggio per la D’Addario.
Vi rendete conto? Nei salotti poi non vi dico, c’è una forma di teppismo chic che non ha precedenti. Dico nei salotti buoni, che vengono chiamati così offendendo le nonne e le vecchie zie che furono le vere tenutarie dei salotti buoni; quei salotti impraticabili, dove dominava la bambola a gambe aperte al centro del divano, e dove si accedeva solo nelle occasioni speciali mentre nei giorni profani si doveva navigare con le pattine per non sporcare. I salotti «buoni» del teppismo chic sono diventati festival del turpiloquio antiberlusconiano, più maledizioni aggiuntive per chi lo difende: a parte Satana Berlusconi, guidano la classifica degli insulti Brunetta e Feltri.
Ma torno al clima feroce che ci sommerge per dire: si può giocare allo sfascio di un governo, di un Paese, di una convivenza civile e pacifica, solo per rovesciare il verdetto delle urne e distruggere un premier?
La cattiveria poi si riversa in ambiti laterali e diversi; tutto si fa più cruento e gridato, il ripensamento della storia, il rapporto tra religione e laicità, i temi della bioetica, la discriminazione e il vilipendio di chi non la pensa come noi... Questa è la vera barbarie dei nostri giorni. Un tempo commettevano ferocie le rozze masse contadine e proletarie per fame, disperazione ed eccitazione rivoluzionaria; oggi invece sono milizie benestanti con titolo di studio superiore, bande armate di insegnanti, non di studenti; commando di borghesi che sparano nel nome della Cir, di Carlo De Benedetti e usano il passamontagna della Corte. A proposito del Lodo Mondadori: come mai nessun magistrato si incuriosisce alle partite Olivetti piazzate ai ministeri, anche se scadute, per non dire dei registratori di cassa o alle miracolose compravendite alimentari di De Benedetti con i belgi? Al gruppo Rizzoli-Corriere della Sera ceduto a prezzi stracciati ad Agnelli e a tante curiose storie editoriali del nostro Paese che riguardano i maggiori gruppi editoriali, con banche e palazzinari? Gruppi con un peso politico, non solo d’affari. Perché nessuno s’interroga sui prodigi intorno alla telefonia, magari rilevate senza soldi e poi stravendute guadagnando soldi veri? Tutto normale? Una guerra incivile attraversa i poteri e contagia il Paese.
Fermatela, prima che sia troppo tardi, quest’Italia barbara con la bava alla bocca, benché snob, che odia se stessa tramite Berlusconi, l’arcitaliano. (il Giornale)

giovedì 8 ottobre 2009

"Il Cavaliere non si rassegnerà"

Dice Dario Franceschini alla Repubblica (8 ottobre) Lo scusi, fa parte di quei vecchi pazzi che credono ancora alla favoletta del suffragio universale. Lodovico Festa su l' Occidentale

Tempo scaduto. Davide Giacalone

Guardate il clima che il lodo reiterato, e la reiterata (oltre che contraddittoria) bocciatura costituzionale crea. Ricordate gli scontri al calor bianco per le riformette, dalle rogatorie alle ricusazioni. Mettete nel conto quanto sono costate, in termini di polemiche, consensi e tempo perso. Ebbene, con la metà di questi clamori, in un decimo del tempo e con risultati cento volte migliori, si sarebbe potuta fare una riforma seria e radicale della giustizia. Se anziché inseguire i singoli processi si fosse inquadrato il problema complessivo, se anziché rivolgersi alle corporazioni, cercandone il consenso, ci si fosse rivolti agli italiani che pagano la peggiore giustizia d’Europa, la più degradata del mondo civile, oggi godremmo i risultati di una stagione riformista, anziché inzaccherarci nei fanghi della costanza paludosa.
La sentenza costituzionale è solo un dettaglio, sebbene sia noto che è la goccia a far traboccare il vaso. Non è la peggiore, uscita da quel consesso, giacché sarà difficile battere l’arroganza giustizialista che portò alla bocciatura della così detta “legge Pecorella”, quella che, giustamente, prevedeva l’impossibilità di trascinare ancora il giudizio contro un cittadino che, per quel particolare fatto, fosse già stato assolto. Allora mi colpì non solo e non tanto la politicizzazione della Corte Costituzionale, quando la viltà e l’insipienza della cultura giuridica, pronta a rimpiattarsi nella prosa opaca di chi non ha il coraggio neanche della propria paura. Non mi piacciono le tifoserie politiche, ma ripugnano i mercenari intellettuali. In questi giorni se ne sono viste a frotte.
Mesi fa scrissi, su questo giornale, che il lodo Alfano sarebbe stato bocciato e che i tentativi di blandizia e mediazione erano tempo perso. Ne ero convinto, per due ragioni: a. il lodo era fatto male; b. la Corte Costituzionale è gravemente degradata, come documentammo denunciando l’uso incostituzionale di nominare presidenti tutti quelli che tolgono in fretta il disturbo e guadagnano la pensione. Mi rispose il presidente dell’epoca, cui replicammo che sosteneva sciocchezze. Ma il mondo politico dov’era? Quelli che oggi lamentano la politicizzazione, che facevano? Quando ci si mostra accondiscendenti verso il malcostume (e quello della Corte è un malcostume scandaloso) non si conquistano benemerenze e sconti, ma ci si mette in posizione prona. Il resto segue.
La chiarezza delle posizioni non deve essere vista come una forma di aggressività polemica, perché è vero il contrario: la mediazione oltre i limiti del ragionevole serve solo a rendere eterne le polemiche. E’ un errore battibeccare in continuazione, avvalorando l’idea che una parte politica ce l’abbia con la magistratura. Meglio tacere e riformare. Se scontro deve essere, e lo sarà, considerata la grettezza corporativa di certe toghe, che almeno porti un beneficio a tutti. Se ci si ferma a metà dell’opera, invece, si dà sempre l’impressione che, sotto sotto, si stia trattando per gli affari propri. In questi giorni, in questa che ho chiamato la “settimana giudiziaria”, se ne vedono i risultati.
Ora, sia chiaro, c’è davanti o la resa o il conflitto. Tirare a campare è una resa, in attesa delle altre mazzate. Il conflitto, però, può essere interpretato in due modi: come ripresa, immediata e brusca, dell’opera riformista, abbandonando le mezze misure e passando alle cose serie, come la separazione delle carriere; oppure il trascinare tutto sul fronte elettorale, evidentemente convinti che questa legislatura ha perso la capacità d’essere utile, e, anzi, rischia di diventare pericolosa. Preferisco la prima cosa, ma è evidente che se la maggioranza perde compattezza (come in queste ultime settimane è accaduto) prevarrà la seconda. Il lavacro elettorale, però, non è di per sé risolutivo, giacché la vera prova del fuoco si ha sulla capacità e volontà di cambiare profondamente le cose. Fin qui sono mancate.
L’Italia ha cancellato in modo illegittimo i partiti della prima Repubblica, assestandosi poi in un sistema litigioso ed inconcludente. Le anomalie si sono ingigantite. Pensare, nuovamente, di chiudere una partita con l’arma giudiziaria è una follia. Capace di scassare quel che resta della democrazia e dello Stato di diritto. C’è, a sinistra, qualcuno in grado di capirlo? Fin qui non s’è visto, o ha parlato sottovoce. Il tempo sta scadendo, mentre la politica è già scaduta.

mercoledì 7 ottobre 2009

Una recente indagine...

ha stabilito che l'eventuale aumento della criminalità non dipenderebbe dagli immigrati stranieri.
Allora come mai la popolazione carceraria è costituita per un terzo da stranieri?

venerdì 2 ottobre 2009

"Berlusconi sapeva che ero una escort". Lodovico Festa

Dice Patrizia D’Addario alla Repubblica (2 ottobre).
Ora è appurato: non solo il cervello ma anche il pisello “non può non sapere”. (l'Occidentale)

giovedì 1 ottobre 2009

Se

Se la libertà di stampa violata, secondo i piagnoni della sinistra, è la stessa che mancava sotto il fascismo, comincio a dubitare che ai tempi di Mussolini non ci fosse libertà di stampa.

Se siamo sottoposti ad un regime, comincio a dubitare che quello fascista lo fosse.

Se Berlusconi è un dittatore, a questo punto non so se lo sia stato Mussolini.

Se la povertà aumenta e ci sono famiglie che patiscono la fame, mi chiedo chi si poteva permettere un pasto completo nel ventennio.

Se tanti si vergognano di essere italiani e non sopportano l'attuale governo, forse è merito di "Repubblica" che ha aperto loro gli occhi.

Se ci sono intellettuali di sinistra che preferiscono il fascismo al berlusconismo, mi chiedo in che mondo vivo e se non fosse stato meglio nascere un secolo fa.

"Unomattina"? Casa di tutti. il Giornale

Casa sua, casa nostra. Cose loro. E da due giorni che il mondo mediatico e politico è rotto dagli echi della polemica casereccia seguita alla «infelice» battuta del conduttore di «Unomattina», Stefano Ziantoni. Il quale, l’altroieri, ha chiuso il collegamento telefonico con Silvio Berlusconi con le parole: «Presidente, qui lei è a casa...».
Una banale forma di cortesia nei confronti dell’illustre ospite diventa subito oggetto di critiche da parte del centro-sinistra, visto anche il momento di tensione sul tema dell'informazione in genere, e sulla Rai in particolare con il caso «Annozero» ancora aperto. Per dire: Fabio Evangelisti, vicepresidente del gruppo di Italia dei Valori, ha commentato con un «è stato un vergognoso e patetico siparietto la dimostrazione dello stato penoso in cui versa l’informazione nel nostro Paese». E secondo Luigi Lusi (Pd): «Il buongiorno di Unomattina è stato misero e squalificante per la Rai». Ovviamente molti giornali, come «Repubblica», hanno titolato sulla frase «servile». Un effetto deleterio dell’ossessione antiberlusconista. Il 24 luglio scorso, allo stesso programma, «Uno Mattina», fu ospite Pierluigi Bersani, il probabile futuro segretario del Pd. Avete idea di come il conduttore Stefano Ziantoni ha concluso l’intervista? Avete indovinato: «Onorevole, Unomattina è casa sua...».
Cliccabile su http://www.youtube.com/watch?v=PiBNseYbsxs