mercoledì 30 novembre 2011

Ccà nisciuno è fesso.... Brown's Version

Quando il tasso di interesse sui titoli pubblici italiani e lo spread con i Bund tedeschi saliva, Finlandia e Austria erano tra i paesi contrari a che la Banca Centrale Europea (BCE) comprasse titoli di stato. Ma ora che i titoli pubblici di Austria e Finlandia sono nella stessa situazione, i loro governi chiedono che la BCE compri titoli di stato.

Quando il governo italiano chiedeva che la BCE comprasse titoli di stato per stabilizzare la situazione la Germania si opponeva. Ma quando i Bund tedeschi sono rimasti invenduti la Bundesbank su richiesta del governo tedesco ha comprato 2,4 miliardi di Bund, il 40% dei titoli rimasti invenduti nell’asta di novembre.

Prendere nota per quando certa stampa anti-italiana ripete che altri paesi europei sono sempre più onesti e rigorosi dell’Italia quanto a politica economica e monetaria. Ccà nisciuno è fesso. (l'Occidentale)

martedì 29 novembre 2011

La mamma dei cretini e quella dei banchieri. Il Padano

Un noto detto popolare dice che la mamma dei cretini è sempre incinta. Ne ho avuto l’ennesima conferma seguendo su La7 la trasmissione di Myrta Merlino L’aria che tira.

Il benemerito programma (che si occupa di economia quotidiana) la settimana scorsa ha dedicato una sua puntata alla vexata quaestio dell’eccessivo uso – da parte degli italiani – del denaro contante, cosa che sarebbe – si badi bene – la causa della enorme economia in nero nel nostro Paese.

Ospiti delle trasmissione – tra gli altri – gli “esperti e qualificati” Bruno Tabacci (quello con la doppia poltrona di parlamentare romano e assessore milanese, e – ovviamente – con doppi “benefit”…) e Vincenzo Visco (quello contro i condoni edilizi berlusconiani e che – ovviamente – si è condonato la villa al mare…). Insomma, due personcine coerenti e credibili…

La trasmissione è apparsa – sin da subito – tutta impostata con un taglio decisamente colpevolista contro l’uso del contante considerato inopportuno, criminogeno, banditesco, quasi fosse “lo sterco del diavolo”!

Se in Italia c’è un consistente “giro di nero” ciò è dovuto – questa la strampalata tesi dei due “super-esperti” – al troppo contante in tasca agli italiani e non invece (come sin troppo ovvio) alla insostenibile pressione fiscale!

Cioè gli obnubilati e saccenti Visco e Tabacci hanno confuso la causa con l’effetto…

In economia infatti è noto (“Curva di Laffer” e successive interpretazioni) che, in presenza di una eccessiva pressione fiscale, procedendo ad una significativa riduzione della medesima si ottiene come risultato l’emersione di molta economia “irregolare” (cioè l’emersione di nuovo imponibile) con conseguente maggior gettito per le casse statali.

Al contrario il demente sistema fiscale italiano continua pervicacemente a vessare i suoi contribuenti super-tassandoli (e questa è la causa), costringendoli – di fatto – all’autodifesa fiscale che passa anche attraverso “il sommerso” e “l’irregolare” strettamente legati all’uso del contante (e questo è l’effetto). Tutto molto banale.

Ma questa semplice evidenza il comunista Visco e il democristiano Tabacci non possono proprio comprenderla appartenendo entrambi alla stessa famigerata parrocchietta del… “tassa, ritassa & tartassa”!

Nel corso della sconcertante trasmissione i due “super-esperti” si sono pure dilettati – bontà loro – a dare qualche consiglio al governo Monti per ottenere una drastica riduzione del contante circolante in Italia onde consentire la tracciabilità di tutti i pagamenti.

Visco – con la sua ben nota e insopportabile tossetta nervosa – ha sentenziato (testuale): “Per prestazioni professionali pagamenti in contanti solo fino a 100 Euro, per tutte le altre spese (taxi, bar, ristoranti, negozi etc.) obbligo di pagamento elettronico, cioè abolizione totale del contante e obbligo per tutti gli esercenti di dotarsi di apparecchi Pos o simili”.

Bingo! Avete capito bene: “abolizione totale del contante per l’acquisto di beni e servizi”, così ha detto!

Bene, applichiamo subito la demenziale “ricetta Visco”: chiudiamo tutti gli sportelli Bancomat e mettiamo l’uso del contante fuorilegge che così di certo aiuteremo la nostra traballante economia a risollevarsi!

Un delirio! Un delirio! E questo tanghero con le pigne in testa è pure professore ordinario alla Sapienza (con stipendio pagato da noi!). Tralascio ogni ulteriore commento…

Ma se effettivamente – come pare – il governo Monti fosse intenzionato a rivedere la normativa sui pagamenti elettronici (abbassando magari la soglia a soli 250/300 Euro) ci sarebbero un paio di “piccoli” problemini da risolvere…

Primo problema: l’uso massiccio ed estensivo della moneta elettronica porterebbe a ulteriori, spaventosi problemi di tutela della privacy (da noi già per nulla protetta) poiché buona parte della nostra vita quotidiana potrebbe essere tracciata e spiata seguendo tutti i nostri pagamenti elettronici. Avremmo cioè un Grande Fratello onnisciente degno di George Orwell: la Gdf, la Magistratura, l’Agenzia delle Entrate, Equitalia & guardoni vari che si farebbero gli affari nostri H24… Un incubo!

Secondo problema: chi sopporterebbe i costi di tale uso massiccio della moneta elettronica, cioè – tradotto – chi verrebbe “inchiappettato” e chi ci guadagnerebbe?

Tutti sappiamo che la moneta elettronica è collegata ai circuiti bancari e ai depositi. Già le banche guadagnano in modo immondo sui nostri movimenti di conto, mi chiedo cosa succederebbe se l’uso dei pagamenti elettronici (con soglia così bassa) fosse imposto per legge a tutta la popolazione italiana (mia nonna di 91 anni compresa…).

Circa il 20% delle famiglie italiane non ha un conto corrente, cosa vorrebbero fare Visco, Monti & Tabacci? Forse imporglielo per legge? Imporre per legge a mia nonna di 91 anni di avere il Bancomat o la Carta prepagata? Follia!

Infine, questa assurda idea di demonizzare l’uso del contante per favorire la moneta elettronica porterebbe nel governo Monti anche ad un macroscopico conflitto di interessi considerato che c’è un tal ministro di nome Corrado Passera, individuo dotato di ricco portafoglio a fisarmonica imbottito di stock options e azioni bancarie…

E pure altri ministri, viceministri e sottosegretari notoriamente sono “lingua-in-bocca”con l’ABI…

Ci potremmo cioè trovare nella grottesca situazione di avere questo governo tecnico (eletto da nessuno e pieno zeppo di compagni di merende dei banchieri) che – guarda il caso – ti sforna all’istante (col pretesto della tracciabilità dei pagamenti) un bel provvedimento anti-contante schifosamente favorevole agli affaracci immondi delle banche!

Magnifico! Proprio un bel biglietto da visita per Monti & sodali, non c’è che dire…

Evviva la tecnocrazia, evviva il conflitto di interessi permanente! (the FrontPage)

lunedì 28 novembre 2011

Il New Yorker, la crisi italiana e il Super Mario sbagliato. Christian Rocca

Il New Yorker pubblica oggi un bell’articolo sulla crisi finanziaria della zona Euro, spiegando per bene che l’Italia non ha un problema di solvibilità, ok non cresce, ma anzi è uno dei pochissimi paesi del mondo occidentale con un surplus primario, cioè è uno dei rari paesi che incassa più di quanto spende esclusi gli interessi sul debito. Due settimane fa, quando qualcuno provava a far notare questo fatto veniva definito come una via di mezzo tra un negazionista dell’Olocausto e il cugino di Cicchitto. C’è solo un modo per fermare la crisi europea, scrive il New Yorker: la BCE deve fare da prestatore di ultima istanza. Ma, aggiunge la rivista americana, i tedeschi e Mario Draghi non vogliono. Sono loro che stanno affossando la moneta unica, non i governi politici italiani.

Nei giorni scorsi mi sono chiesto più volte come mai nessun giornale abbia acceso i riflettori su Mario Draghi, il banchiere centrale che può fermare questa crisi. Ora ho la risposta: la campagna giornalistica pro BCE prestatore di ultima istanza non si può fare perché svelerebbe l’imbroglio di queste ultime settimane. Agli italiani è stata raccontata una balla, una gigantesca balla dettata da motivazioni altre, secondo cui Berlusconi era la causa di tutti i disastri (diciamo oltre le sue molteplici responsabilità) e che le sue dimissioni seguite da un governo d’emergenza tecnico avrebbero risolto il problema. Ovviamente non hanno risolto nulla, perché non era quello il punto. La crisi è europea, è della Bce, come ormai riconoscono tutti purché fuori Chiasso. Ma da noi si è scelto di anteporre gli interessi di bottega, cioè fare fuori Berlusconi con una manovretta di Palazzo, invece che affrontare sul serio la questione che rischia di farci davvero male.
Berlusconi non era chiaramente più in grado di governare e di rappresentare il paese in Europa, ma aver approfittato della crisi dell’Euro per farlo fuori senza un passaggio elettorale ha sviato il paese dall’unica soluzione possibile alla crisi. Una soluzione che non era Berlusconi o Mario Monti, ma Mario Draghi. Lo sviamento continua ancora oggi, perché altrimenti si dovrebbe ammettere – almeno chi l’ha sostenuto in buona fede – che il problema non era il governo politico del paese, un governo che anzi produceva un avanzo primario, ma altro. Continuare a non affrontare il vero tema, come ci indicano i giornali di tutto il mondo e i principali economisti, dimostra come il nostro default sia più che altro intellettuale.

«Indeed, (Italy) it’s one of only a small handful of countries in the developed world that are running a so-called primary surplus: that is, if you exclude interest payments on its debt, it actually takes in more in tax revenue than it spends».(Dal New Yorker)
(Camillo blog)

venerdì 25 novembre 2011

Risposta sbagliata. Davide Giacalone

Non ci siamo. Il vertice di ieri può essere letto in due modi: per quel che non è stato comunicato, e lì ciascuno può fantasticare come gli pare, o per ciò che è stato detto, e qui sono dolori, perché abbiamo a che fare con il vuoto d’idee e azioni. I mercati lo hanno visto, ben conoscendo la partita reale, hanno capito che qui signori non hanno capito.

Merkel e Sarkozy hanno detto che sosterranno Monti, il che è stilisticamente orrendo, ma la cosa grave è quel che si nasconde dietro un’affermazione così priva di rispetto per la sovranità italiana: dimostrano di non avere colto quel che sta capitando. Non dobbiamo preoccuparci solo noi, ma i cittadini e le classi dirigenti di Francia e Germania, oltre che dell’intera Unione monetaria.

La Francia deve essere sostenuta, altro che sostenere gli altri. La Germania deve essere trattenuta, dal credere che esista un destino teutonico che può passare sopra le rovine nell’Unione europea e della moneta unica. Ieri a Strasburgo, invece, ha preso corpo l’Europa che vive illudendosi che possa funzionare l’“asse”, l’accordo fra due stati che subordina tutti gli altri. A parte le tragedie, anche in tempo di pace l’asse ha funzionato male, mentre l’Europa ha fatto passi in avanti quando ha adottato sistemi federativi e comunitari, nel prendere le decisioni. Merkel e Sarkozy, con i loro rispettivi egoismi nazionali ed elettorali, sono un problema, non la soluzione.

I mercati vivono il problema europeo in modo schematico ed efficace: a. se uno Stato aderente all’euro è insolvente ne deriva che le banche che hanno investito in titoli del suo debito si avviano al fallimento; b. se le banche s’avviano al fallimento è evidente che non potranno sostenere i debiti pubblici (il contrario di quanto stabilito a Basilea, ove si consideravano quegli investimenti privi di rischio, quindi equiparabili a denaro contante); se le banche non possono sostenere il debito pubblico e lo Stato è insolvente ne discende che l’euro sta per saltare in aria. Quindi via tutti. Alla prudenza s’associa la soddisfazione di veder strisciare la prosopopea degli europei, il loro pretendere d’essere valuta di riferimento globale.

Sarkozy è un presuntuoso che sta cercando di salvare la poltrona, ben consapevole che l’umiliazione della Francia equivale al suo sfratto, quindi gioca a fare il gradasso, l’amico del potente, scaricando le colpe su altri. Noi. Merkel ancora crede che si possano salvare le banche senza chiudere la voragine di una terrificante illogicità: 1. una moneta unica; 2. che federa debiti sovrani diversi; 3. venduti a tassi d’interesse diversi; 4. e non sostenuta da una vera banca centrale. Aiutare l’Italia, in queste condizioni, non serve a nulla e a nessuno. Serve solo a perdere tempo, mentre sulle cose che contano, ovvero sulla federalizzazione della politica fiscale, si continua a rimandare. Monti l’ha reclamata, ma la Merkel ne ha nuovamente escluso uno degli strumenti: gli eurobond. I mercati sentono puzza di morto e s’affrettano al funerale.

Fuori dalle dichiarazioni ufficiali gira la voce che il governo tedesco avrebbe dato il via libera ad una soluzione di questo tipo: va bene autorizzare un quantitative easing, ma sia la Bce a farlo “autonomamente”. La prima cosa è corretta, ma la seconda la depotenzia e rende sterile. Se la Bce continua a comprare titoli dei debiti sovrani, senza che il vertice politico abbia comunicato al globo che la festa della speculazione è finita e che i pertugi dove s’è infilata saranno tappati, otterrà il solo risultato d’infettarsi a sua volta, nel mentre i titoli del debito pubblico tedesco non li compra nessuno, anche perché rendono troppo poco rispetto al rischio che portano in pancia: essere espressi in una valuta immaginaria. Se aumenta la base monetaria senza politiche federali del debito lenisce il dolore, ma non riduce la frattura. A questo s’aggiunga che le nostre sono democrazie, e la furbata di nascondere le decisioni dietro l’autonomia altrui finisce con il produrre guasti considerevoli.

Se il vertice di ieri è l’antipasto del Consiglio europeo del prossimo 8 dicembre allora preparatevi al rigurgito dei mercati, che sarà doloroso. Una parola sulle cose nostre: fare i compiti a casa è cosa buona e giusta, ed è vero che avremmo dovuto già fare quelli del debito e della produttività. Ma oggi non è chiaro quale sarebbe la materia da compitare. Se fosse l’aiutino alle banche francesi la diligenza sarebbe esecranda.

Si avvicina il Btp-day, ma di cosa si tratta? Daniel Settembre

Era il 4 novembre quando l’imprenditore pistoiese Giuliano Melani, responsabile di una società di leasing, acquistò una pagina pubblicitaria intera del Corriere della Sera per un appello all’Italia: “ricompriamoci il nostro debito”.
In soldoni diceva l’imprenditore: “ogni anno ci viene chiesto di sottoscrivere il debito per circa 270 miliardi(circa 4.500 euro a persona). Lo so che le medie ci fanno fessi, ma state sicuri che molte persone dispongono di queste cifre. Compriamoli al tasso di rendimento più basso possibile, anche a tasso zero”.

Il sasso è stato lanciato e l’inziativa è piaciuta.

Tanto che Via Solferino in primis ha chiesto agli istituti di credito di rinunciare per un giorno alle commissioni applicate alla clientela privata che acquisti carta italiana.

Molte sono state le adesioni delle principali banche del Paese: da Unicredit a Intesa Sanpaolo, da Mps al gruppo Ubi Banca, da Bnl a Banca Sella. Tanto che l’Abi, l’associazione bancaria italiana ha indetto la giornata Btp-day per il 28 novembre per poi raddoppiare l’appuntamento il 12 dicembre.

Ultima ad aggiungersi Borsa Italiana che non applicherà alle banche e agli intermediari partecipanti all´iniziativa alcuna fee di negoziazione relativamente alle operazioni di acquisto dei titoli di stato italiani in "conto terzi" effettuate sul MOT.

“Riteniamo importante dare il nostro contributo alla riuscita di questa iniziativa congiunta che ha l´obiettivo di sostenere e rafforzare la fiducia degli investitori privati in una fase delicata per la nostra economia - commenta Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana - Il Btp Day rappresenta un chiaro esempio di azione coordinata il cui successo non potrà che essere a beneficio di tutti”.

Ma di cosa si tratta nel dettaglio?

Il 28 novembre l’evento si riferirà al mercato secondario, ai titoli già in circolaazione, come i Buoni Ordinari del Tesoro (BOT), i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP), i Certificati del Tesoro Zero Coupon (CTZ), i Certificati di Credito del Tesoro (Cct / Ccteu) e i Buoni del Tesoro Poliennali indicizzati all'Inflazione Europea (BTP), e potranno beneficiarne famiglie, imprenditori e imprese, escludendo solo investitori istituzionali.

Sui mercati (come per esempio il Mot di Borsa Italiana, il TLX o l'Hi-MTF) o fuori da tali mercati non verranno applicate le commissioni di negoziazione, o compravendita dovute alla banca. Per chi ha già un deposito titoli presso la propria banca, non sono previste altre spese. Se, invece, un cliente non ha mai operato in titoli dovrà aprire un deposito titoli. A non rientrare nell’iniziativa, e rimarranno quindi sulle spalle del cittadno, le spese e gli oneri, anche di natura fiscale, connessi con il deposito titoli .

Per il secondo giorno, il 12 dicembre, si potrà partecipare all’acquisto, prenotandoli, i titoli di nuova emissione nell’asta con scadenza il 14 dicembre 2012 che il Tesoro ha in agenda proprio per quel giorno. Le commissioni che il cliente non pagherà in virtù del Btp-day sono quelle previste dal Decreto ministeriale del 12 febbraio 2004, in base al quale la misura massima applicabile per il tipo di titoli che andranno all' asta è pari a 0,30 euro ogni 100 euro di capitale sottoscritto.

Quanto sarà il risparmio?

A spiegarcelo una simulazione di Uncredit, secondo la quale acquistando, durante i primo Btp-day, 2.000 euro di Btp a 10 anni (scadenza gennaio 2021), che costano 86,50, il risparmio di lunedì sarà di 15,65.

Per importi maggiori, sui 20.000 euro, il risparmio sarà di circa 105 euro di commissioni.

Da non dimenticare, infine, che per chi non possiede alcun titolo di Stato, è obbligatorio aprire un conto deposito in banca: il costo annuale per i diritti di custodia sarà intorno a 20 euro, più l’imposta di bollo sulle comunicazioni periodiche fino ai 50.000 euro è di 34,20 euro. (Soldi-web)

martedì 22 novembre 2011

Poteri forti, non occulti. Giampaolo Rossi

Ma insomma, questi benedetti «poteri forti» esistono o no? E sono poi così forti? La politica è quella che traspare dalle dichiarazioni dei leader di partito o nei dibattiti, o risponde a dinamiche più complesse e invisibili che ne condizionano il corso? Prima sgombriamo il campo dal tentativo di ridicolizzare la questione dei «poteri forti», facendo credere che chi la pone sia un nostalgico dei Protocolli dei Savi di Sion o un fan di Dan Brown. Se per «poteri forti» s'intendono centri occulti di ombre silenziose che tessono la ragnatela di conquista del mondo, tra logge massoniche di ogni grado e grembiule, o confraternite esoteriche di culti paranoici, allora siamo d'accordo: i poteri forti non esistono. Ovvio però che qualche riserva rimane comunque, a meno che non vogliamo credere che 130 signori tra i più potenti del mondo finanziario, economico e politico, ogni anno si riuniscono segretamente nel Gruppo Bilderberg per parlare di vacanze a Cortina o per un semplice seminario di studi di economia politica.

Ma allora cosa sono i «poteri forti»? Sono quegli ambiti di potere autonomo che nella complessità di una società moderna si sostituiscono alla politica, sfruttandone le fasi di debolezza, condizionando la vita democratica senza avere alcuna legittimazione per farlo. E la forza dei «poteri forti» è tanto maggiore quanto è debole quella della politica. Il potere è come uno spazio fisico, che non contempla l'idea del vuoto. Perché il vuoto è la sua negazione. Questo spazio va riempito con ciò che si chiama "decisione", ovvero ciò che consente al potere di svolgere la sua funzione e rispondere alla sua ragion d'essere. La democrazia rappresentativa è stata la forma di governo moderna che meglio ha saputo conciliare la legittimazione del potere con l'idea di consenso, garantendo alle nazioni che l'hanno adottata la possibilità di coniugare libertà individuali, diritti collettivi e benessere economico. Questo è stato possibile perché alla base della democrazia rappresentativa, e solo di essa, risiede la sovranità del popolo e il suo diritto a scegliere da chi farsi governare: è questo principio che fonda la supremazia della politica sull'economia e su qualsiasi altro settore della società.

I «poteri forti» non sono poteri occulti ma manifesti, spesso costituzionalmente garantiti, la cui azione però travalica le proprie funzioni e sconfina nello spazio politico alterando le regole del gioco. Per esempio, nel Cile di Allende e di Pinochet, l'esercito era o no un «potere forte»? Certo che sì. E il suo operato ha travalicato o no la sovranità popolare? Beh, direi proprio di si. Facciamo un altro esempio che ci riguarda da vicino: in questi ultimi 20 anni, in Italia, la magistratura è stata o no un "potere forte" in grado di condizionare la vita democratica? Certo che sì. Il famoso avviso di garanzia a mezzo stampa che costrinse Berlusconi a dimettersi nel '94, così come il circuito mediatico-giudiziario costruito in questi anni per condizionare l'azione della politica, rappresentano un superamento dei limiti costituzionali consentiti. I "poteri forti" non agiscono mai da soli, ma si devono appoggiare a figure istituzionali che ne avallino l'operato e ne diano parvenza di legittimità. Nel Cile di Pinochet fu la maggioranza del Parlamento, nell'Italia del 1992 e in quella del 2011, l'avallo di un Presidente della Repubblica.

In Europa, che non è uno Stato ma una moneta, i poteri forti sono ovviamente quelli finanziari. Come ci racconta tutta la stampa europea, sono stati loro, rappresentati da Bce, Fmi e gerarchia Ue, ad aver sancito la fine dei governi democraticamente eletti in Grecia e Italia. Quando i poteri forti intervengono, la democrazia viene sospesa. E comunque, se i poteri forti non esistono, ecco una proposta: per ogni banchiere che fa il ministro senza passare per il voto popolare, mettiamo un non-banchiere a capo di una banca, senza passare per il CdA. Se dobbiamo rimescolare le carte facciamolo bene. Se la politica fatta dai banchieri diventa più pulita, magari la finanza, non più in mano a questi geni dell'economia che hanno giocato con l'euro, cessa di essere il mare di squali che ha generato la crisi che noi stiamo pagando.(Notapolitica)

venerdì 18 novembre 2011

Ricco imbecille. Davide Giacalone

Angela Merkel ha detto, rivolgendosi a Mario Monti: “l’eurozona conta su di lei”. E fa male. Non perché Monti non meriti fiducia, che, anzi, proprio in queste ore la ottiene: ottima e abbondante. Ma perché il governo italiano ha già agito meglio degli altri europei, portando il bilancio pubblico in avanzo primario. Ci viene rimproverata una crescita troppo bassa, il che è musica per le orecchie di chi, come noi, ripete da anni la tiritera delle riforme, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, ma evitiamo di prenderci in giro: se si somma alla crescita del pil italiano il differenziale di deficit pubblico primario, ad esempio con la Francia, i livelli si pareggiano. Anzi, sono a nostro vantaggio. Ecco perché la signora Merkel fa malissimo a contare su Monti, giacché il problema non è il governo italiano, ma quello tedesco.

Alziamo lo sguardo sull’orizzonte, o, almeno, un po’ oltre le nostre vicende interne. Quel che vedo è che l’estate scorsa il presidente statunitense è stato massacrato da un congresso che si rifiutava di elevare il tetto al debito pubblico, spingendo il bilancio federale verso la bancarotta. Fu un dibattito lungo e umiliante, che mostrava il lato nascosto di una debolezza istituzionale. In capo alla più grande potenza economica e militare del mondo. Cosa è rimasto di quelle difficili settimane? Nulla. Anzi, gli Usa possono autorevolmente indicare agli europei qual è la via giusta per uscire dalla crisi dei debiti, vale a dire quella che hanno seguito loro: immettere valanghe di moneta sui mercati.

Rivolgiamoci all’altra parte del globo: la Cina vide di buon occhio la nascita dell’euro, è pronta a sostenerlo ed ha in portafoglio molti titoli dei debiti pubblici dell’eurozona. I nostri meno di quelli altrui, il che ci dispiace. Tale atteggiamento non è frutto di benevolenza, ma di convenienza: nel momento in cui la Cina esce dai sui confini e dalla miseria, divenendo protagonista sui mercati globali, gradisce che la valuta di riferimento non sia una sola, per giunta amministrata da chi ha interessi geostrategici potenzialmente non collimanti con i propri. L’euro era una buona alternativa.

Guardate un po’ più in basso, nel globo, dove trovate l’Australia: gode di un giudizio tripla A, circa l’affidabilità del proprio debito pubblico; offre tassi d’interesse convenienti; ora gli statunitensi hanno deciso di spedire colà 2.500 marines. Ciò non fa un gran piacere ai cinesi, ma è assai indicativo per gli investitori, mettendo in evidenza una buona occasione, non quotata né in dollari né in euro.

Allora, se ci si guarda in giro cosa si vede? Che l’euro come valuta di riferimento internazionale sta affondando. Se il Fondo monetario internazionale dovesse intervenire a sostegno di uno dei paesi dell’eurozona sarebbe il de profundis. Questa è una partita globale, nella quale l’Europa fa la parte del ricco imbecille. La colpa di ciò ricade prima di tutto su tedeschi e francesi, sulla premiata ditta Sarkel, che ha distrutto un lavoro iniziato dopo la seconda guerra mondiale. I mercati stanno spiegando ai francesi quel che noi scriviamo da mesi: partirà l’attacco contro di loro e, a quel punto, non avendo reagito prima e avendo cercato di fregare gli altri, resteranno senza difese. In quanto ai tedeschi, sarà difficile, un giorno, spiegare ai loro giovani che la grande Germania s’è giocata il ruolo europeo per cercare di far vincere alla Merkel almeno un’elezione provinciale. Senza neanche riuscirci.

Un tempo si diceva del “gigante dai piedi d’argilla”, ma l’Europa d’oggi è un obeso decerebrato. Dopo di che, per carità, discutiamo anche del governo italiano e mandiamo in onda l’orrido spettacolo di cancellerie che festeggiano e mercati che se ne fregano. Noi italiani abbiamo solo che da guadagnarne, ha ragione Francesco Profumo a ricordare che la crisi è una meravigliosa occasione per uscire dall’immobilismo inconcludente. Ma se qualcuno crede che tassando gli italiani, e dando i loro soldi alle banche francesi e tedesche, in modo che ci rivendano i titoli del debito pubblico, si arrivi da qualche parte, ebbene, non si tratta di un illuso, ma di un colluso.

giovedì 17 novembre 2011

17 novembre 2011. Andrea's Version

Potrebbe cadere da un’impalcatura, venir travolto da una banda di ubriachi, o perfino vedere l’onorevole Scajola che firma in piena consapevolezza un atto notarile, e il professor Monti manterebbe sempre quell’espressione da cocker che aveva anche ieri mentre leggeva la lista dei ministri. Ora, chiariamo una cosa. Il fatto di avversarne il governo per i noti motivi, non significa affatto che ci auguriamo una sua caduta per via dell’aspetto, anche se sembra quello di chi si prepara a rilevare da un momento all’altro la ditta di pompe funebri più onorata della città. Al contrario ci auguriamo che, dovunque vada, la sua competenza indiscussa e la padronanza delle lingue, unite al fascino composto che la sua figura sprigiona, facciano sempre fare all’Italia un’eccellente figura. Dopo quello che abbiamo passato, va bene così. L’importante sarà che i partner europei, quando lui, vestito di scuro, li incontrerà per spiegare loro il ciclo virtuoso già innescato nel suo paese, non cadano nel tragico errore di cremarlo prima che possa parlare. © - FOGLIO QUOTIDIANO

mercoledì 16 novembre 2011

La faccia come lo spread. Christian Rocca

Fa molto ridere la doppia paginata di oggi di Repubblica, molto in là nella foliazione, che interpella economisti, professori, Nobel per l'Economia su come affrontare e risolvere la crisi dei debiti sovrani, a cominciare da quello italiano. Ebbene, Krugman, Stiglitz, Roubini e molti altri esperti dicono quello che il solitario Giuliano Ferrara ripete ossessivamente da settimane e che Repubblica ha sempre negato: Mr. Spread si ferma solo se la Banca Centrale Europea fa il suo mestiere di banca centrale, ovvero di prestatore di ultima istanza. Il resto era propaganda. (Camillo blog)

Grazie Presidente Berlusconi

Chi volesse sottoscrivere un ringraziamento al Presidente Berusconi, può collegarsi al sito http://www.grazieberlusconi.eu/ e lasciare le proprie generalità.

martedì 15 novembre 2011

Presidente Berlusconi, per il bene dell'Italia, NON SI DIMETTA

Presidente, perdoni l'approccio informale. Sono il giornalista e autore Paolo Barnard, lavoro da due anni con il gruppo di macroeconomisti del Levy Institute Bard College di New York sulla crisi dell'Eurozona. Siamo guidati dal Prof. L. Randall Wray dell’Università del Missouri Kansas City, che coordina altri 10 colleghi inglesi e australiani.
Presidente, è incomprensibile che Lei non scelga di salvare la nazione, e il Suo governo, rendendo pubblico che:

a) l'Euro fu disegnato precisamente per affossare gli Stati del sud Europa, fra cui l’Italia.

b) esistono responsabili italiani ed europei di questo "colpo di Stato finanziario di proporzioni storiche". (una definizione del tutto ragionata offerta dell'economista americano Michael Hudson)

Presidente, dalle pagine del Financial Times, del Wall Street Journal e persino del New York Times, da mesi economisti del calibro di Martin Wolf, Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Nouriel Roubini, Marshall Auerback, Le stanno suggerendo la via d'uscita. A Parigi, l’eccellente Prof. Alain Parguez dell’Università di Besancon ne ha trattato esaustivamente. Wray e i suoi colleghi Mosler, Tcherneva e Hudson pure. Nel dettaglio, essi hanno scritto che:

L'Italia è stata condannata a un’aggressione senza precedenti da parte dei mercati dall'operato dei governi di centrosinistra che La hanno preceduta, poiché essi hanno portato il nostro Paese nel catastrofico costrutto dell'Eurozona. Le famiglie italiane e il Suo governo non devono pagare per colpe non loro. Lei deve dire alla nazione ciò che sta veramente accadendo, e chi ci ha condotti a questo dramma.

L'Euro fu pensato nel 1943 dal francese Francois Perroux con il dichiarato intento di "Togliere agli Stati la loro ragion d'essere". La moneta unica è infatti un progetto franco-germanico da quasi mezzo secolo (Attali, Delors, Issing, Weigel et al.), col fine di congelare le svalutazioni competitive d'Italia e Spagna, e col fine di deprimere i redditi del sud Europa per delocalizzare in esso manodopera industriale per l'esclusivo vantaggio del Neomercantilismo franco-tedesco.

Specificamente, la moneta unica:

- Esclude un prestatore di ultima istanza sul modello Federal Reserve USA, proprio per portare la sfiducia dei mercati sui debiti dell'Eurozona.

- I debiti dell'Eurozona non sono più sovrani, poiché l'Euro è moneta che ogni Stato può solo usare, non emettere, e che ogni Stato deve prendere in prestito dai mercati di capitali privati che lo acquisiscono all'emissione. L'Euro è moneta di nessuno, non sovrana per alcuno.

- I due punti precedenti hanno distrutto il fondamentale più importante della macroeconomia di Stato, che è "Ability to pay", cioè la capacità di uno Stato di onorare sempre il proprio debito emettendo la propria moneta sovrana. L’attuale aggressività dei mercati contro il nostro Paese (ed altri) è dovuta in larghissima parte proprio alla loro consapevolezza della nostra perdita di "Ability to pay", la cui presenza è infatti l'unica rassicurazione che può calmare i mercati. Motivo per il quale il Giappone dello Yen sovrano, che registra il 200% di debito/PIL, non è da essi aggredito e ha inflazione vicina allo 0%. Motivo per cui l'Italia della Lira sovrana mai si trovò in condizioni simili al dramma attuale, nonostante parametri ben peggiori di quelli oggi presenti.

- L'Euro è moneta insostenibile, disegnata precisamente affinchél'assenza radicale di "Ability to pay" nei governi più deboli dell’Eurozona inneschi un circolo vizioso di crisi che alimenta la sfiducia dei mercati che alimenta crisi. Non se ne esce, qualsiasi correttivo non altera, né mai altererà, questo fondamentale negativo, e i mercati infatti non si placano.

- Le estreme misure di austerità per la riduzione del deficit di bilancio che vengono oggi imposte al Suo governo, sono distruttive per la Aggregate Demand di cui qualsiasi economia necessita per crescere. Sono cioè il farmaco che causa la malattia, invece di curarla. Anche questo non accade per un caso.

- Tali misure ci vengono imposte proprio perché il nostro debito pubblico non è più sovrano, a causa dell'adozione di una moneta non sovrana. Infatti, ogni spazio di manovra del Suo governo al fine di stimolare crescita e riduzione del debito attraverso scelte di spesa sovrana (fiscal policy), è stato annullato dall'adozione della moneta unica, che, ribadisco, l'Italia non può emettere come invece fanno USA o Giappone. Si tratta di una perdita di sovranità governativa senza precedenti nella storia repubblicana, e di cui le misure imposte dalla Commissione UE come il European Semester e l'Europact sono l'espressione più estreme, ma di cui noi cittadini e Lei paghiamo le estreme conseguenze.

- L'Euro e i Trattati europei che l’hanno introdotto, sbandierati a salvezza nazionale dal centrosinistra, stanno, per i motivi sopraccitati, umiliando l'Italia, nazione che ha uno dei risparmi privati migliori del mondo, 9.000 miliardi in ricchezza privata, una capacità industriale invidiata dai G20, banche assai più sane della media occidentale, e parametri di deficit che sono inferiori ad altri Stati dell'Eurozona. Lei, Presidente, sarà il capro espiatorio, noi italiani ne soffriremo conseguenze devastanti per generazioni.

Presidente, Lei deve e può denunciare pubblicamente la realtà di questa moneta disegnata per fallire. Lei può e deve smascherare le responsabilità del centrosinistra italiano e dei governi 'tecnici' in queste scelte sovranazionali catastrofiche.

Presidente, il team di macroeconomisti accademici del Levy Institute Bard College di New York e dell'Università del Missouri Kansas City, sono coloro che hanno strutturato il piano Jefes che ha portato l'Argentina dal default al divenire una delle economie più in crescita del mondo di oggi. Essi sono a Sua disposizione per definire sia la strategia comunicativa che quella economica per salvare l'Italia, e il Suo governo, da un destino tragico e che non meritiamo.

In ultimo una precisazione di ordine morale.

Presidente, io non sono un Suo elettore, e avrei cose dure da dire sul segno che la Sua entrata in politica ha lasciato in Italia. Ma non sono un cieco fanatico vittima della cultura dell’odio irrazionale che ha posseduto gli elettori dell’opposizione in questo Paese, guidati da falsari ideologici disprezzabili, come Eugenio Scalfari, Paolo Flores d’Arcais, Paolo Savona, e i loro scherani mediatici come Michele Santoro, Marco Travaglio e codazzo al seguito. Perciò come prima cosa mi ripugna che Lei sia bollato come il responsabile di colpe che Lei non ha, e che sono tutte a carico del centrosinistra italiano. Incolpare un innocente, per quanto criticabile egli sia, è sempre inaccettabile. Ma soprattutto, Presidente, se l’Italia verrà consegnata dal golpe finanziario in atto contro di noi, e da elettori sconsiderati e ignoranti, nelle mani del Partito Democratico, per noi sarà la fine. Sarà l’entrata trionfale a Roma dei carnefici del Neoliberismo più impietoso, sarà la calata dellaShock Therapy su un popolo ignaro, cioè il saccheggio del bene comune più scientificamente organizzato di ogni tempo, quello che nell’Est europeo ha già mietuto più di 40 milioni di vite in due decadi, senza contare le sofferenze sociali inenarrabili che porta con sé.

I volti di Mario Monti, di Massimo D’Alema, di Mario Draghi, di Romano Prodi, dell’infimo Bersani, sono le maschere funebri di questa nazione, veri criminali e falsari di portata storica. Il cerimoniere complice si chiama Giorgio Napolitano.

Mi appello a Lei Presidente perché mi rendo conto che i miei connazionali non hanno la più pallida idea di ciò che il centrosinistra italiano ha già inflitto al nostro Paese, di ciò che gli infliggerebbe se salisse al governo, ma soprattutto di chi li guida dietro le quinte. Le eminenze grigie sono le elite Neoclassiche, Neomercantili e Neoliberiste, gente senza nessuna pietà.

Resista Presidente, affinché Lei possa usare il tempo che Le rimane per smascherare il “colpo di Stato finanziario” che sta travolgendo, fra gli altri, la nostra Italia. I mercati finanziari della “classe predatrice”, così ben descritta nella sua abiezione dall’americano James Galbraith, la odiano a morte, ci odiano a morte. Sia, Presidente, colui che piazza la mina nei cingoli della loro macchina infernale, rivelandone l’inganno chiamato Euro e Trattato di Lisbona. Gli italiani non lo faranno. Non ne sono capaci.

Fonte: Sito Web di Paolo Barnard

lunedì 14 novembre 2011

Tutta questa speculazione contro i titoli italiani è solo un grande bluff. Brown's Version

Berlusconi si è dimesso e Monti gli succede con un governo tecnico. Le dimissioni sono avvenute sotto la pressione della crisi del debito pubblico, con la speculazione all’attacco dei titoli italiani e lo spread tra i BTP e i Bund tedeschi che è passato dai 200 punti di luglio ai 600 di novembre, e gli interessi pagati sul debito italiano saliti al 7%. Perché questa improvvisa pressione speculativa contro l'Italia, se fino a metà giugno il FMI e le altre istituzioni internazionali ritenevano il Paese non a rischio?

I fondamentali dell’Italia sono buoni. Nessuna banca è fallita in Italia, a differenza della Gran Bretagna. Non c’è stata e non c’è nessuna bolla immobiliare, a differenza degli Stati Uniti. Le banche italiane non posseggono grandi somme di titoli tossici greci, a differenza di quelle francesi e tedesche che sono esposte per 350 miliardi di euro. Il deficit italiano nel 2011 è inferiore a quello francese, il debito pubblico in valore assoluto è inferiore a quello tedesco. Nel 2009 la somma del debito pubblico e del debito privato dell’Italia (337% del PIL) grazie agli altri risparmi delle famiglie era più basso di quello della Gran Bretagna (531%), della Spagna (371%) e della Francia (352%). Il PIL italiano nel 2010, nonostante la crisi mondiale, è cresciuto dell’1,5%. Ad agosto 2011 la disoccupazione italiana era al 7,9%, 2,1 punti in meno della media dei paesi aderenti all’euro che è al 10%. Sempre ad agosto 2011 la produzione industriale dell'Italia è salita del 4,3%, e il fatturato delle imprese italiane è cresciuto del 12% su base annua, trainato da un buon export. L’inflazione per tutto il 2011 è rimasta sotto il 3%.

Insomma una economia sana e solida, per quanto dannatamente frenata da bassa crescita e bassa produttività. Anche la gestione del debito pubblico da parte del governo Berlusconi è stata buona: il debito pubblico italiano tra il 2008 e il 2011 è cresciuto del 12,7%, contro il 25,6% della Gran Bretagna, il 20,3% della Spagna, il 16,9% della Germania e il 14% della Francia. Nel 2008 sono stati recuperati 11 miliardi di euro dalla lotta all’evasione fiscale, somma più che raddoppiata a 25,4 miliardi nel 2009.

Da giugno a novembre, in cinque mesi, il governo ha approvato due manovre finanziarie e la legge di stabilità che prevedono tra l’altro:

- il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2013, e l’abbassamento del debito pubblico dal 119 al 112,6% del PIL nel 2014, anche tramite l’aumento dell’IVA e altre misure per un totale da 70 miliardi di euro. Già nel 2011 si registra un avanzo primario nel bilancio dello stato, al netto cioè della spesa per interessi sul debito, dello 0,9% del PIL;

- la riforma delle pensioni, con l’equiparazione dell’età di pensionamento per le donne nel settore pubblico e privato, l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni dal 2026, il passaggio definitivo al sistema contributivo, l’aggancio dell’età pensionabile alla vita media;

- la riforma del mercato del lavoro, il famoso articolo 8 della finanziaria, che permette la contrattazione a livello aziendale necessaria alle imprese per investire, come successo dagli accordi di Pomigliano e Mirafiori tra la FIAT e tutti i sindacati tranne la CGIL;

- la riduzione delle tasse sui conti correnti, dal 27,5% al 20%, e l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, dal 12,5% al 20%, un provvedimento che aiuta i cittadini risparmiatori e pone un freno alle transazioni finanziarie;

- la dismissione di immobili e terreni pubblici.

La politica economica del governo, per quanto discutibile, c’è stata ed è andata nella direzione delle richieste dell’UE quanto a riforma delle pensioni, tagli alla spesa, dismissioni e pareggio di bilancio. Niente a che vedere dunque con il rischio default della Grecia o con la paralisi di governo. Ma allora perché tutta questa speculazione contro i titoli italiani? Si è detto per la mancanza di credibilità internazionale del governo Berlusconi. E’ vero. Ma la mancanza di credibilità non è dovuta alla mancanza di una politica economica, che nel bene o nel male c’è stata. E' dipesa piuttosto da tre fattori.

1) Gli scandali, le gaffe, e l’incapacità di Berlusconi di creare consenso nell’establishment internazionale, dalle istituzioni europee ai poteri forti che pubblicano giornali come Time o Economist (da qui le critiche continue su questi giornali, a volte fondate e a volte no).

2) La tendenza di molti italiani, inclusi giornalisti, intellettuali e analisti che fanno opinione, a parlare esageratamente male del proprio Paese all'estero, molto più di quanto fanno gli altri europei: gli inglesi all'estero non criticavano la Sterlina neanche quando in due mesi perdeva il 20% del proprio valore contro l'Euro, figurarsi poi i francesi che ancora non ammettono avere le proprie banche a rischio perchè piene di titoli tossici greci.

3) La campagna mediatica e politica condotta per anni da una parte dell’opposizione basata sullo sputtanamento continuo della vita privata del premier, violando le norme sul segreto istruttorio o sul rispetto della privacy. Se Le Monde avesse pubblicato per anni le intercettazioni delle telefonate di Sarkozy a Carla Bruni in cui il presidente parlava di sesso o faceva battute sulla Merkel, anche la credibilità internazionale di Sarkozy ne sarebbe stata danneggiata.

Ma Le Monde a differenza di Repubblica non sputtana il proprio paese pur di attaccare l’avversario politico. Molti italiani invece continuano a fare come i Comuni e i Principati italiani dal Medioevo in poi, che pur di sconfiggere la fazione avversa chiamavano in aiuto gli eserciti francesi o inglesi o tedeschi in Italia. Così negli anni scorsi c’è chi a sinistra diceva “Berlusconi non può governare perché il Financial Times dice che se ne deve andare”, come se fosse un giornale di Londra e non il popolo italiano a decidere chi debba governare l’Italia.

A loro volta francesi o inglesi o tedeschi, oggi come secoli fa, sono ben contenti che gli italiani siano divisi e li chiamino in soccorso, perché passando possono fare razzia nel nostro Paese. Certo oggi non si tratta più di portare la Monna Lisa al Louvre come fece Napoleone giusto due secoli fa, ma di comprare a prezzi di saldo industrie e banche strategiche italiane. Cosa già accaduta nel 1992-1993, quando con la crisi politica e il governo tecnico di allora furono svendute a compratori stranieri gran parte dell’industria chimica e farmaceutica italiana. Ed è per questo che anche a grossi investitori europei non dispiace che la speculazione attacchi l’Italia, che lo spread aumenti, che le azioni delle grandi imprese e banche italiane vadano giù a prezzi di saldo, e che il governo democraticamente eletto se ne vada per far posto a un ex Commissario dell’UE come Monti. Monti è un bravo tecnico e speriamo che faccia bene. Soprattutto, speriamo che Monti non faccia come i Comuni e i Principi italiani del passato, sennò il sacco economico dell’Italia sarà ben maggiore del valore della Monna Lisa. (l'Occidentale)

giovedì 10 novembre 2011

Salto dell'euro. Davide Giacalone

La teoria secondo cui sarebbe bastato che Silvio Berlusconi annunciasse le dimissioni perché lo spread con i titoli del debito pubblico tedesco si riducessero di uno o due punti, autorevolmente e insistentemente sostenuta, ha ricevuto una smentita sperimentale. Quando le teorie non resistono alla realtà è segno che sono campate per aria. E questa lo era, come abbiamo più volte avvertito. Le dimissioni sono state annunciate, opposizioni e presidenza della Camera sono corse a dire che la legge di stabilità può essere varata in due o tre giorni (allora si può?!), il Quirinale è tornato a sottolineare che i tempi devono essere velocissimi, ma i mercati hanno duramente schiaffeggiato sia la Borsa che i Buoni del tesoro.

Gli antipatizzanti del presidente del Consiglio diranno che la colpa è del fatto che non se ne è andato abbastanza, che doveva sparire come in un gioco di prestigio, che avrebbe dovuto annunciare l’intenzione d’esiliarsi, ma l’arrampicarsi sugli specchi lascia il tempo che trova, perché giornate come quella di ieri possiamo viverne ancora una o due, dopo di che il prezzo della partita diventa troppo alto. Anzi, è già troppo alto. Con quei tassi d’interesse riusciamo ancora a sostenere il debito, ma c’impoveriamo troppo e lo svantaggio competitivo, per le nostre aziende e per i nostri cittadini, diventa troppo severo, sicché povertà creerà povertà. Tutto questo lo dobbiamo, certamente, ad un debito pubblico troppo alto, ma pur sempre antico, mentre l’indebitamento delle famiglie e delle imprese italiane è di gran lunga inferiore a quello di chi oggi c’impartisce lezioni, il patrimonio pubblico pareggia il debito pubblico e quello privato lo supera di molte volte. Tutto si può sostenere, ma non che noi si sia strutturalmente sull’orlo del precipizio. Eppure ci siamo, già vediamo l’abisso e tutte le misure destinate a far cassa (che sono del genere horror, dalle maggiori tasse ai condoni) non risolveranno affatto il problema e bruceranno ricchezza.

Dentro i confini nazionali, anzi, dentro i ben più angusti confini dei giornali italiani, ci si è raccontati la favoletta che era tutta colpa del crapulone di Arcore, liberatici dal quale il mondo intero avrebbe preso a corteggiarci per il nostro grande valore e la nostra bellissima faccia. Passi che a questa storiella per bambini allocchi abbiano creduto le tifoserie antiberlusconiane e quegli stessi che la diffondevano, dimostrando il potere ipnotico dell’autosuggestione, ma è meno tollerabile che l’abbiano ripetuta, magari con qualche distinguo secondario, anche persone che avrebbero il dovere della serietà e della razionalità. Il governo è finito, la cosa è certificata, ma la musica non cambia. Anzi, peggiora.

E la ragione c’è. E’ razionale. Il mondo dotato di cervello sa che il problema da cui origina la tragedia in corso è politico, istituzionale ed europeo. Ha a che vedere non (solo) con i nostri vizi nazionali, ma (prima di tutto) con la natura stortignaccola di una moneta senza banca centrale e senza governo, che ha funzionato meravigliosamente bene quando ha tenuto bassi i tassi d’interesse, ma che cede e si sfarina non appena la speculazione scopre che quei tassi possono salire alle stelle, se si procede nell’aggressione di debiti sovrani che non hanno la valvola della produzione di moneta. Ricordiamocene: il Giappone ha un debito pubblico più alto del nostro e un debito complessivo (pubblico e privato) ancora più imponente, ma lo vende ad un tasso d’interesse inferiore, perché ha una banca centrale che può far funzionare la tipografia e scoraggiare la speculazione con la svalutazione.

L’euro è come un abito concepito per una sola temperatura: caldo e avvolgente, ce ne siamo pavoneggiati nel mentre tirava la tramontana, ma ora non possiamo togliercelo mentre soffia lo scirocco. Non solo: federando debiti nazionali e sistemi politici diversi, essendo nato con regole automatiche che non prevedevano meteorologie diverse da quella originaria, capita che i tedeschi insistano per chiudere il bavero, nel mentre altri sono zuppi di sudore. Non funziona, non può durare. E’ chiaro che, in queste condizioni, non saltiamo (solo) noi, ma salta l’euro. E con l’euro salta l’Europa. Ma questi, tornando al punto, sono problemi politici, mica tecnici. Se il tuo orologio cammina lentamente vai dal tecnico, dall’orologiaio, ma se puntualmente a mezzo giorno è notte devi capire che sei nel fuso orario sbagliato e con l’orologiaio non risolvi nessun problema. Se davanti ad un problema politico un Paese decide che è ora di farla finita con la politica, se le anime belle interne pensano che il gran giorno della liberazione è arrivato, ma non hanno idea di cosa avvenga il giorno dopo, se, come massimo della vita, si punta a governi tecnici o privi di maggioranza parlamentare, gli altri, che fessi non sono, ne deducono che non sarai in grado di risolvere un accidente, non ti farai valere nelle sedi europee e non difenderai sufficientemente gli interessi nazionali, quindi trovano nuova lena nel prenderti a calci. Quello che è accaduto.

E allora? Allora si tratta di non perseverare nell’errore, nel non credere che la crisi di governo sia un punto di svolta, di provvedere ad approvare immediatamente i provvedimenti per la stabilità, per poi puntare dritto al cuore della questione, che è europea, non italiana. Il governo in carica (è ancora in carica, almeno non imbrogliamoci per i fatti nostri) è finito, questo non si discute, ma la crisi politica deve essere tesa ad accertare se c’è una maggioranza alternativa, necessariamente frutto di una spaccatura della maggioranza attuale, e se quella maggioranza offre opportunità di coesione e determinazione superiori a quelle di chi se ne va. A me non pare, ma sono pronto a plaudire il contrario. Ove non ci sia nulla di ciò, allora il gesto difensivo più immediatamente efficace è la convocazione delle elezioni. Con questo singolare scenario: chiunque si candidi a governare avrà un programma già scritto, frutto delle epistole scambiate con le istituzioni europee. Quel che può metterci di proprio sono due cose: a. la volontà di riportare l’Italia ad essere protagonista del processo d’integrazione europea, e non il somaro trascinato per le orecchie; b. la consapevolezza che le regole istituzionali della democrazia interna devono essere riscritte. Di coalizioni multicolori e governi impotenti non se ne può più. Ci sono costati troppo.

Tutto sullo spread

Spread, ormai lo sanno tutti, significa ampiezza, differenziale, "forbice" e, in finanza, rappresenta la differenza di rendimento tra due titoli.
Per chiarezza e precisione viene espresso in centesimi di punto per cui uno spread di 500 punti denota una differenza del 5 % tra due titoli.
In economia quando un' attività finanziaria, sia essa un'azione, un titolo di Stato o un immobile, ha più venditori che compratori, perde valore e quindi il suo prezzo cala.
I titoli di Stato italiani, in questo momento, sono venduti a piene mani perché gli investitori non si fidano più, come in passato, della nostra solvibilità: non voglio scendere nel particolare ed esprimere giudizi di merito, mi limito a constatare il dato di fatto.
Come si arriva allo spread di 500 e rotti punti rispetto al Bund tedesco?

Facciamo l'esempio di un Btp emesso a 100€ con una cedola di 4€. Dato che la matematica non è un'opinione, il rendimento del Btp è del 4%.
Ora questo Btp viene venduto da coloro che non vogliono più averlo in portafoglio ed il prezzo scende a 97€. La cedola è sempre di 4€, ma siccome il titolo ora costa 97 il rendimento diventa il 4% + 3€: praticamente il 7%, che realizzerei immediatamente se vendessi il Btp dopo aver incassato la cedola.
L'esempio è molto elementare e sempilificato, ma chiarisce il concetto.

Ecco come viene calcolato lo spread con i titoli tedeschi.

Una considerazione molto importante va fatta e messa in evidenza: finché lo Stato non è costretto ad emettere nuovi Btp ai tassi più elevati che in questo momento il mercato esprime, non ci sarà un esborso maggiore da parte del nostro Paese per interessi: le cedole rimangono invariate, cala solo il prezzo del titolo e di conseguenza sale il rendimento.

In conclusione: certi allarmismi sono ingiustificati e forse anche finalizzati a creare apprensione e destabilizzazione. Cerchiamo di non cadere nella trappola della facile apprensione e del pessimismo generalizzato.

mercoledì 9 novembre 2011

Ora tocca alla sinistra spiegarci perchè lo spread è impazzito. Giancarlo Loquenzi

L’altra sera a LineaNotte, Piero Fassino si mostrava molto sicuro di sé: “Appena salta il tappo Berlusconi una nuova maggioranza si trova, ogni soluzione diventa possibile, ve lo assicuro”. In realtà la sua era al meglio una pia illusione, al peggio pura e semplice malafede.

Il tappo Berlusconi è saltato e già si capisce che sul fronte delle opposizioni nulla è pronto, nulla è chiaro, nonostante tutto il tempo che hanno avuto per prepararsi, visto che davano il Cav. per morto da almeno un anno. Invece non c’è una proposta univoca da presentare alle Istituzioni e al paese; non c’è concordia né sulle forme né sui contenuti del percorso necessario a uscire dalla crisi.

A malapena si comprende quello che i principali partiti di opposizione – che ora sono diventati una maggioranza di astenuti – non vogliono. L’Udc ha proclamato di non volere un governo che non abbia dentro il Pd. Lo si può capire: Casini non è pronto a sostenere un governo politico di parte. La sua fortuna fino ad oggi è stata quella di restare in bilico, al punto che oggi il suo ostinato terzismo ne ha fatto quasi una figura da statista, parco e pensoso. Il che ovviamente è tutto dire.

Il Pd non vuole Berlusconi e neppure un berlusconiano al governo. Ieri Bersani ha detto no sia ad Alfano che a Letta. Non si sa se propendano per Monti, per Amato, se accetterebbero Maroni o se hanno altri nomi nel cassetto. Il Pd è un partito lacerato al suo interno, con i suoi leader minacciati di rottamazione e le sue strutture di potere a rischio big-bang. Non è un partito da cui ci si possa aspettare particolare lucidità e determinazione, specie nell’avvisaglia di elezioni.

Di Pietro e il suo Idv, come anche i radicali, sono variabili minori e poco prevedibili.

Quello che le opposizioni vorrebbero è molto meno chiaro e quando è chiaro è molto poco realistico. Pd e terzo popolo sarebbero felici di entrare in un governo di larghe in tese con un Pdl radicalmente deberlusconizzato, umiliato e anche un po’ penitente. Un Pdl utile a portare voti in silenzio e a spartire la responsabilità delle misure draconiane che ci verranno richieste. L’idea che la pseudo-maggioranza conquistata ieri alla Camera possa essere la genitrice di un nuovo governo ovviamente non li sfiora nemmeno: i transfughi sono buoni per tradire ma un pessimo affare quando si tratta di governare. E sarebbe difficile insediarsi a palazzo Chigi mentre il centro-destra, con più di una ragione, porterebbe un milione di persone in piazza a gridare contro il ribaltone.

Sui contenuti, sulle cose da fare, il panorama è ancora più nebbioso. Finchè si resta sul piano della propaganda anti-berlusconiana, ogni intimazione della Ue, ogni sberleffo di Merkozy, ogni richiesta dell’Eurotower sono oro colato, giuste e meritate punizioni per un’Italia allo sbando. Quando però si prendono in esame più da vicino le misure che l’Europa si aspetta di vedere approvate, la musica cambia. Il lavoro non si tocca, i diritti acquisiti sono sacri, i pensionati hanno già dato, i lavoratori non ne parliamo, la patrimoniale si, boh, forse, ma solo per i più ricchi, le privatizzazioni si, ni, no, il prelievo forzoso ci piace ma poi chi ci vota? Restano formulette tipo: facciamo pagare chi non ha mai pagato, prendiamocela con i furbi, presentiamo il conto alla Casta, tagliamo le autoblù. Converrebbe di più rapire gli ispettori del Fmi e chiedere un riscatto alla Lagarde.

E' questo desolante quadro che spiega, almeno in buona parte, perché, saltato il tappo Berlusconi (con le sue dimissioni certificate da un comunicato del Quirinale), lo spread abbia fatto festa balzando oltre quota 500 punti base.

I mercati internazionali, la speculazione se volete, non ha finito di giocare con l’Italia. Anzi forse ha appena cominciato. (l'Occidentale)

In fine. Davide Giacalone

Il governo Berlusconi è finito, ma non è finito l’elettorato che ha consegnato al centro destra, da lui ideato e diretto, diciassette anni di forza politica. Il governo non è finito ieri. La votazione sul rendiconto ha messo in evidenza la debolezza dell’esecutivo, oramai roso dalle fughe, ma anche l’inesistenza di maggioranze alternative. Il governo è finito da molti mesi. La sua anima s’è dannata quando la legislatura è partita con il piede sbagliato e la sua natura s’è corrotta quando ha preteso di salvare il bipolarismo a dispetto del tradimento del premio di maggioranza. Se la partenza non fu entusiasmante è bene che la fine non sia distruttiva, perché, a dispetto di quel che tanti propagandisti strillano, la sua caduta non risolve neanche uno dei problemi che dobbiamo affrontare.

Il governo si è affondato con le proprie mani, nel primo anno della legislatura. Operava avendo di fronte un massiccio fuoco di sbarramento e doveva mettere nel conto una sovranità istituzionalmente limitata (nella precedente legislatura una non maggioranza elettorale aveva eletto il Presidente della Repubblica senza cercare né dialogo né condivisione), ma aveva una solida maggioranza parlamentare, con la quale avrebbe potuto fare quel che oggi rimpiange di non avere fatto.

Fu cancellata l’Ici sulla prima casa, ovvero una tassa “federalista” (per usare un linguaggio che non mi piace e che spero passi di moda), ma la riforma fiscale fu solo impostata e rinviata a leggi delega che non hanno poi preso corpo. Il tasto dolente della giustizia è stato battuto freneticamente, ma senza il respiro delle grandi riforme e ancora cadendo nella trappola della guerriglia. Noi segnalammo sia gli errori interni (micidiali) di leggi come lo scudo, sul processo breve o sulle intercettazioni, sia l’ancor più macroscopico errore di accettare battaglia su quelle senza darne sull’insieme di una giustizia penale da molti anni in coma. Non abbiamo mai abboccato alla polemica ottusa sulle leggi penali varate a scopo personale, abbiamo ripetutamente puntato il dito su forzature e spropositi che segnalavano vere e proprie aggressioni giudiziarie, ma abbiamo anche avvertito la terribile inutilità di trincee scavate nel nulla, a difesa di norme di rara inconsistenza e pratica inutilità. Ma parlammo a nostra volta al muro, perché gli errori del passato si riproducevano pari pari, condannando la maggioranza parlamentare e il governo a pestare l’acqua nel mortaio.

E’ vero che questo governo ha il merito, colpevolmente sottovalutato, quando non occultato, da una pubblicistica zuppa di tifoseria e a secco di senso di responsabilità, di avere contenuto la spesa pubblica, talché il nostro deficit è fra i più bassi e il nostro debito pubblico è cresciuto, dal 2008 a ieri, assai meno di quelli altrui. Ma è anche vero che questo sforzo è stato condotto senza essere capaci di riportare sotto controllo non solo i saldi della spesa pubblica, ma anche la sua composizione. Tagliare dall’alto la spesa è stato un bene, ma metterci le mani dentro, scompigliare l’equilibrio consolidato della sua improduttività, recuperare risorse per gli investimenti sarebbe stato un passo di grande significato politico e di enorme rilevanza riformatrice. E’ mancato.

Il presidente del Consiglio ha lasciato che il ministro dell’economia s’intestasse la politica economica complessiva e la garanzia internazionale sulla tenuta del debito. Anche questo è stato un considerevole errore. A noi il pettegolume non piace, né ci convince la politica letta costantemente alla luce di ambizioni e rivalità personali. C’è la forza delle cose, che è notevole. Era evidente che il tema del debito sarebbe stato centrale, anche prima che partisse la speculazione sui debiti sovrani, che è speculazione dovuta alle deficienze dell’euro, e chi non governa quel che sta al centro delle cose va a finire che passeggia sui margini.

Tutto questo ci faceva dire, già a metà del 2009, che il governo era sul binario morto dell’inoperatività. Poi è arrivata la rottura con Gianfranco Fini. Ho l’impressione che sarebbe stata comunque inevitabile, perché sospinta dall’esterno e alimentata dall’illusione che potesse avere uno sbocco politico. Fini ha mostrato la sua stoffa, dalla trama non eccelsa, ma Berlusconi ha commesso due errori di fila: il primo è stato quello di non gestire con calma la faccenda, in modo da lasciare sull’altro l’intero peso della rottura; il secondo è stato quello di accettare una conta che consegnava al governo una maggioranza parlamentare composta da deputati non eletti con il centro destra. Qui è venuta al pettine l’insanabile contraddizione: non si può essere bipolaristi e, al tempo stesso, giovarsi di norme costituzionali nate con e per il proporzionale. Avvertimmo che quella scelta avrebbe reso (politicamente, perché costituzionalmente non si discute) legittimi governi diversi da quello votato.

Ha pesato, negativamente, e non poco, la corte dei miracoli con cui si sono composti i gruppi parlamentari. La logica berlusconiana era lineare: meno personale politico possibile, in modo da potere contare sulla fedeltà. Peccato che abbia pagato il prezzo della loro insipienza e si sia ritrovato tradito dagli stessi che aveva miracolato. Ha pesato anche il modo in cui la pubblicistica non pregiudizialmente ostile ha interpretato la propria funzione: pronta ad addentare il polpaccio dell’avversario, con un ringhio continuo e talora fastidioso, incapace di dare sostanza politica e culturale a quella che era e resta la maggioranza degli elettori. Ha pesato la condotta personale di Berlusconi, che certamente rientra fra i suoi affari personali, nella quale non c’è nulla di criminale, ma che era semplicemente folle non considerare incompatibile con la funzione svolta. E’ stato un tema assai utilizzato, che mi ripugna anche solo ricordare, ma sottovalutarne gli effetti poteva essere possibile solo a patto di perdere il contatto con la realtà.

Berlusconi ha annunciato le dimissioni. Fin qui l’opposizione è stata solo capace di chiederle, senza saper proporre politiche alternative. Ora avviene per consunzione della maggioranza. Noi non abbiamo mai condiviso l’odio contro di lui, ma non abbiamo neanche rinunciato a puntare il dito verso le tante mancanze. E’ il tempo di guardare al futuro, e il suo dovere è quello di non ostacolare la nascita della terza Repubblica.

martedì 8 novembre 2011

Berlusconi deve resistere. Eisenheim

Silvio Berlusconi deve resistere, tenere duro in nome di Dio e dell’Italia. Lo deve fare perché è un suo diritto e non esiste giornale di bottega al mondo, Financial Times compreso, che abbia la facoltà di scegliere quando tagliare la testa al presidente del Consiglio italiano. Tantomeno se la bottega in questione appartiene a un paese come l’Inghilterra, che sta vivendo il più grande scandalo mediatico di tutti i tempi che vede coinvolti sedicenti giornalisti, tycoon e primi ministri che sembrano marionette nelle mani di Mangiafuoco. E allora, per decenza e perdìo, ognuno inizi a curare il proprio orticello prima di fare agli altri la lezioncina di cui, sinceramente, non si sente il bisogno.

E siccome i panni sporchi si lavano in casa, non c’è alcun motivo per cui il re debba fare “un passo indietro” al solo scopo di accontentare un capriccio dei nani e delle ballerine che lo circondano. Giullari di corte, pronti a soddisfare ogni suo bisogno fino a un attimo prima che gli venga sfilato lo scettro, per passare in un batter d’ali al miglior offerente come se nulla fosse. Sindaci, ministri, peones e illustri ex d’ogni genere pronti a sfornare ricette magiche e consigli di vita a chi, di vita, ne ha vissuta molta più di loro. Incapaci di amministrare la metropoli o il borgo di periferia in cui sono stati eletti, inconsapevoli di chi gli abbia comprato una casa con vista mare, o meglio ancora Colosseo, ma campioni quando si tratta di dire all’ex padrone come ci si deve comportare.

E allora, per carità di patria, va bene la libertà di opinione ma anche la decenza di tacere, ogni tanto, ci sta bene.

Meno male che a rivalutare questi fenomeni, e a tenere ben saldo in sella chi da cavallo non ha alcuna intenzione di scendere da solo, ci pensa il trio delle meraviglie Bersani-Di Pietro-Vendola, a cui basterebbe un programma neanche troppo impegnativo e un pizzico di autolesionismo in meno per mandare in pensione chi l’età giusta l’ha raggiunta da un pezzo. E invece no, l’unico spartito che lorsignori sanno suonare è quello che invoca le dimissioni del premier, non si capisce bene a che titolo, cantato ogni giorno da chi non è in grado di sfiduciare un governo che fatica a non farlo da solo.

Ci ha provato Gianfranco Fini, delfino curioso di Almirante e mancato erede di Berlusconi, e per l’ennesima volta nella sua lunga carriera politica s’è perso in un bicchier d’acqua. Mentre l’abile Casini, da buon democristiano, resta alla finestra, aspettando magari che il salvatore della patria scenda in terra e lo accompagni danzando al Quirinale.

La verità è che l’italico popolo è prigioniero della propria autoreferenzialità e della tendenza a lasciar correre le cose che tanto, prima o poi, si sistemano da sole. O magari ci pensa qualcun altro. L’importante è che a un certo punto tolga il disturbo senza bisogno che nessuno lo accompagni alla porta. (The Front Page)

lunedì 7 novembre 2011

Io, Berlusconi. Gianni Pardo

A leggere ciò che scrivono i retroscenisti, c’è da pensare che Silvio Berlusconi viva come un fachiro dentro una teca di vetro, in una sala cui tutti hanno accesso, magari in compagnia di una piccola folla di cobra. Dunque qualunque cosa faccia o dica è pubblica e può essere riferita. Ecco perché i giornalisti sanno tutto ciò che è stato detto durante i consigli dei ministri, le battute che si sono scambiate Giulio Tremonti e l’uomo nella teca, ciò che Silvio ha detto durante una telefonata e naturalmente anche ciò che ha pensato ed ha intenzione di fare.

Personalmente, forse perché non ricevo un lauto stipendio dal Corriere o da Repubblica, non so molto di Berlusconi. Da un lato non posso scrivere nessun retroscena, dall’altro dubito perfino di ciò che affermano giornali e televisione. Insomma sono fra i più ignoranti del mondo. So a malapena che il governo è in pericolo e che l’attuale maggioranza è risicata. Ma da questo a dire che la prossima settimana si sfascia tutto o che la situazione rimarrà invariata fino al 2013 ce ne corre.

Tuttavia c’è una cosa che credo di sapere, anche perché me la ripetono tutti i santi giorni: l’opposizione e una parte della maggioranza invitano Berlusconi a dimettersi e l’interessato dice che non lo farà.

A questo punto, invece di rivelare agli amici il perché di questo atteggiamento (dal momento che non lo so) mi lascio andare a un gioco: “Se fossi Berlusconi, mi dimetterei?”

La risposta è no. Ed ecco quello che direi.

Indubbiamente, anche per battere un record, vorrei arrivare al 2013. Purtroppo, sono nelle condizioni di qualcuno che in piena notte, mentre tutti i distributori sono chiusi, rischia di rimanere senza benzina. Quelli che viaggiano con me mi ripetono che non ce n’è abbastanza e che ci converrebbe proseguire a piedi. E sul fatto che la benzina potrebbe finire hanno ragione: ma il consiglio è lo stesso sbagliato. Infatti, se scendiamo subito, faremo un bel po’ di strada a piedi; se invece proseguiamo magari presto l’auto si fermerà, ma faremo sempre meno strada a piedi di quella che faremmo scendendo prima che finisca la benzina.

Tornando al problema del governo: dimettendomi mi troverei nelle condizioni in cui mi troverò se mi votano la sfiducia. E allora perché somigliare a un tacchino tanto stupido da dire che il Natale è il primo dicembre? Non mi rimane che diffondere ottimismo, dire che ho la maggioranza, sorridere a tutti e dimostrarmi sicuro. Ché tanto, se mi mettessi a piangere, non durerei per questo un minuto di più.

Qualcuno però dice che, se mi dimettessi, la cosa faciliterebbe la ripresa dell’Italia. Veramente? Io non lo credo affatto. Un governo raccogliticcio e comprendente parecchi politici di sinistra dovrebbe attuare i provvedimenti di destra che io non sono riuscito ad attuare? È come chiedere ad un dilettante di riuscire dove non è riuscito un professionista.

E c’è di più. Se fossi sicuro che quelli che mi consigliano di andare a piedi poi mi terrebbero compagnia, potrei giudicare il loro consiglio giusto oppure sbagliato ma almeno disinteressato. Qui invece c’è il rischio che, se io scendo, gli altri si rimettano alla guida e mi lascino solo in mezzo alla strada. Insomma le anime buone che tanto si preoccupano delle sorti dell’Italia sono le stesse che dalle mie dimissioni contano di trarre vantaggio. A cominciare dall’opposizione. E allora, quanto vale il loro consiglio? Se un donatore di sangue vi invita all’Avis, forse vuole aiutare qualche malato. Ma se il sangue ve lo chiede un vampiro, crederete facilmente che sia per un’opera buona?

Infine confesso che mi diverto un mondo. Sono al centro dell’attenzione di tutti. L’Italia intera non fa che parlare di me, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Peccato che io abbia poco tempo. Se solo ne avessi chissà quante cose scoprirei, su me stesso, leggendo i giornali e seguendo le televisioni. Saprei quante cose ho detto e fatto senza neppure saperlo. Che cosa ho intenzione di fare. E soprattutto quello che penso. Che riposo.

Fra l’altro, mi diverte anche l’aria di superiorità con cui parlano di me i pensosi commentatori politici e l’insignificante popolo minuto dei professionisti dell’antiberlusconismo: tutte persone che non contano niente, non hanno capito niente e che il tempo dimenticherà. Ed anzi, a proposito, penso che li punirò tutti indistintamente in modo crudele: non ne menzionerò neppure uno nelle mie memorie. Non vorrei che, dicendo male di uno di loro, gli regalassi un posto nella storia. (Legno storto)

I commissari. Davide Giacalone

Non rischiamo il collasso economico, siamo nel pieno di un infarto politico. Ciò che ci mette a rischio non sono i conti nazionali, ma la necessità di pagare il conto della rinuncia alla politica. Quella vera. Ragioniamo su questa faccenda del Fondo monetario internazionale, osserviamo il modo in cui la politica reagisce e riflettiamo su quel che gli opinionisti non scrivono. Aiuta a capire cosa succede.

Ci sono aspetti internazionali e questioni nazionali, cominciamo dai primi: il Fmi che commissaria l’Italia, monitorandone i conti, equivale ad un commissariamento dell’euro e ad un’esautorazione delle autorità dell’Unione. Ciò segnala che l’asse franco-tedesco s’è rotto e la torta Sarkel è andata a male. Come qui prevedemmo. Dopo di che gli Stati Uniti fanno perno sulla Francia e cambiano lo scenario, lasciando ai tedeschi la (sciocca) soddisfazione di dire che la Bce è rimasta fuori da un gioco che a loro non piace. Obama ha ragione a mettere in evidenza la mancanza di una vera banca centrale, ma l’idea che i francesi vogliano approfittarne dopo averci affondato non è simpatica.

Christine Lagarde dice che l’Italia non è credibile (intendendo il governo italiano), il che, naturalmente, manda in visibilio i nostri commentatori, cresciuti a pane e faziosità. Forse qualcuno ricorderà che la signora era ministro economico francese, nel mentre quel Paese accumulava un deficit di gran lunga superiore al nostro e le loro banche s’inzuppavano di titoli pubblici altrui, speculando. E forse qualcuno non s’è dimenticato di come Lagarde, che fu avvocato negli Stati Uniti, è giunta a dirigere il Fmi, a seguito di un arresto subito dal predecessore, negli Usa, essendo Strauss Khan avversario di Sarkozy, accusato di violenza carnale e poi scagionato. Ma una volta fatto fuori. Santi numi, vogliamo discutere di credibilità?

Non è questione d’abbandonarsi alle fissazioni complottarde, ma d’avere chiaro in quale teatro si recita. E quanto forti sono gli interessi che tendono a mettere sul conto di altri, in questo caso nostro, il costo degli errori commessi da tedeschi e francesi.

Ora calziamo gli stivali e veniamo alla mota di casa nostra: il commissariamento piace a tutti, perché nessuno ha conservato dignità e lucidità. Piace al punto che tutti parlano di come far cassa e non di come cambiare registro. Piace alle opposizioni, perché così sperano che altri li liberino da quel malefico Berlusconi da cui loro, da sé sole, non riescono a liberarsi. Della serie: visto che ci governano altri, a Palazzo Chigi possiamo andarci anche noi o, se proprio non si può, ci mettiamo un professorazzo inutile, che segni l’era della nostra resurrezione. Ma piace, il commissariamento, anche al governo dei morti viventi che, anzi, s’affannano a dire: li abbiamo chiamati noi. Della serie: visto che ci governano altri, siamo noi i migliori garanti che non saranno disturbati. Questa politicaccia degli inetti ci declassa a colonia pagante d’imperi inesistenti.

Corollario: il governo dei morti viventi e l’opposizione dei morti morenti meriterebbero elettorale sepoltura, non perché le urne (absit iniuria verbis) siano salvifiche, né per veder nascere una nuova classe politica (magari!), ma perché toglierle dall’orizzonte e porle alle spalle aiuterebbe a prendere atto che la nostra crisi è profondamente istituzionale, richiedendo una via d’uscita costituente, cosa che, in fine legislatura, provoca infarti ma non soluzioni, capita, però, che da commissariati preferirebbero non le facessimo. Tanto i commissari mica devono essere eletti. Quesito: come si fa ad impedire che una democrazia si conduca alle elezioni? Semplice: si proclama che la garanzia della nostra stabilità e sovranità risiede nell’unico luogo ove si abita senza potere essere sloggiati e si giunge senza essere eletti: il Quirinale. Guardateli in faccia, quelli che continuano a dire che la nostra salvezza è Giorgio Napolitano (il comunista filoamericano, l’europeista che votò contro l’Europa) e non dubitate che siano sottili depistatori: sono ottusi depistati.

Le elezioni piacerebbero al pd di Bersani, che nell’implosione degli avversari ripone l’unica speranza di vittoria, ma Napolitano non lavora per loro, conquistandosi il ruolo di super partes. Non li ha affatto simpatici, anche perché nel nonno di quel partito fu sempre tenuto lontano dalle stanze che contano e spinto ad occuparsi di quel che gli tarpava le ali (responsabile della politica estera quando erano filosovietici e responsabili delle imprese quando si finanziavano con le tangenti da intermediazione internazionale). Il Quirinale gioca in proprio, fa sponda ai commissari, taglia le unghie a chi governa e sbollenta chi s’oppone, incassando dall’estero il riconoscimento di garante. Ciò non ferma gli spread, ma neanche la decomposizione costituzionale.

venerdì 4 novembre 2011

Come "Repubblica" imbroglia i suoi lettori. Gianni Pardo

Negli Anni Cinquanta Giovannino Guareschi, sul Candido, pubblicava una rubrica: “Visto da destra”, “Visto da sinistra”, dove lo stesso avvenimento era presentato in maniera tanto diversa, da essere irriconoscibile, o comunque da risultare nettamente a favore della destra per la destra e a favore della sinistra per la sinistra. L’intento era umoristico ma col tempo abbiamo fatto talmente l’abitudine alla faziosità della stampa, da non avere più voglia di ridere. È infatti con rassegnata mestizia che riferiamo l’ennesimo caso non di falsificazione del dato di partenza, ma del suo totale stravolgimento interpretativo, fino a fargli dire cosa del tutto diversa dalla verità.

Su ciò che è avvenuto concordano sia la Repubblica che il Giornale. Il consigliere di Barack Obama Ben Rhodes, alla domanda di un giornalista, ha risposto con queste parole: “Per l’Italia vale il discorso della Grecia e cioè se ci sono cambiamenti di governo non cambiano i problemi del paese”. Il senso è chiaro e il lettore pensa di averlo capito. A rischio di annoiare, tuttavia, vale la pena di chiarirlo ulteriormente, dal momento che il giornalista di Repubblica Federico Rampini dichiara questa frase “sibillina”.

Poniamo il caso che si chieda ad un competente se sia più veloce un’automobile bianca o un’automobile nera. Se quel signore risponde che il colore non influenza la velocità, con ciò non avrà detto né che preferisce un’automobile bianca né che preferisce un’automobile nera. Certo, chi ascolta avrà sempre il diritto di concludere: “Però io la preferisco bianca”. Ma non avrà il diritto di dire che la persona interrogata, quella che ha detto che il colore non influenza la velocità, abbia consigliato l’uno o l’altro colore.

Invece è proprio ciò che avviene qui sulla stampa. Dalla frase che tutti riportano identica, partono le interpretazioni. Secondo il Giornale, articolo di Stefano Filippi, quella risposta significa che non è il caso di cambiare il governo. Infatti il titolo grida: “Cambiare governo? Non risolverà i problemi italiani”. Ecco la prima illazione ingiustificata. L’interpretazione che si suggerisce al lettore è che questo governo stia già facendo il possibile. Cosa che può anche essere, ma che il sig.Rhodes non ha detto. Nell’articolo leggiamo: “E alla domanda se Washington tema un’eventuale caduta del governo guidato da Silvio Berlusconi, lo stesso Rhodes ha risposto: Per l’Italia vale il discorso della Grecia e cioè se ci sono cambiamenti di governo non cambiano i problemi del paese”, ma noi non siamo sicuri che la domanda fosse questa. Anche perché, secondo la Repubblica essa potrebbe essere ben altra (2) . Leggiamo: “L’asse Merkozy sa di avere una sponda decisiva nella Casa Bianca. Lo si capisce dalla frase sibillina che usa Ben Rhodes, uno dei principali sherpa di Obama che lo accompagna qui al G20: ‘Per l’Italia...’ ecc.”. Chiunque si sia annoiato leggendo il parallelo con l’automobile bianca e nera qui dovrà riconoscere che il chiarimento non è stato inutile, se anche per un giornalista di vaglia come Rampini nulla era chiaro. Chissà che cosa ha voluto dire, Rhodes.

Ma se il Giornale è stato tendenzioso, Repubblica lo batte di larga misura, in questo campo. Già il titolo afferma, tanto risoluto quanto infondato: “A Cannes va in scena il dopo Cavaliere”. Infatti, dopo avere riportato (esattamente) la famosa frase, Rampini improvvisamente non la trova più sibillina e ce la spiega distesamente: “Anche l’Amministrazione USA quindi si prepara al dopo-Berlusconi, si prepara già a lanciare messaggi a un governo diverso a cui indica i paletti: i problemi da risolvere, l’entità della manovra di risanamento, l’urgenza estrema di un ricupero di fiducia internazionale”. Ora è lecito chiedere: dove le ha viste, dove le ha sentite, dove le ha lette, Rampini, tutte queste cose? Tornando al nostro paragone, Rampini e Repubblica con lui possono benissimo preferire la macchina bianca o quella nera, ma perché devono attribuire all’incolpevole terzo un’opinione che non ha espressa? È onesto, questo? È informazione o indottrinamento?

Ma qui si torna ad un vecchio paradigma. Per lunghi decenni i comunisti sono stati talmente convinti di avere ragione e di volere il bene del proletariato (non dell’Italia, del proletariato, il comunismo era internazionalista) che la purezza dei loro scopi poteva coprire qualunque magagna, qualunque sbavatura e, all’occasione, qualunque crimine. Il comunismo è morto ma i suoi epigoni ne hanno mantenuto la mentalità: raccontare al lettore una cosa vera in modo che ne capisca una falsa è il minimo peccato che si possa commettere. E forse non è un peccato, forse è un merito. (Legno storto))

(1) Stefano Filippi, titolo: Parola di Obama: “Cambiare governo? Non risolverà i problemi italiani”.
(2) Federico Rampini, titolo: “A Cannes va in scena il dopo Cavaliere”.