mercoledì 31 marzo 2010

Sinistra di niente. Davide Giacalone

E adesso, per la miseria, stiano a sentire, quelli della sinistra. Arroganti e presuntuosi, abbiate la dignità d’ammettere che noi li abbiamo indovinati e descritti per tempo, i mali che vi avrebbero condotto a rovina. Non prendetevi in giro per i fatti vostri, non raccontate che alle regionali v’è andata benino. Peggio era impossibile, perché avete tenuto (perdendo) solo dove resiste un blocco sociale e l’unica regione dove avete vinto, fuori da quel blocco, la dovete a un vostro avversario. Piantatela, quindi, e leggete, senza sbavazzare in giro che non v’abbassate a compulsare questo fogliaccio. Ricordate che il caviale rubacchiato (a voi danno il lompo) non ha il gusto sincero del salame guadagnato. Se ci fosse in giro il compagno Gramsci vi prenderebbe a calci, tanto siete fessi nel credere a quel che dite e incapaci nel leggere la realtà.

Il governo di centro destra, anche dopo la vittoria di Silvio Berlusconi e della Lega, deve fare i conti con problemi grossi, l’ultimo dei quali è stabilire come comportarsi con quelli cui, pur eletti e promossi da quella parte, piace tanto piacere a voi. I veri ostacoli sono rappresentati dagli effetti della crisi economica e dallo sfarinarsi di una macchina statale le cui istituzioni sono occupate da incompetenti o da rancorosi e vendicativi. Siccome nessuno crede che voi siate un’alternativa, capiterà, come è sempre capitato, nel nostro bipolarismo senza riforme istituzionali, che le tensioni del Paese si scaricheranno tutte sulla e dentro la maggioranza. Non gioitene, è la prova della vostra irrilevanza. Di quel che la maggioranza dovrebbe fare, di quel che non è stata capace di realizzare, ci siamo occupati molte volte, noi liberi, e torneremo a scriverne. Ma oggi siete voi, il caso tragico.

Conosco a memoria i vostri riflessi condizionati, potrei pubblicarli a puntate e in ordine alfabetico. Qui, di seguito, alcuni indizi. Il prossimo, fra voi, che osa dire una parola sui procedimenti penali che riguardano Berlusconi, prendetelo a padellate. Arricchisce quattro parassiti di procura e ammazza voi. Piuttosto, ponete alla maggioranza il problema della peggiore giustizia del mondo civile. Proponete, voi, riforme drastiche, sfidandoli su quel terreno. Non ci perderete un voto, e ci guadagnerete in dignità. A quelli, fra voi, che oseranno sostenere sia colpa del governo l’aumentare dei disoccupati, copriteli di pernacchie. E’ il nostro mercato del lavoro, è il nostro sistema produttivo ad avere bisogno di riforme, per potere meglio ripartire. Proponete una legislazione più elastica, che diminuisca le garanzie in capo agli occupati e aumenti il numero di quelli che lavorano, accrescendo la ricchezza di ciascuno e quella collettiva. Furono uomini della sinistra riformista a vedere questa strada, ma erano minoranza, fra voi reazionari.

Sputate in un occhio a quelli, fra voi, che non sanno far altro che chiedere maggiore spesa pubblica. Mostrategli il livello cui è giunta la pubblica istruzione e domandatevi se con più soldi si ottengono maggiori risultati o maggiori ostacoli alla selezione e alla meritocrazia. Mettetevi in testa che sono cose di sinistra, perché favoriscono la mobilità sociale. Ma che lo dico a fare, visto che siete il partito della baronie incistate e trinariciute? E il tamburo, datelo in testa a quelli fra voi che si credono tanto buoni e progressisti nell’andare a suonarlo assieme agli immigrati, proponendo la fratellanza e tenendoseli in casa per pulirvi il bagno e reggervi il nonno. I benestati, quali siete, non hanno problemi con gli immigrati, poveri cocchi, il guaio è tutto del popolo, che se li ciuccia nei quartieri periferici. E non crediate d’essere gli unici in grado di capire le cose ovvie: gli immigrati sono ricchezza e nessuno si sogna di allontanarli. Però i clandestini sì, i delinquenti anche. Continuate ad arricciare il naso, borghesucci fuori dalla realtà.

Oh, e perché non vi facciate illusioni, sappiate che la ricchezza di molti di voi è offensiva per gli altri, perché acquisita senza mai avere lavorato una sola ora in vita vostra. La ricchezza è una cosa bella, positiva, ammirevole. Ma solo se ottenuta in cambio di lavoro. I vostri dirigenti sono burocrati di lungo corso, rappresentanti di una struttura ottocentesca che pretendono di parlare alla modernità. Non c’è da stupirsi, se non li prendono sul serio. Solo che voi non lo capite, perché credete ancora di potere fare la morale agli altri, e lo pensate perché sconoscete l’etica. Fate anche ridere: ritenevate eroica dimostrazione d’amore fra i popoli farsi pagare il viaggio verso l’est comunista, in modo da barattare una calza di nylon con i favori sessuali di qualche Svetlana, mentre ora fate gli scandalizzati se Svetlana v’ha maledetto, ha preso l’aereo ed è venuta a mettere a maggior profitto quel che voi raccattavate con l’elemosina. Penosi.

E visto che ci siamo arrivati, al tema del comunismo, vi suggerisco di mettere la mordacchia a quei quattro ritardati che ora affermano sia necessario manifestare un qualche dissenso dal regime castrista. Noi lo facevano trenta anni fa, contro di voi e da voi derisi. Noi sappiamo che la libertà è un bene indivisibile, voi sapete solo mettervi al vento. Lasciate perdere, i conti dovete farli con voi stessi, che ancora avete la medesima dirigenza che prendeva, nelle proprie mani, soldi sporchi di sangue, rubati a popoli oppressi. Fateli, quei conti.

Vi paiono irricevibili, queste parole? Peggio per voi. Pensate di continuare a puntare sul crollo della maggioranza e sulla scomparsa di Berlusconi? Accendete un cero al santuario dei perdenti. Di voi, tutto sommato, m’importa poco. Il guaio è che occupate la sinistra, le impedite d’essere una forza di riformismo innovativo e propulsivo, immiserendoci tutti. Se non capite neanche la lezione di questi giorni, è segno che la cicogna vi portò per far felice chi approfitta della vostra stoltezza.

martedì 30 marzo 2010

Quattro lezioni. Davide Giacalone

Silvio Berlusconi e la Lega hanno vinto le elezioni regionali. La contabilità elettorale può essere complessa e noiosa, specie se condita dalle dichiarazioni di chi parla tanto e dice poco. Ve ne propongo, allora, una lettura diversa, più di lungo periodo e meno schiacciata sullo spoglio. Al nastro di partenza la situazione era questa: si votava in 13 regioni, di cui 2 amministrate dal centro destra e 11 dal centro sinistra, ma non è questo, ora, che m’interessa. Sempre alla partenza il risultato era scontato in 7 regioni: 2 a maggioranza di centro destra, la Lombardia e il Veneto, e 5 a maggioranza di centro sinistra, l’Emilia Romagna, la Toscana, l’Umbria, le Marche e la Basilicata. Questo secondo gruppo, e, in particolare, l’Emilia Romagna e la Toscana, rappresentano un vero e proprio blocco storico e sociale, con le amministrazioni di sinistra che sono parte stessa di un’economia largamente infiltrata dalla politica e di un tessuto civile nella cui trama si trovano, in posizione dominante, quelle strutture un tempo fiancheggiatrici del partito comunista.

Ebbene, in due regioni del sud, Campania e Calabria, gli elettori hanno ribaltato la maggioranza, consegnandola al centro destra. E’ un dato importante, che non dovrà essere dimenticato nella lettura politica che dei risultati deve essere fatta. Il centro destra, mai dimenticarlo, è oggi al governo certamente in virtù dell’accordo con la Lega, ma grazie ad una maggioranza dei voti raccolti al sud, dove l’influenza di quel partito è inesistente. Siccome saranno in molti a cercare di consolarsi, specie fra gli analisti e i commentatori che non ne azzeccano una neanche per sbaglio, sicché sosterranno che la vittoria leghista al nord sarà un problema per il Pdl, faccio osservare, appunto, che in una democrazia funzionante non è lo spostamento di voti fra alleati, ma il cambio di fronte degli elettori a far la differenza, e che, in ogni caso, il risultato di queste regioni depone in senso opposto. A queste due aggiungerei la Puglia, dove gli elettori restano, in maggioranza, a favore del centro destra. Prevengo l’obiezione: è vero, Adriana Poli Bortone non era candidata della destra, ma dell’Udc, ma è anche vero che si tratta di un politico nato e cresciuto nel Movimento Sociale, nonché ministro del primo governo Berlusconi. Difficile intrupparla fra gli oppositori del centro destra.

Restano 3 regioni (Lazio, Piemonte e Liguria) che non sono feudi elettorali di questo o di quello, che hanno, nel tempo, cambiato il colore politico delle loro amministrazioni e che, anche questa volta, al di là del risultato finale, si sono trovate in bilico, contendibili. Con due elementi che sarebbe sciocco non considerare: a. l’amministrazione uscente, quindi il vantaggio di avere amministrato un potere reale, era di sinistra; b. nel Lazio, addirittura, mancava, nella provincia più importante, la lista del Pdl. Alla fine, la Liguria è rimasta alla sinistra, il Piemonte ed il Lazio sono andati alla destra.

Messo in ordine il quadro, proviamo a darne una lettura politica. Quattro mi sembrano le lezioni che se ne devono trarre. 1. Sono aumentate le astensioni, che segnalano, prima di tutto, una crisi dell’offerta politica. Nel senso che chi aveva votato da una parte non ha cambiato fronte, ha smesso di andare alle urne. Dovranno tenerne conto, tutti. Inoltre, sono accontentati gli intelligentoni che attribuiscono la crescita delle astensioni all’esistenza delle liste bloccate, salvo il fatto che gli astenuti crescono proprio quando ci sono le preferenze (europee e regionali). Non intendo dire che l’attuale sistema elettorale nazionale sia buono, ma solo che molte critiche sono male indirizzate.

2. Il bipolarismo allarga le sue radici. Gli elettori sono molto più bipolari del sistema politico. Tanto è vero che, anche quando possono, non premiano le forze spurie. Semmai preferiscono quelle che esercitano un ruolo condizionante all’interno di una coalizione, fino al punto, nelle regionali, di potere prenderne la guida, ma, appunto, si tratta di una cosa assai diversa.

3. Il Partito Democratico è in coma, ridotto ad una media potenza regionale che campa sull’eredità sociale del Pci. Se, anziché incontrarsi solo fra di loro, confortandosi a vicenda con battute sciocche e immaginandosi combattenti di una guerra inesistente, provassero a leggere le cose che scriviamo, da anni, avrebbero almeno la consapevolezza che così come sono contano sempre di meno. La politica non consiste nel fare una battuta in una trasmissione televisiva, dove il conduttore ti alza la palla e quasi ti suggerisce le parole, occorre sapere costruire programmi, idee, proposte, e misurarle con il Paese reale. Non per imitarlo e aderirvi, ma per poterlo cambiare senza pensare di farlo tornare indietro. Invece si sono lasciati invadere da politiche giustizialiste e fascistoidi, si sono lasciati corrompere dal linguaggio dell’avversario e hanno fatto crescere fenomeni che, ora, sono coltelli piantati nel fianco: da Antonio Di Pietro a Niki Vendola.

4. Berlusconi vince anche da fermo. Ha fatto due settimane di campagna elettorale, partendo da una situazione compromessa e gettandosi alla difesa di apparati burocratici interni (la faccenda della lista laziale) sostanzialmente indifendibili. Eppure ha vinto, mentre nel resto d’Europa, per non parlare della Francia, le elezioni amministrative hanno punito i governi in carica, che pagano il costo della crisi economica. Ha vinto perché s’è offerto alla battaglia, nella quale ha contato la sua persona, la sua chiamata alla riscossa, la sua indomita volontà di continuare, ma non hanno contato le cose fatte dal governo, che, a due anni dall’insediamento, gode di una salute inferiore a quella di cui lui parla. Ha vinto, ma gli elettori hanno anche mandato due messaggi: sia non votando che votando Lega.

Anche questa tornata elettorale l’abbiamo alle spalle. E’ giunto il tempo di porre mano non alle mille cose da elencare, ma alle dieci riforme con cui cambiare l’Italia. I problemi che incombono sono pesanti, non si potrà scantonarli. Quando si tornerà a votare non basterà giovarsi di un avversario tramortito, si dovrà raccontare agli italiani che cosa la politica ha fatto e può fare per rendere migliore la vita di tutti e concreta la speranza di un futuro migliore.

sabato 27 marzo 2010

Andiamo a votare!

Perché lasciare che altri decidano per noi?
Vogliamo esprimere un voto di protesta? In ogni regione ci sarà pure un partito di opposizione che raccolga anche solo una parte della nostra insoddisfazione.
Non capiamo nulla di politica e non siamo abbastanza preparati per decidere? Chiediamo ad una persona fidata per chi voterebbe ed eventualmente facciamogli un piacere e votiamo il suo candidato o la sua parte politica.
Ricordiamoci che esiste la possibilità del voto disgiunto: possiamo votare il candidato presidente
di una coalizione ed un partito, con eventuale preferenza, di uno schieramento contrapposto.
Le donne abbiano il caraggio, se ce ne sono di meritevoli, di votare donne.
I politici sono tutti uguali e i partiti fanno schifo? Cerchiamo di trovare almeno un candidato, un'idea portata avanti da qualcuno, un'iniziativa, una promessa che ci convinca ad andare al seggio.
Se crediamo in un partito o in qualche candidato parliamone agli amici, ai vicini di casa, ai colleghi: dobbiamo avere il coraggio delle nostre idee e non vergognarci di esprimerle.
Non ha senso e non porta alcun beneficio imbrattare la scheda, annullarla o votare scheda bianca: tanto vale starsene a casa o andare al mare.
Al seggio fermiamoci a leggere i nomi dei candidati consiglieri regionali: può capitare che ci siano persone che conosciamo e stimiamo oppure personaggi poco graditi che non vorremmo venissero eletti.
E' il minimo sapere quali sono i candidati del partito che andremo a votare.
Visto che si parla tanto di mancata democrazia quando ci sono le liste bloccate, esprimiamo anche la preferenza per un candidato ( uno solo ) in queste elezioni.
Non desidero fare un appello per i candidati del Pdl e della Lega: sinceramente la mia raccomandazione è di andare a votare per poter dire di aver contribuito all'elezione di amministratori che governeranno o staranno all'opposizione, ma almeno saranno stati scelti da noi.
Buon voto!

mercoledì 24 marzo 2010

Controriforma sanitaria. Davide Giacalone

Barack Obama ha scoperto le mutue, mandando in brodo di giuggiole quello stesso mondo, cattolico e comunista, che, negli anni della solidarietà nazionale, le chiuse. Allora, nel 1978, nacque l’italiano Servizio Sanitario Nazionale, che, progressivamente peggiorato da riforme successive, da tempo affonda nella spartitocrazia, nel malcostume, nella spesa incontrollata e nei debiti. E se guardiamo a quel che accade oltre oceano, ne traiamo anche qualche considerazione utile in casa nostra: se avessero intercettato e pubblicato il coacervo d’incontri, scontri e negoziati, con i quali il governo ha spinto i parlamentari a votare e i parlamentari hanno spinto il governo a cambiare la legge, qui da noi una procura, sperduta o centrale, avrebbe chiesto l’arresto per tutti.

Chiariamo subito una cosa: il modello sanitario voluto da Obama è pieno di difetti e contraddizioni, provocherà conseguenze politiche, ma, se fosse possibile, lo prenderei volentieri e lo porterei qui in Italia, così si chiuderebbe il baraccone regionalizzato della sanità pubblica. Perché, al di là delle chiacchiere disinformate, quella statunitense resta rigorosamente privata, salvo il fatto che lo Stato mette soldi per aiutare tutti ad avere delle assicurazioni. Ma saranno sempre le assicurazioni, quindi soggetti privati, ad amministrare la spesa sanitaria, il che eviterà il folcloristico rubacchiare che consente, da noi, di comperare a prezzi diversi lo stesso identico farmaco, non solo da regione a regione, ma da asl ad asl, all’interno della medesima città. Sarebbe sufficiente, da noi, avere una contabilità centralizzata e trasparente, per accorgersi, in tempo reale, di chi fa la cresta e incentiva il mercato dei cappotti, delle puttane e delle mazzette. Non è difficile, solo che è sgradevole per i tanti che ne campano.

Il ruolo delle assicurazioni è anche quello d’indirizzare i propri clienti verso presidi sanitari dove si spende meno e si opera meglio, perché ogni volta che uno ci lascia la pelle tocca pagare il premio assicurativo, e se le ossa te le riattaccano storte, tocca pagargli la fisioterapia a vita. Da noi, invece, la sanità pubblica serve a piazzare i politici trombati, gli arraffoni dinamici e i primari ignoranti, tutti dediti alla sistemazione di sé medesimi e all’accrescimento del debito, con il quale si finanziano spese inutili che, poi, generano gratitudini illegali. Dopo di che si lascia in trincea un esercito di medici che fa alla grande il suo mestiere, che è altamente qualificato, che lavora in condizioni impossibili, senza neanche i letti dove sdraiare i malati. E a quelli diciamo che se non si trovano un politicuzzo amico passeranno il resto dei loro giorni dove si trovano, nella condizione in cui si trovano.

Sostengono i miei amici liberali che l’assicurazione obbligatoria è un’intromissione dello Stato nelle scelte individuali. Hanno ragione, in teoria (a proposito, negli Usa su 8 milioni di bambini non assicurati la grande maggioranza sono bianchi, poi ci sono gli ispanici e una minoranza sono neri, tanto per sfatare i luoghi comuni), ma rispetto alla situazione in cui ci troviamo quello sarebbe una specie di paradiso del mercato. Con l’ulteriore dato positivo che sapendo di pagare ciascuno pretenderebbe di avere, mentre qui si consente che la gran parte dei quattrini defluisca verso una burocrazia politicizzata e dannosa.

Infine, per i nostrani cultori del voto di scambio, avete idea di quel che è successo nei giorni concitati in cui Obama si è giocato la faccia? Si sono mosse le lobbies, naturalmente contrapposte, perché diversi sono gli interessi in campo, si sono moltiplicati gli incontri in cui “tu mi chiedi questo, ma io devo avere quello”, e state sicuri che qualche favore personale è stato fatto e promesso, così come qualche finanziamento particolare per questo o quel collegio elettorale. Solo che l’insieme si chiama “democrazia”, e si basa sul fatto che il giudizio sugli eletti lo danno gli elettori, non i procuratori, il che crea un sistema assai più severo del nostro, che è, al tempo stesso, manettaro e inconcludente. Lì ci si dimette anche se lo scandalo non è costituito da un reato, qui si resta incollati, specie se c’è il reato.

Visto l’entusiasmo caciarone con cui si seguono le riforme statunitensi, visti i deficit sanitari regionali, e vista l’inchiesta della guardia di Finanza sugli sprechi nell’acquisto dei farmaci, proporrei una bella controriforma sanitaria, ripescando quel che c’era di buono (molto) nel nostro sistema precedente, compreso il fatto che le mutue lasciarono un patrimonio immenso, dove s’è scavato un immenso buco.

martedì 23 marzo 2010

Che fine ha fatto la superiorità antropologica della sinistra? Annalena Benini

I berlusconiani si sono molto imbelliti. Brave persone che hanno manifestato piene di speranza: “Le facce erano pulite, allegre, serene”, ha scritto Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica sulla Repubblica (intitolato: “Una bella piazza un pessimo discorso”). “Bella gente un po’ frastornata”, non più malvagi imprenditori, leghisti deliranti, ex fascisti violenti, evasori fiscali, bruti illetterati, avidi commercianti, ignoranti plagiati dalla tivù commerciale, cafoni arricchiti, troiette ambiziose, figuranti incravattati, giovanotti incazzosi, signore plastificate, crudeli faccendieri, cattivoni che abbandonano i cani in autostrada, trucidi che usano lo stuzzicadenti a tavola e buttano le cartacce per terra.

La superiorità antropologica della sinistra teorizzata da Michele Serra è superata e allora forse la difesa della razza non è più necessaria: gli elettori di centrodestra sono diventate persone in fondo normali, “come ce ne sono in tutte le piazze democratiche di questo mondo”, ha scritto Scalfari. E sull’Unità di ieri Francesco Piccolo ha confermato, dopo essere andato di persona in piazza San Giovanni a controllare: “Ho osservato a lungo chi c’era. A parte pochi fascisti, quelli veri, che se non li vedi dal vivo non ci credi che esistono ancora e sono così, per il resto la piazza era piena di brava gente arrivata da molte parti d’Italia, pochi giovani e tanti anziani (come del resto nelle piazze di sinistra)”. Dunque il ribrezzo sociale è finito (anche se “ho molti amici gay, sono deliziosi” è stato sostituito da “Conosco persone di destra davvero carine”). Un po’ di anni fa, nel 2001, Umberto Eco scriveva sulla Repubblica che non aveva senso fare appello agli elettori del Polo: “Che senso ha parlare a questi elettori di off shore, quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter? Che senso ha parlare a questi elettori dell’Economist, quando ignorano anche il titolo di molti giornali italiani e non sanno di che tendenza siano, e salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina?”.

Qualcosa è cambiato da allora, nonostante l’immutabile, sincero disprezzo di Lidia Ravera (“balle, anche uno di destra che non sia lobotomizzato se ne accorge”, è stato il suo commento al comizio di Berlusconi): i manifestanti, i simpatizzanti, gli elettori berlusconiani si sono guadagnati la dignità di essere umano, il rispetto estetico e morale da parte degli avversari, a volte anche la simpatia. “Ho perfino applaudito una volta, quando La Russa ha detto che se applaudivamo aiutavamo la Gelmini a partorire oggi; se serve per aiutare, ho pensato”, ha scritto Francesco Piccolo. E’ un successo storico da incassare con orgoglio. Berlusconi era il mostro e il suo popolo coincideva mostruosamente con lui. Adesso Berlusconi è ancora mostruoso, ma il suo popolo è meglio, e soffiarglielo non sarebbe male. (il Foglio)

La partita, a sinistra. Davide Giacalone

Esattamente fra una settimana si ragionerà sulla contabilità elettorale. Immediatamente dopo, in ciascun schieramento, si avvierà il regolamento dei conti interni. Anche dovessimo distrarci, camperemo lo stesso. Anche dovessimo appassionarci, non ci saranno rivoluzioni. Il sistema è bloccato, perché il centro destra che governa, al netto delle sue divisioni interne, è assediato non dall’opposizione parlamentare, ma dalle istituzioni che gli si oppongono, e che, per farlo, non esitano a scassare la cornice costituzionale, mentre il centro sinistra ha perso capacità d’iniziativa politica, s’è spento intellettualmente, perché prigioniero del passato. La partita del cambiamento, della rottura e della ripartenza dovrebbe giocarsi in gran parte a sinistra, salvo il fatto che colà si sono addensati i detriti di una politica perdente e moralmente persa. Riflettano, gli uomini della sinistra.

Mi rivolgo a loro, anche se credo siano, oramai, una compagnia di sopravvissuti, pronti a tutto pur di non fare i conti con se stessi e con la propria storia. Ma, insomma, avete ancora gli occhi per vedere? Avete ragionato sulla vostra manifestazione di Piazza del Popolo, e sul popolo confluito a San Giovanni? Come fare a non capire, a non vedere il pericolo? L’idea di cancellare Silvio Berlusconi, di espellerlo perché estraneo al mondo in cui s’è formata la classe politica, di estrometterlo non rinunciando a nessuna arma, in primis quella giudiziaria, è una totale follia. Siccome so che non siete in grado di capire, proverò a scuotervi: se anche ci fosse la prova lampante della colpevolezza penale di Berlusconi, per il più infamante dei reati (che lascio immaginare alla vostra fantasia questurina), se anche ci fosse la più dura delle condanne, comunque sarebbe interesse della democrazia salvarlo dalla sorte giudiziaria per sconfiggerlo sul piano politico. Vi fa abbastanza orrore, questa affermazione? Ha un senso perché avete costruito quindici anni d’orribili bugie, speculazioni e miserie.

La manifestazione di sabato scorso ha portato in piazza un popolo vero, che ha un suo leader, determinato a non indietreggiare. Si tratta di un fenomeno profondo, di un prodotto politico solido, di un consenso reale, che non indebolirete facendo gli scongiuri e le boccacce. Ritirate quei quattro fessacchiotti che si credono pensosi, nel suggerirgli di fare “un passo indietro”. Signori, compagnucci cari, voi avete alle spalle una storia raccapricciante, non ne avete indovinata una, avete parteggiato per regimi sterminatori di vita e libertà, prendendone i soldi, e siete sempre lì, impancati a dar lezioni. Quindi, per cortesia, evitate la spocchia stupida e l’appello alle regole, dato che l’unica da voi conosciuta è quella della forza che, dalla parte sbagliata, vi ha fatto sopravvivere. E veniamo alla sostanza.

Quell’enorme forza democratica, che si raccoglie attorno a Berlusconi, gira a vuoto da troppo tempo. Lo so, voi dite che è tutta colpa di Berlusconi stesso, che pensa solo agli affari propri, ma è fin troppo evidente che se non avesse provveduto a salvarsi oggi, semplicemente, non ci sarebbe più. Avreste coronato il vostro sogno, l’avreste eliminato. E avreste commesso l’ennesimo errore, catastrofico, perché quel leader non è il produttore del Paese, ma il suo prodotto. Il fatto è che ruotando tutto attorno a lui, voi compresi, le energie s’esauriscono nel negarlo o nell’affermarlo, lasciando il resto immutato o, per essere più precisi, abbandonandolo alla rovina. Se continuerà il gran rombare del motore, senza che si trovi il modo d’innestare la marcia e avviare un cammino, cosa credete che accada, che il vostro odiato nemico perda? No, sarà la democrazia a uscirne mutilata, le istituzioni terremotate. Guardate le vostre piazze, guardate quelle che lui raduna, valutate i voti, non ubriacatevi della vostra stessa propaganda. Fate due conti, incoscienti.

Ho letto le opinioni espresse da Enrico Letta. Parte lamentando il fatto che il governo pospone al dopo crisi l’epoca delle riforme. Noi, qui, quella critica l’abbiamo fatta mille volte. Poi dice che si deve tornare indietro rispetto alla dissennata riforma del titolo quinto della Costituzione (voluto, nel 2001, dalla sinistra). Giustissimo, peccato che già era stata aggiustata, quella riforma scassastato, salvo che la sinistra affondò il rimedio. Ma cito Letta perché ha ragione, non per recriminare: si deve trovare il luogo della collaborazione, fra riformisti e ragionevoli d’ambo le parti. Giusto. Ma tocca all’opposizione togliere dal tavolo le armi che servono a eliminare l’interlocutore. Tocca alla sinistra rompere l’alleanza con il giustizialismo fascistoide. Semplicemente perché tocca alla sinistra proporsi quale credibile e affidabile alternativa, all’interno di un sistema di regole condivise. Ciò non toglie nulla ai difetti e alle mancanze del centro destra, che qui scandagliano continuamente, ma c’è bisogno di una sinistra che produca idee e politica, non di un serbatoio ove si getta un’accozzaglia di torti, tenuti assieme dal rancore.

lunedì 22 marzo 2010

Meno male che Silvio c'è

Per fortuna esiste Silvio Berlusconi.
Proviamo a pensare all'Italia senza Berlusconi: certo, una parte degli italiani sarebbe felicissima, ma dovrebbe pentirsene presto.
Non è un esercizio privo di valore quello di prefigurarsi il nostro Paese senza Silvio e il Pdl: chi governerebbe oggi? quali e quanti partiti esisterebbero? l'Italia che ruolo avrebbe nel contesto europeo e come sarebbero le nostre finanze? come staremmo noi italiani? più ricchi o più poveri? ottimisti o pessimisti? che classe politica avremmo?

Per chi era adulto nella prima repubblica non dovrebbe essere troppo difficile ricordare l'immobilismo e l'inconcludenza della politica, il continuo cambiare dei governi scelti dalle segreterie di partito, il voto dato con delega in bianco perché le alleanze si facevano dopo, i lavori pubblici bloccati, le infrastrutture nemmeno programmate, scuola allo sbando, debito pubblico alle stelle, corruzione dilagante...
Molti problemi non sono ancora completamente risolti perché il lascito è stato impegnativo, ma sono certo che nelle mani di un partito comunista al governo con Occhetto, si sarebbe scatenata la caccia a quelli che comunisti non erano stati.
Non ci sarebbe stata cura della res pubblica, ma corsa al potere fine a se stesso, accaparramento di privilegi e stretto controllo delle istituzioni: nelle regioni "rosse" la sinistra non molla il potere da più di mezzo secolo...

Allora ringraziamo Silvio che ha capito prima dei politici di lungo corso il pericolo rosso e ci ha salvati, lui sì, da un regime illiberale ed oppressivo.
Dovrebbero ricordarselo soprattutto coloro che hanno la tentazione di astenersi dal voto: certo le agognate riforme ancora languono, ma dobbiamo rispondere all'appello di chi opera per il nostro bene.
Vorrei rammentare che Berlusconi, checché dicano i nostri avversari, si è sottoposto al giudizio del voto per fermare una macchina da guerra che gioiosa si apprestava a governarci, quando avrebbe potuto continuare a fare l'imprenditore, godersi i suoi miliardi, evitare decine di processi e, semmai, andare a vivere all'estero o fare come tutti gli imprenditori italiani intrallazzati con il potere: scendere a compromessi.

Mi fido di Berlusconi, credo a quello che dice, spero viva a lungo e gli sarò sempre riconoscente.
(Amen)

venerdì 19 marzo 2010

Travaglio può vincere il premio per il titolo "più ridicolo del mondo". Lodovico Festa

“’I pagamenti dal benzinaio e poi vestiti e scarpe di lusso’ ecco il j’accuse di Giampi”.
Dice un titolo della Repubblica (19 marzo)
In quel “scarpe di lusso” che non troverete in altri giornali, c’è tutta la carogneria antidalemiana di quelli di Largo Fochetti.

“Liste ‘inquinate’, a rischio quattro regioni”.
Dice il sommario di un articolo della Repubblica (19 marzo)
Se fossi una merdaccia giustizialista, adesso, mi mtterei a berciare sul fatto che tutte e quattro le regioni citate (Campania, Basilicata, Puglia e Calabria) sono governate dal centrosinistra.

“Sedici anni di regime”.
Dice Marco Travaglio sul Fatto (19 marzo)
Travaglio si è buttato nelle paraolimpiadi per il titolo del “più ridicolo del mondo”, Berlusconi viene accusato neanche di tentato regime, ma proprio regime per sedici anni, di cui metà sono sotto governi del centrosinistra, e tutti quanti sono fitti di processi, intercettazioni, inchieste a manetta.

“L’arresto dell’assessore Frisullo non è giustizia a orologeria”.
Dice Luigi de Magistris al Corriere della Sera (19 marzo)
Non orologeria, bensì un vero e proprio cronometro. (l'Occidentale)

C'è chi telefona e chi ruba. Alessandro Sallusti

Anche se lentamente, alcuni tasselli stanno tornando al loro posto naturale. La fuga in avanti che la magistratura ha voluto innescare con l’inchiesta di Trani (le telefonate tra Berlusconi, Minzolini e il commissario dell’Agcom, Carlo Innocenzi) è già arrivata al capolinea. È talmente evidente che modalità e impianto accusatorio non reggevano che persino il Csm ha dovuto innescare una clamorosa retromarcia. Il soviet dei giudici ha infatti annullato l’inchiesta sugli ispettori mandati da Alfano per mettere un po’ d’ordine in una procura che sembra finita fuori controllo. Ammettendo così che non solo il ministro non ha commesso nessun abuso, ma che alle toghe conviene non andare oltre nell’accertare la verità dei fatti. E come era ovvio, è stato anche deciso che il fascicolo con le intercettazioni di Berlusconi viene tolto ai pm di Trani e consegnato al tribunale dei ministri di Roma, l’unico che ha competenza a valutare le carte in questione. In Puglia, probabilmente, resterà solo l’inchiesta sul direttore del Tg1, Augusto Minzolini, colpevole di aver fatto una telefonata pochi minuti dopo essere stato interrogato come testimone dai pm.
Insomma, aveva ragione Alfano quando parlava di «gravissime patologie», l’inchiesta, dal punto di vista giudiziario, è una bolla di sapone che si sta sgonfiando giorno dopo giorno. A differenza di altre che riguardano esponenti di primo piano della sinistra. A Bari è stato infatti arrestato Sandro Frisullo, Pd, ex numero due della giunta regionale di Vendola. Qui non si tratta di parole in libertà, ma di fatti: associazione a delinquere e corruzione nell’ambito della sanità pugliese. Il senatore Pd, Nicola Latorre, dice che la tempistica è sospetta, a così pochi giorni dalle elezioni. Per la prima volta, da quelle parti, dubitare della magistratura non è un attentato alla Costituzione. Speriamo che da oggi il principio valga sempre e per tutti. Non sappiamo se Latorre ha ragione oppure no, ma una cosa è certa. C’è chi telefona e c’è chi ruba. E i presunti ladri, questa volta, stanno da una precisa parte politica che non è quella del centrodestra. Chissà se Santoro (al suo rientro) e Gad Lerner ci faranno sopra una delle prossime puntate delle loro democratiche ed equilibrate trasmissioni. (il Giornale)

mercoledì 17 marzo 2010

Se gli italiani rinunciano al dentista, Di Pietro rinuncia ai dantisti. Lodovico Festa

“Non è assolutamente detto che Generazione Italia nasca con l’obiettivo palese o inconsapevole di dissolvere il Pdl”.
Dice Alessandro Campi sul Riformista (17 marzo) Assolutamente.

“Appena uscito dalla Procura di Trani, dov’era stato sentito come testimone, ha pensato bene di fare una telefonata per spiattellare il contenuto della telefonata segregata”.
Dice Marco Travaglio sul Fatto (17 marzo) Travaglio che per attaccare Minzolini esalta la sacralità del segreto istruttorio è come quei castorini che per impedire che i cacciatori ghiotti delle loro palle per farne profumo, se le tagliavano da soli.

“Assalto portato alle istituzioni da un plutocrate”.
Dice Edmondo Berselli sulla Repubblica (17 marzo) Berselli è uno che quando va a vedere Ombre rosse pensa che sia la diligenza a inseguire un branco di pellerossa per distruggerli.

“Se Berlusconi aveva bisogno di Gerovital questa inchiesta glielo fornisce a piene mani”.
Dice Pierferdinando Casini alla Stampa (17 marzo) Casini è uno che passando davanti a San Sebastiano che veniva martoriato dai suoi carnefici, avrebbe detto: ma guarda quell’esibizionista, si fa trattare come una spilliera per conquistare l’attenzione dei pittori rinascimentali.

“Due italiani su tre rinunciano al dentista”.
Dice un titolo della Repubblica (17 marzo) Da come parla, invece, pare sicuro che Di Pietro abbia rinunciato a qualsiasi rapporto con i dantisti. (l'Occidentale)

lunedì 15 marzo 2010

Quelle inutili nostalgie. Angelo Panebianco

Di fronte al marasma in cui è quotidianamente immersa la nostra vita pubblica attuale è comprensibile che tanti ripensino con nostalgia alla Prima Repubblica, trasfigurata nel ricordo e idealizzata come un’oasi di ordine politico e di pace. Un «luogo» ove erano inimmaginabili la volgarità dell’oggi, e ove (come si sente continuamente dire) i politici erano dei veri professionisti, misurati nelle parole e capaci di gestire con competenza situazioni difficili. Il contrario dello spettacolo di disordine, dilettantismo e sguaiataggine cui assistiamo. La nostalgia per il passato è uno dei più naturali e ricorrenti fra i sentimenti degli uomini. C’è gente che ricorda con nostalgia persino le guerre e altre catastrofi (magari perché, all’epoca, possedeva la cosa che tutti rimpiangono quando non c’è più: la gioventù). È accaduto anche in Russia: spaventati dal disordine successivo alla caduta dell’Urss, tanti russi si scoprirono nostalgici dei «bei tempi» del potere totalitario comunista. Dunque, non c’è nulla di strano nel fatto che tanti italiani oggi ricordino con nostalgia la Prima Repubblica. Ma ne vale la pena?

La Prima Repubblica non era affatto un luogo ameno, o un’irreprensibile democrazia. Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora) nel quale i tentacoli dei partiti si estendevano ovunque. La sua storia va divisa in due parti. Nella prima parte, l’Italia fu immersa in una guerra civile virtuale: da un lato i comunisti, di stretta osservanza sovietica, dall’altro lato i democristiani e i loro alleati. La Falce e il Martello e lo Scudo Crociato, che campeggiavano sulle loro bandiere, erano simboli di guerra, di armate al servizio di visioni della società e della politica mortalmente nemiche. L’inamovibilità della Dc, l'assenza di alternanza al governo, non erano casuali. Erano il prodotto necessario della natura degli attori politici. Se vogliamo capire, guardando allo scontro di oggi fra berlusconiani e antiberlusconiani, dove abbiamo appreso la sciagurata abitudine di trattare la politica come conflitto fra Bene e Male è a quell’epoca che dobbiamo rivolgerci. Nella seconda fase della Prima Repubblica, le contrapposizioni ideologiche si stemperarono un po', i nemici ideologici impararono a coesistere ma ciò non migliorò la condizione della nostra vita pubblica. Per certi versi, la peggiorò. Si aprì infatti l’epoca che Alberto Ronchey per primo battezzò della «lottizzazione», una selvaggia e continua spartizione delle spoglie pubbliche fra fameliche macchine partitiche.

Non esisteva una reale separazione dei poteri. Finché i partiti non cominciarono a indebolirsi (più o meno, dalla Presidenza Pertini in poi), ad esempio, i Presidenti della Repubblica erano comandati a bacchetta dalle segreterie di partito. La costituzione formale era una cosa ma ciò che contava era la costituzione materiale: le vere regole del gioco avevano ben poca attinenza con le regole formali (costituzionali). La Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità molti disastri. Ne cito quattro. L'assenza di alternanza andava a braccetto, nella Prima Repubblica, con un'endemica instabilità governativa. La conseguenza era l'incapacità della politica di concepire e attuare piani a medio termine nei suoi vari settori di competenza. Era costretta ad occuparsi solo del consenso immediato. Il dissesto idrogeologico, il decadimento di tante infrastrutture, la carenza di ospedali, carceri o scuole, da cui siamo tuttora afflitti, hanno la loro radice nell’incapacità della Prima Repubblica di attuare politiche di respiro nei vari ambiti. La pubblica amministrazione, oltre che come ricettacolo di clientele, fu utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, soprattutto dal Mezzogiorno, senza riguardo per i suoi problemi di funzionalità. La sua celebre inefficienza, che tuttora ci opprime, è un regalo della Prima Repubblica. Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.

Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele, dopo il '68 diventò (come, in seguito, accadrà anche alla Rai) la principale sede di uno strisciante «compromesso storico»: il clientelismo dei democristiani si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex sessantottini diventati insegnanti. Chi vuole capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola è al quarantennio della Prima Repubblica che deve guardare. Infine, la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità un colossale debito pubblico (una colpa più grave, per i suoi effetti, del finanziamento illecito dei partiti). Si consentì a tanti italiani di vivere al di sopra dei loro mezzi scaricandone i costi sulle generazioni successive. Anche i figli dei nostri figli continueranno, incolpevoli, a pagare quel conto. Ma, si dice, i partiti erano fonte di «professionalità » (sottintendendo: altro che i dilettanti attuali). Questo è vero ma la professionalità dei politici dell'epoca non impedì nessuno dei disastri che ho sopra ricordato. Ma, si dice ancora, c'era più decoro, meno volgarità imperante. Anche questo è vero, ma si dimentica qual era la causa del minor tasso di volgarità.

La società era meno libera, condizionata da modelli di comportamento assai più rigidi degli attuali. La volgarità di oggi è, per così dire, il lato oscuro della libertà. Siamo più liberi, e ciascuno fa uso di quella libertà come sa e come è portato a fare. C'è poi il capitolo magistratura (l'unico rispetto al quale persino un detrattore della Prima Repubblica, quale è chi scrive, ha qualche tentennamento). Siamo passati da una magistratura dipendente dal potere politico (almeno nella prima fase della Prima Repubblica) all’anarchia giudiziaria attuale, dove ci sono magistrati che vorrebbero avere diritto di vita e di morte sui governi (si tratti del governo Prodi o del governo Berlusconi) e assistiamo al fenomeno dei raider giudiziari, procuratori che costruiscono inchieste spettacolari (spesso destinate a finire in nulla) per poi costruirci sopra carriere politiche. Non siamo riusciti a trovare un accettabile punto di equilibrio fra la dipendenza di ieri e l'anarchia di oggi. La nostalgia è un sentimento rispettabile ma, come spiegano gli psicologi, non è sano. È nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi. Non serve evocare un’età dell'oro che non è mai esistita. (Corriere della Sera)

domenica 14 marzo 2010

Piazza sprecata. Davide Giacalone

Dalla piazza rossa alla piazza viola, da quelle stracolme a quella modello comizio, dove la cifra da loro proclamata (200 mila) che non si sarebbe sfiorata neanche se ciascuno avesse chiamato altri tre parenti. Vediamo i lati positivi, che ci sono, e segnaliamo i negativi, che sono gravi e impediscono alla sinistra di presentarsi come seria alternativa di governo. In generale, potremmo così sintetizzare la condizione politica nella quale viviamo: la contrapposizione asseconda i costumi della democrazia, ma l’eclissi dell’uomo ragionevole ne mette in evidenza la sterilità. Per una lunga stagione la sinistra politica è vissuta sotto il ricatto di quella giudiziaria, ora sconta il peso esagerato di quella televisiva, populista, forcaiola ed estremista. Era più viola il palco della gente radunata. Che ha in comune, una persona ragionevole e di sinistra, moderata nei toni e riformista nei contenuti, con questa roba?
I lati positivi, della manifestazione, sono due. Il primo è che, a dispetto delle scemenze scritte sui manifesti e dette dal palco, la libertà non è in discussione. Si può dissentire, anche duramente, ci si può opporre e anche contrapporre, ma sostenere che manca la libertà è, al tempo stesso, una fesseria e un insulto. Un insulto a quanti si battono per conquistarla, a cominciare dai dissidenti cubani che muoiono di fame, per protesta, mentre nella piazza romana si sventola l’effige di Che Guevara. La cosa grottesca è che sarebbe attaccata, la libertà, nel momento in cui a essere cancellata dalla scheda è una lista della maggioranza, e sarebbe attaccato, il diritto, da un decreto che il Quirinale ha voluto far sapere di avere contrattato (non mi piace chi dice: Napolitano ha firmato, non mi piace ricordare quel che altri Presidenti hanno firmato, ma è dal colle più alto che hanno fatto sapere di averlo praticamente scritto, quel decreto).
Il secondo lato positivo è che, nonostante la ricomparsa nominale della sinistra extraparlamentare che, in verità, è solo la sinistra rimasta fuori dal Parlamento, e nonostante le bandiere rosse, non si reclama più l’avvento del comunismo. E’ un passo avanti. In ritardo di un secolo, ma pur sempre un passo avanti.
Sull’altro piatto della bilancia, però, c’è un estremismo inconcludente. Se i signori compagni avranno la compiacenza di rileggere, fra qualche settimana, le cose scritte sulla sceneggiata delle liste, scopriranno che quelle più dure, nel merito, le abbiamo scritte noi. Loro sparano petardi, ma non sanno neanche quale tesi sostenere.
Rinuncio a citare Antonio Di Pietro che, come da copione, se l’è presa più con i presenti che con gli avversari. Ci pensino, anche a questo, i compagni. Mi hanno colpito le parole di Pier Luigi Bersani. Dopo avere dedicato i quattro quinti del suo discorso a Berlusconi, ha detto di non volere parlare di Berlusconi. E passi, l’oratoria non è il suo forte. Ha fatto un breve elenco di “cose concrete”. Sono stato attento, perché quando mise a punto la “lenzuolata”, da ministro, ne scrissi positivamente, salvo misurarne, successivamente, il progressivo fallimento. Ero, insomma, pronto a fare la stessa cosa, perché la politica non può essere solo l’agitazione delle tifoserie. Ma che ha detto, di concreto? A me è sfuggito. Chiede che ci siano una scuola e una sanità “universalista e a responsabilità pubblica”. Perché, come sono quelle che abbiamo? Io dico che costano troppo e funzionano poco, ma lui reclama quel che c’è già.
Ha detto che si devono “cancellare i tagli alla spesa pubblica”. Dove li ha visti? Mi piacerebbe scendessero, i numeri della spesa pubblica corrente, ma non succede. E, poi, non erano loro a vantarsi (a sproposito) di averla ridotta, quando governava Prodi? Dice che si deve fare “un grande piano di piccoli lavori pubblici, affidati ai comuni”. Un inferno, la premessa di uno spreco, senza nemmeno la promessa di grandi infrastrutture. Reclama “crediti d’imposta automatici per il Mezzogiorno”, ma forse farebbe meglio a sentire Vincenzo De Luca (quello che, secondo il loro prezioso e sgrammaticato alleato neanche dovrebbe candidarsi), il quale potrebbe spiegare l’utilità, da quelle parti, di legge e ordine. Tutto qui. Ma questo è il programma, a voler essere generosi, del candidato sindaco in un paesello sperduto, non del capo dell’opposizione parlamentare.
Conosco a memoria l’obiezione, detta con un po’ di bava alla bocca: perché, dall’altra parte? Dall’altra parte governano, c’è una bella differenza. La maggioranza dei voti, per il Parlamento, l’hanno già presa, e l’hanno confermata alle europee. Ciò non li esime dal parlare di cose serie e concrete, come qui ricordiamo quasi ogni giorno, ma è l’opposizione che, per vincere, deve dire che cosa, di diverso, vorrebbe. Invece si sono condannati a radunare una piazza e consacrarla al loro avversario, facendone ancora l’unico protagonista. Sarei stato, al posto loro, meno generoso.

sabato 13 marzo 2010

Il voto non voto. Davide Giacalone

Si dice, adesso, che il vero pericolo, riguardo alle elezioni amministrative, sia l’astensionismo. Il problema, quindi, consiste nel richiamare gli elettori alle urne. Com’era facile prevedere, e qui previsto, lo strumento non poteva che essere la drammatizzazione dello scontro, con un Berlusconi che guida la prima linea e personalizza l’esito. Quel che non è scontato, invece, è il modo in cui si debba leggere l’astensione dal voto, che sia reale o solo paventata. In quel dato, credo, vi sia molto più significato che nel resto della distribuzione dei voti.

Ci sono tre tipi d’astensione, che hanno tre significati diversi. Da noi si mette tutto nello stesso calderone perché la nostra democrazia è giovane ed ha alle spalle la dittatura, sicché il voto è (era?) vissuto come affermazione di libertà e responsabilità, quindi il tasso dei votanti è letto come rilevatore della fiducia nel sistema. Ma è un modo rozzo e superficiale di vedere le cose.

C’è un primo tipo d’astensione, di chi non s’interessa o non ritiene che il voto valga la fatica d’andarlo ad esprimere. Questo genere di rinuncia non nuoce alla democrazia, anzi, è tipico delle più solide. Negli Usa votano in pochi, mentre gli altri non ritengono che la vittoria di Tizio o Caio cambi poi molto, nella propria vita. Se dovessimo scegliere in base alla convenienza, rispetto ai programmi dei candidati sindaci o governatori, potremmo starcene tutti a casa, perché ci vuole un maniacale estimatore della materia per conoscerne i contenuti e, eventualmente, le differenze. Poi c’è l’astensione di chi pensa che sono tutti uguali e tutti fanno schifo. Anche questa è fisiologica, perché connaturata al qualunquismo e coniugata con la rivincita degli esclusi e dei perdenti. In questo secondo caso, però, se la percentuale cresce troppo equivale ad un allarme: il sistema politico ha perso contatto con la realtà sociale.

Poi c’è il terzo tipo d’astensione, ed è quella che, dal 1996, determina le nostre sorti elettorali: quella di chi è schierato da una parte, ma, qui ed ora, non condivide quel che fanno i propri paladini, sicché li punisce non votando. E’ molto diversa dalle altre due, perché è frutto di una scelta politica. I sondaggisti lo dicono anche oggi: chi s’è disamorato per una parte non va a votare per l’altra. Noi lo sappiamo, per esperienza: la sinistra ha perso due volte, nelle elezioni nazionali, perché abbandonata dai propri elettori, e al centro destra è già capitato una volta. Il significato, pessimo, di questa astensione è che sono in tanti a non sentirsi liberi di scegliere, a non credere che l’alternativa consista nel far governare l’opposizione di ieri. I leaders politici lo sanno e, difatti, si rivolgono ciascuno alla propria parte, al proprio presunto popolo, sperando di portare tutte le truppe in battaglia, ma, con questo, rinunciando a far breccia nell’elettorato altrui. Ecco perché, da noi, le campagne elettorali estremizzano lo scontro, anziché selezionare quelli che convergono sui contenuti, per contendersi l’elettorato oscillante.

Il caos delle liste, dicono i sondaggi, ha fatto crescere i propensi alla rinuncia. Lo capisco. Perché chi ha visto i pasticci e gli scontri interni al centro destra non s’accontenta di una versione che dice: non abbiamo commesso alcun errore, è tutta colpa degli altri. E perché chi guarda con simpatia al centro sinistra, sperando che sia la forza capace di assicurare il rispetto delle regole, rabbrividisce nel vedere la cieca faziosità con cui si occultano i colpi di mano giudiziari, in aule dove si usano due pesi e varie dismisure. E capisco gli uni e gli altri, che quando vedono un giudice con il ritratto di Che Guevara nella stanza si attendono che a quel genere di persone sia impedito stare nei tribunali, perché non si può amministrare giustizia elevando a mito chi non credeva né nella democrazia né nella giustizia (anzi, avrei chiesto a quel giudice di dirci chi è il Che, con il rischio di sentirsi rispondere che trattasi di un pacifista cubano, anziché d’un sanguinario argentino). Se l’ufficio elettorale di Milano accetta un ricorso non presentabile, se quello di Roma impedisce il deposito di una lista, senza nulla togliere ai torti ed alle ragioni politiche, la gente civile s’attende che lo si dica, senza posporre la verità istituzionale alla faziosità.

Invece, non solo non s’è visto quel che si sarebbe dovuto, ma Pier Lugi Bersani è giunto a dire: rinunciamo tutti ai ricorsi. Sì, vabbe’, e chiudiamo anche i tribunali. E dove decidiamo le controversie, giù in cortile? O in piazza, dove ciascuno cercherà di dimostrare che l’altro è così terribilmente brutto da rendere necessario andare a votare, anche per quel che non piace?

L’astensionismo non ha, in sé, nulla di terribile o devastante. La cosa triste e che una certa quota dell’elettorato, talora maggiormente di destra e talaltra maggiormente di sinistra, lo vive come unica alternativa al ripersi del sempre uguale, come immobilità destinata a contrastare l’immobilismo. Un’illusione, com’è evidente, ma non necessariamente diversa da altre.

Al Tg1 club delle tessere. Di sinistra. Alessandro M. Caprettini

Lor signori, pretendono che Augusto Minzolini la pianti con gli editoriali. Predicano la libertà di stampa, ma poi se la pratica chi non è dei loro, vorrebbero impalarlo. Lor signori sono scandalizzati che il suddetto Minzo abbia parlato qualche volta al telefono con Berlusconi: e allora, via, «dimissioni!», strillano a più non posso. E poco vale l’osservazione del direttore del Tg1 che sostiene di aver dedicato al Cavaliere lo stesso numero di chiamate che vedeva Pier Ferdinando Casini dall’altro lato del filo.
Sarebbero facezie se non fosse tragedia vera. Si strappano i capelli quelli dell’Idv e del Pd con annessi e connessi. Urlano irati sulla fine della democrazia prossima ventura e addirittura, sul web, ipotizzano il ricorso alle armi, cosa che dovrebbe portarli non tanto ad esser riveriti e/o santificati, ma nelle patrie galere. E il bello è che lo fanno mettendo da parte senza impudicizia tutte le volte che proprio lor signori piazzavano la loro gente sullo scranno dei Tg.
Perché a esser un pizzico precisini, delle ultime 12 direzioni del Tg1 - e cioè dal ’94, quando irruppe la cosiddetta seconda Repubblica, ad oggi - dal centrodestra son stati nominati in tutto in 3, mentre dal centrosinistra ben 9.
E non è mica tutto qui. Perché se a Minzolini fanno vedere i sorci verdi e a Mimun chiedevano poco elegantemente di andare da Berlusconi a spiegargli chi fosse Goebbels (ma mica si scandalizzarono Di Pietro e compagni nel 2004 per quell’invito di Fassino al direttore ebreo...), si fa finta di nulla se i loro direttori facevano qualcosa che andava un po’ oltre gli editoriali e qualche telefonata. Roba da nulla che Rodolfo Brancoli passasse direttamente dal soglio del Tg1 all’ufficio stampa di Romano Prodi. O che - parlando di altri volti noti della Rai - Lilli Gruber e Michele Santoro si candidassero per il Pds alle europee, salvo chiedere di far ritorno da mamma Rai quando loro garbasse. David Sassoli, vicedirettore del tiggì prodiano, ha fatto lo stesso percorso: Saxa Rubra-Bruxelles-Strasburgo, in quota Ds. Pensate l’avesse fatto Emilio Fede con il Pdl... ma non è volata una mosca. L’Usigrai ha taciuto. La Federazione della stampa ha evocato le classiche tre scimmiette. L’Ordine ha brillato per la sua assenza. Come sempre.
E invece sempre a tuonare, la sinistra, contro la pagliuzza negli occhi degli altri. Mai a recitare un mea culpa per le sue travi. Ripercorriamo la storia del Tg1: Demetrio Volcic sarà stato un eccellente giornalista, tanto da esser direttore proprio nel ’94, ma ha finito poi per trovare un seggio al Senato con D’Alema e compagni. Un caso? Silenzio di tomba anche qui. Dopo un breve passaggio di Carlo Rossella, ecco Nuccio Fava la cui lunga militanza nella sinistra dc era stranota a tutti i frequentatori di Montecitorio e dintorni. Poi il succitato Brancoli, e Sorgi che - pur non avendo etichette - non mostrava certo alcuna propensione per Berlusconi & Fini, tantomeno per Bossi. E ancora Giulio Borrelli che della rossa cupola sindacale Usigrai è stato a lungo partecipe e Gad Lerner la cui simpatia per il centrodestra era pari a quella di un orso quando nell’Artico incontra una foca. E poi Albino Longhi, anche lui di casa nella sinistra dc e - dopo la parentesi Mimun - ecco Gianni Riotta la cui passione per l’America non tracimava al punto di riconoscere in Berlusconi un interlocutore importante oltre Atlantico.
Insomma, accanto a direttori di parte (inevitabile visto che a sceglierli sono le forze politiche che prevalgono alle elezioni) a sinistra ci sono stati anche veri e propri sponsali come si è visto, culminati con una candidatura e una elezione. Ma per la sinistra, sono nozze che non dovrebbero contare. Si meravigliano, anzi, se qualcuno fa notare loro che un giornalista americano ha il divieto esplicito di partecipare a marce, manifestazioni e quant’altro perché correrebbe il rischio d’esser di parte o visto come tale. Da noi invece c’è la gara a chi si arruola sotto le insegne di questo o di quello.
Ma questo fa scandalo solo se avviene nel centrodestra. Che vergogna quell’Emilio Fede! Che sfrontato quel Bruno Vespa! E adesso pure Minzolini. Quello che addirittura ha importato sul video l’editoriale. E mica si ricordano - o fanno finta di non averlo tenuto a mente - di quando il Minzo, da giovane cronista era portato in palmo di mano proprio dalla sinistra perché faceva la posta a Craxi e a De Mita svelandone gli arcana (ed era lodato persino perché compariva in un cammeo di Ecce Bombo del sinistrissimo Nanni Moretti)... Nessuna pietà. Si vuole passare per le armi perché pretende di fare un tiggì così come lo vuole lui. Difficile credere che si voglia effettivamente la libertà di stampa se poi non si perde occasione per mettersela sotto i piedi a seconda delle convenienze.
Ma c’è un’altra cosa che va tenuta di conto: possibile non esistano intercettazioni telefoniche di Santoro e Travaglio, Gruber e Sassoli, Lerner e Sposini, Busi e Borrelli? Delle due, l’una: o preparavano candidature e trasmissioni servendosi dello Spirito Santo, o il piatto piange. E mica di poco. (il Giornale)

venerdì 12 marzo 2010

I radicali, B. e il complotto contro Anno Zero. l'Occidentale

E va bene. Secondo il Fatto Quotidiano e la sua quotidiana razione di intercettazioni, Berlusconi, Minzolini e Innocenzi (Agcom) parlavano (male) tra di loro di AnnoZero e degli altri talk show.

Berlusconi più vedeva Santoro, più s'incazzava (almeno stando al racconto del Fatto), più s'incazzava, più telefonava a questo e a quello per fogarsi contro i "pollai" televisivi. Scopriamo così che B. (come lo chiama il Fatto) chiama Minzolini "direttorissimo", mentre maltratta Innocenzi e se la prende con Masi. Si parla di avvocati, diffide e ricorsi per fermare il dilagare di Santoro & company.

Il Fatto ci ricama sopra da par suo e ne trae la convinzione che le telefonate intercettate (per caso) configurino un complotto. I cospiratori intercettati tramano per chiudere Anno Zero e gli altri talk show. Controprova? Alla fine ci riescono, tant'è vero che Santoro e gli altri conduttori non vanno più in onda.

Il racconto del Fatto è vivido e dettagliato, manca però un particolare. La decisione di chiudere i talk show non proviene da B. o dal governo, ma dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza su iniziativa del radicale Marco Beltrandi. Il regolamento sull'applicazione della par condicio durante la campagna elettorale per le regionali lo ha scritto lui di suo pugno, contro - sono parole sue - "l'abitrio assoluto di cui i conduttori hanno goduto sino ad oggi".

Allora delle due l'una: o anche Beltrandi faceva parte del complotto e allora era l'unico ad avere il telefonino criptato (chapeau!). Oppure, ancora una volta, mentre B. e gli altri perdono tempo al telefono e cincischiano di ricorsi e diffide, i radicali vanno dritti al risultato.

Il Cavaliere solitario. Pierluigi Battista

Silvio Berlusconi ha un vero, grande nemico in questa campagna elettorale: lo scoramento del suo popolo. Un misto di disincanto e di rassegnazione che, se pure non si traduce nella scelta dello schieramento avversario, alimenta una fortissima tentazione astensionista. L'ultimo sondaggio di Renato Mannheimer conferma che il Pdl, sebbene non se ne avvantaggino direttamente gli avversari, soffre gli effetti di una autosecessione silenziosa. La tendenza a disertare le urne, a sancire con il non-voto uno smarrimento che si traduce in disaffezione, disimpegno, delusione. È il fantasma del 2006 che impone al Berlusconi grintoso di queste ultime ore la scelta dell'ennesima corsa solitaria anche a costo di lanciare accuse non provate e parlare di complotti.

Uno contro tutti, come sempre da sedici anni a questa parte. Contro i nemici. Ma anche contro i suoi seguaci troppo fragili e inconcludenti, quando sono orfani di un Capo capace di rimediare ai loro guai. L'immagine simbolo del 2006 è racchiusa nella performance che rimise un Berlusconi già sconfitto al centro della scena. Berlusconi veniva dato per politicamente spacciato, ma gli squilli di Vicenza trasmisero una travolgente corrente d'energia nel suo elettorato. Se il leader del centrodestra rimontò da una condizione di abissale svantaggio nei sondaggi e arrivò a un passo (solo una manciata di voti di differenza) da un trionfo clamoroso, fu perché a Vicenza si mostrò capace di richiamare sul campo di battaglia il suo esercito astensionista.

Rese evidente una legge costante di questa nevrotica Seconda Repubblica: si vince solo se si trascina ai seggi il popolo riluttante che esprime con la minaccia dell’astensione la propria disillusione. Nel 2001 il centrosinistra perse perché molti dei suoi, scontenti e sconcertati, disertarono le urne. Nel 2006 Berlusconi sfiorò una vittoria che sembrava impossibile perché nel rush finale toccò le corde giuste per mobilitare un elettorato stanco e depresso. L'astensionismo è l'arma più micidiale in una democrazia in cui sono rari i passaggi espliciti da un campo a quello opposto. Già Albert O. Hirshmann aveva i d e n t i f i c a t o nell'«uscita» del proprio elettorato, nella tentazione di ritirarsi e di abbandonare a se stessa una leadership deludente. Il nuovo protagonismo di Berlusconi ha lo scopo di tamponare l'emorragia delle «uscite», ma anche le manchevolezze di un partito impacciato e afasico. Uno contro tutti, ancora una volta.

Ma i modi con cui il Pdl (il cui più che precario stato di salute è stato diagnosticato su queste colonne da Ernesto Galli della Loggia) ha dilapidato in pochi mesi una condizione di vantaggio che sembrava inattaccabile, dimostra che nella solitudine di Berlusconi si rispecchia il vuoto del suo partito nato appena un anno fa. Nell’«uno contro tutti» solitamente Berlusconi ritrova il suo terreno favorito, il che dovrebbe sconsigliare il Pd dall'imboccare la strada dell' «unione sacra» antiberlusconiana in cui rischia di farsi risucchiare. Ma ritrova anche la debolezza di una «sua» classe dirigente che, lasciata a se stessa, non è in grado di rappresentare autonomamente un punto di riferimento per l'elettorato. E di fronteggiare con convinzione il fantasma dell'astensione. (Corriere della Sera)

giovedì 11 marzo 2010

Legittimo sfinimento. Davide Giacalone

Il Senato non è sfuggito alla sorte dei nostri giorni, ospitando una sceneggiata. Scontata, come tutte le sceneggiate, nel copione e nell’esito. E, ancora una volta, a proposito della legge che regola il legittimo impedimento (dei membri del governo, a prendere parte a processi che li riguardano) si confrontano i torti e sfuggono le ragioni. La politica, insomma, continua la sua eclissi, restando prigioniera delle cose e dei soggetti peggiori.

La questione è nota, il canovaccio ripetitivo: la Corte Costituzionale ha cancellato il lodo Alfano, nonostante, anche in quel caso (e due) il Quirinale si fosse speso, consegnando il presidente del Consiglio a giudici che non nascondono la voglia di giudicarlo, il più in fretta possibile, nonostante i reati presupposti siano destinati a cadere in sicura prescrizione. Per capirci: da una parte corrono per avere una condanna di bandiera, che non diventerà mai definitiva, dall’altra si corre per evitare il processo in sé.

Il legittimo impedimento è già regolato dalla legge e, per questo, può sembrare arrogante la pretesa governativa di rafforzarlo. Poi, però, si deve prendere in esame la realtà, per quello che tristemente è: in occasione di un’udienza, presso il tribunale di Milano, il capo del governo fece presente d’essere legittimamente impedito a presenziare, dato che era già stato convocato il Consiglio dei ministri, al che i giudici gli risposero: la riunione del governo non è un legittimo impedimento. S’accomodi, chi vuol mettersi a misurare i rispettivi tassi d’arroganza e insensibilità istituzionale.

Il disegno di legge, che ieri ha scatenato la pagliacciata al Senato, prevede che dei giudici non possano discrezionalmente stabilire se il lavoro governativo è importante o meno, pertanto fissano il rinvio (bloccando i termini della prescrizione) e basta. Il tutto per un massimo complessivo di diciotto mesi. Se, facendo eccezione rispetto all’insieme isterico del mondo politico, provate a ragionare vi accorgete che non cambia quasi nulla: le udienze si aggiornano, ma il reato allunga i tempi della sua validità. Dopo un anno e mezzo, si sarebbe esattamente al punto di partenza. Ciò non ha fermato l’opposizione che, a puro scopo ostruzionistico e propagandistico, ha presentato 1700 emendamenti, sollecitando, così, il governo a porre la fiducia per non allungare di settimane la discussione. A dispetto degli schiamazzi, una scena noiosamente prevedibile. Chi, per opporsi, esibisce la Costituzione, conferma di trovarsi in una delle due condizioni: o non l’ha letta, o non l’ha capita.

Proprio perché il provvedimento non è risolutivo di un bel niente, ha un senso solo se lo si considera un ponte verso una normativa più significativa. Una pezza (l’ennesima), per evitare che tre magistrati si ergano a giudici dei programmi e dei lavori del governo, un modo per guadagnare tempo e mettere mano a soluzioni vere. Quali? Nessuno vuole dirlo, perché ritiene sia impopolare, ma il tema vero e centrale è quello dell’immunità, parlamentare e di chi governa. Non c’è sistema democratico che non la preveda, è ben presente anche al Parlamento Europeo, ma da noi è un tabù perché molti dei protagonisti di oggi si sono affermati lasciando e lanciando quelli di ieri in pasto alle procure. Posto che questo è il problema, sono sicuro che il massimo dell’impopolarità lo si raggiunge non quando si reclamano le condizioni per potere lavorare, ma quando si pretende che l’intero Paese, per anni, si fermi a constatare che non si riesce a fare un bel niente perché capi politici e biascicanti gregari trovano lussurioso dibattere all’infinito sulla presunta criminalità di uno, sempre lo stesso, sempre lui, che, tanto non sarà mai condannato. Non è impopolare sottrarre, temporaneamente, un politico alla giustizia, ma privare un intero Paese della giustizia.

Pietrino Vanacore non ha retto all’idea che, dopo venti anni d’accuse non provate e innocenza violentata, si potesse ricominciare come se nulla fosse stato, e s’è affogato. Su quelle tristi sponde, però, c’è il rischio della ressa, perché è dal biennio giustizialista 1992-1994 che il tempo s’è fermato, la politica inabissata, il senso delle istituzioni dissolto, costringendoci tutti a subire le esibizioni fascistoidi di un gruppo di manettari che, come in un film dell’orrore, s’è ora impossessato del corpo della sinistra.

Passi il legittimo impedimento, ma si prenda atto del collettivo e legittimo sfinimento.

martedì 9 marzo 2010

Idolatria della forma. Lanfranco Pace

Qualcosa non va nell’opposizione. Romano Prodi ha detto di non aver mai avuto tanta paura come in questi giorni. Di Pietro agita la parola, eccita la piazza e chiede all’Europa di vigilare. Il partito dei presentatori in lock out forzoso denuncia un regime alla Birmana. Anche un uomo sveglio e di solito misurato come il direttore di Europa, Stefano Menichini, confessa di nutrire una vaga inquietudine. Nessuno parla di motori di carri che rombano nei cortili delle caserme e ci mancherebbe. Dicono però che ci sono crepe vistose nell’edificio democratico. Si direbbe che hanno dimenticato anche i buoni maestri di un tempo che spiegavano come nella comunicazione di massa ogni cosa eccessiva fosse di per sé insignificante. La sinistra sta vivendo una forma acuta di feticismo come un vecchio signore che prova ebbrezza per i piedi della cameriera.

Domenica Gustavo Zagrebelsky, punta di diamante del costituzionalismo tendenza Rep., ha dispiegato proprio sul quotidiano di riferimento la logica implacabile del formalismo giuridico. Testualmente: “Qualcuno non ha rispettato le regole, l’esclusione di una lista non è dovuta alla legge ma al suo mancato rispetto, è ovvio che la più ampia offerta elettorale è un bene per la democrazia ma se qualcuno per colpa sua non ne approfitta, con chi bisogna prendersela: con la legge o con chi ha sbagliato? Ora, il decreto del governo dice: dobbiamo prendercela con la legge e non con chi ha sbagliato”. Accusa poi “di disonestà e arroganza” Augusto Minzolini, direttore del Tg1, per aver stravolto l’immagine e il pensiero di Hans Kelsen, grande giurista del Novecento, facendo dire “proprio a lui che ha sempre sostenuto che in democrazia la forma è sostanza” l’esatto contrario, cioè che la sostanza deve prevalere sulla forma. Sul piano della logica formale il Zagrebelsky pensiero sembra inattaccabile. Forma contro sostanza, formalismo giuridico contro l’intelligenza della politica, Kelsen contro Carl Schmitt, direbbe Massimo Cacciari, che qualche partito l’ha praticato.

Cacciari chiede tra le righe a Bersani di non fare fesserie: su questo registro, il Pd non rinsavisce e finirà per arrivare alle regionali sfatto come una mammola. Zagrebelsky può permettersi illuminanti intemperanze che sono invece interdette a un uomo politico. Il leader del maggiore partito di opposizione sa perfettamente che elezioni da cui viene escluso il maggiore partito del paese, sia pure colpevole di dabbenaggine, sono semplicemente improponibili, che un presidente e una giunta vittoriosi per forfait e mandati lo stesso a governare per cinque anni regioni importanti senza alcuna opposizione sarebbe un non senso, la violazione del principio di legittimità. Purtroppo Bersani anziché negare ogni possibilità di convergenza con costituzionalisti, pifferai magici e con tutta la coorte di liberi tribuni e commentatori dal sopracciglio inarcato, bivacca tra i manipoli. E non si sa mai se ascolterà il consiglio di un Cacciari e persino di un Oscar Luigi Scalfaro. Oppure si farà risucchiare dalla ruota della pasionaria Rosy.

E poi via, signor segretario: da buon ex comunista di vena socialdemocratica e da ministro delle buone intenzioni rimaste sulla carta per colpe non sue conosce perfettamente quali effetti perversi possano avere la norma, il regolamento. Le regole elettorali in generale sono un percorso di guerra, trasudano fuffa e cattiva educazione civica, quella che votare non è un diritto ma un dovere. Sa perfettamente che la norma, qualunque norma, qualunque regolamento riposano sullo svolazzo, sull’arzigogolo, sull’arabesco proprio per essere aggirati e violati. In passato è già successo senza troppo scandalo, giusto con qualche risentimento.

Tra il sovrano, il “Dio mortale” che solo può essere al di sopra delle leggi che egli stesso pone, e il potere assoluto del Codice, che ammette come unica interpretazione quella letterale, scelga il realismo giuridico e l’indeterminatezza del diritto. Norberto Bobbio, uno dei primi a importare Kelsen e che si definiva con ironia “responsabile della kelsenite italiana”, aveva un’idea del funzionamento della democrazia reale più articolata del suo allievo Zagrebelsky. Credeva per esempio nella contrattazione delle parti, perché non sempre il conflitto può essere racchiuso in una procedura o governato da una legge che garantisca effettiva eguaglianza e imparzialità. In fondo aveva ragione quel giurista d’oltreoceano che sull’argomento ebbe una frase definitiva: “La decisione di un giudice può essere determinata da quello che ha avuto per prima colazione”. (il Foglio)

Qualcuno deve spiegarci perché Silvio Scaglia si trova ancora in carcere. Tiziana Maiolo

Che cosa ci fa Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, in una cella di Regina Coeli? Si è consegnato spontaneamente, poco dopo la mezzanotte del 26 febbraio, alla Guardia di finanza all’interno dell’aeroporto di Ciampino, provenienza Antille. Era venerdi notte, qualcuno avrebbe dovuto dirglielo che nelle carceri, come spesso negli ospedali, nel fine settimana la vita si ferma. Meglio consegnarsi di lunedi, se proprio si deve. Infatti il dottor Scaglia è stato interrogato solo a weekend concluso, ha spiegato la sua posizione e riteneva, da uomo ligio alla legge e fiducioso nella giustizia quale è, di poter tornare alle sue attività.

Perché era così fiducioso? Prima di tutto perché ben tre anni fa era stato già interrogato da un Pubblico Ministero nella stessa inchiesta e riteneva di aver già chiarito tutto, soprattutto perché le imputazioni riguardavano fatti accaduti, secondo l’accusa, tra il 2003 e il 2007. In quegli anni Silvio Scaglia era stato amministratore delegato e presidente di Fastweb, oggi è di fatto fuori e i chiarimenti di quel primo interrogatorio d’allora gli si sono rivoltati contro, quasi una vendetta postuma.

Le accuse, che coinvolgono anche Sparkle, società controllata di Telecom Italia, riguardano il sospetto di una colossale truffa internazionale sull’Iva per un importo di due miliardi di euro e un danno al nostro erario di 365 milioni. Come prima cosa occorre dire che il dottor Scaglia è indiziato di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio, oltre che, conseguentemente, di evasione fiscale. E già qui pare legittimo domandarsi se, visto che è stato emesso un mandato di cattura, ci sia, oltre al reato associativo e alla finalità che ne consegue ( il riciclaggio ) un fatto concreto imputabile al fondatore di Fastweb.

Negli anni in cui ancora non si era tacciati di golpismo quando si chiedevano le riforme radicali dei codici penale e procedurale, sia le camere penali che una parte del parlamento tentarono l’abolizione dei reati associativi, proprio perché consentono ai Pubblici Ministeri di tenere in carcere le persone senza dover contestare un fatto concreto. E’ sufficiente dire che l’associazione è “finalizzata” alla commissione di un reato. La dilatazione massima ( e abnorme ) è stata raggiunta con l’invenzione di un reato associativo che non è scritto nel codice penale: il concorso esterno in associazione mafiosa. Che ha consentito l’ assassinio politico di Calogero Mannino, assolto in via definitiva dopo 18 anni, e che consente di tenere sulla graticola da anni Marcello Dell’Utri. Il reato associativo è un contenitore vuoto, una cornice cieca. Ma è lo strumento d’accusa principe per prendere tempo e aspettare la “confessione”.

I legali di Silvio Scaglia hanno presentato ricorso al tribunale del riesame perché revochi la custodia cautelare del loro assistito per “mancanza di indizi”. E’ loro diritto. Ma prima ancora di esaminare gli indizi, il giudice dovrà spiegare, anche a noi cittadini, se il mantenimento della custodia in carcere di Silvio Scaglia trovi fondamento nei casi previsti dal codice di procedura penale. Sicuramente non esiste pericolo di fuga di una persona che si è fatta arrestare spontaneamente. Impossibile per il dottor Scaglia ripetere il reato, visto che non è più né presidente né amministratore delegato di Fastweb.

Inquinamento delle prove, dopo anni dai fatti e dopo che l’indagato è stato interrogato due volte? Improbabile. E allora lo si scarceri, ci dice l’art.274 del codice di procedura penale.

Invece no, perché Silvio Scaglia non si è “ravveduto”. Ora questa parola che fa venire i brividi in quanto evoca i processi alle streghe, arriva dritta dritta dalla scuola dell’ex Pm Antonino Di Pietro, quando negli uffici della Procura della repubblica di Milano si teorizzava la possibilità di scarcerazione solo quando si era vuotato il sacco. Il che comportava non solo una presunzione di colpevolezza gravemente in violazione del dettato costituzionale, ma anche l’aspettativa, da parte dei magistrati, di chiamate in correità. In modo da andare a scoprire quei reati ( o presunti tali ) che potessero riempire i contenitori vuoti del reato associativo.

Ecco, se fossimo ancora nel secolo in cui, nonostante Di Pietro, si poteva parlare di garanzie e di procedure senza essere sospettati di complicità con affaristi e mafiosi, in tanti potremmo chiedere a voce alta, senza rubare il lavoro agli avvocati, che a Silvio Scaglia, innocente o colpevole che sia, venga revocata la misura di custodia cautelare. Vada mandato a casa, insomma. Non ci sono i presupposti di legge per tenerlo in carcere. Ma siamo in un altro secolo, è il circo mediatico-giudiziario che comanda. E che impone ancora qualche vagonata di intercettazioni, possibilmente a sfondo sessuale, prima che si possa cominciare a ragionare.

Non ci resta a questo punto, che il paradosso. Cari signori giudici che un giorno ( forse ) processerete Silvio Scaglia, per favore condannatelo! Siate coerenti, non fateci aspettare diciotto anni per comunicarci che vi eravate sbagliati. Vi prego, condannatelo. Così almeno non penseremo che una volta di più avete abusato del vostro potere e che avete commesso l’ennesima ingiustizia. (l'Occidentale)

lunedì 8 marzo 2010

Regola elementare, mai insultare gli elettori. Daniele Capezzone

Nel complessivo sentimento di superiorità culturale e morale che la sinistra ama coltivare, c’è un aspetto preciso e specifico, che riguarda la - vera o presunta - maggiore professionalità politica dei propri dirigenti, ad ogni livello: in una ideale lavagna dei buoni e dei cattivi, la sinistra assegna a se stessa una totale dimestichezza con i “segreti del mestiere”, relegando gli avversari in uno spazio confuso abitato solo da veline e improvvisatori.

Ora, com’è noto, una delle regole più elementari del gioco politico è che, per quanta durezza si possa riservare al confronto con l’altro schieramento o con i partiti di altro orientamento, la polemica non deve mai estendersi ai loro elettori. In altri termini: che un esponente politico usi parole forti nei confronti di un suo avversario è ragionevolmente accettabile (poi resta da capire se si tratta di un’iniziativa appropriata, opportuna, o no), ma guai se le sue dichiarazioni o le sue azioni sono, o anche solo appaiono, offensive nei confronti di segmenti di elettorato.

Ecco, i “grandi professionisti” della sinistra, nella settimana del caos-liste, e quindi in un frangente per loro molto comodo e invece certamente non facile da gestire per il centrodestra, sono riusciti nel capolavoro di non ricordare questo principio elementare. E così, la sinistra ha dato l’impressione di non voler tanto polemizzare con Pdl e Lega, ma di tentare davvero di escludere milioni di persone dall’esercizio del diritto di voto. Morale: il fuoco dell’attenzione dell’opinione pubblica si è rapidamente spostato dalle presunte leggerezze di qualche esponente del centrodestra alla vera e propria prepotenza politico-giudiziaria cavalcata da Bersani, Di Pietro e Bonino.

È stato ed è un grave errore, e non solo di comunicazione, ma di sostanza. Tutta presa dal suo “war-game” contro Berlusconi, la sinistra dimentica troppo spesso un “dettaglio”: gli elettori ci sono, e non sono disposti a essere umiliati e defraudati. (il Velino)

E l'infame sorrise! Orso Di Pietra

Pare che sulla decisione del Gip di Firenze di arrestare l’impreditore Francesco Maria De Vito Piscicelli, nel quadro dell’inchiesta sullo scandalo degli appalti, avrebbe pesato la telefonata tra l’impreditore ed il cognato Pier Francesco Gagliadi in cui i due se la ridevano del terremoto in Abruzzo al pensiero degli affari da realizzare dopo il sisma. Se così fosse vorrebbe dire che la decisione del magistrato si è fondata non solo su una valutazione giuridica ma anche su un giudizio morale. Il ché, posto che al momento nel codice penale l’immoralità dell’indagato non fa parte delle motivazioni che giustificano la custodia cautelare, costituisce una innovazione materiale della legge. E dovrebbe spingere i legislatori ad adeguare il codice stabilendo che al momento dell’ingresso in carcere, l’indagato non si limiti a depositare i propri effetti personali ma reciti tre ave, pater e gloria ed un adeguato numero di atti di dolore in espiazione preventiva del peccato commesso! (l'Opinione)

Governo sotto tutela. Davide Giacalone

Il cittadino che incorre in un errore formale, che ritarda a pagare il dovuto, che dimentica di ricorrere per tempo, che tradisce un appuntamento fissato dallo Stato, non lo salva nessuno e cade direttamente nel tritacarne delle sanzioni, delle punizioni o della perdita dei diritti. Hai voglia a dire che si tratta di una questione formale, che avevi tutte le migliori intenzioni e che si deve badare alla sostanza. Nisba, hai torto e paghi. Se lo piantino bene in testa, i vertici del centro destra, se lo stampino sulla fronte, perché è vero che s’è trovato un rimedio ai loro stessi errori, è vero che cancellare una parte politica dalle schede sarebbe stato un colpo ai danni degli elettori, ma è anche vero che l’hanno combinata davvero grossa e che, adesso che sono tornati in pista, occorre che forniscano qualche valida ragione per essere sostenuti.
Certo, c’è sempre la stessa: basta ascoltare le parole fascioinsurrezionali di Antonio Di Pietro, valutare l’insipienza di una sinistra che dissente da lui (credo solo perché c’è di mezzo il Presidente della Repubblica, altrimenti non saprebbero fare altro che dire le stesse identiche cose), ma poi sfila al suo fianco, mettere sulla bilancia anche l’Italia massacrata da inchieste giudiziarie che sventrano tutto e non dimostrano nulla, e ci si convince che vale la pena rinnovare la fiducia alla maggioranza che ha vinto le scorse elezioni politiche. Ma ci si convince sempre meno, con il voto che non sempre è sinonimo di fiducia. Detto in modo diverso, una democrazia non può funzionare votando sempre contro: a sinistra perché si è contro Berlusconi e a destra perché si è contro chi è contro Berlusconi. Non se ne può più. Una democrazia ha bisogno di votare a favore di qualche cosa.
Mancano tre settimane al voto regionale. Ho i miei dubbi che la campagna elettorale riesca a prendere la via dei programmi e delle proposte concrete. Dubito anche che a qualcuno interessi, perché a forza di campare “contro” crescono la noia e il disincanto. Eppure non c’è alternativa al ridare dignità alla politica, non c’è alcuna ricetta risolutiva che prescinda da una politica vera. La campagna elettorale, per la maggioranza come per l’opposizione, si svolga, allora, all’insegna del dopo: che ne facciamo, del tempo che rimane? Che significato diamo ad una legislatura già avviata sul binario morto del “vorrei ma non ci riesco”? E, vista l’eccelsa qualità delle prove date, in questi giorni, siamo proprio sicuri che le classi dirigenti regionali siano le più adatte a prendere in mano le sorti di un federalismo cui tutti s’inchinano, nessuno vuole avversare, ma neanche è capace di descrivere e definire?
Anche in questi giorni di polemiche infuocate, di scontri sul valore delle regole e sull’essenza stessa della democrazia, abbiamo provato a mantenere la capacità di ragionare sui temi concreti, dall’economia alla giustizia, dal lavoro alle intercettazioni. Su queste pagine ne abbiamo scritto, ma la politica ha totalmente ignorato. La ragione è triste: manca una classe dirigente degna di questo nome. Manca a destra e manca a sinistra, manca in politica come manca nel mondo produttivo o in quello culturale. Manca perché s’è uccisa la politica, quella vera, fatta d’interessi, certo, ma organizzati in idee e programmi. E la cosa che più temo è che si abbia in animo di reagire non tornando alle idee e ai programmi, agli interessi e ai sogni, ma cercando si sopprimerne meglio la presenza. Non è solo un errore, è un terribile abbaglio, come far da diga con un canotto.
La sinistra ha grandi responsabilità, perché incapace di costruire un’alternativa di governo, che si affranchi da un passato vergognoso e riporti nella spendibilità gli ideali di giustizia e libertà. Ma la maggioranza parlamentare fa capo al centro destra, quindi anche la maggior parte del problema. E’ vero, alcune spinte riformiste sono state smorzate dalle resistenze conservative (direi reazionarie) annidate nelle istituzioni. Questo è avvenuto, però, perché quella parte politica manca di lucidità e coesione. Se non si riesce a cambiare passo lo si deve dire, riportando la scelta agli elettori. In caso contrario si va avanti, proprio per rimuovere gli ostacoli che ostruiscono il cammino.
A sostenere le ragioni di uno spericolato decreto legge s’è levata la voce di Giorgio Napolitano. Taluno può credere che questo metta in difficoltà la sinistra, in realtà pone sotto tutela il governo. Forse è questo il più incostituzionale effetto di quel che è accaduto.

venerdì 5 marzo 2010

La sinistra paladina dei gay che ora perseguita Balducci. Vittorio Sgarbi

Mi piacciono le sfide. E allora dirò che sono fermamente convinto che Angelo Balducci è innocente. Convinto che la sua azione è stata lineare e che può aver dato spazio a illeciti profitti senza averli favoriti. Passeranno i mesi, passeranno gli anni e si arriverà alla fine dell'inchiesta che lo ha portato in carcere con un processo in cui molte cose saranno chiarite. Finirà ancora una volta con l'accertamento di episodi che magistrati facinorosi e intercettazioni intimamente abusive hanno fatto apparire crimini gravissimi. E non lo erano.
Balducci si vedrà restituito l'onore quando ormai tutto sarà stato dimenticato, la sua vita profondamente mutata. I giudici che hanno indagato su di lui avranno fatto carriera, avranno fatto altri errori, e non pagheranno per la strage di verità (come avrebbe detto Marco Pannella) che ci hanno inflitto. A difendere Balducci è l'avvocato Franco Coppi, lo stesso che ha assistito Andreotti. Mi accorgo che ha fatto le mie stesse osservazioni, e poche parole mi sembrano più vere delle parole che difendono, inquietanti quando un uomo è innocente, necessarie quando un uomo è colpevole. Anche per questo ci appare terribile l'assassinio di Enzo Fragalà, perché un avvocato non condanna, il suo potere è solo nelle parole, nella verità e nei valori morali di rispetto per la persona che, con la parola, evoca. Che un giudice venga ucciso è intollerabile, ma è comprensibile come reazione di un criminale che non sopporti la pena o di un innocente che non tolleri l'ingiusta condanna. Ma uccidere un avvocato vuol dire ribellarsi alla forza della parola che non può limitare la libertà di nessuno, ma può aiutare, in nome della ragione, a scoprire la verità, ribaltando annunciati verdetti di colpevolezza che trovano facile approvazione. Il giustizialismo è molto più forte del garantismo, e fu molto più facile condannare Pietro Pacciani che assolverlo. Ma torniamo a Balducci. Tra le cose più oscene, affrontate con timidezza e discrezione dal Corriere della Sera, e invece esibite con compiacimento e impudicizia da Repubblica, ci sono le indiscrezioni, derivate da intercettazioni, sui suoi costumi sessuali. Su Repubblica l'altro ieri si leggeva: «Su Balducci l'ombra della prostituzione gay» e, nell'occhiello: «Nelle telefonate incontri sessuali organizzati con giovani che in molti casi vengono indicati come seminaristi». L'articolo poi approfondisce con dettagli variamente morbosi, descrivendo offerte di «merce» umana con devastante evidenza. La Procura di Perugia, all'ascolto di queste conversazioni private, non glissa, infierisce: «Nell'ambito del procedimento penale in oggetto è emerso che l'ingegner Balducci Angelo, per organizzare incontri occasioni di tipo sessuale, si avvale dell'intermediazione di due soggetti, che si ritiene possano far parte di una rete organizzata, operante soprattutto nella capitale, di sfruttatori o comunque favoreggiatori della prostituzione maschile». Il gioco è fatto. Balducci è indagato negli appalti della Protezione civile ma noi dobbiamo anche conoscere i suoi costumi sessuali, così come abbiamo dovuto, leggendo, assistere alla ricerca del preservativo fantasma (non) usato da Bertolaso nel suo incontro con una «massaggiatrice». In questo caso la questione era l'eventuale offerta di una prestazione gratuita, nel caso di Balducci pare trattarsi di spese personali secondo un tariffario non diverso da quello implicito nei piccoli annunci delle inserzioni giornalistiche sotto la voce «massaggi», «club», «associazioni».
Dov'è dunque finita, non dirò la privacy, ma l'apertura mentale, la necessaria tolleranza imposta da una posizione politicamente corretta, verso il mondo gay? Non è proprio Repubblica ad avere difeso i diritti dei gay e la loro aspirazione alle unioni di fatto, contro l'oscurantismo della Chiesa? E adesso come mai espone Balducci al pubblico ludibrio indicando incontri omosessuali come prostituzione, favoreggiamento? Gli amici di Repubblica hanno dimenticato com'erano gli incontri di Pasolini? E qualcuno oserebbe infamarlo per una pratica così diffusa da essere stata l'orgoglioso punto di partenza della carriera pubblica di Vladimir Luxuria? Non rivelo nulla che non abbia Vladimir stessa detto in un'intervista al Corriere appena eletta deputato. E i giornalisti di Repubblica come pensano che si organizzino gli incontri omosessuali? Hanno mai letto Sandro Penna? Conoscono la storia di De Pisis? E dunque perché deve entrare nella sfera criminale la normalità della vita sessuale (eventuale) di Balducci? E perché non indagare sulla modalità degli incontri amorosi di Nichi Vendola? Chiuderò con le parole dell'avvocato Coppi che richiama ciò che la Repubblica sembra aver dimenticato: «È una vergogna che vicende private che nulla c'entrano con l'inchiesta, vengano pubblicate sui giornali. Non è che la galera consenta di infangare liberamente gli imputati». Forse la Repubblica, come il regime cubano, ritiene giusto che Balducci stia in galera «anche» perché omosessuale? (il Giornale)

Buongiorno Flaiano. Massimo Gramellini

«Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore».
«La situazione politica in Italia è grave, ma non seria».
«Gli italiani sono irrimediabilmente fatti per la dittatura».
«Fra 30 anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione».
«L’italiano è un tentativo della natura di smitizzare se stessa. Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio, preso in sé. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito».
«In Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco».
«In questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Altri paesi hanno una loro verità. Noi ne abbiamo infinite versioni».
«In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti».
«Per gli italiani l’inferno è quel posto dove si sta con le donne nude e con i diavoli ci si mette d’accordo».
«Le dittature hanno questo di buono, che sanno farsi amare».
«Oggi anche il cretino è specializzato».
«Ho poche idee, ma confuse».
«Il sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati alle nuvole».

(In ricordo di Ennio Flaiano, 1910-1972, che oggi avrebbe compiuto 100 anni ma sarà ben contento di esserseli risparmiati.) (la Stampa)

giovedì 4 marzo 2010

Il Pdl non è un partito di plastica, è Berlusconi che è troppo democratico. Antonio Mambrino

Nella sua omelia laica apparsa (dopo il giallo della censura-non censura del direttore) sul Corriere della Sera Ernesto Galli Della Loggia pronuncia un giudizio definitivo sul fallimento storico del Popolo della Libertà, la creatura politica più originale di questo inizio millennio. Creatura che si è posta l’obiettivo di rendere finalmente compiuta e definitiva la faticosa transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica.

Certo, a scorrere le prime pagine dei quotidiani appare difficile dare torto a Galli. Dagli scandali della protezione civile, all’affaire Fastweb-Telecom, ai pasticci della presentazione delle liste elettorali per le prossime regionali, è tutto un fiorire di episodi in cui il pressappochismo ed il dilettantismo si coniugano con la disinvoltura, il malcostume e, se saranno confermate in sede processuale le accuse, con l’illegalità.

Ma a ragionare troppo per sintesi e per tesi generali, a procedere per induzione e non per deduzione, a voler sempre ricavare il generale dal particulare si rischiano clamorose cantonate. Perché se non c’è dubbio che tutti gli episodi citati sono non solo negativi in quanto tali ma anche sintomatici di uno stato di degrado della vita pubblica italiana, rimane tutto da dimostrare che la causa di tutto ciò sia stata la fondazione del PdL e che la terapia migliore sia quella di farlo fuori.

Dal nostro punto di vista è vero esattamente il contrario. La nascita di Forza Italia prima e del PdL poi è stata la risposta allo stato di crisi profonda in cui era precipitata la nostra democrazia con la crisi della Prima Repubblica. Una risposta che, nonostante tutte le imperfezioni e le criticità che abbiamo sotto gli occhi, è riuscita ad evitare che il fallimento politico dei partiti tradizionali si traducesse in una completa disgregazione del tessuto civile italiano (o meglio di quello che restava di tale tessuto) e desse il via ad uno stato di guerra per bande e gruppi di potere liberi di scorrazzare per il Paese una volta venuta meno l’indispensabile funzione di guida e di governo del sistema politico.

In questo senso sono del tutto ingenerose le critiche feroci alla stessa qualità politica della classe dirigente che il PdL è riuscito a promuovere. E’ chiaro inventarsi una classe dirigente dall’oggi al domani non è cosa semplice, si commettono inevitabili errori e comunque è necessario un certo tempo. Ma certo se proviamo a scorrere l’attuale composizione del Governo e, senza cadere nella trappola della nostalgia, proviamo a confrontarla con quella dei governi repubblicani degli ultimi decenni della prima repubblica, gli attuali ministri ci sembrano dei giganti della politica. Forse non molti ricordano che abbiamo avuto presidenti del consiglio e ministri del tesoro della statura di Giovanni Goria, ministri della pubblica istruzione come Franca Falcucci o ministri dei lavori pubblici come Luigi Nicolazzi. Nomi verso i quali non proviamo alcuna nostalgia e che ci rendono ben felici di avere oggi ministri come Tremonti, Brunetta, Gelmini. Così come sarebbe opportuno ricordare come, sempre nella Prima Repubblica, la durata media dei governi era inferiore ai dodici mesi e le crisi di governo, così come la formazione dei nuovi governi, erano dettate da oscure dinamiche di contrattazione fra i partiti del tutto slegate dalle dinamiche del corpo elettorale e dell’opinione pubblica.

Ma non è solo e non è tanto questione di nomi. E soprattutto questione di dinamiche istituzionali. Il risultato più importante della rivoluzione berlusconiana consiste nell’aver impiantato anche da noi l’alternanza di governo, che rappresenta il principale antidoto contro i rischi di appropriazione private delle istituzioni, autoreferenzialità della politica, crisi della democrazia. Una democrazia funziona nella misura in cui una classe di governo viene giudicata dagli elettori sulla base dei risultati raggiunti e corre il rischio (concreto e non meramente teorico) di essere sostituita con un’altra classe politica. Un meccanismo che, dopo cinquant’anni di immobilismo, abbiamo finalmente assaporato e che ci è piaciuto così tanto che dal 1994 nessuna coalizione di governo è mai riuscita vincere le elezioni. Una mobilità che riguarda i governi ma anche il Parlamento, se si pensa che ormai viaggiamo con tassi di ricambio dei parlamentari da una legislatura all’altra superiori al 50%, mentre in passato la rielezione dei parlamentari uscenti era la regola e i neo eletti l’eccezione.

E di questa nuova situazione ne ha enormemente beneficiato la capacità di governo che, per quanto ancora insufficiente, è sideralmente avanti rispetto a quella che abbiamo conosciuto nei decenni passati.

Tutto bene dunque? Naturalmente no! Ci sono molte cose che non vanno e che devono essere affrontate anche rapidamente. Ma per farlo davvero occorre non cadere nelle trappole dell’induzione logica e saper distinguere i veri problemi dai miti del “semplificazionismo” giornalistico

Il problema più spinoso sul tappeto ci sembra quello della costruzione del partito. Se è comprensibile che costruire un nuovo partito, soprattutto se derivante dalla fusione di due partiti diversi per storia e per struttura come FI e AN, sia impresa lunga e faticosa, credo sia incontestabile il fatto che oggi le difficoltà del centro destra siano essenzialmente difficoltà del partito. Le quote 70-30, la mancanza di un segretario politico, il coordinamento affidato a tre persone (ciascuna delle quali sembra navighi solo per conto proprio), la guida politica affidata ad organismi pletorici (un ufficio politico di 37 membri ed una direzione di 171 membri), rappresentano scelte forse obbligate in una fase di start up ma che oggi minano alla base la capacità politica del partito. Berlusconi ha peccato di eccesso di democraticità.

Nella speranza di smussare il confronto interno e di prevenire possibili conflitti alla concentrazione ha preferito la diffusione del potere interno. Ma il decisionismo e la governabilità sono questioni che riguardano i governi come i partiti. E non è un caso se in quest’anno il PdL non sia riuscito a lanciare una sola iniziativa politica e si sia limitato alla gestione burocratica dell’apparato.

Il secondo problema riguarda il rapporto con la periferia che, naturalmente, rappresenta il punto di maggiore criticità per un leader politico carismatico come Berlusconi che deriva tutta la propria forza da un rapporto diretto con l’opinione pubblica e non da un apparato radicato sul territorio. Ed anche su questo Berlusconi ha peccato di troppa democraticità. Ha lasciato libero sfogo al confronto in sede locale sulla falsa premessa che sviluppare il radicamento sul territorio fosse essenziale per il partito. Ma in tal modo ha solo finito per consolidare una rete di cacicchi locali che certamente lavorano per il radicamento sul territorio, ma per quello loro e non certo per quello del partito. E così alla fine, proprio grazie al radicamento sono riusciti a paralizzare il leader. Basti pensare alla dolorosa vicenda delle candidature per le regionali. Non uno dei candidati presidenti (o, come pomposamente amano definirsi, governatori) sembra il frutto di una diretta scelta di Berlusconi, così è accaduto nel Lazio, in Veneto, in Piemonte, in Puglia, in Campania e così via.

Vi è poi il punto più spinoso. La successione nella leadership. Berlusconi non ama parlarne. Forse per scaramanzia perché teme che anticipare la questione possa avvicinare il momento in cui dovrà passare la mano. Ma noi crediamo che l’unica cosa che porta male sia proprio la superstizione. E crediamo che se la successione alla leadership di un partito normale è già un grosso problema quella alla leadership di un partito carismatico lo sia molto di più. Ancora una volta, per eccesso di democrazia, Berlusconi ha scelto di trattare equamente tutti gli aspiranti sucessori evitando accuratamente di dare l’impressione di aver scelto il proprio delfino. Ma questa scelta non è pagante perché finisce per esasperare le tensioni interne con una guerra di posizione permanente fra quanti hanno (o semplicemente ritengono di avere) delle chance per la successione.

Un’ultima notazione su Gianfranco Fini il quale, per agevolare la situazione, ieri ha plasticamente dichiarato “questo PdL” non mi piace. L’obiezione che verrebbe spontaneo avanzare al Presidente della Camera è che in realtà i partiti non sono fatti per piacere ma per rispondere all’esigenza di aggregare e veicolare i valori, le idee e gli interessi di quanti vi si riconoscano. E che l’adesione ad un partito politico è sempre un fatto empirico ed approssimativo. Se per aderire ad un partito pretendessi di trovarne uno a mia immagine e somiglianza, probabilmente formerei un nuovo partito, con un solo iscritto: me stesso.

Ma l’obiezione vera è un’altra. Premesso che oltre che a Fini l’attuale PdL piace poco anche a noi, cosa ha fatto Fini per migliorarlo in questi due anni? Oltre alle estemporanee uscite su matrimoni gay, cittadinanza breve, difesa del parlamentarismo dalla protervia dell’Esecutivo ed altri simili amenità, luoghi comuni della cultura democraticista del Paese, quale contributo ritiene di aver fornito per agevolare ed accelerare la costruzione di un nuovo soggetto politico?

L’impressione è che Fini, in tacito accordo con Galli della Loggia, ritiene che il PdL abbia fallito e che quindi sia per lui preferibile curare la sua immagine ed il suo posizionamento in modo da non farsi coinvolgere dal fallimento e farsi trovare pronto quando si tratterà di costruire un nuovo partito. Il quale però, viste le premesse, a occhio e croce sarà sicuramente peggio di quello attuale. (l'Occidentale)