giovedì 31 ottobre 2013

Ecco la legge che imprigiona i sentimenti. Massimo Fini


 

 Come se non bastassero i reati liberticidi contemplati nella legge Mancino (istigazione all'odio razziale, antisemitismo, xenofobia) cui si è aggiunto di recente l'omofobia, adesso la Commissione Giustizia del Senato ha approvato all'unanimità una nuova fattispecie di reato, il negazionismo, per cui si punisce con la reclusione da uno a sette anni chi «nega l'esistenza di crimini di genocidio o contro l'umanità». Ma prima di entrare nel merito di questo reato di nuovo conio, che ha nel mirino soprattutto se non esclusivamente i negazionisti dell'Olocausto, è bene chiarire che cosa si intende per istigazione. Se io dico «Gli ebrei che vivono a Venezia devono essere uccisi» è istigazione a delinquere perchè incito, sia pur genericamente, a commettere un reato, l'omicidio. Ma questo vale per tutti i reati contemplati dal Codice penale (art.115 c.p.). Ma se io dico «Odio tutti gli ebrei che vivono a Venezia» dico una cosa stupida ma non istigo nessuno a commettere un reato a meno che non si consideri tale l'odio in sè e per sè come fa la legge Mancino. Ma l'odio, come la gelosia o l'ira, è un sentimento e nessun regime, nemmeno il più totalitario, aveva mai tentato, prima degli attuali regimi che si dicono liberali, di mettere le manette ai sentimenti. Ecco perchè considero la legge Mancino ultraliberticida, perchè manda al gabbio non solo le idee che non piacciono alla 'communis opinio' ma anche ai sentimenti.

Col reato di negazionismo ci si spinge ancora un po' più in là. Come osserva il magistrato penale Mauro Morra in una mail che mi ha gentilmente inviato: «Non si sanziona più solo l'istigazione o l'apologia di delitti contro l'umanità, ma anche il semplice fatto di negarne l'esistenza». Un puro reato di opinione se mai ne n'è stato uno. Il che ha l'ulteriore conseguenza di impedire la ricerca. In Austria, dove questo reato esiste già, è stato condannato alla reclusione per tre anni (ne ha scontato poi circa la metà) lo storico inglese David Irving che in base a delle sue ricerche, pubblicate nel libro La guerra di Hitler, non nega l'Olocausto ma ne ridimensiona l'entità. Peraltro ha pochissimo significato se gli ebrei finiti nelle camere a gas siano stati, per ipotesi, quattro milioni invece di sei, perchè non è una questione di quantità ma di qualità, cioè il crimine e l'orrore stanno nel motivo per cui furono internati e uccisi: per il solo fatto di essere ebrei. E' questa la specificità dell'Olocausto, il motivo che lo differenzia dagli altri 50 milioni di morti della seconda guerra mondiale. Ma se uno storico vuole fare ricerche in tal senso ha il pieno diritto di farlo, assumendosene la responsabilità che è morale ma non puo' essere penale, a meno che, senza voler fare paragoni blasfemi ma solo per intendere meglio i principi che sono in gioco e le conseguenze della loro violazione, non si voglia tornare all'epoca di Galileo e del cardinale Bellarmino.

Infine il reato di negazionismo sarebbe controproducente rispetto ai suoi fini.] Perchè come ogni proibizionismo ecciterebbe la trasgressione, soprattutto nelle menti giovanili. Come ci insegna la Storia, anche recente, e come sa chiunque abbia, o abbia avuto, figli adolescenti. (www.ariannaeditrice.it)
ArchivioAndrea's Version

31 ottobre 2013

Meglio essere intelligenti che imbecilli, meglio studiare l’inglese che accoppare il vicino di pianerottolo, meglio avere già un lavoro che cercarlo, meglio dormire placidi che avere gli incubi, meglio attraversare l’oceano con l’aereo che con la barca a remi, meglio morire dopo che troppo prima. Ma cosa sarebbe stato peggio: spararsi in un piede o nominare senatore a vita il capo della Lanzillotta?

L'avido. Davide Giacalone


Carlo De Benedetti e Marco Tronchetti Provera hanno deciso di dimostrare che il presunto “salotto buono” è, in realtà, un saloon dove ci si tira le sedie in testa, dando luogo a una rissa in cui i torti abbondano e le ragioni scarseggiano. Intanto l’oggetto del vecchio contendere, ovvero Telecom Italia, procede verso la sua infausta sorte. Il governo l’accompagna condolente, degno continuatore di una lunga condotta indolente. Tornerò a occuparmene. Oggi m’intrigano le sputacchiate in doppiopetto.

Sono affascinato da Carlo De Benedetti. Il quale, in realtà, forse neanche pensava di scatenare una rissa con Tronchetti Provera, ma ce l’aveva con Roberto Colaninno, che gli soffiò l’affare e la società e che, saggiamente, se ne sta zitto. Dell’altro ha solo detto che continuò lo sfascio avviato dal suo vecchio ragioniere. Siccome Tronchetti Provera ha risposto (per le rime), sono volate le sedie. Calma, portate da bere al pianista: Tronchetti Provera ebbe il merito di riportare la proprietà di Telecom in Italia (incredibile, ma a Colaninno fu permesso di scalarla con una società lussemburghese!) e di riavviare gli investimenti; ebbe il demerito di indebitarla ulteriormente, per reincorporare Tim, e di portarle via gli immobili, per metterli in un’altra sua società (Pirelli Real Estate). I guai cominciarono ben prima, e De Benedetti ne sa qualche cosa. Oggi dice: se questi sono i capitani coraggiosi (Colaninno e Tronchetti Provera), “preferisco le partecipazioni statali”. Certo, che le preferisce. Vediamo perché.

Di quel sistema, retto da quelli che allora erano chiamati “boiardi” e che, a paragone dei successori, si deve dire che avevano un altissimo senso delle aziende e dell’interesse generale (ma, inevitabilmente, erano nominati dalla politica), scrivevo allora che andava aperto al mercato. In tal senso lavorammo, con successo. Credo fosse giusto. In realtà fu subito saccheggiato dai mercanti, talché condivido il rimpianto debenedettiano. Purtroppo, per me, non ne condivido i soldi che ci fece.

In breve: nel 1994 il governo Ciampi assegna alla Omnitel di De Benedetti la vittoria della gara per il secondo gestore della telefonia cellulare. La cosa interessante non fu la vittoria, ma la gara. I concorrenti erano tre: Ominitel, Pronto Italia (gli americani di Pacifc Telesis, che assistevo, più imprese italiane) e Finitel, una cordata facente capo a Fininvest, quindi Berlusconi. L’ultima era esclusa, dato che il capo s’avviava verso Palazzo Chigi. Quando si dice il “conflitto d’interessi”. Il primo incorporò il secondo. A proposito di chi fa da terminale degli americani, per italianizzarne i costumi. Definirla “gara”, pertanto, è ardito. Ma questo è niente.

Nel 1997 Olivetti (di cui De Benedetti resta presidente fino al 1999, anche se tende a dimenticarlo) acquista la rete di telecomunicazioni delle Ferrovie dello Stato (e Lorenzo Necci pagò cara la sua opposizione), per 700 miliardi di lire, rateizzati in 14 anni. Dopo un anno rivende tutto a Mannesman, alla modica cifra di 14mila miliardi di lire, da pagarsi sull’unghia. E volete che l’ottimo Ingegnere non rimpianga il mondo che gli consentiva queste cose?

Una sola cosa mi lascia pensieroso: De Benedetti ha definito Tronchetti Provera “avido”. Sarà che al saloon hanno chiamato il solito medico dei western, per curare i feriti, e quello, avanzando con passo incerto, il colletto della camicia caduto di lato, il cappello sulle ventitré e la bottiglia stappata in mano, diagnostica: sciono sbrrionzii.

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mercoledì 30 ottobre 2013

Chi è Matteo Renzi? Gianni Pardo


Chi è Matteo Renzi? Per rispondere non basta sapere che è il sindaco di Firenze e che nel Pd si candida a tutto. Bisognerebbe sapere che cosa pensa, che programmi ha, dove condurrebbe il Pd e l’Italia, se gliene affidassero la guida. Ma è esattamente ciò che non sappiamo. Fino ad oggi di questo politico abbiamo visto soltanto lo stile: quello di un grande comunicatore. Di uno che sa parlare con semplicità ed efficacia, lontano dal politichese, e che riesce a snocciolare migliaia di parole suggestive senza dire in sostanza niente di niente. Questa l’impressione, sia se uno l’ha ascoltato nel breve flash di un telegiornale, sia se ha avuto la pazienza di starlo a sentire per ore.

Da questo non si può dedurre che non abbia idee, che è insignificante, che è fatuo. Sarebbe un errore. Un errore che ha commesso D’Alema quando lo ha paragonato a Virna Lisi: “Con quella bocca può dire ciò che vuole”. Proprio lui dovrebbe sapere meglio di altri che la bocca conta eccome. Se è stato lungi dal fare la carriera che avrebbe potuto fare è perché, pur se gli altri e perfino gli avversari gli hanno sempre manifestato stima intellettuale, la sua capacità di essere “antipatico” e di farsi dei nemici ha prevalso su tutto. Tanto che è rimasto un ottimate pugliese.

Renzi potrebbe essere uno sciocchino e potrebbe essere un genio. Se fosse un genio potrebbe aver capito che in politica prima si conquista il comando e poi lo si usa a modo proprio. Anche diversamente da come si era promesso. O addirittura come non lo si è neppure promesso, cioè facendo una campagna elettorale del tutto vacua, insignificante, elusiva. Fatta di colori e non di forme. Abbiamo un esempio preclaro, in materia: Barack H.Obama è un Presidente che in vita sua ha solo proclamato ovvietà con la sua voce rauca, per il resto rimettendosi a chi ne sapeva più di lui. Questo quando è andata bene. Infatti è andata male quando ha voluto agire da sé, seguendo le sue utopie infantili, come nel caso delle aperture agli arabi e delle minacce alla Siria per le armi chimiche.

Renzi ha capito che i personaggi del Pd sono supremamente antipatici e che questo, nell’era della televisione, è un errore imperdonabile. E dire che la strada giusta tutti l’hanno avuta sotto gli occhi, per anni: il capo del Pdl è un quasi ottantenne senza un capello bianco e un brillante intrattenitore che ha costantemente sorriso. Il Pd invece ha avuto il farfugliante e sdentato Prodi, il calvo e vagamente rurale Bersani, l’accigliato e inconsistente Franceschini, il velenoso D’Alema e la grigia Bindi. Dunque il giovane sindaco ha capito che doveva adottare tutt’altra formula. Doveva approfittare del suo bell’aspetto. Doveva essere cordiale, sorridere sempre, non mostrarsi mai supponente e presentarsi come una sorta di underdog, un povero ragazzo che, novello Davide contro Golia, vuole affrontare con il suo ingenuo entusiasmo il Moloch del partito. Eccellente narrazione, direbbe il caricaturale professor Vendola.

In tutto questo dov’è il programma? Domanda sbagliata. Innanzi tutto si può divenire Presidente degli Stati Uniti senza un programma, semplicemente promettendo che “andrà meglio”. In secondo luogo e soprattutto, quanto più il programma è rivoluzionario, tanto più bisogna tenerlo nascosto. Renzi potrebbe essere un fuoco di paglia ma potrebbe essere un Gorbaciov che arriva alla massima carica per poi svelare che vuole distruggere il mondo che l’ha portato fin lì. Non lo sappiamo.

Questo modo di conquistare il potere è concettualmente semplice, il difficile è attuarlo. Renzi fino ad ora c’è riuscito. Intanto, rendendosi simpatico, ha fatto pensare a tutti che potrebbe vincere. E ciò ha cambiato lo scenario. Un anno fa i colleghi di partito lo disprezzavano e lo trattavano addirittura da berlusconiano, ora tengono d’occhio i sondaggi e il loro tono è completamente cambiato. La prospettiva di un suo successo li ha automaticamente trasformati in alleati: sperano infatti di condividere una parte del bottino. Quanto agli ideali, al programma vero e a quello di facciata, sono cose secondarie. Nel Pd come in qualunque altro partito la cadrega viene prima.

La conclusione è semplice: non sappiamo chi sia Matteo Renzi. Ma i suoi compagni di cordata – se hanno a cuore l’Italia – farebbero bene a saperlo. Almeno loro.

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martedì 29 ottobre 2013

Ganzi per gonzi. Davide Giacalone


Vendere la Rai sarebbe un bene per tutti. Ora c’è anche chi si candida a comprarla, il che offre l’occasione non tanto per consegnargliela, quanto per: a. effettuare una valutazione indipendente, stimandone il valore sia in blocco che a pezzi; b. stabilire la procedura di dismissione. Sarebbe il segno che l’Italia cambia, in meglio.

Ne trarrebbero giovamento tutti. Sarebbe un bene per il mercato televisivo, perché finalmente avremmo gruppi privati in grado di sfidarsi ad armi equivalenti e facendosi concorrenza in un mercato non sussidiato. Ciò migliorerebbe la qualità dell’intrattenimento e la pluralità dell’informazione. Sarebbe un bene per lo Stato, finalmente in grado di fare l’arbitro senza essere anche giocatore. Sarebbe un bene per la Commissione parlamentare di vigilanza, che potrebbe chiudere la sua lunga attività, pencolante fra l’inutilità e la lottizzazione. Sarebbe un bene per i contribuenti, che non dovrebbero più pagare il canone (ti voglio vedere, in un mercato normale, a sostenere che si paga una tassa per il possesso di un televisore) e si troverebbero sgravati di debito pubblico per somma pari a quella realizzata con la vendita.

Sarebbe un bene per la cultura in generale e per quella economica in particolare, giacché riassumerebbe un senso il concetto di “mercato”. Perché di enormità, a tal proposito, se ne sono sentite e se ne sentono un sacco e una sporta. Sostenere che il prezzo di un determinato spettacolo o giornalista lo fa il “mercato” è solo un modo per mascherare un obbrobrio relazionale, perché non esiste mercato laddove uno dei soggetti ha metà del bilancio che gli deriva da un trasferimento pubblico di ricchezza. E sarebbe un bene anche per i fenomeni del guadagno, per i divi amanti della cassa, perché quando finalmente il mercato esisterà potranno anche scucire ingaggi più ricchi, ma non potranno più dire: il mio programma si ripaga con la pubblicità. Lo ha fatto Fabio Fazio, ed è una solenne bischerata: con la pubblicità si ripaga il costo di quella specifica produzione, ovvero i soldi che prende lui e la società (esterna alla Rai) che lo produce, ma da quel conto sono esclusi i costi fissi, sostenuti dal canone. Una società privata che fosse felice di prodotti che si ripagano dei costi variabili e non remunerano quelli fissi sarebbe fallita. Difatti la Rai è un fallimento. Quindi venderla sarebbe un bene anche per Fazio, che potrebbe riscuotere senza essere costretto a giustificazioni così ingiustificabili.

E sarebbe un bene anche per la dignità di certi manager. Quando sarà privata, la Rai, potrà avere un amministratore delegato che rifiuti ogni ingerenza politica, mentre oggi l’ottimo Gubitosi è un direttore generale nominato dalla politica. Che non è un insulto, o, meglio, non lo sarebbe se egli non si fosse avventurato oltre il limite del ridicolo, assumendo d’essere il capo laddove è un dipendente di passaggio.

Tarak Ben Ammar ci ha fatto un gran piacere: da questo momento in poi la Rai resta pubblica solo perché ci si rifiuta di venderla, dato che il potenziale compratore esiste. Non credo nei prossimi giorni verranno prese decisioni, di nessun tipo. Sarebbe giusto e opportuno, ma non lo faranno. Credo, però, che da ora in poi si può chiedere a tutti e ciascuno, ai vecchi protagonisti come ai nuovi, agli immergenti come agli emergenti: lei è favorevole o contrario a vendere la Rai, ora, subito? Le risposte negative sono naturalmente lecite, ma fatelo sapere ai cittadini che pagano il conto del falso mercato, quello in cui si sentono imprenditori quelli che amministrano per conto della politica, persone di cultura quelli che raccomandano figuranti e giornalisti coraggiosi quelli che prendono montagne di soldi per fare i ganzi a beneficio dei gonzi.

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sabato 26 ottobre 2013

Strizzacervelli Rep. Guido Vitiello

                                   

Psicoanalisi politica dei disturbi da antiberlusconismo. L’uomo dei merli e la macchina influenzante

Non temo il Berlusconi in sé, temo il Berlusconi in me. E più ancora temo il Berlusconi in certi editorialisti di Repubblica, dove si è annidato in modi che l’antica demonologia avrebbe catalogato senza indugi come possessione, predisponendo i riti e le formule del caso. Ma già che l’esorcismo non è più di moda, occorrerà affidarsi al suo moderno surrogato, la psicoanalisi. Solo nella Vienna del primo Novecento, dobbiamo riconoscerlo, circolavano ingegni in grado di illuminare i documenti clinico-giornalistici che abbiamo potuto leggere in questi giorni, a opera di pazienti che non sfigurerebbero accanto ad Anna O., all’Uomo dei topi o al piccolo Hans. Ne sottopongo due all’attenzione del lettore.

1. Vedo Silvio. Il primo caso è quello di Francesco M., ma possiamo anche chiamarlo il piccolo Franz o l’Uomo dei merli. Dal suo editoriale del 22 ottobre: “Fabio Fazio sembrava Ghedini e Maradona Berlusconi. E il pubblico televisivo più colto d’Italia applaudiva il reato di evasione, che offende la disperazione del paese impoverito, proprio come la corte eversiva del Cavaliere celebra la frode fiscale davanti al tempio di Palazzo Grazioli”. Come il lettore avrà intuito, siamo in presenza di un caso di incipiente psicosi allucinatoria. Nell’“Interpretazione dei sogni” (cap. VII, par. C: “L’appagamento di desiderio”), Freud ne riportava la genesi a uno stato primitivo dell’apparato psichico in cui si è in grado, in assenza dell’oggetto desiderato, di allucinarne la percezione. In altre parole la psiche del piccolo Franz, non potendo elaborare l’assenza di B. e la sua uscita di scena, ne ricrea l’immagine anche dove di tutta evidenza non c’è, per esempio in un ex calciatore argentino di mezza età. Lo stesso fenomeno, c’è da ipotizzare, si sarebbe verificato se gli avessero messo davanti uno spaventapasseri, uno scimpanzé bonobo in doppiopetto o una sedia vuota. Il caso è del tutto analogo all’episodio di “Vedo nudo” di Dino Risi in cui Nino Manfredi allucinava donne nude a partire da qualunque stimolo, anche da una coppia di bottiglie (“sono due donne nude con un tappo in testa”). Si raccomanda un lungo riposo.

2. La “macchina influenzante”. Più spinoso è invece il caso di Barbara S., come si evince da queste righe instabili e sofferte dall’editoriale del 23 ottobre: “Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate: non voglio vederlo! Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose”. Qui siamo tipicamente nei territori della psicosi paranoide, e il testo di riferimento è il classico articolo di Viktor Tausk, psicoanalista slovacco allievo di Freud, “Sulla genesi della ‘macchina influenzante’ nella schizofrenia” (1919). La paziente Barbara S. riferisce infatti di un “dispositivo” persecutorio che “muove le cose”, esattamente come i pazienti di Tausk erano convinti dell’esistenza di misteriosi congegni in grado di intercettare e manipolare i pensieri. Alla stessa famiglia appartiene un altro caso celebre, quello del dottor Tolman convinto di essere controllato da un satellite ad personam, riportato dallo psichiatra Ronald K. Siegel nel suo studio sulla paranoia, “Sussurri”. E di sussurri anche qui si tratta, come mostra il seguito dell’editoriale: “Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili”. Apprendiamo dunque che tra le voci che Barbara S. sente ci sono grida di concubine, sussurri e perfino una tarantella (dev’esserci l’inferno, nella sua testa). A un redivivo Tausk il compito di chiarire la relazione tra il “dispositivo” influenzante che la paziente chiama “corpo di B.”, la fantasia persecutoria delle “oligarchie impenetrabili” e il suono del mandolino.
Io però in questo caso uno squillo all’esorcista lo farei.

L'immigrazione tra diritti e doveri. Vincenzo Andraous



A seguito dell’aggressione subita nella propria casa da un grande uomo e sacerdote da parte di alcuni “forestieri”, ho intrattenuto una sana e proficua conversazione con un amico e collega. Il tema della riflessione verteva sulla dichiarazione di un premier d’oltreoceano a proposito dell’immigrazione e del valore dell’accoglienza.

Certamente non volevo provocare una filippica nazional popolare, tanto meno scatenare liturgie di largo consumo più o meno attuali. Nel discorso di questo premier australiano (vero o costruito che sia poco importa ) non ci ho trovato nulla di scandaloso, di nascostamente ingannatorio, indipendentemente dalla storia di un popolo, anzi, proprio per la sua storia con tutto il diritto e dovere di non rischiare di ricadere all’indietro. La cultura australiana violenta? Aborigeni messi con le spalle al muro? Sicuramente, e però altre nazioni esemplari per cultura, potrei dilungarmi nel merito, invece mi limito a segnalare gli United States con gli indiani d’America, l’Italia con le sue belle e non troppo vetuste leggi razziali ecc.

Questo l’intervento sotto accusa: “Non sono contrario all’immigrazione e non ho niente contro coloro che cercano una vita migliore venendo nella nostra terra, tuttavia ci sono questioni che coloro che sono arrivati nel nostro Paese devono capire. Come Australiani (io aggiungerei pure come italiani), abbiamo la nostra cultura, la nostra società, la nostra lingua e il nostro modo di vivere. Questa cultura è nata e cresciuta durante secoli di lotte, processi e vittorie da parte dei milioni di uomini e donne che hanno cercato la libertà di questo Paese. Noi parliamo inglese (direi pure italiano), non il libanese, l’arabo, il cinese, il giapponese, il russo o qualsiasi altra lingua.

Perciò, se desiderate far parte della nostra società, imparate la lingua! La maggioranza degli australiani (italiani) crede in Dio (sebbene la nostra Costituzione sottolinei lo stato laico, ciò non ingenera alcuna sharia o guerra santa). Non si tratta soltanto di un affare privato di qualche cristiano fondamentalista di destra, ma vi è un dato di fatto certo e incontrovertibile: uomini e donne cristiani hanno fondato questa nazione su principi cristiani ed è chiaramente documentato nella nostra storia e dovrebbe essere scritto sui muri delle nostre scuole. Se il nostro Dio vi offende, allora vi consiglio di prendere in considerazione la decisione di scegliere un’altra parte del mondo per mettere su casa, perché Dio è parte della nostra cultura.

Accetteremo le vostre opinioni religiose, e non vi faremo domande, però daremo per scontato che anche voi accettiate le nostre e cercherete di vivere in pace e armonia con noi. Siamo orgogliosi della nostra cultura, come voi della vostra, e non pensiamo minimamente di cambiarla, e i problemi del vostro Paese di origine non devono essere trasferiti sul nostro. Cercate di capire che potete praticare la vostra cultura, ma non dovete assolutamente obbligare gli altri a farlo. Se non accettate la nostra bandiera, il nostro giuramento, i nostri impegni, le nostre credenze cristiane, o il nostro modo di vivere, vi dico con la massima franchezza che potete far uso di questa nostra grande libertà di cui godiamo in Australia (finanche in Italia): il diritto di andarvene. Se non siete felici qui, allora andatevene. Nessuno vi ha obbligato a venire nel nostro Paese.

Voi avete chiesto di vivere qui: e allora accettate il Paese che avete scelto. Se non lo fate, andatevene! Vi abbiamo accolto aprendo le porte del nostro Paese; se non volete essere cittadini come tutti in questo Paese, allora tornate al Paese da cui siete partiti! Questo è il dovere di ogni nazione. Questo è il dovere di ogni immigrato” . (...)

(l'Opinione)

Torniamo a Forza Italia!


Ecco il comunicato ufficiale dell’Ufficio di Presidenza del Popolo della Libertà.

L'Ufficio di Presidenza del Popolo della Libertà, riunito a Roma oggi, venerdì 25 ottobre 2013:

1. Denuncia la persecuzione politica, mediatica e giudiziaria in corso da vent’anni contro il Presidente Silvio Berlusconi eletto liberamente e democraticamente da milioni di cittadini italiani. Un attacco che colpisce al cuore la democrazia, lo Stato di diritto, e il diritto alla piena rappresentanza politica e istituzionale di milioni di elettori.

2. Ritiene assolutamente inaccettabile la richiesta di estromissione dal Parlamento italiano del leader del centro-destra, sulla base di una sentenza ingiusta ed infondata e sulla base di una applicazione retroattiva di una legge penale (altresì contestata da numerosi e autorevoli giuristi), palesemente contraria ai principi della Costituzione italiana (art. 25) e della “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” (art. 7).

3. Ribadisce l’impegno assunto solennemente dinanzi agli elettori, nella scorsa campagna elettorale, a battersi per un rilancio vero della nostra economia, in primo luogo attraverso una significativa riduzione della spesa pubblica e una corrispondente forte riduzione della pressione fiscale che grava su famiglie, imprese e lavoratori. In tal senso, i nostri rappresentanti di governo, governo a cui continueremo a dare il nostro sostegno, nel rispetto degli impegni programmatici assunti al momento dell’insediamento, i nostri deputati e i nostri senatori sono impegnati a contrastare ogni iniziativa che vada nella direzione opposta e a proporre efficaci misure per la ripresa della nostra economia in sintonia con le altre economie dei Paesi membri dell’Unione europea.

4. Ribadisce l’impegno per una riforma indifferibile della giustizia italiana, sia civile che penale, l’impegno per una riforma presidenzialista delle nostre istituzioni e l’impegno per un limpido bipolarismo, che veda un centrodestra liberale e riformatore alternativo alla sinistra italiana, come accade in tutti i Paesi dell’Occidente avanzato.

5. Ribadisce l’adesione alla grande famiglia della democrazia e della libertà in Europa, il Partito Popolare Europeo, con cui condivide la carta dei valori e di cui fa parte dal 1999.

6. Delibera la sospensione delle attività del Popolo della Libertà, per convergere verso il rilancio di “Forza Italia” già pubblicamente annunciato dal Presidente Berlusconi con un appello a tutti gli italiani che amano la libertà e vogliono restare liberi.
“Forza Italia” è il Movimento a cui tanti italiani hanno legato e legano tuttora la grande speranza di realizzare una vera rivoluzione liberale e di contrastare l’oppressione giudiziaria, l’oppressione burocratica, l’oppressione fiscale

7. Ricorda che “Forza Italia” non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti e difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari.

8. Affida al Presidente Berlusconi pieno mandato politico e giuridico per attivare le necessarie procedure, anche attraverso le convocazioni degli organi statutari, per l’attuazione di questa Deliberazione Politica e gli conferisce le responsabilità connesse alla guida del Movimento per definire obiettivi, tempi e modi della nuova fase di attività secondo lo Statuto di “Forza Italia”.


venerdì 25 ottobre 2013

Caso Berlusconi e democrazia deviata. Arturo Diaconale



Il caso Berlusconi costituisce un evidente fenomeno di distorsione violenta e incontrollata dello stato di diritto. Non solo per la persecuzione mediatico-giudiziaria che il Cavaliere ha subito dal momento della sua “discesa in campo” e nei vent’anni successivi.

Ma soprattutto per le conseguenze che la sua vicenda ha prodotto e che è destinata a seguitare ad avere sulla vita pubblica italiana. Il principale esito, che rappresenta la conferma definitiva agli occhi di ogni singolo cittadino di non vivere in una democrazia liberale fondata sullo stato di diritto, l’ha esposto nei giorni scorsi con sintetica efficacia Fedele Confalonieri di fronte ad un’assemblea di giovani imprenditori.

Parlando dell’ipotesi che in sostituzione di Berlusconi possa scendere in campo la figlia Marina, il presidente di Mediaset e amico storico dell’ex premier ha affermato che se Marina prendesse il posto di Silvio alla guida del Pdl-Forza Italia “subirebbe lo stesso calvario del padre”.

L’affermazione è passata sui media come un’indicazione della contrarietà di Confalonieri ad un eventuale impegno politico di Marina Berlusconi. Ed è probabile che il presidente di Madiaset l’abbia pronunciata proprio per esorcizzare un’eventualità che considera negativa per la tenuta e la sopravvivenza dell’impero economico berlusconiano.

Ma, se pure inconsapevolmente, le parole di Confalonieri denunciano una convinzione profondamente radicata nel Paese: chiunque avesse la folle intenzione di imitare Berlusconi decidendo di scendere in politica e puntando a costruire e magari guidare lo schieramento di centrodestra del Paese, subirebbe inevitabilmente il “calvario” che è stato riservato per vent’anni al Cavaliere.

Ciò che la frase di Confalonieri svela, infatti, è la convinzione generale che nel nostro Paese non sia possibile praticare la normale dialettica di ogni sistema democratico. Perché chiunque si proponga di porsi in contrasto ed in alternativa ai poteri forti dello stato burocratico costruito nei decenni dalla sinistra egemone, è destinato ad essere colpito, perseguitato ed eliminato con tutti i mezzi e i modi possibili del circo mediatico-giudiziario che fa capo agli stessi poteri forti. A nutrire una convinzione del genere non sono solo i berlusconiani più intransigenti. Questi ultimi, anzi, proprio perché berlusconiani duri e puri non si pongono neppure il problema del dopo-Cavaliere.

A nutrirla sono tutte le persone normali che vedono come il problema principale posto dalla questione di una eventuale successione alla leadership del centrodestra, sia rappresentato dalla impossibilità di trovare chi sia così folle e temerario da sfidare il tritacarne mediatico-giudiziario messo in piedi dai poteri forti per proteggere se stessi a dispetto di qualsiasi regola democratica.

E, paradossalmente, sono anche quelli che fanno parte del tritacarne che non perdono l’occasione di ostentare i loro strumenti e metodi di prevaricazione e distorsione per ammonire e tenere in riga chiunque osi solo immaginare di potersi impegnare contro lo stato burocratico dei privilegi. Ma fino a che punto può reggere un sistema fondato sulla minaccia e sulla violenza morale e materiale?  ( l'Opinione)

Per finta e per male. Davide Giacalone


Stiamo facendo finta. L’attitudine generale è diventata questa, in Italia: fare finta. Con il risultato che ci descriviamo come finiti, sull’orlo del tracollo, destinati a infausta e ineluttabile sorte. Invece avremmo solo bisogno di affrontare la realtà, di non prenderci in giro. Quindi di non sprecare e umiliare i molti punti di forza che abbiamo.

Facciamo finta che la stabilità sia un valore in sé, mentre in sé non è un bel nulla. Gli stessi che la mattina suonano lodi alla stabilità, supponendo che il suo opposto porti sventure, al pomeriggio ti spiegano che così andando moriremo tutti. Smettiamola di fare finta: un governo che dice di abbassare le tasse e invece le alza è un’accolita di mentitori. Con il che nessuno crede che si possa dimezzare la pressione fiscale in uno schioccar di dita, ma nessuno dovrebbe considerare accettabile il raccontare bubbole dalla cattedra governativa. Così come fingiamo di credere che il governo abbia creato posti di lavoro per i giovani. Fantasia: alcune agevolazioni hanno accompagnato assunzioni già decise. Non è stato creato un solo posto di lavoro, grazie a scelte governative (salvo quelli degli assistenti dei ministri). Così ragionando, già che ci si trova, perché Enrico Letta non tiene nel conto anche tutti quelli che si sono innamorati, durante il suo governo? Avrebbe un tocco romantico. E perché non contare quelli che sono guariti? Sarebbe quasi miracoloso. Ma tutto inutilmente suggestivo.

Facciamo finta di credere che la stabilità italica abbia abbassato lo spread, che è sceso in tutta Europa. Gli spagnoli avevano uno spread ben più alto del nostro, mentre ora la distanza è ridotta, siamo a un’incollatura. Dite che dipende dalla stabilità italiana? Baggianate! Piuttosto sono cresciuti i tassi tedeschi. Facciamo finta che la Borsa sia salita grazie alla stabilità. Letta lo va ripetendo da uno schermo all’altro. Ma, a parte il fatto che un tempo sarebbe stata quasi una colpa, abbiamo anche qualche merito su Wall Streat o portiamo fortuna solo al continente in cui ci troviamo?

Facciamo finta di credere che grazie al governo il prodotto interno lordo del 2014 crescerà di un punto percentuale (sempre parole di Letta). Qui centrando una doppia finzione, dato che crescerà meno e se anche fosse un punto tondo sarebbe meno di quel che faranno altri europei, che hanno conosciuto una recessione inferiore alla nostra. Oramai avviati, facciamo finta di credere che si venderà del patrimonio pubblico, per abbattere il debito. Il Corriere della Sera ci ha fatto una prima pagina. Magari fosse vero: in realtà trattasi di misurina camomilla, che prevede solo marginalmente delle vendite, consistendo in diversa intestazione di beni per un valore di poco più di sei miliardi in tre anni. Il niente. Ma elevato al cubo della finzione.

Facciamo anche dibattiti costituzionali sul ruolo e le funzioni del presidente della Repubblica, facendo finta di non vedere che è abbondantemente fuori dai binari costituzionali. Neanche per volontà propria, ma per implosione della politica. E’ un attacco a Giorgio Napolitano? Ma no, facciamo anche finta di credere che tutto sia personale. No, è un fatto. Certo, se poi il presidente Napolitano si mette a fare lo sponsor della legge contro il negazionismo (il che esula dalle sue funzioni e poteri) io ho non il solo diritto, ma il dovere di ricordare che egli è un negazionista. Non so se pentito, o stranamente smemorato.

Facciamo finta di non vedere che l’intera Costituzione è divenuta oggetto di culto misterico, perché i suoi dettami sono ignorati. (Fra parentesi: il prof. Giovanni Guzzetta mi dice che tornano firmati i moduli inviati alle segreterie comunali, con i quali si promuove una legge d’iniziativa popolare per il presidenzialismo, il che dice quanto l’esigenza sia sentita, dato che l’iniziativa rimase oscurata dai mezzi di comunicazione). E fingiamo pure nel caso di Silvio Berlusconi: gli uni fingendo che non ci sia una condanna definitiva, gli altri fingendo che l’assalto giudiziario sia da considerarsi un normale affare da avvocati. Fingiamo di non vedere che s’indaga su come votano i parlamentari.

Fingiamo, insomma, per non dovere fare i conti con la realtà reale, con un sistema politico-istituzionale giunto al capolinea e una classe dirigente fatta di piccoli furbetti, sostanzialmente stupidi. E più fingiamo più teniamo fuori l’Italia che corre, che vince, che sa farsi valere. Rappresentata da tanti che restano sconosciuti, perché la comunicazione s’occupa solo di vizi. Ed è questa la formula magica con cui possiamo continuare a descriverci come morti che camminano, nel mentre, nei mercati mondiali, riusciamo a correre più dei teutonici.

Un bagno di realismo e il prosciugarsi delle ipocrisie è quel che serve per iniziare a rimettere in moto l’Italia rimasta ferma, incantata nella contemplazione del proprio disfacimento. Solo che a perdere il ruolo, se aprissimo gli occhi e ci raccontassimo la verità, non sarebbero solo quattro politicanti. Troppe rendite, anche culturali, vivono grazie alla lussuria della decomposizione. Ne godono in pochi e pagano in molti, sarà bene piantarla.

Pubblicato da Libero

giovedì 24 ottobre 2013

Lasciate spazio a chi sa fare. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


È come un pesce che sta morendo perché l’acqua in cui vive si sta lentamente, ma inesorabilmente scaldando. Così Ernesto Galli della Loggia (Corriere , 20 ottobre) ma anche in parte Piero Ostellino (Corriere , ieri) descrivono l’Italia. I responsabili della lenta agonia sarebbero una classe politica inadeguata (in primis, aggiungiamo noi, il leader degli ultimi 20 anni, Silvio Berlusconi), e quegli imprenditori che sopravvivono solo perché sussidiati dallo Stato, cioè dai contribuenti. Ma anche gli italiani avrebbero le loro colpe: si starebbero adagiando a chiacchierare con i loro innumerevoli telefonini, a guardare la tv, senza leggere neppure un libro all’anno.

È una descrizione dell’Italia molto deprimente, ma che purtroppo in qualche modo coglie nel segno. Altri dati, però, raccontano un Paese diverso. Quello più significativo è l’attivo della nostra bilancia commerciale, cioè il fatto che il valore delle nostre esportazioni supera quello delle importazioni. E non è solo per via della recessione che frena l’import. Le nostre esportazioni crescono: hanno raggiunto i 195 miliardi nel primo semestre di quest’anno, dieci in più dell’anno scorso. Manteniamo le nostre quote di mercato. Ci sono imprese, oltre la solita Luxottica, e in campi diversi, come Prysmian, Brevini, Mossi & Ghisolfi, che si sono adattate all’euro e hanno grande successo sui mercati internazionali.
Imprese che ce la fanno, nonostante siano tartassate da imposte elevatissime. E non è, come scrivevamo il 6 ottobre, una divisione tra Nord e Sud. La differenza corre tra due tipi di Paese, tra aziende produttive e imprese decotte: ce ne sono di entrambi i tipi sia al Nord che al Sud. Rispetto al primo semestre dello scorso anno le esportazioni sono cresciute dell’11,3% in Puglia e del 10,7 in Toscana, mentre il Nordest è fermo.

Ma ad essere positivi ci sono anche altri elementi. Alcuni dei nostri licei fanno invidia a quelli del Nord Europa ed alle migliori high school inglesi e americane. Nei programmi di dottorato dei più prestigiosi atenei al mondo gli studenti italiani sono sempre tra i più bravi. Vi sono decine di giovani professori italiani con cattedre nelle prime università americane, medici negli ospedali più ambiti. Basterebbe solo un po’ di flessibilità e di meritocrazia per farli rientrare.
Ma anche in Italia vi sono eccellenze universitarie. Un esempio, e non è l’unico, è l’Istituto italiano di tecnologia che sta facendosi un nome nel campo della ricerca scientifica e ha attratto a Genova scienziati italiani ma anche americani. C’è eccellenza anche nel settore pubblico: lo staff di economisti della Banca d’Italia è considerato uno dei migliori in assoluto fra tutte le banche centrali, compresa la Federal Reserve americana. I funzionari che al ministero dell’Economia gestiscono il nostro debito pubblico sono rispettati dagli investitori di tutto il mondo.

Un Paese in cui tutti sono mediocri, quello sì sarebbe senza speranza. Ma non è il caso dell’Italia. Per ricominciare a crescere basterebbe trasferire risorse ed energie dal Paese che non funziona a quello che cammina e spesso corre. Dobbiamo abbandonare il mito del «piccolo è bello», delle imprese familiari. Servono aziende che magari nascono piccole ma poi riescono a crescere, a competere nel mondo e a quotarsi in Borsa per non vivere di prestiti bancari elargiti con il contagocce. Servono imprenditori che sappiano assumersi i propri rischi e non siano sempre pronti a privatizzare profitti, nazionalizzare perdite e stazionare nei corridoi dei ministeri per ottenere sussidi e favori. Bisogna favorire il trasferimento di risorse umane e di capitali da imprese decotte (come Alitalia) a quelle che funzionano.

Dobbiamo avere il coraggio di mandare a casa i professori fannulloni per lasciar posto ai giovani, oggi costretti a rifugiarsi all’estero. Bisogna convincere i nostri figli che laurearsi a 27 anni in Scienza delle Comunicazioni difficilmente apre prospettive nel mondo del lavoro.
E i sindacati devono convincersi che più flessibilità non significa meno, ma più lavoro, piu produttività e quindi salari più alti, e che difendere a tutti i costi anche i meno meritevoli danneggia i migliori e finisce per far stare tutti peggio. Bisogna abbandonare il «buonismo» e sostituirlo con un sostegno per chi è debole ma meritevole, per aiutarlo ad acquisire nuove professionalità e così rientrare nel mercato del lavoro.
Sono possibili cambiamenti tanto radicali? Noi pensiamo di sì. Esempi ve ne sono. Negli anni Ottanta l’Irlanda era un Paese sull’orlo del collasso. Si diceva «L’ultimo che parte spenga la luce!». In pochi anni si è trasformata nella tigre d’Europa e, superata la crisi finanziaria, sta tornando ad esserlo. Alcuni Paesi dell’Est europeo hanno reagito a situazioni ben peggiori della nostra: un’economia e una società devastate da mezzo secolo di «comunismo reale». In pochi anni sono rinati e sono all’avanguardia in molti campi.
 
Ma per fare tutto ciò serve un grande sforzo comune che cominci dalla classe dirigente. Quando vediamo un governo che discute per mesi su come cambiare il nome di un’imposta (l’Imu) significa che questa classe politica ha perduto la percezione di quanto grave sia la situazione, e non ha una visione su come invertire la rotta. A essere convinta però non deve essere la sola classe dirigente, ma tutti noi. (Corriere della Sera)

mercoledì 23 ottobre 2013

L'ombrello de Dios. Giuliano Ferrara

                                   

Se l’Italia di Fazio applaude la frode fiscale di Diego (sì, frode fiscale…)

E così la mano de Dios stampa il proprio certificato: “Sta cippa!”. Fabio Fazio intervista Diego Armando Maradona, l’argomento non è proprio il calcio – bensì quaranta milioni di euro, le tasse che lo stato italiano aspetta dall’ex calciatore – e quello, dopo aver mimato i Rolex al polso, doverosamente nascosti per non farseli sequestrare, la dice proprio chiara: “Tié!”. Fa il vaffanculo alle tasse e lo studio televisivo – nientemeno Rai3, nel frattempo che la crisi strozza l’Italia – fa la ola. E così tutta la mistica contro l’evasione fiscale – ore e ore di spot del servizio pubblico contro i delinquenti della frode – nel solo scatto di un vaffa d’autore se ne va in fumo. E così, la plebe, fa capolino nel salotto di “Che tempo che fa”. E così, il conduttore della più importante trasmissione del regime culturale, non sa trovare una sola parola per mettere in riga davanti alla Legge italiana quel cafone, piuttosto gli sorride e, compiaciuto, mette all’incasso quel che risulta come il tentativo di mettere una pezza. Dice: “Maradona è qui a titolo gratuito”.

Sembra lo zappatore in poltrona, Diego Armando Maradona. Stefano Fassina, dirà: “E’ un miserabile”. Ma il pubblico, già collaudato nel difendere dagli attacchi di Renato Brunetta il contratto milionario del conduttore, dimentica di essere l’Italia migliore e si scorda del dettaglio: frode fiscale. E’ il reato con cui è stato incastrato Al Capone, quello d’America e pure l’Al Capone dell’Italia peggiore, il Cav. E’ contro la frode fiscale che si erge, infatti, la superiorità morale dei Rodotà-tà-tà a discapito di un Berlusconi qualunque. Ma sono gli stessi che poi se ne vanno al Teatro Valle occupato a far clap clap alle piéce dove non versano i soldi all’ex Enpals e non pagano i bollettini della Siae (nel frattempo che i teatri pubblici, fedeli alla missione del servizio pubblico, muoiono).

venerdì 18 ottobre 2013

Ma Matteo Renzi è uno statista? Paolo Pillitteri



Il diavolo, come si sa, sta nei dettagli. E insieme a lui, spesso, troviamo la verità. Verità relativa, s’intende, poiché, essendo noi uomini di mondo, mai ci sogneremmo di trovarla, la verità, ancorché abbinata al diavolo. Il dettaglio renziano, dunque, non è di poco conto, ma vista la mole degli impegni e promesse che, almeno a parole, il sindaco di Firenze s’è accollato fin dalla prima discesa in campo contro Bersani (e relativi entusiasmi suscitati), il dettaglio dell’amnistia e dell’indulto diventa o diventerà la cartina di tornasole, il metro di paragone per la sua leadership.

Dettaglio, questo della clemenza per svuotare in parte le carceri più obbrobriose del mondo - e che Renzi rifiuta nettamente, rinviandola al mittente del Colle, perché diseducativa - che rivela, nella sua epifania più volte iterata, un sottofondo che non è soltanto di cinismo e di indifferenza, che non è soltanto di sotterfugio doppiogiochista rispetto a dichiarazioni di senso opposto - cioè di condivisione, anni fa, delle scelte di Marco Pannella - ma è anche e soprattutto un segnale, anzi “il” segnale di una secca diminutio della personalità renziana; un vero e proprio marchio della mediocrità politicante, il sigillo dell’imprevedibile modestia di un piccolo leader.

Cui è impossibile attribuire la definizione di statista. Perché? Perché è sui grandi temi come amnistia e indulto che si misura la metratura di altezza (o di bassezza) dei politici, anche e soprattutto perché un problema come questo non è di alto gradimento nell’auditel quotidiana che ogni mattina Renzi, ma non solo, corre a consultare, come Narciso nel lago. Ma Renzi, come vuole la nota vulgata, sarebbe il miglior fico del bigoncio mediatico-politico berlusconiano; ne deriva che il consenso dei sondaggi e la consultazione sistematica degli stessi onde tradurli in scelte conseguenti per ottenere ulteriori consensi (e così via all’infinito, sondaggio dopo sondaggio) è un obbligo. Anche a costo di contraddirsi.

Ebbene, seguendo il diagramma dei sondaggi su amnistia e indulto che mai, dico mai, sono stati favorevoli ai proponenti, Renzi ha compiuto una scelta che lo colloca al di sotto dell’ideale asticella dell’autentico capo. A dire la verità lo colloca fra gli altri contendenti (anche loro balbettanti dalla proposta del Quirinale) alla guida di un partito come il Pd che, ironia della sorte, fu con altre denominazioni, il paladino delle garanzie civili e giudiziarie.

Del resto, la conferma della deriva giustizialista del Pd sta nella sua voglia matta di voto palese per la decadenza di Berlusconi, una scelta oscena. Un altro scivolone in un risucchio della peggiore vocazione giacobina e manettara che contagiò Veltroni quando si “sposò” vergognosamente con Di Pietro, rifiutando la mano socialista e compiendo il primo passo verso il burrone dove l’attendevano la compagna di giro del cappio giudiziario di De Magistris, Ingroia ecc. E relativa sconfitta. Renzi non vuole ciò che solennemente ha proposto Napolitano alle Camere.

Il sospetto è che Renzi, una volta segretario del Pd, punti a votare il più presto possibile, insieme al partito dei giudici, a Grillo e a certi falchi svolazzanti nel Pdl, e prima che Letta si consolidi; e votare con lo stesso Porcellum che, a lui segretario del partito, gli garantirebbe nominati a iosa. Renzi teme che dicendo di sì all’amnistia-indulto, perda consensi nella platea di un Pd contaminato dal virus giustizialista e dall’odio per il Cavaliere. Per di più i sondaggi in merito sono negativi. Ma questo è esattamente ciò che un leader, uno che vuole guidare un Paese, non deve fare.

Ciò che deve fare non è il sondaggio alla stregua di un totem, ma se la scelta da compiere è giusta e meritevole di una battaglia in campo aperto. I veri leader politici del dopoguerra, da Saragat a Togliatti, da Nenni a Calamandrei a Einaudi, mai e poi mai si sarebbero sognati di sentire il polso (non c’erano allora i sondaggi) della gente per decidere o meno, a seconda dei battiti, di promuovere l’amnistia. E che amnistia.

Erano convinti che fosse necessaria per chiudere un’epoca di sangue, di odio e di morte; e aprirne una di convivenza civile e di rispetto reciproco. Ma loro, i padri della Patria, erano capaci di sfidare l’impopolarità come fanno gli uomini di Stato. Loro erano statisti. Oggi si può anche essere leader di un gruppo, di una corrente, di un partito. Ma non essere statisti. Capita. Anche a Renzi. (l'Opinione)

Scaglia di innocenza. Dario Vese

 



“È finito un incubo”, sono le parole di Silvio Scaglia assolto dall’accusa di maxiriciclaggio internazionale per oltre 2 miliardi di euro. Graziato, nella roulette russa della letteratura processuale italiana, dal sacro verbo il-fatto-non-sussiste.

Il fondatore di Fastweb, uno degli uomini più ricchi del pianeta, fondatore della prima società al mondo che su fibra ottica e adsl offriva tv digitale e video on demand, 35 mila posti di lavoro in pochi anni, fondatore e creativo di mille altre diavolerie. Forse il nuovo Olivetti, in ogni caso un geniaccio.

Per molti, a veder la storia attraverso le prime pagine e i titoli dei giornali, Scaglia sì può essere tutto questo, ma è soprattutto l’ideatore della più grande frode fiscale nella storia delle telecomunicazioni.

Per pochi, gli stessi che vogliono la responsabilità civile dei magistrati, Silvio Scaglia è il cittadino che affitta un aereo privato e dalle Antille vola in Italia per consegnarsi all’autorità giudiziaria che prontamente disporrà la sua misura di custodia cautelare. Pericolo di fuga?

Silvio Scaglia è il cittadino che sconta ingiustamente un anno da recluso, fra carcere e arresti domiciliari. Il cittadino che in regime di isolamento giudiziario riceve la sua prima visita dalla deputata radicale Rita Bernardini, e dalla folgorazione su quei dati del dramma carcere e giustizia nascerà il silvioscaglia.it. Una piattaforma in rete che racconta la sua storia per raccontare quella di tutti, dei troppi in attesa di giudizio, delle decine di migliaia di innocenti in una custodia cautelare che di extrema ratio conserva solo la parola extrema.

(the FrontPage)

giovedì 17 ottobre 2013

La cas(s)a degli italiani. Davide Giacalone


Un tempo si diceva, con un sovrappiù di retorica, che i palazzi delle istituzioni sarebbero dovuti essere la casa comune degli italiani. Ora è il palazzo dove abitano i cittadini a essere divenuto la cassa comune da cui spremere denari. Non contenti, si aggredisce il diritto stesso di proprietà, teoricamente garantito dalla Costituzione (articolo 42, secondo comma). Proprio quella che più piace e meno la si legge.

Due doverose premesse. La prima: la legge di stabilità presentata dal governo sarà molte volte cambiata, sicché solo chi ha portentosa memoria riuscirà a ricordare tutti i passaggi. Più che di stabilità è una legge d’immobilità, vuota d’idee e destinata allo stravolgimento. La seconda: qui ci occupiamo di fatti e non di atti di fede. Ai secondi appartengono annunci del tipo: aumentano i salari e diminuiscono le tasse.

La casa è finita nel gioco 3T. Che non ha nulla a che vedere con la goduriosa triade bolognese (Tette, Torri e Tortellini). Semmai un trastullo per maniaci: Trise, Tari e Tarip. Immaginiamo un normale appartamento di 100 metri quadrati, supponiamo addizionali standard e mettiamo a paragone l’esazione nei due anni passati e quello a venire (2012-2013-2014), ci sono tre diverse tipologie: 1. prima casa: si pagherà meno che nel 2012, ma più che nel 2013; 2. abitazione sfitta: il 2014 segnerà aumenti rispetto sia al 2012 che al 2013; 3. abitazione affittata: idem come nel secondo caso. Le tasse aumentano. Ma non è tutto.

Se oltre alla prima casa ne possedete una seconda e non la affittate si va (nuovamente) verso l’inserimento di quel valore nell’imponibile Irpef. Se la affittate, naturalmente, i proventi sono sottoposti a tassazione. Se la affittate e l’inquilino non paga l’affitto, o vi serve per un vostro figlio, gli fate causa: mettetevi comodi, pagate l’avvocato e le spese e rassegnatevi a vedere scorrere gli anni; se siete sopravvissuti potreste avere vinto in primo e secondo grado, nonché in cassazione; riavrete la casa? No, perché l’inquilino può ricorrere al prefetto, il quale ha il potere di sospendere e diluire l’esecuzione della sentenza (che in Italia non si rispettano manco per niente). Ciò perché la proprietà è una colpa mentre la locazione un diritto. Con il derivato che tutti i proprietari sono ricchi da bastonare, mentre tutti gli inquilini sono vecchi, poveri e malati.

Riassumendo: se quel che è vostro non lo affittate, dovete pagare di più, e se lo affittate potreste perderne la disponibilità. E la Costituzione? Uffa: è così bella che non vorrete mica sciuparla applicandola?!

Procedendo in questo modo, però, si svaluta il patrimonio delle famiglie italiane, che è anche il grande e incolmabile vantaggio che abbiamo su tutti gli altri paesi dell’Unione monetaria. Quel valore rende i nostri conti nazionali fra i più solidi. Ma se da una parte si lavora ad accrescerlo (anche con i bonus edilizi), dall’altro ci si adopera per deprimerlo. Tutti quelli che sono pronti a citare le medie europee e dimostrare che altrove il patrimonio è più tassato che da noi, leggano il saggio (Totò): è la somma che fa il totale. Il delirio fiscale si cura abbattendolo (abbattendo debito e spesa), non accrescendolo dove ancora si pensa vi sia ciccia. Se si segue la ricetta di questa legge di stabilità, facendo crescere, in tre anni, l’avanzo di bilancio di 45 miliardi, destinati a foraggiare il debito, al termine del mirabile trienno, e a esito del gioco delle 3T, saremo tutti più poveri e più indebitati.
Pubblicato da Libero

sabato 12 ottobre 2013

Come essere di sinistra in 8 pratiche mosse. Generale Desaix




Caro uomo comune, quante volte ti sei trovato a cena con persone impegnate, che ti fanno sentire un po’ così, come dire, l’ultimo degli stronzi? Quante volte ti sei detto “adesso dico una cosa io” ma poi, vedendo gli sguardi di commiserazione, hai rinunciato?

Adesso basta. La soluzione è a portata di mano, diventa anche tu di sinistra! Con alcune lievi correzioni al tuo normale modo di essere puoi riuscirci. E’ più facile di quel che credi, noi ti diremo come fare. Al termine di questo breve corso avrai tutte le carte a posto per partecipare anche tu alla grande manifestazione per la difesa della costituzione che è ormai imminente.

1) Posizione sociale. Prima di tutto devi conseguire un’adeguata posizione sociale. No, cos’hai capito? Non è questione di soldi, i soldi si danno per scontati. Mica puoi fare il ristoratore che ti scrive il conto sulla tovaglia di carta! Devi avere un reddito fisso, medio elevato, e nel settore terziario, possibilmente pubblico, ma anche nel privato va bene, se nel campo culturale o dello spettacolo. Allora? Sei diventato dirigente di una casa editrice? Sei già andato in pensione mentre tuo figlio faceva la seconda media? Sì? Vedi che fai progressi! Adesso sei pronto per passare al punto 2).

2) Patrimonio. Ora che sei una persona rispettabile devi avere un patrimonio significativo. Per carità, niente roba produttiva! L’ideale è una casa di proprietà in centro, più magari un appartamentino per le vacanze. Per quest’ultimo, se si potesse fare in un ridente paesino dell’Umbria sarebbe perfetto ma non è necessario che ti scortichi le palle fino a questo punto, Veltroni non c’è più, Ladispoli può bastare. Se ti avanza qualcosa, azioni pussa via! E tantomeno altre case, magari da affittare, con quella sgradevole gerarchia, quel senso di subordinazione del disgraziato che deve sganciarti i soldi tutti i mesi. Titoli di Stato, fondi pensione, roba così. Rendimenti bassi sono sinonimo di understatement e suggeriscono quella rassicurante sensazione che in fondo dei soldi non ne hai bisogno.

3) Infantilismo. Se vuoi essere davvero di sinistra devi sceglierti un partito da tormentare con le tue smanie identitarie. Il Pd, ad esempio, va benissimo. Così, perché deriva dal Pci, non c’è altra ragione. Ma che ti frega? Sono loro che devono adeguarsi a te, non tu a loro. Da questo partito tu non pretendi tanto, non esigi che aumenti i voti o che vinca le elezioni. Ma una cosa, quella sì, te l’aspetti: che votarlo ti faccia sentire superiore a quelli che non lo votano. E questo lo può fare soltanto aderendo, a dispetto dei santi e contro ogni logica e convenienza, ad alcune istanze che tu assorbi da alcuni media e intellettuali di riferimento, e che vedremo più approfonditamente nei punti successivi. Se non lo fanno significa che insistono a vedere il mondo con i loro occhi invece che coi tuoi ed il tuo voto non lo meritano. Ad esempio, Prodi l’hanno pisciato per 101 voti, Marini per 250 e prima di Prodi. Lo scandalo vero è questo, l’altra è una conseguenza, ma a te non te ne importa un cazzo perché Marini lo votavano anche gli altri e questo ti faceva sentire uguale a loro. Tu tiri dritto per la tua strada e vuoi sapere chi sono, quei 101 stronzi. Ci sei riuscito? Ti sei liberato di qualunque residuo di spirito critico? Bravo. Adesso sei di sinistra e, ora che sei antropologicamente superiore, quel che ti rimane da fare è imparare alcuni temi che contraddistinguono la persona di sinistra, che la rendono riconoscibile appena emette un fiato.

4) Solidarietà. Il più importante è la solidarietà. Essere di sinistra, in fondo, consiste nell’attenzione nei confronti di chi è meno fortunato di te, dei settori più deboli della società. E qui devi stare molto ma molto attento perché è facile sbagliare ed apparire di destra. Devi attentamente misurare il tuo rango sociale e poi essere solidale non con quelli che stanno un gradino o due sotto di te, bensì con quelli che stanno ancora più in basso. L’essenziale è che da dove si trovano sia impossibile raggiungerti e superarti. I negretti, ad esempio, vanno benissimo. Non ci fare che fai il solidale con qualche ragazzotto che si inventa un mestiere senza manco andare all’università perché allora vuol dire che parliamo al vento. La solidarietà ha una funzione ben precisa: serve a consolidare e legittimare i tuoi privilegi, ricoprendo di biasimo chi li mette in discussione.

5) Precariato. Ricorda bene, perché il termine può ingannare. Non è che tutti quelli che hanno un contratto che può zompare da un momento all’altro sono precari. Precari sono i ricercatori universitari. Precari sono i giornalisti. Precari sono quelli della scuola. Precari sono quelli che pascolano negli enti pubblici. E più in generale, precari sono tutti quelli che gravitano nell’orbita dell’industria culturale vastamente intesa, della quale i genitori dei precari medesimi che, come te, sono di sinistra rivendicano il controllo per sé e per la propria progenie. La commessa di abbigliamento che va col culo per terra appena si vende poco non è una precaria ma una puttanella con gli zatteroni e lo smalto sgargiante, che non vede l’ora di finire il turno per fiondarsi a ballare la salsa insieme a qualche energumeno tatuato.

6) Magistratura. Nell’immaginario del vero uomo di sinistra la magistratura ha il ruolo che negli anni ’50 avevano i cow boy nei film americani di serie b: quando tutto sembra ormai perduto e i cattivi stanno vincendo…pepperepèèèè…arrivano i nostri e battono i cattivi facendo in modo che il bene prevalga. Questo atteggiamento, solo apparentemente puerile, deriva dal fatto che da uomo di sinistra ti basi su un’analisi approfondita della realtà: ci sono i buoni che sono pochi e i cattivi che sono molti, quindi le elezioni le vincono per forza i cattivi però, per fortuna, nella società ci sono tantissimi poteri non elettivi che hanno sempre ragione e, fra questi, il principale è, appunto, la magistratura. Grazie a questa tua convinzione riesci ad avere alcuni punti fermi in un campo, per il resto così opinabile, come l’amministrazione della cosa pubblica. Il principale di questi è che le sentenze della magistratura non si commentano. Si può commentare, al massimo, un’esternazione del Capo dello Stato, un articolo della costituzione, una legge finanziaria. Una sentenza su un sinistro stradale del tribunale civile di Ascoli Piceno, invece, no, non si può commentare.

7) Costituzione. Bene, uomo comune, se sei arrivato fino a questa lezione significa che la tua adesione al meraviglioso mondo della sinistra è bella solida e sei pronto per entrare nel sancta sanctorum: la costituzione. Prima di tutto non la devi leggere e dare per scontato che sia perfettamente sovrapponibile al programma del Pci alle elezioni del 1953. La costituzione non è, infatti, un testo scritto. In realtà uno che circola esiste ma fu redatto da un gruppo di cialtroni, fra i quali quel tappo di Fanfani e quel mafioso di Andreotti, presieduti da quell’alcolizzato di Saragat. La costituzione che interessa a te, ex uomo comune ora uomo di sinistra, è uno stato d’animo, un canone estetico che divide ciò che tu apprezzi da ciò che ti va venire il voltastomaco. La costituzione è un mattino d’autunno sulle colline del Chianti, è un dibattito sul corpo delle donne, la costituzione è un corteo con Landini per vedere da vicino come sono fatti i cosi, dai, come si chiamano, quelli con la tuta, ma no, non gli allenatori, che cazzo c’entrano gli allenatori, no, quelli che sono sempre incazzati come pantere, gli operai.

A scopo esemplificativo ti indichiamo un elenco di alcune cose che sono incostituzionali: i suv, i centri commerciali, la persona fisica di Renato Schifani, il ballo latino americano, i film con Bruce Willis, la palestra, i tacchi a spillo, il festival di Sanremo, l’idromassaggio, le Maldive, McDonald, preferire la birra al vino, detestare Fabio Fazio, preferire il vino bianco al vino rosso, toccare il culo.

8) Silvio Berlusconi. Come dici, uomo di sinistra? Evasore, maniaco sessuale, corruttore, accompagnatore di Apicella, ideatore di Drive in che ha corrotto le menti degli italiani per sempre? Non ci siamo. Piano con l’enfasi che poi si vede che c’hai l’entusiasmo del neofita. Adesso ascoltaci con attenzione perché dopo avere fatto di te un perfetto stereotipo, ti stiamo dando la possibilità di fare tendenza, di diventare agli occhi dei tuoi commensali un vero e proprio guru. Ringraziaci, uomo comune, perché ti stiamo per mettere nelle condizioni di dire già oggi ciò che Pippo Civati dirà dopo aver perso anche le elezioni del 2033: Silvio Berlusconi è “colui nei confronti del quale ci furono degli eccessi e facemmo degli errori. Egli, infatti, interpretò le istanze di vaste fasce dei ceti produttivi che noi, prigionieri di una visione giudiziaria della politica, sottovalutammo, fino a perdere contatto con ampi settori del mondo del lavoro. Retrospettivamente possiamo dire che il nostro approccio di allora, esclusivamente rivolto a presentarci come interpreti di una qualche presunta virtù civica, fu probabilmente sbagliato”. (the FrontPage)

L'Alitalia paradigma dell'Italia. Gianni Pardo


Pare che nell’Ottocento uno dei fondatori della paleontologia, Georges Cuvier, abbia detto che, trovato un osso preistorico, se ne sarebbe potuta dedurre l’intera struttura dell’animale. E del resto Virgilio, se pure con altro intento, diceva “ex uno disce omnes”, se ne esamini uno sai come sono tutti gli altri. In questo senso il caso dell’Alitalia spiega non solo le difficoltà delle industrie italiane ma addirittura dell’intera Italia.

Nel 2007-2008 l’Alitalia era già nei guai e Romano Prodi cercò di salvarla. Si parlava di Air France, si parlava di Lufthansa, ma poi la Lufthansa si ritirò, soprattutto vedendo l’opposizione dei sindacati italiani. E questi ultimi festeggiarono. Poco tempo dopo subentrò Berlusconi, col suo piano di non vendere ad Air France, di risanare l’Alitalia e di consegnarla ad imprenditori privati perché la facessero prosperare. Anche stavolta i sindacati festeggiarono. Ora, cinque anni dopo, abbiamo letto che sabato 12 ottobre sarebbe stato l’ultimo giorno in cui gli aerei della Compagnia avrebbero avuto il carburante per volare. Tecnicamente, una situazione di fallimento, ma in Italia vige il principio che per ciò che ha grande visibilità un rimedio va sempre trovato. Magari a spese del contribuente.

Stavolta si tratta di un aiuto delle Poste. Il ministro Lupi afferma virtuosamente che non ci saranno esborsi dell’erario, ma come credergli? Già non sappiamo chiaramente se le Poste siano dello Stato o private. E poi, se domani l’Alitalia facesse affondare anche le Poste, lo Stato lascerebbe fallire sia l’Alitalia sia le Poste? Il ministro ha anche temerariamente affermato che le Poste entreranno nell’impresa non con una mera operazione finanziaria, cioè fornendo denaro, ma come partner industriali: cioè occupandosi della gestione dell’impresa. Personalmente ricordiamo che le Poste, tempo fa, avevano come simbolo un “aeroplanino” fatto con un foglio di carta. Ciò probabilmente le qualifica per dirigere una compagnia aerea.

Si ha una ricapitalizzazione quando qualcuno versa denaro nelle casse di una S.p.A. in difficoltà e ne ottiene in cambio azioni. Ciò avviene quando la dirigenza non sa condurre un’impresa, e un altro signore, che dispone di capitali, quell’impresa si sente capace di raddrizzarla e di farla prosperare. Se invece la società è inguaribile come struttura e tecnicamente fallita, la ricapitalizzazione è un versamento improduttivo che non serve a creare nuove occasioni di guadagno ma a ripianare buchi e pagare debiti. Un versamento che prolunga di qualche mese una morte inevitabile o dà vita a un’organizzazione che opera in deficit, a spese dei contribuenti.

La storia dell’Alitalia è esemplare, in questo senso. Nel 2008, falliti i tentativi con Lufthansa ed Air France, Berlusconi indusse i cosiddetti “capitani coraggiosi” ad effettuare una corposa ricapitalizzazione, che avrebbe dovuto comportare una sostanziale ristrutturazione dell’impresa. Risultato: quegli imprenditori hanno perso un miliardo e mezzo di euro e l’Alitalia è tecnicamente fallita. Pare che l’impresa perda circa un milione e mezzo al giorno. E ciò malgrado, non è concorrenziale ed ha prezzi alti.

Visti i ripetuti insuccessi, nasce il dubbio che ci sia qualche carenza di qualità dell’imprenditorialità italiana. Ma è dubbio pressoché assurdo. Non solo fra i difetti degli italiani non v’è la stupidità, ma proprio non si vede perché dovremmo essere più incapaci di altri. Il difetto sta nelle condizioni in cui operano gli imprenditori. Da un lato lo Stato è esoso, dall’altro, con le sue leggi e la sua magistratura, dà mano libera ai sindacati. I fallimenti a ripetizione dell’Alitalia non insegnano nulla sugli imprenditori italiani, ma molto sull’Italia stessa. E se i sindacati sono sempre felici della “soluzione domestica” è perché temono che, con l’ingresso di una società straniera, i dipendenti siano costretti a lavorare sul serio, per giunta con il rischio che l’impresa, se non fa profitti, chiuda.

Il problema dell’Alitalia è la pretesa, caratteristicamente italiana, che una grande società possa indefinitamente operare in perdita. Del resto, non è esattamente ciò che ha fatto l’Italia da quando ha cominciato a gonfiare, anno dopo anno, il suo astrale debito pubblico? Come dice “Libero”, non c’è un’unica Alitalia, c’è il Sulcis, la Tirrenia, il Monte Paschi di Siena, e molte altre imprese. L’ultima è la De Tomaso (900 licenziamenti in gennaio). Attualmente, mentre si spreme il contribuente fino a creare la più impressionante recessione europea, e lo stesso il debito pubblico continua a salire, o San Gennaro fa un miracolo ben più grande del solito, oppure siamo destinati al fallimento.

Si notino le due ipotesi: o miracolo o fallimento. Non è stato citato il cambiamento di mentalità economica e sindacale perché quel miracolo va oltre le pur notevoli capacità di san Gennaro.

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lunedì 7 ottobre 2013

Se la sinistra finalmente capisce che non si esce dalla crisi senza il centrodestra. Tosca Cantini

 
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Sul Corriere della Sera (6 ottobre 2013), Ernesto Galli della Loggia invita i “diversamente berlusconiani” di Alfano a non imitare Gianfranco Fini nella edificazione di una destra “moderna” ed “europea”, a non farsi risucchiare dal buonsensismo della sinistra (la “Costituzione”, la "Europa", il “sindacato”, i “diritti”, la “pace”, la “laicità”, il “multiculturalismo”, la “legalità”, etc.), perché farebbero la fine del leader di Fli. L’identità del centrodestra italiano, come ha mostrato Giovanni Orsina nel bel libro sul berlusconismo, ha alcuni tratti definiti e unificanti, al di là delle differenze, il principale dei quali è lo scetticismo nei confronti della politica e dei politici. Gli elettori di centrodestra non disprezzano la politica, in quanto scienza e arte di scrittori come Machiavelli, ma “il teatrino della politica”, uno dei tanti modi di dire del Cavaliere entrati ormai anche nel linguaggio della sinistra.

Gli elettori del centrodestra non sono trogloditi, come piace credere a una certa sinistra, ma, piuttosto, meno ingenui degli elettori di sinistra. Non credono ai politici e ai media, perché come dice Chomsky, il padre delle linguistica moderna, i giornali e i partiti politici comunicano con lettori ed elettori come gli adulti con i bambini. Se n’è accorto pure Gianni Riotta, non certo un fan del Cavaliere: nell’ultimo numero di Foreign Affairs spiega agli americani che il grande appeal di Silvio Berlusconi sugli elettori, nonostante gli scandali e la condanna, non è dato dalle tv, ma dal fatto che il sistema legale italiano, come quello fiscale, lasciano molto a desiderare e alle ultime elezioni politiche Berlusconi, sott’attacco di varie procure, ha mantenuto una bella fetta di consenso perché ha promesso l’abolizione dell’Imu, la tassa più detestata dagli italiani. Anche con Berlusconi interdetto e ineleggibile, il centrosinistra non vincerà, sostiene Riotta, finché non abbasserà le tasse. Anzi, conclude, il centrosinistra dovrà tenere conto di Grillo (29%) che fa dell’antipolitica e della riduzione dei costi della politica i pilastri del suo successo.

Perfino Eugenio Scalfari sembra preoccupato dell’uscita di scena di Berlusconi, tanto da esibirsi in un numero da circo su Berlusconi Al Capone che può ancora colpire (oh mamma mia!). Scalfari lo fa per irritare e ricompattare il centrodestra, come direbbe Chomsky. Nonostante il mantra della sinistra su Costituzione, Europa, multiculturalismo, etc., anche il Fondatore sembra avere capito che senza il centrodestra l’Italia non esce dalla crisi. E converrà quindi ai politici e ai media di sinistra cominciare un discorso più realistico con gli elettori, poco propensi a farsi succhiare i pochi euro rimasti dopo la rata del mutuo e le tasse dagli aumenti dell’Iva e dall’austerity di mummy Merkel. Bisognerà iniziare a dare una visione meno spinelliana (nel senso di Barbara) ai lettori di Repubblica: bisognerà spiegare che in Ue abbiamo una moneta unica, ma ognuno deve pensare ai propri bilanci, migranti, difesa. Sì, anche difesa, perché nel 2023 gli Stati Uniti lasceranno la Nato in Europa e dovremo pagarci la difesa, perché mummy Merkel e papi Hollande di Stati Uniti d’Europa non vogliono sentire parlarne, figurarsi di esercito europeo, come pensa Renzi.

Se si ha qualche dubbio, si ricordino le battute tedesche sul solito italiano vigliacco Schettino (in fondo comandante di una nave da crociera, non da guerra) e quanto è piaciuto a francesi e inglesi bombardare la Libia per buttare fuori l’Eni. Come tutti gli italiani, gli elettori di sinistra vivono in Italia e devono affrontare gli stessi problemi di quelli di centrodestra. Quindi, come direbbe Ferrara, c’è poca trippa per i gatti. E quindi dovremo, come farà Cameron, rinegoziare i trattati finanziari e anche quelli sui i diritti umanitari, perché non possiamo morire per Maastricht e dobbiamo stabilire una politica seria per l’immigrazione, pur con tutte le lacrime del ministro Kyenge e della presidentessa Boldrini.

Per arrivare poi al lamento più chic della sinistra sulla destra, di non essere “moderna” ed “europea”, preso tanto a cuore dal povero Fini, abbindolato dal miraggio della fine di destra e sinistra da farsi abbandonare dal proprio elettorato tra i sorrisini della sinistra. Ebbene, anche il centrodestra vorrebbe una sinistra “moderna” ed “europea”. Qui Cencio dice male di Straccio, perché se la sinistra rimprovera al centrodestra di avere prodotto novantuno anni fa il fascismo (quasi un secolo fa), il centrodestra può ricordare alla sinistra di essere stata comunista fino alla caduta dell’Urss, fino a ventitre anni fa e per carità di patria, la chiudiamo qui. Poiché il centrodestra e il centrosinistra sono anomali rispetto alla storia politica inglese e francese (tralasciamo i paesi nordici), sarebbe segno di intelligenza politica cessare di litigare sul passato, visto le rispettive anomalie, e confrontarsi sul presente e sul futuro, senza moralismi, amoralismi e insulti, come consiglia Michele Salvati, perché, continuando, la partita a stracci sarebbe infinita.

Il provincialismo della sinistra deriva dal fatto che fino a venti anni fa, cioè appunto fino alla fine dell’Urss, essa usciva poco dai confini nazionali e forse non ha avuto modo di accorgersi che raramente tory e laburisti si rimproverano di non essere europei, perché verrebbero bastonati sonoramente dai britannici, che amano molto la loro insularità e considerano gli europei solo dei continentali. Così è difficile che gollisti e socialisti si rimproverino di non essere abbastanza europei, perché per loro la Francia è l’Europa. Durante le ultime elezioni, Mummy Merkel e il suo sfidante hanno parlato soprattutto di Germania perché il timore dei tedeschi è solo spendere germanici euro per gli spendaccioni francesi, che pensano solo alla bella vita, e per gli italiani tutti Schettino. Quindi, forse è il caso sia la sinistra ad andare un po’ a lezione di realismo politico dai trogloditi della destra.

Per il resto, se Ezio Mauro chiede urgentemente una destra thatcheriana, perché non provare a svegliare i lettori di Repubblica dal sonno dei diritti perpetui sanciti dalla Costituzione più bella del mondo? Oltretutto, la Costituzione più bella del mondo fa tanto Celentano vintage: la moglie più bella, do you remember? Un po’ populista per Rep., no?

(L'Occidentale)

Basta con le giornate della vergogna. Federico Punzi

 


Mi scusi presidente Napolitano. Mi scusi signor Papa Francesco. Scusatemi signori ministri e signori direttori dei giornali più responsabili e pensosi d’Italia. Ma “vergogna” a chi? Quando si esclama “vergogna!” è sottinteso che qualcuno debba vergognarsi, quindi sarebbe corretto precisare chi si dovrebbe vergognare. Invece non è chiaro a chi fosse rivolta la vostra indignazione, anche se una vaga idea purtroppo me la sono fatta. Ma io non mi vergogno, né come italiano né come europeo. Provo pietà, certo, per gli innocenti morti in mare a Lampedusa, ma nessun senso di responsabilità, né personale né collettivo. E credo che noi in Italia abbiamo i media, i giornalisti, i politici, i presidenti, i papi più ipocriti di tutto il mondo, che in queste drammatiche situazioni non sanno fare altro che sfoggiare una retorica penosa e vigliacche strumentalizzazioni, incapaci di guardare in faccia e chiamare i problemi con il loro nome.

Andrebbero bandite tutte le strumentalizzazioni, quelle di chi polemizza con gli avversari politici, ma anche di chi ne approfitta per partire all’attacco della legge Bossi-Fini, che davvero non c’entra nulla con quanto è capitato. E comunque, quanti oggi puntano l’indice contro quella legge sono gli stessi che non qualche anno fa, ma nei giorni scorsi non si sono recati a firmare il referendum per abolirla, impedendo che raggiungesse il numero di firme necessarie, dunque dovrebbero solo tacere. Non è l’Italia, e nemmeno l’Europa a doversi vergognare, ma sono i nuovi mercanti di schiavi e i governi dell’Africa e del Medio Oriente che quando va bene condannano i loro popoli alla miseria, tra corruzione e malgoverno, quando va male calpestano i loro diritti, li violentano, li derubano e li massacrano in guerre fratricide. Su di loro ricade la vera responsabilità di questa e di altre tragedie, e del dramma dell’immigrazione in generale. E ormai da decenni non c’è più nemmeno l’alibi del colonialismo ad alleggerire le loro colpe.

Quando il Papa si reca in visita nelle zone più povere della terra, oltre che abbracciare i bisognosi si ricordi di gridare “vergogna” all’indirizzo dei loro governanti. Pur con tutte le contraddizioni e le difficoltà finanziarie al nostro interno accogliamo tutti a braccia aperte, tolleriamo culture e religioni diverse. Anche violente, anche se non riceviamo lo stesso trattamento. Il diritto d’asilo è riconosciuto e praticato sia in Italia che in Europa. Soccorriamo ogni anno decine di migliaia di profughi, e altrettanti li aiutiamo da lontano con aiuti umanitari. Integriamo milioni di immigrati, permettendo loro di lavorare, e offrendo servizi molto costosi: sanità, istruzione, sussidi. Abbiamo le nostre regole. Migliorabili? Certo, ma umane e in linea con quelle degli altri Paesi europei, reato di clandestinità compreso, e per durezza lontane anni luce da paesi civilissimi e da sempre apertissimi all'immigrazione come gli Stati Uniti. In Europa si potrebbe collaborare di più per gestire il fenomeno dell’immigrazione.

È vero, i Paesi del centro e del nord Europa ci lasciano un po’ troppo soli, ma nemmeno loro è la colpa della tragedia che piangiamo oggi al largo delle nostre coste. Ne abbiamo abbastanza di queste giornate dell’ipocrisia e della vergogna. È un’Italia, un’Europa, e un Occidente in generale in cui si cerca la pagliuzza nei nostri occhi e non si nota la trave negli occhi altrui. Ci vergogniamo di quello che siamo, di quello che facciamo, siamo sopraffatti dal senso di colpa per le fortune che ci siamo procurati con l'ingegno, la fatica e la civiltà. Questa è la causa più grande dei nostri mali di questi tempi, del nostro immobilismo. Questo è il malessere dell’anima che rischia di trascinare la civiltà occidentale sulla via del declino. (l'Opinione)

mercoledì 2 ottobre 2013

Berlusconi il grande


Se pensate che il Cav abbia capitolato, siete fuori strada.
Berlusconi non ha mai fatto qualcosa che non rientrasse nei suoi programmi.
Non so se sappia giocare a poker, ma il suo bluff è stato un capolavoro.

Da settimane il cavaliere aveva preso le distanze da un governo che non rispondeva alle esigenze degli elettori, con un alleato che continuamente lo pugnalava e non gli concedeva nemmeno il minimo sindacale.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la mancata sospensione dell'aumento Iva: come si fa a stare in un governo che non riesce ad evitare l'aumento di un punto di Iva che, nota bene, era considerato, assieme al nodo Imu, prioritario?

C'era, poi, il problema dei "dissidenti": certo, le cosiddette colombe si capiva che non avrebbero "staccato la spina" al governo Letta, ma chi altri avrebbe abbandonato il Pdl in caso di linea dura da parte di Berlusconi?
Bisognava farli venire allo scoperto.
Ecco, allora, il bluff portato sino ad un minuto dallo scoprire le carte: finge di volere la sfiducia a tutti i costi e resiste fino a quando non ha contato, uno per uno, i "dissidenti". A questo punto recita la parte di colui che si lascia convincere, va in aula e, a sorpresa, annuncia la fiducia.

Berlusconi, il grande, ha così ottenuto:
a) di non andare al voto subito,
b) di essere il salvagente del governo, pur prendendone le distanze,
c) di avere le mani libere un domani nei confronti dell'esecutivo,
d) l'elenco di quelli che non entreranno mai più in Forza Italia,
e) di rimanere presidente di un partito di fedelissimi,
f) il plauso di un'opinione pubblica non pregiudizialmente a lui avversa e di tutti coloro che non volevano la caduta del governo,
g) il riconoscimento, tranne che da parte dei "comunisti", di aver compiuto un'azione per il bene del Paese,
h) di sbugiardare chi riteneva che avrebbe fatto saltare il tavolo per una sorta di "muoia Sansone...".

Vedete all'orizzonte statisti della levatura di Berlusconi? Per carità di patria non facciamo i nomi di quelli che erano ritenuti degli statisti e che sono letteralmente spariti dalla circolazione semplicemente perché gli elettori si sono accorti che non meritavano il voto, e chissà se anche i fuoriusciti del Pdl subiranno la stessa sorte?

martedì 1 ottobre 2013

La crisi e il futuro del centrodestra. Federico Punzi

Ancora una volta Silvio Berlusconi spiazza tutti, anche molti nel suo partito, e ha contro quasi tutti nei palazzi e nei salotti romani (nelle urne, si vedrà). No, non bluffava. Solo chi è molto ingenuo o propina scadente propaganda può davvero sostenere che il Cavaliere abbia aperto la crisi nel tentativo di evitare che si perfezioni la sua decadenza da senatore e di salvarsi dall'applicazione della sentenza di condanna che ne determina comunque l'incandidabilità per tre o sei anni. Certo, ha cercato di trattare sulla sua "agibilità politica", ma sa bene che non sarà certo la crisi a ritardare la sua esclusione dalle istituzioni e il suo destino giudiziario. Perché la crisi, dunque? E' certamente vero che la mossa è strettamente legata alle sue vicende personali (che qualcuno crede fondatamente abbiano a che fare con la democrazia), ma non nel modo banale che ci viene raccontato. Udite udite: nell'aprire questa crisi Berlusconi non ha alcuna convenienza personale. Ma il problema è proprio questo: è stato messo nelle condizioni di non avere nulla da perdere. E allora, perché assecondare i disegni dei suoi carnefici?

Ancora una volta "L'arte della Guerra" di Sun Tzu si conferma compendio di saggezza senza tempo: accerchia il tuo nemico, ma lascia sempre una via di fuga, si batterà con meno ardore. Invece, un animale ferito e disperato, lotterà con tutte le sue forze e contro qualsiasi pronostico. Chi ha deciso di non concedere nemmeno l'onore delle armi a Berlusconi, di accelerare una decadenza che sarebbe comunque sopraggiunta entro poche settimane, applicando una legge di dubbia costituzionalità e comunque funesta per la nostra democrazia, pur di purificarsi agli occhi del proprio elettorato, e di ignorare la questione giustizia per avere dalla sua parte i magistrati, unici in grado di togliere di mezzo l'avversario politico, ha messo nel conto, accettato, il rischio di questa crisi. E d'altronde, la situazione in cui è venuto a trovarsi Renzi - il Congresso che rischia di essere rinviato, l'ipotesi elezioni con Letta candidato, o un brutto governicchio da sostenere - rivela che le impronte digitali su questa crisi non sono solo quelle di Berlusconi. In tanti hanno tirato la corda.

Due erano gli elementi costitutivi di questo governo: una prospettiva di "pacificazione" e una svolta nella politica economica - senza abbandonare il rigore ma coniugandolo con riforme e tagli alla spesa pubblica e alla pressione fiscale per ridare fiato alla nostra economia. Ma proprio il presidente della Repubblica che nel discorso della sua rielezione sembrava perfettamente consapevole della necessità e urgenza di una pacificazione nazionale, nel momento più critico, quello seguito alla controversa condanna definitiva di Berlusconi (eventualità a cui certamente Napolitano era preparato), non ha saputo, o voluto, rilanciarla. Poteva farlo non necessariamente a scapito dell'applicazione della sentenza della Cassazione, aggirandola con provvedimenti di clemenza o leggi ad personam.

La via della pacificazione sarebbe potuta restare nell'alveo della politica, per esempio attraverso un percorso di riforme costituzionali più celere che portasse alla legittimazione reciproca tra avversari e che includesse anche il tema della giustizia. Non, quindi, un quarto grado di giudizio che assolvesse Berlusconi delegittimando clamorosamente la Cassazione, ma un atto politico che riconoscesse come anomalia da correggere l'accanimento giudiziario nei suoi confronti. Eppure, nemmeno una volta fatto fuori il suo avversario per via giudiziaria il Pd ha mostrato una disponibilità - nemmeno tattica - a mettere finalmente mano alla questione della giustizia ideologizzata e politicizzata, che pure enormi danni sta infliggendo al Paese, anche in sfere diverse da quella strettamente politica (vedi il caso Riva/Ilva). E nemmeno un gesto politico, magari nella forma di un messaggio alle Camere, è arrivato da Napolitano per incoraggiare i suoi "compagni". Qualcosa che potesse, nonostante la sentenza di condanna di Berlusconi, rimettere in moto il processo di pacificazione che sembrava alla portata subito dopo la sua rielezione e la nascita del governo Letta.

Da lì in poi, infatti, le larghe intese nate sotto il segno della pacificazione e della svolta economica si sono rivelate per quello che molti sospettavano: un'operazione di galleggiamento del "relitto Italia", da una parte nell'attesa di mettere fuori gioco Berlusconi, che si compiesse la sua espulsione dalle istituzioni, dall'altra per ritardare il più possibile la candidatura alla premiership di Matteo Renzi. In verità, già scorrendo la lista dei ministri del Pdl si poteva scorgere l'intenzione di dividere i "buoni", disposti al momento opportuno a mollare il vecchio leader e a dar vita all'ennesima operazione centrista (nonostante quella appena fallita di Monti e Casini), da Berlusconi e i "cattivi", che sarebbero stati abbandonati al loro destino.

Ecco, quindi, che l'unico obiettivo del governo sembrava il tirare a campare, per dividere il centrodestra da un lato e sbarrare la strada a Renzi dall'altro. Dai tempi lunghissimi, e le procedure pletoriche, del processo di riforme concepito dal ministro Quagliariello, alle scelte chiave in politica economica continuamente rinviate, rateizzate, anche quando le coperture sembravano alla portata: l'Imu cancellata solo a metà e l'aumento dell'Iva rinviato di tre mesi in tre mesi (per poter scaricare la responsabilità della loro permanenza sul Pdl nel caso in cui avesse staccato la spina), per non parlare della spending review, delle dismissioni e dei costi standard. Anzi, diversi sono stati i decreti di spesa, coperti con nuovi balzelli e accise, di cui anche i ministri Pdl sono stati complici, se non addirittura artefici. Altro che "fortino" e "sentinelle" anti-tasse! I ministri del Pdl in questi mesi hanno avallato, e fino all'ultimo dimostrato che avrebbero continuato ad avallare, qualsiasi nefandezza fiscale pur di tenere in vita il governo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il pasticcio sull'Iva cucinato tra Saccomanni, Letta e i ministri Pdl, per cui l'aumento veniva rinviato di soli tre mesi aumentando però altre tasse (accise e acconti Ires/Irap). Per qualsiasi motivo e strategia Berlusconi abbia staccato la spina, nessun rimpianto per questo governo dei "Guardiani della Spesa".

Insomma, un film già visto: invece di battere Berlusconi nelle urne, da anni si tenta un "rassemblement" centrista e moderato dopo l'altro per isolarlo nei palazzi della politica. Poi, però, presto o tardi si torna al voto e dalle urne esce un centrino ambiguo e democristiano. E' già capitato a Fini, Casini e Monti. Ora è il turno di Alfano? Il ruolo della sinistra e dei giornali dell'establishment è sempre lo stesso (è scritto a chiare lettere negli editoriali di oggi): allettare i dissidenti di turno (per poi abbandonarli a "funzione" svolta) con la prospettiva di un ambizioso progetto politico - niente meno che un Partito popolare finalmente europeo e liberale - mentre ciò a cui sono veramente interessati è un centro che isoli la destra, docile e remissivo, subalterno, da battere agevolmente o buono al massimo per un governo di coalizione. "Se volete esistere politicamente dopo Berlusconi - ripetono - questo è il momento di farsi avanti". Può darsi, ma esistere come? Come Martinazzoli, Dini e Mastella? Operazione legittima, intendiamoci, com'è legittimo opporsi da parte di chi nel centrodestra ritiene di non voler morire democristiano.

Sta di fatto che le scelte responsabili di Berlusconi a inizio legislatura - la rielezione di Napolitano e le larghe intese - sono state rivoltate contro di lui. Anziché coglierla questa occasione, forse l'ultima, per una pacificazione, una legittimazione reciproca, come premessa per una politica finalmente capace di cambiare il paese, è stata buttata nel cesso, trasformandola nell'ennesimo tentativo di farlo fuori e dividere il centrodestra. Il che c'entra poco o nulla con i richiami alla "stabilità" e alla "responsabilità" di queste ore. In cosa consisterebbero moderazione e responsablità? Nel tenere in vita un governo che si preparava ad aumentare accise e acconti Ires/Irap pur di non trovare nella spesa pubblica il miliardo che serviva. Non in grado, dopo cinque mesi di vita, di muovere un solo passo per tagliare spesa e debito?

La mossa di Berlusconi quindi fa chiarezza anche tra i suoi. Non è solo una questione di fedeltà/tradimento, sono in gioco diverse visioni di centrodestra. Quella centrista delle cosiddette "colombe" a mio modo di vedere porta alla divisione del centrodestra e alla subalternità politica e culturale alla sinistra e al partito della spesa. E' vero però che nemmeno l'alternativa che sembra profilarsi con la nuova Forza Italia appare molto entusiasmante: sarebbe poco lungimirante e perdente se fosse una ridotta di "falchi" interessati a lucrare personalmente da un partito di mera resistenza, senza vocazione maggioritaria e di governo, incapace di recuperare credibilità.

Possibile che il centrodestra italiano sia condannato alla subalternità neo-democristiana o alla marginalità di un nostalgico "Msi" post-berlusconiano? La questione centrale è se questo paese abbia diritto ad avere una destra, o un centrodestra, nei cui confronti non vigano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte oltre che dagli avversari politici anche da poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro democristiano trasformista, culturalmente subalterno.
JimMomo
(LSblog)

Il cappio. Davide Giacalone


Erano tutti pronti a commentare la drammatica crescita dello spread. Hanno iniziato la mattina, convinti di potere pubblicare oggi (martedì) l’articolo scritto domenica. Si dava per scontato che tutta la colpa era della crisi. E invece che fa, il dispettoso spread? Sale, poi scende, poi resta a marinare. Ancora una volta sono rimasti con la gamba alzata, la lancia brandita e il gonnellino di paglia scomposto. Ancora una volta gli adoratori dello spread hanno dovuto prendere atto che il loro dio non si cura delle loro danze. Balla ad altre musiche, in sincrono con vicende continentali, non con baruffe rionali. Dovrebbero guardare lo spread dello spread, in particolare il rapporto con quello spagnolo. E’ lì la spia del problema.

Pericolo scampato? Neanche per idea. Il pericolo è enorme. Intatto. Ma non nel posto dove credono che sia. Quello Letta è l’ennesimo governo che s’impicca, e si lascia impiccare, ai parametri bilancistici. Il chiodo cui hanno attaccato la corda, questa volta, è il 3%. Limite al deficit sul prodotto interno lordo. Già il solo pendere da quel chiodo è un affronto alla ragionevolezza, perché su quel punto siamo fra i primi, e forse i primi della classe: dal 1995 a oggi, con la sola eccezione del 2009, gli unici in costante avanzo primario; in questi anni gli unici ad avere pagato la metà degli interessi sul debito con soldi dell’avanzo, mentre tedeschi e francesi, giusto per usare due riferimenti, hanno pagato tutto creando nuovo debito. C’impiccano ad una forca che dovrebbe essere un podio. Perché?

Intanto perché abbiamo una classe dirigente imbarazzante. Inutile cercare il modo elegante per dirlo: non sono all’altezza. Poi perché abbiamo due enormi debolezze, che da sole risucchiano qualsiasi merito nell’amministrazione dei bilanci: a. un debito pubblico troppo alto; b. lo sprofondare in recessione mentre gli altri già si ripigliano. Su questi fronti c’è il vero pericolo, anche perché se l’economia non cresce il debito non è sostenibile. Da qui le degradazioni già subite e quelle in arrivo, che lo rendono ancora più caro, quindi sempre meno sostenibile. Agli italiani si dovrebbe spiegare in che consiste il problema, in modo da avere il consenso per affrontarlo. Invece si cincischia su iva e imu, che sono bruscolini. Persi, per giunta.

Negli anni della crisi il nostro debito pubblico è cresciuto assai meno di quello di altri. Ma questo dato racconta solo un aspetto del problema. Se una famiglia s’indebita, ma con quei soldi compra casa, o la ristruttura, o compera cose utili, da una parte rinuncia a ricchezza futura, ma dall’altra ne acquisisce subito più di quanta potrebbe permettersene. Va bene. Il dramma del nostro debito è che cresce senza contropartita. Cresce alimentando sé stesso. Il deficit lo facciamo con il debito. Per non finire stritolati si devono fare due cose: abbatterlo con delle dismissioni e aumentare la produttività. La prima cosa significa: vendere. Se i debiti di una famiglia superano la capacità di reggerli, se per pagare gli interessi si rinuncia a mangiare è ora di vendere gli orecchini della nonna. E in fretta, prima che servano a pagare interessi.

La seconda cosa significa diminuire il costo del lavoro, il che, ancora, vuol dire bloccare i salari e tagliare il cuneo fiscale. Significa far scendere le pretese del fisco, cosa che possiamo permetterci solo riducendo la spesa corrente, quindi le dimensioni dello Stato. Fa paura sentirlo? Fa assai più paura non farlo, perché poi paghi senza avere nulla in cambio. Produttività significa avere la pubblica amministrazione interamente digitalizzata, risparmiando sui costi; la giustizia amministrata in tempi certi, e chi se ne frega delle proteste di avvocati e magistrati; poche regole per l’impresa; pochi vincoli burocratici; una scuola selettiva; la riorganizzazione degli enti locali e lo smantellamento del nuovo (micidiale) titolo quinto della Costituzione. Tutti dolori e sacrifici? Ma quando mai: sono piaceri e liberazioni. Se facessimo queste cose potremmo anche ricordare che la Germania le fece (meritoriamente) in deficit. Per cui quel chiodo va rimosso, come fu rimosso per altri, cui noi non siamo inferiori. Ma se non ci sbrighiamo, se restiamo immobili, si apre la botola e il cappio si stringe. Con o senza il contributo dello spread.

Pubblicato da Il Tempo