giovedì 29 novembre 2007

Basta con i golpe nei trasporti! Carlo Panella

Io domani devo andare da Torino a Roma. Non sarà possibile, treni in scipero, aerei in sciopero, autolinee urbane in sciopero, caselli autostradali in sciopero. Ma se anche riuscirò ad arrivare a Roma con l'unico mezzo possibile -l'aereo dopo le 15- rimarrò bloccato a Fiumicino per lo sciopero dei treni locali a cui si somma quello dei tassinari.
Milioni, decine di milioni di italiani avranno il mio stesso problema; milioni di loro dovranno pagare anche detrazioni di stipendio per i ritardi sul posto di lavoro nei turni pomeridiani. Questo non è uno sciopero, è un golpe.
Uno dei tanti giorni in cui i sindacati fanno golpe leggeri per imporre la loro volontà danneggiando non la controparte, che non ne soffre minimamente, ma milioni di innocenti cittadini.
Questo non è uno sciopero, è un atto di violenza collettiva, un sopruso.
Chi lo appoggia commette un reato, combatte la democrazia.
E' incredibile che partiti come Fi (o PPl, come si chiamerà) non facciano della libertà di muoversi dei cittadini la loro bandiera, andando contro, frontalmente, ai tanti golpe leggeri dei sindacati.

Clementina la pazza. Davide Giacalone

Non sono un tifoso di Clementina Forleo, non mi batterei per la sua santità e rimango convinto che non è adatto a fare il magistrato chi non sfugge alla calamita delle telecamere. Non mi piace la giustizia usata per far politica, mi ripugna lo sputtanamento mediatico degli indagati (oramai estesosi anche ai passanti per caso), considero miserrimi quanti confondono gli atti giudiziari con i verdetti e sicario senza onore il giornalismo velinaro. La sinistra pratica questi vizzi, fascistoidi, da molti anni. Poi, quand’è sotto accusa, riscopre le virtù del garantismo. Non facciamo prendere per i fondelli e diciamola tutta.
La Forleo non doveva scrivere che Fassino e D’Alema erano ben consapevoli di favorire Consorte nella scalata bancaria? è prova del suo squilibrio la lite con poliziotti che avrebbero maltrattato un extracomunitario? Può darsi che quei due preferiscano passare per scemi manipolati, segno di come si seleziona la classe di governo, ma i conti non tornano. Quando il pm Di Pietro ed il gip Ghitti si scambiavano pizzini per suggerirsi chi, come e quando accusare, in violazione di quasi tutte le nostre leggi, ci fu azione disciplinare? No, anzi, elessero Ghitti al csm, così poteva giudicare gli altri magistrati. Quando dalla procura di Milano spedirono la Guardia di Finanza per sequestrare, alla Camera, i bilanci dei partiti, pubblicati su tutti i giornali, ci fu reazione proporzionata? No, anzi l’allora presidente, Napolitano, destinatario di lettere scritte da suicidi inascoltati, chiuse presto l’“incidente”. Quante cose ci tocca dimenticare, del nostro Presidente, talché neanche il compleanno potremo festeggiargli. E poi, fateci caso: se un magistrato femmina s’occupa di malaffari riconducibili alla piovra berlusconiana, trattasi di donna coraggiosa, riservata e dal ciglio asciutto, se capita rivolga lo sguardo a sinistra, eccole là, esibizioniste, isteriche e piagnone. Sarà una vendetta contro le corbellerie dette su donne e shopping.
E’ ingiusto, oggi, anche solo per indagare, immaginare che certuni siano stati consapevoli. Ma era giusto, ieri, condurre processi a sentenza sulla base del bestiale “non poteva non sapere”. Tutto questo è rivoltante, da condannarsi con ogni forza. E’ la barbarie arrogante di un Paese che ha ammazzato la giustizia.

Il Cav. mette a tutti le calze a rete. il Foglio

Più che di “contrordine” bisognerebbe parlare di “controdisordine”.

Il Cav. giocoso mette a tutti le calze a rete. Rete, parola moderna e forse capezzoniana, è la nuova formula confederale per tenere insieme i diversi e uniti nella dialettica crociana dei distinti. Il disordine è il brodo di coltura del vero liberalismo, probabilmente; sicuramente lo è del berlusconismo, e ab origine. Dunque il “contrordine” di ieri, che allagherà tediosamente e omologherà tutti i giornali nel giudizio, è in realtà un “controdisordine”. Lo scioglimento di Forza Italia è come quello dei ghiacciai di montagna, che sono caratterizzati come universalmente noto dal fenomeno dell’oscillazione. A Berlusconi la situazione esistenziale, l’unica cosa che conti per lui e in fondo anche per noi, ha sempre richiesto energia e intuito e flessibilità, più che severi e duraturi protocolli strategici. Agile nel salire sul predellino, è agilissimo nello scendere. Ma le cose importanti restano nell’aria. E tra le cose importanti c’è questo nuovo e bel clima di licenziosità che si afferma nella ex Gabbia delle libertà, ciascuno ormai padrone in casa propria, con il patron dei patron che per non essere espropriato dagli aitanti rivali abolisce la guerra di successione con tutto il regno, e apre un negoziato con l’avversario, inaugurando un nuovo schema che è insidioso per entrambi ma anche, potenzialmente, fecondo per ambedue.
Il Cav. ha sempre chiesto di essere rispettato, e vorrei vedere, ma non ha mai prescritto di essere preso sul serioso, di essere decodificato come si farebbe con uno statistone di quelli incollati alla caricatura del perfetto uomo pubblico. Che cosa resta, dunque, del predellino? Resta che non aveva voglia di essere processato, semmai di fare le bucce agli altri con il conforto di un buon sostegno popolare diretto. Resta che, come ha notato con finezza il suo esegeta Baget Bozzo, ove mai non dovesse tornare a Palazzo Chigi su un’onda elettorale positiva, con la scelta proporzionalista si garantirebbe lo spazio per continuare a contare in proprio e a esercitare un’influenza regale sulla politica repubblicana. Resta che bombardando il quartier generale, ma come sempre senza vittime, questo Mao nonviolento si è assicurato che tutti abbiano ben capito che non molla. Resta soprattutto che è stata avviata con glamour una via del parlarsi di tutti con tutti al termine della quale, nell’esperienza storica dell’intera vita repubblicana, in genere c’è una bella crisi di governo.

mercoledì 28 novembre 2007

I tedeschi adorano il solare, ma vanno a petrolio, carbone, nucleare. il Foglio

Al direttore - Celentano ce l’ha cantata: niente nucleare. L’abbiamo spento nel 1987 e ci stiamo godendo i benefici. L’ha detto anche Pecoraro Scanio: il sole è gratis. Peccato che l’energia solare non lo sia (altrimenti, perché incentivarla?). Già che ci siamo, perché non spegnere anche le centrali a olio combustibile, a carbone, a gas e tenerci solo l’idroelettrico, il solare e l’eolico? Se utilizzeremo solo le fonti rinnovabili, dovremo adattarci: poca luce, poco riscaldamento, niente televisore, niente frigorifero, niente lavatrice, niente ascensore, niente computer, niente auto, aerei, treni eccetera. Un bel salto indietro a quando eravamo felici senza far fatica e senza il surriscaldamento dell’ambiente (a proposito le stazioni sciistiche delle Alpi sono aperte). La situazione non sarebbe buona né per la sorella di Celentano né per noi.
Carlo Pellegatta, via Web

P. S. La Germania viene citata come esempio per aver introdotto su larga scala il solare e l’eolico: i consumi tedeschi sono coperti al 78 per cento da petrolio, carbone e nucleare.

Risposta del Direttore
Celentano è in buona compagnia. Tutta la questione energetica è trattata come un capitolo del pensiero magico dal fior fiore delle classi dirigenti mondiali. Questo in pubblico, davanti alla folla in ardente attesa di sortilegi. Poi per via spiccia e riservata infuria la guerra energetica, e probabilmente il nucleare sarebbe la soluzione anche nel senso della stabilità e di una ragionevole immissione di pace possibile nel mondo.

La montagna ha partorito il topolino.

http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/degrado_centri_storici/direttivamibac.pdf

martedì 27 novembre 2007

Come faranno quelli di Repubblica ora che Walter dialoga col Cav.? Gabriella Mecucci

Buffa sorte quella di Walter Veltroni. E’ sicuramente il leader della sinistra più vicino, per formazione e interessi culturali, a Silvio Berlusconi. Sono, infatti, entrambi due personalità straordinariamente esperte e capaci nell’arte di comunicare. Eppure, o forse proprio per questo, è il politico con una più lunga e tenace militanza antiberlusconiana. E proprio per questo particolarmente amato dal gruppo Espresso-Repubblica. Fu Walter a protestare sin dagli inizi contro il modo di fare televisione di Berlusconi, fu lui – ad esempio – ad organizzare una campagna molto aggressiva contro gli spot piazzati all’interno dei film. Vi ricordare il celeberrimo “non s’interrompe un’emozione”?

E poi fu sempre Walter a contrastare Massimo D’Alema accusato di essere il padre di tutti gli inciuci con il Cavaliere di Arcore, e toccò sempre a lui, fra il ’93 e il ’94, lanciare dalle colonne dell’Unità l’accusa di essere un fascista contro il Silvio “sceso in politica”. Erano i tempi in cui il “golden boy” di Botteghe Oscure e il fondatore di “Repubblica” si ricoprivano vicendevolmente di complimenti e in coro si scagliavano contro il “pericolo per la democrazia” proveniente dalle nebbie di Arcore.

Poi Walter è diventato sindaco di Roma e lo scontro si è un po’ attenuato, ma ogni volta che si è presentata l’occasione, il primo cittadino della capitale ha ribadito che lui era massimamente alternativo a Silvio. Ma, a dimostrazione che in politica non bisogno “mai dire mai”, adesso Veltroni è diventato il capo della gauche dialogante ed ha deciso di incontrare Berlusconi per accordarsi sulle Riforme. Appena ha mollato di qualche centimetro il suo storico antiberlusconismo, il neo segretario del Pd ha incontrato sulla sua strada un malmostoso Romano Prodi che non ha alcuna simpatia per il nuovo corso veltroniano (basti leggere le dichiarazioni rilasciate domenica dalla sua più appassionata seguace: Rosy Bindi), e soprattutto ha visto scatenarsi contro di lui le ire di “Repubblica” che, per bloccarlo, ha tirato fuori le telefonate fra Rai, Mediaset e altro. Il quotidiano di largo Fochetti conduce l’attacco sapendo di avere il proprio migliore alleato a Palazzo Chigi. Walter per la prima volta non è considerato come il migliore dei “propri figli” nemmeno da “barba papà” Scalfari. Da ieri poi sono cominciati gli incontri con i leader dell’opposizione e venerdì toccherà allo storico “nemico” Silvio Berlusconi: una sorta di coltellata per il gruppo “Repubblica”. D’Alema appoggia l’operazione veltroniana, ma gode delle difficoltà di Walter. Adesso tocca a lui essere attaccato come “inciucista”. Chi la fa l’aspetti. (l'Occidentale)

Il merito e il salario. Pietro Ichino

Il presidente di Confindustria, Montezemolo, ha rilanciato con forza, in questi giorni, la parola d’ordine della meritocrazia; e il segretario della Cisl, Bonanni, gli ha risposto positivamente: «Il nostro obiettivo è lavorare meglio e di più, per produrre e guadagnare di più». Su questo tema, invece, la Cgil resta abbottonata. Questa sua riluttanza non risponde a ragioni tattiche contingenti: ha radici profonde nella cultura della sinistra. E niente affatto disprezzabili.

A sinistra l’idea dominante è che la produttività non sia un attributo del lavoratore, bensì dell’organizzazione aziendale in cui egli è inserito. «Prendi un ingegnere bravissimo e mettilo a spaccare le pietre: otterrai probabilmente un lavoratore molto meno produttivo di uno spaccapietre analfabeta». Se, poi, nessuno domanda pietre, entrambi stanno fermi e la produttività di entrambi è zero. Nel dibattito di tutto lo scorso anno sui nullafacenti del settore pubblico, questo è stato immancabilmente il concetto che veniva contrapposto all’idea di commisurare le retribuzioni anche ai meriti individuali: «Il risultato penosamente basso di molti uffici — si è detto da sinistra — ma anche il difetto di impegno di molti impiegati dipendono dal pessimo livello di organizzazione e strumentazione ».

C’è del vero in questo argomento; ma a sinistra si cade spesso nell’errore di fermarsi qui. È l’errore che il grande Jacovitti rappresentò con l’indimenticabile vignetta dove una mucca dall’aria torpida e pigra diceva: «Sono una mucca per colpa della società». La realtà è che la produttività del lavoro dipende da entrambe le variabili: sia dall’organizzazione, e talvolta da circostanze esterne incontrollabili, sia dalla competenza e dall’impegno del singolo addetto. E conta anche il suo impegno nel cercare l’azienda dove il proprio lavoro può essere meglio valorizzato.

Commisurare interamente la retribuzione al risultato significa, certo, scaricare sul lavoratore tutto il rischio di un esito negativo che può non dipendere da suo demerito. Ma garantire una retribuzione del tutto stabile e indifferente al risultato significa cadere nell’eccesso opposto: così viene meno l’incentivo alla fatica del far bene il proprio lavoro e del muoversi alla ricerca del lavoro più utile, per gli altri e per se stessi. Questa stabilità e indifferenza della retribuzione è la regola oggi di fatto imperante in tutto il settore pubblico, ma troppo largamente applicata anche in quello privato, per effetto di contratti collettivi che lasciano uno spazio del tutto insufficiente al premio legato al risultato.

E questo è uno dei motivi —insieme, certo, a tanti altri difetti strutturali e imprenditoriali — della bassa produttività media del lavoro nel nostro Paese. Per uno stipendio magari basso, che però matura qualsiasi cosa accada, ci sono sempre i lavoratori che si impegnano a fondo, se non altro per rispetto verso se stessi, e si ribellano alle situazioni di improduttività; ma ce ne sono sempre anche altri che se la prendono comoda, fino al limite del non far nulla. Un’iniezione di meritocrazia nei contratti collettivi e individuali fa certamente bene anche a questi ultimi. (Corriere della Sera)

La gabbia dei contratti. Tito Boeri

Si riapre oggi a Roma il negoziato sulla riforma della contrattazione. Ha come oggetto i luoghi e le modalità con cui si determinano i salari di 12 milioni e mezzo di italiani. Attorno al tavolo, posti a sedere per Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Guai se rinviassero ulteriormente la soluzione di un problema sempre più grave. Oggi quasi il 70% dei lavoratori dipendenti italiani ha un contratto scaduto. I loro contratti non si chiudono perché vengono siglati a livello nazionale ed è praticamente impossibile mettere tutti d’accordo. All’interno della stessa categoria coesistono realtà sempre più diverse. Alcune imprese sono riuscite in questi anni a ristrutturare e hanno raggiunto livelli di efficienza elevati; altre, da quando con l’euro non possiamo più ricorrere alle svalutazioni competitive della nostra moneta, riescono a malapena a sopravvivere tenendo il costo del lavoro più basso possibile.

Anche le esigenze produttive e di organizzazione del lavoro sono sempre più eterogenee: tra i metalmeccanici coesistono la Fiat e le imprese che producono software, le aziende della componentistica elettronica e quelle artigianali della lavorazione dei metalli, gli odontotecnici e gli orafi. Definire un livello retributivo che vada bene per tutti è praticamente impossibile. Si finisce per pagare troppo poco i lavoratori delle imprese più dinamiche o per far fallire le imprese meno competitive.

Né si incoraggiano lavoratori e datori di lavoro dal migliorare la produttività. Se i primi vengono pagati poco anche quando l’azienda diventa più efficiente, perché mai dovrebbero dannarsi l’anima per migliorare i risultati aziendali? Quanto ai datori di lavoro, i bassi salari definiti a livello nazionale li proteggono dalla concorrenza delle altre imprese, servono «al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende», come recita lo stesso accordo firmato nel luglio del 1993. Se la produttività del lavoro è calata in Italia, negli ultimi anni, una colpa considerevole ce l’ha proprio il nostro sistema di contrattazione non riformato.

La contrattazione centralizzata ha anche impedito a molte imprese del Sud di emergere alla luce del sole. Oggi nel Mezzogiorno il tasso di occupazione misurato dalle statistiche è il 70 per cento di quello del Centro-Nord, il tasso di disoccupazione è tre volte più alto che nel resto d’Italia. Per cercare di contenere i divari regionali, siamo costretti a immettere continuamente denaro pubblico, sprecando risorse che potrebbero essere spese meglio. Durante il passaggio al Senato della Finanziaria 2008 è stato reintrodotto un bonus di 333 euro al mese che verrà automaticamente concesso a chiunque, anche una banca o un monopolista privato, assuma un lavoratore a tempo indeterminato nel Mezzogiorno. Un analogo strumento introdotto nel 2001 era arrivato a costare fino a 3 miliardi di euro. L’incapacità di adattare salari e organizzazione del lavoro alle specifiche esigenze delle singole aziende ha anche impedito alle nostre imprese di gestire meglio l’invecchiamento della nostra forza lavoro. Ci vuole flessibilità salariale e negli orari di lavoro per permettere a chi è in là con gli anni di rendersi utile, trasmettendo le proprie conoscenze ai lavoratori più giovani. La contrattazione centralizzata, con scatti di anzianità automatici e nessun legame con la produttività, spinge i datori di lavoro a liberarsi il più presto possibile dei lavoratori più anziani. Li condanna ai margini del mercato del lavoro.

Certo, anche le regole di contrattazione definite nel 1993 permettono sulla carta una qualche forma di contrattazione decentrata. Ma siccome può solo aggiungere e non togliere ai contratti nazionali, la si svolge solo in quelle imprese, sempre più rare, in cui il sindacato è ben rappresentato. Le parti sociali devono invece oggi accettare il principio che si possa davvero contrattare a livello aziendale. Il che significa anche scendere al di sotto del livello fissato a livello nazionale, tenendosi comunque al di sopra di un salario minimo che avesse forza di legge. Se sindacato e Confindustria accettassero questo principio, ci sarebbe contrattazione in molte più aziende e i salari medi degli italiani, assieme alla loro produttività, tornerebbero ad aumentare.

Speriamo che oggi di questo e non di altro si discuta. Speriamo che si parli anche di come rivedere formule organizzative obsolete, fatte solo per escludere chi non è già rappresentato. Che senso ha oggi per un lavoratore iscriversi prima ad una categoria che a un sindacato? E che senso ha per Confindustria strutturarsi in associazioni territoriali se queste non servono, oltre che per organizzare convegni, per contrattare?

Il rischio è che invece oggi sindacati e Confindustria si troveranno uniti solo nel condannare chi, giustamente, al tavolo giustamente non è stato invitato. Non che non abbiano ragione di farlo. Il voto sul pacchetto welfare che si annuncia per giovedì alla Camera è una beffa per quei quattro milioni di lavoratori che a novembre hanno approvato il protocollo sul welfare firmato nel luglio scorso. Si è scientemente voluto aspettare l’esito del referendum per apportare le modifiche da tempo richieste dalla parte poi uscita sconfitta dalla consultazione. Questa parte politica, la vecchia sinistra, considera il sindacato come una cinghia di trasmissione del partito, una organizzazione che serve solo per far avallare ai lavoratori le proprie decisioni. Ma proprio perché il sindacato italiano non è come quello dei Paesi dell’ex blocco sovietico, proprio perché le parti sociali sono oggi giustamente unite nel condannare il voltafaccia dell’esecutivo, devono concentrarsi sulle materie che sono strettamente di loro competenza pensando a come far meglio ciò che solo loro possono fare: contrattare, contrattare, contrattare. (la Stampa)

Prodotto scaduto. Mario Cervi

S’è sgretolato, parecchi anni or sono, il comunismo reale. Ne è fuori la Cina, dove furoreggia un affarismo autoritario e non di rado persecutorio. Ne è fuori quasi totalmente il Terzo Mondo, affascinato a lungo dalle sirene d’un marxismo in salsa africana. Rimane Cuba, legata alla sopravvivenza fisica di Fidel Castro, e oggetto di amorevoli cure dei politologi: angosciati dalla prospettiva di non poter più controllare in concreto, a breve scadenza, le caratteristiche essenziali, e infallibilmente manicomiali, d’un regime comunista. Ma perfino nella stampa plumbea dell’Avana si nota qualche afflato d’indipendenza.
Dopo lo sfascio del comunismo reale - la dizione ufficiale era anzi quella di socialismo reale - sta cadendo in pezzi anche il comunismo ideale. Con l’eccezione forse di Oliviero Diliberto che non riesce a liberarsi dai miti - nemmeno da quello d’essere un genio - e nonostante la superstite presenza di due partiti che hanno il comunismo nell’etichetta, in Italia la frana è visibile e palpabile. La «cosa rossa», rassemblement delle chiacchiere, affaccia il proposito di rinunciare al simbolo di falce e martello. Forse si è capito, perfino nelle stanze d’avorio dove i rivoluzionari al caviale elaborano i loro progetti, che i contadini sono una esigua minoranza in un Paese moderno, e che gli operai non sono più una classe maggioritaria. Inutile allora evocare un proletariato estinto e slanci di masse imborghesite, meglio arrendersi a battaglie più consone allo stile dei combattenti: non per la conquista del Palazzo d’inverno ma per la poltrona in ogni stagione. D’inverno con settimana bianca incorporata.
Riteniamo che anche la crisi del Manifesto possa essere iscritta in questa atmosfera di smobilitazione del comunismo, un tutti a casa serpeggiante, e non abbastanza mascherato dai proclami del «tutti all’attacco». Il Manifesto ha avuto più momenti di difficoltà economica. Il suo male attuale è tuttavia più profondo, investe l’essenza ideologica d’un giornale che si era coraggiosamente opposto al conformismo filosovietico del Pci - e dunque dell’Unità - ma che teneva alta la bandiera d’un futuro in cui il vero comunismo, non quello adulterato e dispotico dell’Urss, trionfasse portando ai popoli godimenti mai prima assaporati.
In questa fede, o se preferite in questa utopia, il Manifesto si è crogiolato. Adesso il padre nobile Valentino Parlato riconosce che la crisi non è solo di soldi, è anche politica: e allora insieme ad appelli per un sostegno finanziario - ci auguriamo di cuore che il Manifesto superi queste difficoltà, ogni voce giornalistica è preziosa - vi sono anche annunci «di un prodotto editoriale diverso nella forma e nel linguaggio». Un prodotto che si pretende non rinnegherà il passato, ma che pare rinuncerà alla qualifica di «quotidiano comunista». Progetto ambizioso, fin troppo: a meno che il Manifesto, insieme a un nuovo linguaggio, trovi anche nuovi contenuti. Quelli comunisti sono scaduti da un pezzo. (il Giornale)

lunedì 26 novembre 2007

Dalai Lama: da Bertinotti atteggiamento elusivo, anche per lui il problema è politico, non protocollare. Benedetto Della Vedova

Sono certo che una persona di grande sensibilità politica e istituzionale come il Presidente della Camera Bertinotti non possa avere ritenuto di archiviare una richiesta ufficiale avanzata da oltre 170 deputati con una battuta ai cronisti a margine di un incontro della Sinistra europea. Nel merito, poi, contro-offrire un “ricevimento” in un’altra sala del Palazzo, per non opporre un formale rifiuto alla richiesta di intervento in Aula da parte del Dalai Lama, non ha francamente alcun senso. Il problema non è onorare la persona del Dalai Lama con una accoglienza formale. Il problema è consentire alle sue parole di pace e riconciliazione di risuonare dal cuore della democrazia italiana – cioè dal Parlamento – di fronte alle richieste e alle minacce delle autorità di Pechino che chiederebbero, proprio per quelle parole, di trattarlo da reprobo.
Insomma, anche per il Presidente della Camera quello che pone il Dalai Lama è un problema politico, non diplomatico o protocollare. Esattamente come per il Governo, che peraltro continua prevedibilmente ad ostentare un silenzio perfettamente allineato ai desiderata di Pechino. (Riformatori Liberali)

Berlusconi non sarà più premier e nessuno se ne è accorto, strano. Carlo Panella

Un' interessante e intrigante riflessione di Carlo Panella.
Tenere presente che Berlusconi è un mago per i colpi di scena...

E' ben strano che nel dibattito politico, soprattutto a sinistra, non sia deflagrata la vera notizia conseguente alla decisione di Berlusconi di dichiarare morta la Cdl: lui non sarà più premier. Se infatti salta la logica di coalizione, se salta il bipolarismo attuale, se il nuovo partito di Berlusconi, il ppl, aspirerà al massimo al 30-35% dei voti, se i governi non si faranno nelle urne, ma in Parlamento e al Quirinale, dopo il voto -questa è la vera svolta berlusconiana- è anche chiaro che il premier dovrà essere espressione di una mediazione tra le forze che si coalizzeranno, il che esclude, appunto, Berlusconi.
Di questo il ''dottore'' è ben cosciente ed è anzi questo il principale regalo avvelenato che egli porta a Veltroni nella trattativa imminente. E' vero che questa è una dolorosa rinuncia per lui. Ma è soprattutto vero che in questo modo toglie il collante principale alla sinistra e la principale motivazione al voto al Pd.
Un gioco lungimirante.
Di cui pochi pare si siano accorti.

La rabbia delle femministe meglio dei commenti bon-ton. Eugenia Roccella

Ma sì, certo che hanno sbagliato. Le femministe che sabato hanno manifestato contro la violenza sulle donne, non avrebbero dovuto cacciare né le ministre del centrosinistra Pollastrini, Turco e Melandri, né le deputate di Forza Italia Prestigiacomo e Carfagna. Però che noia la sfilata uniforme di commenti bon ton, da Dacia Maraini a Miriam Mafai passando per Maria Laura Rodotà, tutte a bacchettare le giovani streghe maleducate che non sanno far politica. «Autolesionismo», «occasione sprecata», «l'antipolitica ha raccolto i suoi frutti», «vetero-bailamme separatista», si leggeva ieri sulla stampa.
Ebbene, sì, hanno rifiutato gli uomini, mentre oggi sarebbe fondamentale coinvolgerli, perché violenza e stupri non devono essere solo affari nostri, ma anche loro; però volevano riempire dopo tanto tempo la piazza di donne, e ci sono riuscite. Migliaia di donne in corteo fanno un effetto straordinario, che la presenza maschile avrebbe annacquato, inutile negarlo. Hanno respinto le rappresentanti del mondo politico, e hanno sbagliato: se non altro perché ormai ci si poteva illudere di aver sconfitto la storica propensione delle donne a non riconoscersi reciprocamente dignità e autorevolezza, a mettersi ferocemente l'una contro l'altra. Si poteva sperare che nessuna femminista avrebbe gridato «velina» come un insulto a un'altra donna, e siamo sicure che sia possibile essere dalla parte delle donne esibendo fieramente un tacco da dodici centimetri, un trucco perfetto e persino l'appartenenza a un partito di destra (Santanchè insegna).
Però per aderire a una manifestazione bisogna condividerne gli obiettivi, e le organizzatrici avevano duramente criticato «l'approccio securitario» con cui il governo ha affrontato la questione. «Ancora una volta la violenza maschile viene ricondotta a un problema di sicurezza delle città e di ordine pubblico» si legge nel comunicato diffuso dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani. La violenza contro le donne non ha colore, né religione, né cultura, ha solo un sesso, era scritto sui cartelli e gli striscioni del corteo. Non può essere trattata come «devianza di singoli o come responsabilità da addossare alla nazionalità degli aggressori», dice chi ha promosso la manifestazione, perché «è strutturata all'interno della società e della famiglia, e deriva dal dominio storico di un sesso sull'altro». Chi è andato all'appuntamento di sabato accettava, implicitamente o esplicitamente, questa impostazione.
Ma se è vero che la violenza contro le donne è strettamente intrecciata al complesso rapporto di potere tra i sessi, è difficile affermare che non ci sia differenza tra i regimi politici, le religioni e le culture. Così come è assurdo collegare la violenza direttamente alla famiglia, secondo un'analisi datata e semplicistica che fa della famiglia il luogo di ogni nequizia, e sganciarla completamente dal problema della sicurezza urbana.
C'è una lampante differenza tra una religione che ha condannato 2000 anni fa la lapidazione dell'adultera e un'altra che la consente ancora oggi; c'è un abisso tra l'acido buttato in faccia alle disobbedienti - oppure i roghi «accidentali» in cui muoiono troppe giovani spose indiane - e i paesi in cui gli stupratori si processano e si mettono in galera. È impossibile mettere sullo stesso piano un governo democratico e uno autoritario, così come culture in cui le donne sono svalorizzate fino ad essere eliminate prima di nascere, e altre in cui si riconosce loro piena dignità. La famiglia non è la causa della violenza, ma semplicemente il luogo privilegiato delle relazioni intime: ed è nell'attrito della vicinanza quotidiana, delle reciproche dipendenze, che si sviluppa la relazione distorta tra vittima e aggressore. Non distinguere, e buttare tutto nel calderone del sessismo, impedisce di capire e quindi di immaginare e progettare i rimedi, finendo per avere una visione quasi ontologica della violenza sessuale. Se così fosse, sarebbe inutile lottare. (il Giornale)

venerdì 23 novembre 2007

Quando si telefonavano loro. Paolo Guzzanti

Non ricordo più se il film giusto era Delta Force ma la lettura dell’articolo di Ezio Mauro mi ha fatto l’effetto che le madeleinettes facevano al vecchio Proust il quale si commuoveva e senza porre tempo in mezzo meditava sul tempo perduto, ma anche quello ritrovato. L’articolo di Mauro mi ha portato indietro nel tempo e di questo gli sono grato, già a partire dal titolo: «Struttura delta». Il bis della Spectre. Il bis della P2. Si impone un modesto esercizio di ritorno alla decenza.
L’articolo mi ha riportato con la sua velata magia alla stagione in cui spesso mi trovavo la sera nella stanza di Ezio Mauro, allora direttore della Stampa di Torino (di cui ero editorialista) e dove assistevo alla teleconferenza fra Mauro e il direttore dell’Unità di Roma (Uolter Veltroni), uno dei vicedirettori a caso di Repubblica, e il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli: tutti insieme, in unico afflato e per una sola causa comune (ma quale? Certamente non la libera informazione in concorrenza) facevano tutti insieme «il giornale».
Cioè: non è che ognuno si faceva il suo, di giornale, come in tutti i Paesi in cui le testate sono orgogliosamente concorrenti. Macché. Questa compagnia di cui Ezio Mauro era il capatàz, fabbricava il giornale comune che l’indomani tutti gli italiani si sarebbero sciroppati prima sulla carta e poi in proiezione sui telegiornali sotto le varie testate. Non lo sapevano, ma leggevano tutti lo stesso giornale. Che giornalismo, che concorrenza, che scuola.
Il pretesto diciamo così umanitario dell’operazione, era quello di aiutare il giovane Uolter che non sapeva fare la prima pagina, non sapeva fare i titoli e si scombinava tutto. Ma il gruppo di comando del giornalismo italiano – capitanato da un Ezio Mauro che sembrava guidare un commando Delta Force (ecco il titolo giusto, altro che Struttura delta) - faceva un unico menabò (lo schema della pagina), tutti i titoli e la scelta delle notizie e dei contenuti, uguali per tutti. Il giornale che veniva fuori era omologato, identico, figlio di un unico Minculpop, o cupola, o mini-p2 che dir si voglia e che lasciava alla fantasia del singolo direttore soltanto il cosiddetto «boxino»: un titolotto basso a due colonne in cui ognuno registrava la curiosità innocua del giorno, del genere bambino morde cane: «Walter, nel boxino mettici quella storia del bambino che ha sbranato un pitbull». E Uolter pubblicava.
Naturalmente non si trattava soltanto di fare la prima pagina. Venivano decise le notizie da dare e quelle da ridurre, da esaltare e da minimizzare. Che concorrenza: affinché nessuno restasse scoperto, tutti davano (o tacevano, o sminuivano, o ingigantivano) la stessa notizia nello stesso modo. Ogni santo giorno. E tutti bevevano la stessa acqua.Io assistevo a quella grottesca anomalia e osservavo gli sghignazzi furbastri, specialmente quelli di via Marenco dove comandava imperiosamente il proprio, e anche un po’ gli altrui vascelli Ezio Mauro in sfolgorante camicia bianca. Paolo Mieli, sia detto ad onore del vero, non si lasciava troppo comandare, ma tutti e due insieme comandavano sull’Unità e la Repubblica seguiva. Così, negli anni Novanta erano serviti non soltanto i lettori della carta stampata ma anche gli spettatori televisivi. La gente forse non lo sa, ma i telegiornali dosano e misurano i loro titoli, gli spazi, la scaletta dell’importanza di ciò che poi ammanniranno al popolo catodico, sulla base delle decisioni dei tre cavalieri dell’apocalisse, Corriere, Repubblica e Stampa, che poi sarebbe, per così dire, la casta.Ma la prima pagina si confezionava tra via Marenco, Torino, e via Solferino a Milano, per essere rimpannucciata in piazza Indipendenza e infine rimpallata a via del Taurini dove diventava il vangelo dell’Unità, ovvero la verità, pravda in russo, truth in americano che piace di più a Uolter. Ovviamente anche gli altri giornali e giornaletti e giornalini per non dire dei piccoli telegiornali locali, si adeguavano con ansia e con la lingua di fuori per non restare esclusi dal gruppo di comando. Quando ero a Repubblica (di cui sono stato un fondatore, redattore capo e inviato per 14 anni) assistevo ammirato alla formazione del quadridente formato dal formidabile quotidiano di Scalfari, l’Espresso, Raitre e il Tg3. Messi insieme formavano una seconda divisione corazzata che esercitava un potere assoluto, di comando e di dominio sulla scelta, confezione e pubblicazione della notizia.
Insomma, figuratevi il salto dalla sedia che ho fatto ieri mattina quando mi imbatto in una delle più comiche composizioni a sopracciglio levato del mio vecchio amico Ezio Mauro, ora direttore di Repubblica, il quale si è esibito in un articolo che potrebbe intitolarsi a scelta «Senza vergogna» o «Oggi le comiche». Basti l’incipit: «Una versione italiana e vergognosa del Grande Fratello è dunque calata in questi anni sul sistema televisivo, trascinando Rai e Mediaset fuori da ogni logica di concorrenza per farne la centrale unificata di una informazione omologata, addomesticata, al servizio cieco e totale del berlusconismo al potere». Lui la chiama «Struttura delta». Noi la chiameremmo «Senti chi parla». (il Giornale)

giovedì 22 novembre 2007

Le luci di Bagdad. il Foglio

Come mai la notizia più importante da noi continua a non fare notizia?

Le luci dei razzi illuminanti su Baghdad le abbiamo viste. La luce in fondo al tunnel facciamo finta di non vederla. Diciamo che Baghdad in questi anni ha fatto notizia. Guerra vinta. Regime abbattuto. Saccheggi. Disordine. Carneficina terrorista. Fosse comuni. Vittime civili e militari. Disperato tentativo di risalita con i mezzi della politica democratica in un paese in cui era totalmente sconosciuta. Elezioni e costituzione sotto le bombe. Sciiti e sunniti e curdi. Violenze settarie, grandi attentati ed elementi di guerra civile. Rapimenti e decapitazioni seriali. Torture e commissioni d’inchiesta del Pentagono. Pacifisti nelle strade del mondo. Coscienze inquiete per ogni dove. Crisi all’Onu dove Annan si scatenava contro la guerra illegale. Molto cinema d’impegno e denuncia. Molto giornalismo televisivo pashmina e denuncia. Molte passeggiate nel disastro malinconico di grandi inviati di guerra. Molte mozioni nei Parlamenti europei: mandiamo le truppe, teniamo le truppe, ritiriamo le truppe. Molto dolore per i costi umani. Molta indifferenza per chi ci ha fatto vedere come muore un italiano. Molto accoramento per ragazze di ritorno in djellaba e con una copia fresca del Corano per lanciare appelli al valoroso popolo iracheno sotto la protezione dei riscatti pagati dai servizi segreti occidentali via ong (organizzazioni non governative). Mobilitazione jihadista dispiegata. Grandi catture. Impiccagioni e processi. Molto horror show. Discussioni in punta di storia e di diritto su termini come resistenti, insorti, banditi, tagliagole, impaludamento, Vietnam. Scontri diplomatici all’arma bianca con il Quai d’Orsay di Chirac e Villepin. La corrosione del mito di Tony Blair a Londra. Raffinate ricostruzioni delle trame della lobby ebraica neoconservatrice impegnata a dirottare la politica estera americana nell’interesse di Israele. Grande crisi della presidenza americana impiccata alla sua straordinaria impresa politico-militare. Incandescenti divisioni di principio nell’establishment intellettuale di qua e di là dall’Atlantico. Ma ora non fa notizia questo “accomodamento senza riconciliazione”, questa “breccia nel muro del pessimismo” di cui parla Tom Friedman sul New York Times, questa buona notizia che sarebbe disonesto ignorare o esagerare portata dal surge di Bush e Petraeus, questo equilibrio trovato nel controllo del territorio, nella sicurezza, che è la premessa per nuovi passi avanti diplomatici e politici nel cuore tormentato della politica mondiale dopo l’11 settembre. In America se ne parla, da noi no. Bernardo Valli non passeggia più a Baghdad. Vittorio Zucconi non solfeggia più a Washington. E i direttori dei tg non sanno come offrire immagini di pacificazione purtroppo meno sanguinose della macelleria d’un tempo. Forza Capuozzo!

Se tornano i due forni. Ernesto Galli Della Loggia

E così oggi dovremmo convincerci che negli anni '70, tanto per fare un esempio, e cioè ai bei tempi della proporzionale, quando la Dc prendeva intorno al 40 per cento dei voti e il Pci intorno al 30 (percentuali che il nascituro berlusconiano Partito del popolo o il neonato Partito democratico ancora devono dimostrare di riuscire a conquistare), dovremmo convincerci che allora il sistema politico italiano godeva ottima salute e tutto filava liscio come l'olio.

Dal momento che in quel tempo, appunto, c'era la proporzionale, e dunque — dovremmo credere anche questo — i partiti minori non esercitavano alcun potere di veto ed erano docilissimi, nessuno si sognava di demonizzare i propri avversari, e i governi erano liberi dai vincoli delle coalizioni. Ma vogliamo scherzare? Chi ricorda sa benissimo che le cose non stavano affatto così. In realtà non c'è alcun vero o presunto inconveniente dell'attuale pur bastardissimo maggioritario italiano che non ci fosse pure venti o trent'anni fa, con la proporzionale, e che si ripresenterà più o meno identico anche se domani adottassimo nuovamente il sistema elettorale di un tempo.

A cominciare dal problema, chiamiamolo così, del coalizionismo. Escluso, come sembra ragionevole, che in futuro Berlusconi o Veltroni possano con il loro solo partito riuscire ad avere la maggioranza assoluta, non dovranno forse anch'essi allearsi allora con qualche altro partito se vorranno governare? E perché mai, mi chiedo, questo futuro alleato dovrebbe essere meno riottoso o indisciplinato di quanto oggi non siano gli alleati di Prodi o del proprietario della Fininvest? La reintroduzione della proporzionale potrebbe, almeno in teoria, dare luogo a una sola rilevante novità: la creazione di un autonomo spazio politico-elettorale di centro, potenzialmente capace di rappresentare domani l'ago della bilancia tra destra e sinistra.

Si tornerebbe cioè ad una situazione da «due forni» tipica della prima Repubblica, con tutti i giochi rimandati al dopo-elezioni e con l'unica differenza, questa volta, di un centro almeno inizialmente più debole delle ali (a meno che non riesca a Berlusconi la non facile e paradossale impresa di fare lui, con il suo nuovo partito, la parte del partito di centro). E a quel punto sarebbe davvero la Restaurazione. Da tenere sempre a mente è che le leggi elettorali non possono supplire ai deficit di natura politica.

Il maggioritario italiano è fallito perché in quindici anni né Forza Italia né i Diesse- Margherita, nati entrambi in circostanze assai diverse ma egualmente ambigue, e dunque gravati entrambi da problemi di identità, essendo l'una e gli altri incerti su che cosa essere, hanno di fatto rinunciato a lungo a qualunque battaglia ideologico-politica a fondo contro gli altri attori del proprio versante elettorale, non hanno preso nessuna iniziativa forte contro di essi, e così non sono riusciti ad espugnare elettoralmente la stragrande maggioranza di quel versante. Il bipolarismo italiano è fallito perché i due candidati naturali a esercitare la sovranità sui rispettivi poli hanno mancato al proprio compito per propria incapacità. Adesso, per favore, non cerchino finte vie d'uscita. (Corriere della Sera)

mercoledì 21 novembre 2007

A proposito di una telefonata abbastanza bipolarista tra il Cav. e l'elefantino. Giuliano Ferrara

Per molti anni ho cercato di interpretare il Cav. come potevo e con qualche fatica, visto il suo gusto della sorpresa e la sua giocosità. Ora mi è toccato di essere interpretato da lui, che ha richiamato in una conferenza stampa una nostra telefonata, per dire in sostanza che anche il suo amico bipolarista Giuliano Ferrara era convinto che adesso è il momento di abrogare un bipolarismo rissoso e inconcludente, perché non ti permette di governare bene e nemmeno di fare una seria opposizione. In effetti, rifondando il proprio partito nell’appello al popolo, liberandosi dal vincolo della Casa delle libertà e abbracciando come una bella ragazza la legge elettorale proporzionale, quel bipolarismo “coalizionista” il Cav. lo ha eliminato all’istante. Però non è detto che ci si debba rassegnare al ritorno alla Prima Repubblica, che era mica male, ma aveva i suoi difetti. Ecco perché, almeno a mio giudizio, la rassegnazione non è inevitabile.

Prima della caduta del muro di Berlino (1989) in Germania c’erano sia il bipolarismo sia il sistema elettorale proporzionale. In Italia no. In Italia il proporzionale coincise per mezzo secolo con un sistema politico bloccato (non c’era alternanza di forze diverse e competitive alla guida del governo) e consociativo (la decisione politica era sottratta a un rapporto diretto con il mandato elettorale, e dipendeva da rapporti di forza trasversali che si determinavano nel Parlamento, con un’associazione sottotraccia di tutte le lobby che contavano, compresa quella comunista, alla gestione del potere). Il sistema politico era consociativo perché era bloccato. Anche da noi c’erano due grandi partiti, come la Cdu-Csu tedesca e la socialdemocrazia (Spd), ma non succedeva come in Germania, dove la regola era l’alternanza e l’eccezione la grande coalizione. Perché questa anomalia? Perché il Pci non poteva andare al governo per severe ragioni storiche legate alla Guerra fredda e all’esito della Conferenza di Yalta, le stesse ragioni per le quali nell’est europeo furono tollerate dall’occidente le dittature del partito unico e i carri armati sovietici a loro protezione. Il mondo era diviso in due. E in Italia, al contrario di quanto era accaduto in Germania, il grande partito di sinistra era comunista, non socialdemocratico, ed era strutturale e stabile alleato dell’Unione Sovietica e del suo partito comunista. In quegli anni i politologi parlavano di bipolarismo imperfetto.

Quando cadde il muro di Berlino, la situazione cambiò anche per noi, almeno sulla carta. I comunisti diventarono ex comunisti o post comunisti e cominciarono un lungo e tortuoso percorso nella loro exeità. Ma proprio allora introducemmo, per curare il sistema bloccato e dare sbocco alla rivolta dell’opinione pubblica referendaria contro la cosiddetta partitocrazia, una legge elettorale maggioritaria (maggioritaria al 75 per cento). Con l’ingresso in politica di Berlusconi, quella legge prese senso e sostanza, nacquero una sinistra e una destra abilitate a governare entrambe, e cominciò la famosa transizione degli anni Novanta e
seguenti, caratterizzata come nascita e affermazione del bipolarismo dell’alternanza. E’ da allora che siamo abituati a pensare bipolarismo, maggioritario e alternanza come tre concetti interconnessi, interdipendenti.

Ora che la grande maggioranza del Parlamento si è ritrovata proporzionalista, con l’esclusione dei referendari, di alcuni prodiani e forse anche di Fini, la domanda è questa: si può salvare il principio o la pratica di un sistema politico in cui forze diverse competono alla luce del sole, senza il dominio del trasversalismo consociativo? Senza le coalizioni, Unione o Ulivo e Polo o Casa delle libertà, e senza il premio di maggioranza, sarà ancora possibile decidere con il voto intorno a sfide politiche e programmatiche chiare oppure la parola torna solo e soltanto al gioco dei partiti in Parlamento? La risposta è sì, sarà possibile, con un cautelativo e diffidente forse.

Infatti, a differenza che nel passato, una legge elettorale proporzionale con sbarramento antiframmentazione, sia nella versione di Veltroni, difficile da realizzarsi ma preferibile perché rafforza i partiti maggiori, sia nella versione del sistema tedesco puro e semplice, darà vita a due maggiori partiti (il Pd e il Pdl), con pochi partiti potenzialmente alleati, a sinistra e a destra, e magari un partito (qui è il punto critico) che si collocherà al centro e praticherà programmaticamente la politica dei due forni o delle mani libere. I due partiti maggiori sono entrambi abilitati a governare, e questa è la differenza decisiva rispetto agli anni della Prima Repubblica. E sono anche partiti (ecco l’importanza della discussione sul partito senza tessere e dintorni) in cui la leadership e la candidatura alla guida dell’esecutivo coincidono. Può accadere che tutto questo schema fallisca sul nascere, che ne esca una legge elettorale pasticciata, che si riaprano senza riserve i vecchi giochi partitocratici del passato. Ma potrebbe paradossalmente succedere che, restaurando le regole della Prima Repubblica, ci ritroviamo finalmente in una Terza Repubblica in cui i partiti del leader (uno alla volta, in condizioni di alternanza) vanno al governo con i loro alleati, stavolta meno capaci di ricatto paralizzante, se dalle urne esce una maggioranza. E se non esce, si fa la grande coalizione, magari con il taglio delle ali estreme. Come in Germania, appunto, quel paese dove il bipolarismo c’è, e c’è anche l’alternanza. (il Foglio)

Class action? classica schifezza. Davide Giacalone

Ecco un frutto della pessima politica: la class action, la possibilità d’intentare cause civili collettive, è cosa seria e buona, quella passata al Senato, con un emendamento alla legge finanziaria, è una schifezza. Lasciamo perdere la sede inappropriata, la discussione sincopata, l’insalsicciamento cui il Quirinale s’oppone solo a chiacchiere, e lasciamo perdere anche le lacrime di Antonione, dovute all’errore in uno scontro fra soldatini non ragionanti. Quella roba è una schifezza nel merito, per quel che c’è scritto.
Il primo obbrobrio è che le cause possano essere intentate solo dalle associazioni dei consumatori riconosciute dal ministero, il che equivale a dire che i cittadini sono espropriati di un diritto. Nell’Italia delle corporazioni e delle camarille ci mancavano solo i monopolisti dell’azione giudiziaria. Che, proprio in quanto tali, saranno presto letti, sia quando agiscono che quando si rifiutano, come dei ricattatori. Non ci bastavano i sindacati non rappresentativi dei lavoratori, adesso abbiamo anche le associazioni non rappresentative dei consumatori. Al contrario, invece, le azioni collettive devono potere essere attivate da qualsiasi gruppo di cittadini, anche se non munito di burocrazia politicizzata.
Aperta la causa si finisce nel pantano della giustizia civile. Più che un buon avvocato occorre il gerovital, se si vuol vedere la fine. I tempi sono talmente barbari che, oramai, fa causa chi ha torto, in modo da non pagare per anni. Per deflazionare la superfetazione sarebbe necessario contestare le liti temerarie, le cause campate per aria. Cosa ancora più necessaria con le azioni collettive, dove questo o quel soggetto potrebbe essere a caccia di pubblicità. Ma di ciò non si parla, facendo cadere ogni novità nella brodaglia ribollita di un processo stracotto.
Come Carosone rideva del bullo che vo’ fa’ l’america’, qui si vorrebbero azioni collettive senza avvocati pagati a percentuale e solo in caso di successo, il che riporta alla corporativizzazione dei soggetti abilitati. Negli Usa le cose funzionano perché l’interesse del cittadino si lega a quello del suo difensore, qui, invece, si coalizzano due corporazioni e vanno a trattare con l’industria. Succederà il peggio, se non si provvederà a cancellare quest’orrenda presa per le chiappe.

martedì 20 novembre 2007

La nascita di Minerva

Non sappiamo se Prodi cadrà, né quando.
Non sappiamo se, una volta caduto, ci sarà un altro governo o si andrà al voto.
Se si andrà al voto non sappiamo con quale legge.
Sono certo, però, di alcuni effetti della metamorfosi evolutiva di Berlusconi.

Primo: muore Forza Italia con tutti i "Filistei". Si ricomincia da zero (nemmeno da tre come diceva il povero Troisi) e non esistono più alleati, né avversari.

Secondo: decadono le gerarchie, i rapporti e le cariche in Forza Italia. In questo modo si mette fine ad una serie di privilegi e di rendite di posizione che hanno reso difficile la vita nel partito.

Terzo: le porte del nuovo soggetto politico sono "spalancate" per gli elettori di An, Udc, Lega, ma anche Udeur, Idv e persino agli scontenti del Pd.
Berlusconi Silvio (Milano 29 settembre 1936) imprenditore nel settore immobiliare, dell'editoria, della comunicazione, del commercio, delle assicurazioni e dello sport, il più grande uomo politico del XXI secolo, ha capito, prima di tutti i "parrucconi", che il "popolo" italiano ha cominciato a ragionare con la propria testa e che non si accontenta di dare deleghe in bianco ai partiti e vuole contare nelle decisioni che lo riguardano.
I vari Fini, Casini, Bossi, Mastella, Veltroni e compagni possono parlare solo per se stessi: il voto non è più una fede, la scelta si fa sui programmi, il giudizio non è per sempre e, soprattutto, non è l'elettorato che aderisce al partito, ma il partito che deve capire e seguire l'elettorato.

Quarto: proporzionale o maggioritario? Non importa.
Il fine è il bene del Paese: si adotterà il sistema più consono. Bisogna anche sapersi rinnovare, avere il coraggio di cambiare idea, ammettere che si è sbagliato e non arroccarsi su posizioni preconcette.

Quinto: la metamorfosi del Cav. ha sparigliato le carte in entrambi gli schieramenti e l'effetto è stato quello di una bomba scoppiata in tempo di pace.

Sesto: se la nascita del Pd ha portato allo sfrangiamento di componenti dei partiti fondatori, la nascita del nuovo partito (come la nascita di Minerva dalla testa di Giove-Berlusconi) produrrà l'esatto contrario e sarà una calamita per tutti gli elettori in cerca di risposte e soluzioni ai loro problemi.

Non mi pare poco...

Il nuovo asse. Piero Ostellino

Due soli uomini al comando. Walter Veltroni e Silvio Berlusconi. Già Veltroni, enunciando la «vocazione maggioritaria» del Partito democratico, aveva di fatto escluso l'intenzione di presentarsi alle prossime elezioni unito con le sinistre radicali in una «coalizione di guerra» (l'Unione), buona per sconfiggere il «nemico» ma, come attesta il governo Prodi, poco funzionale per governare. Ora è la volta di Berlusconi a liquidare la «coalizione di guerra» di centrodestra (la Casa delle libertà) che scarsi risultati aveva dato nei cinque anni di governo dopo il successo del 2001. Licenzia i suoi alleati e scioglie il suo stesso partito (Forza Italia) per fondarne un altro (il Partito della Libertà o Popolo della Libertà) col quale presentarsi «con chi ci sta» o, se necessario, da solo, a governare il Paese. Se la strada delle loro buone intenzioni sarà lastricata con un sistema elettorale adeguato, che cancelli l'attuale bipolarismo imperfetto («Il bipolarismo, con queste forze politiche, non è più possibile», ha detto Berlusconi), forse si profila una salutare semplificazione del sistema politico. Chiunque vinca si sceglierà gli alleati di governo non prima — col rischio di consegnarsi nelle mani dei piccoli partiti — bensì dopo le elezioni sulla base della loro adesione al proprio programma. Il Ppl e il Pd sono ora le due facce della stessa medaglia. Molto dipenderà dal sistema elettorale che ne verrà fuori.

E qui sta l'altra novità. Come già era accaduto in occasione del varo della Bicamerale promossa dallo stesso Berlusconi e presieduta da Massimo D'Alema, è ancora una volta Berlusconi che assume in proprio il comando nei negoziati con il centrosinistra, marginalizzando Alleanza nazionale, l'Udc e la stessa Lega. Per Berlusconi, dopo la sconfitta elettorale, era questione di vita o di morte. Per una sorta di legge del contrappasso, Fini, Casini, Bossi, che — dopo la fallita «spallata » al governo Prodi — lo avevano messo sotto processo e si erano resi disponibili a trattative con Veltroni sulle riforme, ora ne sono esclusi dallo stesso Berlusconi. In tale contesto, era del resto naturale che nascesse un asse preferenziale fra i due partiti maggiori, i cui interessi sono incompatibili con quelli dei partiti minori delle due coalizioni. D'altra parte, la rottura con la logica delle «coalizioni di guerra» mette sia Berlusconi sia Veltroni di fronte alle loro responsabilità. Nessuno dei due potrà d'ora in poi accusare i propri alleati di avere loro impedito di essere ciò che asseriscono di voler essere. Per Berlusconi si tratta di far emergere — ammesso che l'abbia — la tanto sbandierata vocazione liberale e di farne la propria piattaforma elettorale e di governo. Per Veltroni, specularmente, si tratta — ammesso che lo voglia — di dare alla sinistra di governo un volto e un programma riformisti al passo con i tempi. L'augurio è che ci riescano. Dopo di che vinca il migliore. (Corriere della Sera)

domenica 18 novembre 2007

Silvio corre da solo.

Per chi non lo avesse capito Silvio Berlusconi si è tolto di dosso tutti gli alleati o pseudo tali.
Le "sue" primarie sono terminate con il doppio dei voti del Pd, i consensi sono venuti da tutte le formazioni ed il messaggio che i firmatari hanno espresso è semplice: Prodi a casa ed elezioni subito.
Il nuovo partito sarà formato dagli elettori di Forza Italia e da tutti quegli elettori che, nei vari partiti satelliti e cespugli, hanno sempre chiesto il partito unificato ed hanno condiviso le scelte del Cavaliere, riconoscendolo laeder indiscusso della CdL.
Berlusconi scioglie la casa delle libertà per avere le mani libere e potersi rivolgere direttamente agli elettori della stessa, senza tralasciare quelli di centro-sinistra.
Ancora una volta dimostra di avere la stoffa del grande statista e di saper cogliere gli umori, le aspirazioni e le istanze del popolo.
La rottura con gli alleati è definitiva: non più un'alleanza e nemmeno una federazione. Sarà una coalizione di governo con i partiti del centrodestra, cioè quei partiti che, per effetto del bipolarismo, saranno contrapposti al centrosinistra.
Sostanzialmente come avviene oggi con la Lega, movimento alleato, ma non organico alla CdL.

Finanziaria: settimane decisive , il centrodestra non dismetta un'opposizione netta e compatta. Benedetto Della Vedova

C’è un rischio, tra gli altri, che l’opposizione non deve correre: quello di disarmare il contrasto alla legge finanziaria, con annessi e connessi, che entra ora nelle settimane decisive.
Il combinato disposto del decreto fiscale (su cui il Governo – questa volta insensibile ai richiami del Quirinale – metterà domani la fiducia alla Camera, impedendo qualsiasi confronto con l’opposizione), del protocollo sul welfare e della Finanziaria, proietta sul futuro del paese le ombre funeste dello statalismo più dissennato.Il centrodestra non dovrebbe rinunciare nemmeno per un minuto alla netta e compatta opposizione sulla sanatoria dei precari della Pubblica Amministrazione, che gonfierà ulteriormente in via definitiva una macchina ipertrofica e inefficiente (o inefficiente perché già ipertrofica?) o sulla controriforma delle pensioni, destinata ad ipotecare almeno dieci miliardi di spesa sociale nei prossimi dieci anni in favore delle pensioni di anzianità.Prodi e il suo Governo di cicale stanno utilizzando anche quest’ultima fase di congiuntura favorevole e il record di pressione fiscale per finanziare l’aumento della spesa pubblica, compromettendo il risanamento dei conti e aprendo la via ad una nuova spirale “più spese-più tasse”.
Nelle prossime settimane, a livello parlamentare e nella polemica pubblica, l’opposizione è innanzitutto chiamata a contrastare in modo unitario questo disegno tanto pericoloso, quanto fragile sul piano politico e istituzionale. (Riformatori Liberali)

sabato 17 novembre 2007

Sinistra di lotta, non di governo

Poche storie! La sinistra antagonista non è in grado di stare al governo, non è attrezzata per costruire, mediare e lavorare per l'interesse comune: fatta di uomini e donne che dicono di no a tutto, una volta al potere fingono di favorire certe categorie, ma perseguono il tornaconto personale della casta a cui appartengono e a cui non vogliono rinunciare.

Come si può pensare di fermare qualsiasi opera pubblica in omaggio alla salvaguardia dell'ambiente, della salute e del paesaggio anche se il danno viene proprio dal non compiere l'opera? Quanto inquinamento, quanti incidenti, quanti morti e quanto spreco di carburante nel tratto di autostrada tra Bologna e Firenze! Era dagli anni sessanta che si sarebbe dovuto ampliare quel tratto...
Quanta demagogia nell'opporsi ai termovalorizzatori in Campania, al ponte sullo stretto di Messina, al nucleare, agli Ogm; quanta enfasi per l'eolico, il fotovoltaico, l'energia pulita e sostenibile, ben sapendo che con queste alternative non si fa molta strada.
Per non parlare del precariato diventato la bestia nera della sinistra estremalle esigenze a e mantra del sindacato: in italiano si chiama flessibilità del lavoro, apprendistato e possibilità di trovare più facilmente occupazione. Esattamente come per il famigerato equo canone che impediva la mobilità degli affittuari e, addirittura, il rientro nel possesso da parte del legittimo proprietario: oggi le locazioni, anche se non completamente, sono più libere e aperte, perché rispondono alle esigenze di un mercato flessibile e non calmierato.
La difesa a oltranza di un'età pensionabile oramai anacronistica, impossibile da sostenere finanziariamente, è propaganda bella e buona: per la casta dei politici e dei sindacalisti la pensione sarà sempre garantita, anche se i giovani di oggi dovranno svenarsi per pagare quella dei genitori e avranno poco o niente per loro.
Lo Stato deve assumere! Deve garantire a tutti il lavoro e la casa! Anche i capitalisti devono piangere! Solo che questi piangono in Ferrari, gli altri piangono dalla fame. Perchè, e la dimostrazione ci viene dall' Urss e dalla Corea del Nord, i regimi cosiddetti socialisti non riescono a reggere: la ricchezza deve essere creata prima di essere distribuita. E fino ad oggi solo il tanto vituperato capitalismo è riuscito a creare posti di lavoro veri che mettono in moto il ciclo virtuoso del benessere.
Dobbiamo accogliere i "fratelli migranti", ben sapendo che non c'è posto per tutti, soprattutto per chi delinque.

La dimostrazione che la sinistra estrema è solo di lotta e non di governo viene proprio da queste considerazioni: non le interessa il bene comune, ma sostiene le richieste di minoranze che fomenta e ispira per garantirsi il posto. Meglio se nella stanza dei bottoni, ma va benissimo anche all'opposizione dove si può criticare a oltranza senza correre rischi.

Stadio di Polizia. Rosamaria Bitetti

I tristi episodi di cronaca di questi giorni rendono nuovamente attuale un bel focus IBL sulla violenza negli stadi: mentre tutti si indignano e minacciano sospensione del campionato (mogli e fidanzate d’Italia, non esultate, non lo faranno mai) o sanzioni irrealisticamente pesanti, paragonando gli ultrà ai terroristi, potremmo provare a chiederci se il mercato non possa risolvere un problema che la politica rende solo più complesso. Per leggere il focus, clicca qui. (Liberalizzazioni)

venerdì 16 novembre 2007

Lettera a Dini. Anonimo de Roma

La "lettera" che segue è stata scritta da un anonimo commentatore dei post di centrodestra.
Non è la prima e speriamo non sia l'ultima: i commenti del nostro anonimo sono diventati un cult per questo blog. Grazie Roma.

Grazie zi’Lamberto,
che penza e ripenza all’urtimo momento ciai voluto ripenzà.E a furia dà ripenzà quer poppolo che saspetava datte unatto de coraggio jai fatto cascà tutte’speranze. Ma che nun lo dicco co’spirrito de’ppartito, ma penzo solo che tutta l’Itallia stava addipendè datté. Ossì va de qqua e si va dellà. Ette sei annato dellà. Nun pe’ discute quelo cha te pareva da fa’, ma ce’o sai che sembrava de legge ‘e carte quanno se fa’ ‘na partita a pokere? E vabbè. Che uno a da fa’quer che je pare, però nun me pare ggiusto tenè ‘e perzone sur filo, che dice – ‘o mollo? no lo mollo? … e avanti … e avanti … e poi ala fine là mollato. E ddai! E vabbè. fortuna che da mo’ in poi ‘e cose anderanno mejo dde prima.A delinquenzza a mettemo subbito a posto.Li penzionati moreno prima de Natale e accossì er probblema è risorto. Pe l’imigrazzione er governo aggià espurso un cane randaggio che veniva delleste, fatto tutto in reggola che aveva rubbato ‘e sarsicce ar salumaro, macchè poi tutto è stato acantonato pevvia de le purci che ce naveva tante e l’espurzioni di massa nun so’amesse da er reggolamento dell’unnione europpea.Tappo, er cane de’a portinara cià reggolare permesso de sogiorno.Amezanotte Vischio s’arza in volo e ariva in tutte le case a fa’ er solito prellievo de sangue.Semo già entrati in lunna nova e speramo che non venga la luvione. Ce mancheresse puro quela!

Il governo non cade ma Berlusconi è l'unico che fa politica. Giancarlo Loquenzi

L’esito della battaglia del Senato sulla Finanziaria somiglia molto da vicino alla vicenda delle ultime elezioni politiche. Il risultato numerico dice che la maggioranza ha vinto per due voti lo scontro con l’opposizione ma la sostanza politica mostra un governo sconfitto e una stagione finita. Per dimostrarlo basterebbe rievocare le parole di Dini e Bordon, che, parlando in aula dopo la maratona dei giorni passati, hanno ammesso che la maggioranza non c’è più. A completare il panorama di macerie lasciato dal voto di ieri si sono poi aggiunte le dichiarazioni, dello stesso tenore, dei senatori eletti all’estero, l’instabilità permanente dei mastelliani e l’allontanamento ormai irreversibile del senatore Fisichella.

Si potrebbe anche aggiungere che se Roberto Antonione di Forza Italia non avesse sbagliato il calcio di rigore nella finale dei mondiali (come sul campo di calcio è poi scoppiato in pianto dirotto), votando al favore dell’articolo sulla class action, molto probabilmente il governo non avrebbe visto l’alba di oggi.

Ma la somiglianza di questi due momenti non si ferma qui. E’ il ruolo giocato da Silvio Berlusconi che li cuce in un’unica narrazione. E’ ancora una volta il leader di Forza Italia che, da solo, ha fatto il possibile e l’impossibile per ottenere la sconfitta di Prodi. E’ lui che si è speso e che si è esposto in ogni modo per creare le condizioni della caduta di un governo già in bilico da tempo: ha scaldato i cuori dei suoi, sostenuto gli incerti, provocato i dubbiosi, parlando ogni giorno in modo trasparente al paese di quelli che erano i suoi intenti. In una parola lui ha fatto politica. E ancora come nel 2006 i suoi alleati sono stati a guardare: un giorno scettici, l’altro polemici, sempre silenziosi a tessere e strologare strategie alternative. Infine forse anche augurandosi la tenuta del governo, avendo abboccato alle facili analisi dei giornali che prevedevano un Berlusconi indebolito e arreso davanti alle previsioni mancate.

Le cose evidentemente non stanno così. Bastava vedere la performance di Ignazio La Russa a Porta a Porta ieri sera per capirlo. E’ arrivato col piglio battagliero per raccontare quanto il suo partito fosse pronto a fargliela pagare a quel rodomonte di Berlusconi. Poi quando i giornalisti invitati a commentare hanno cominciato a descrivere lo stato comatoso del governo e sostenere che la sua agonia si sarebbe solo prolungata di poco, La Russa è rimasto senza parole, essendosi da solo ficcato nel ruolo di chi doveva dimostrare che Berlusconi aveva perso e Prodi vinto.

Fini e Casini coltivavano insomma l’idea che fallito il fronte della lotta su cui avevano isolato Berlusconi, avrebbero, al momento giusto, dominato quello della trattativa. Ma le cose non stanno così per ragioni del tutto evidenti a chi non è costretto ogni giorno ad inventarsi un retroscena. Se si apre un tavolo sulle riforme e si presenta la necessità di un’intesa bipartisan, le carte in mano le hanno ancora tutte Berlusconi e Forza Italia. In quella partita gli interessi prevalenti e la forza necessaria ad imporli sono quelli dei due partiti maggiori, Pd e Fi. Gli alleati possono fare tutti i volteggi di cui sono capaci ma alla fine si accorgeranno di non avere vie di fuga plausibili. Berlusconi ha intatta la possibilità di convogliare la confusione veltroniana sulla riforma elettorale verso esiti a lui più favorevoli (più spagna, meno germania); mentre gli spazi di manovra delle formazioni minori, chiuse tra la tenaglia del referendum e gli esiti incerti della trattativa, si faranno sempre più ristretti. Tanto che alla fine potrebbe essere interesse dei piccoli partiti e delle nuove micro-formazioni di maggioranza e di opposizione, andare a votare subito con la legge attuale.

Certo qui si presenta la vera difficoltà per Berlusconi a questo punto. Sapere con altrettanta destrezza incarnare un partito di lotta e di trattativa. Deve riuscire a incassare tutti i risultati politici che il terremoto della Finanziaria ha lasciato sul campo, renderli permanenti e rafforzarli. Ma allo stesso tempo deve saper cogliere il momento giusto per prendere in mano le fila di ogni possibile trattativa che di qui a poco si aprirà sul fronte delle riforme. Non è un’impresa facile, ma le parole di Gianni Letta riportate ieri dal Corriere della Sera (“occorre definire insieme le regole del gioco”) fanno capire che questa dimensione non è affatto estranea alla politica berlusconiana.

Ora la delusione del momento troverà il suo naturale deflusso nell’iniziativa di piazza che Forza Italia ha organizzato in tutta Italia per raccogliere lo scontento crescente dei cittadini verso il governo Prodi. Sarà il giusto epilogo di una fase di lotta che ha fatto breccia ovunque possibile.

La finanziaria approvata non rende il governo più forte, semmai più ricattabile, impopolare e dannoso. Si può cambiare passo, ma la direzione è la stessa. E l’unica “pagina da voltare” , per dar retta a Gianfranco Fini, rimane quella dell’era Prodi. (l'Occidentale)

giovedì 15 novembre 2007

Rivotiamo subito

Non è detto che oggi cada il Governo Prodi e non è detto che, se dovesse cadere, si andrebbe subito al voto: le alchimie politiche e l'attaccamento al potere sono una prerogativa di questa classe dirigente.
Allora nei prossimi tre giorni, nelle principali città italiane, ci mobiliteremo per raccogliere le firme di chi vuole ritornare subito al voto.
E' possibile firmare anche nel sito: http://www.rivotiamo.it/ dove ci sono altresì moduli scaricabili per raccogliere adesioni da spedire o portare ai gazebo.

Facciamo vedere che siamo capaci di mobilitarci e che le nostre firme sono autentiche e spontanee.

mercoledì 14 novembre 2007

Gli Ogm sono utili e sicuri ma gli italiani non lo devono sapere. Giancarlo Loquenzi

La questione degli Ogm (organismi geneticamente modificati) in Italia sta in questo modo. Dal ’97 è di fatto impedita ogni tipo di ricerca in campo aperto, grazie a una accurata e capillare campagna di demonizzazione fatta propria da ministri di destra e sinistra. Per intenderci, mentre nel resto d’Europa le coltivazioni Ogm hanno già impieghi commerciali anche per l’alimentazione, in Italia non è possibile neppure la sperimentazione. Questo causa un incredibile impoverimento della nostra ricerca nel settore delle biotecnologie, una continua fuga di cervelli e perdite vertiginose per gli agricoltori italiani rispetto ai concorrenti oltre frontiera.

Ma il bello deve ancora venire. Nel 2004 l’istituto ricerca Iran, emanazione del ministero per l’Agricoltura, finanziò con 6,2 milioni euro una gigantesca ricerca sugli Ogm. Dopo anni di divieti si poteva finalmente condurre una seria ricerca sul campo. Poteva essere un’occasione preziosa per mettersi al passo con il resto della comunità scientifica. Invece quella ricerca passò quasi inosservata (l’episodio è stato anche oggetto di una interrogazione di Gaetano Quagliariello e altri che trovate qui). Nonostante l’immenso ammontare di soldi pubblici infatti, l’apporto in termini di sperimentazione era così scarso che il volume è presto finito nel dimenticatoio: inutile fors’anche a dimostrate la tesi precostituita e cioè che gli Ogm sono inutili e pericolosi. Il sospetto fin dall’inizio era che dati importanti fossero stati omessi ad arte.

Oggi si scopre il motivo di quell’incredibile flop e il sospetto si trasforma il realtà. I dati sperimentali c’erano eccome ma dimostravamo l’esatto opposto rispetto agli interessi per cui la ricerca era stata finanziata. In una conferenza stampa a Roma, la SagRi, (Salute, Agricoltura e Ricerca) ha infatti presentato i risultati di quegli esperimenti fantasma. Erano stati condotti, su espressa richiesta dell’Iran, da Tommaso Maggiore dell’Università di Milano, che li ha scrupolosamente portati a termine salvo poi non vederli pubblicati. Maggiore ha dovuto in questi anni tenerli nel cassetto perché il contratto firmato con il committente vietava espressamente di diffondere i dati della ricerca al pubblico. Il coordinamento SagRi che ne è venuto in possesso ha invece deciso di darne la massima diffusione.

In sostanza gli esperimenti di Maggiore, mettevano a confronto coltivazioni di mais convenzionale in parallelo con un mais a cui era stato aggiunto un gene del Bacillus thurigensis che lo rende resistente all’attacco di parassita chiamato piralide (un tipo di mais coltivato estensivamente in tutta Europa). I risultati sono stati sensazionali. In termini di resa la varietà convenzionale diede 110 quintali per ettaro, mentre quello modificato 150, circa il 40 per cento in più. Ma, ciò che è più importante, si osservò il crollo nella presenza di fuminosina (una tossina prodotta dalla piralide): la varietà transgenica ne conteneva 48ppb (parti per bilione), quella convenzionale 6.100 ppb. In questo studio insomma di vedeva che il mais modificato abatteva di più di 100 volte il contenuto di una sostanza cancerogena e teratogena come la fuminosina.

Va ricordato a questo proposito che dal 1 ottobre di quest’anno, la comunità europea ha introdotto limiti molto severi alla fuminosina nel mais, che rendono il 50 per cento del mais prodotto in italia (e i suoi derivati) fuorilegge e destinati alla distruzione. E’ stato fatto un conto secondo cui, dal 2006 a oggi, grazie alla minor resa per ettaro e alla contaminazione con fuminosina, gli agricoltori italiani hanno perso 1 miliardo di euro.

Proprio in questi giorni Mario Capanna e la sua reincarnazione anti Ogm, festeggia la fantasmagorica cifra di 3 milioni di firme contro gli Ogm ( sulla loro autenticità e sulla credibilità della raccolta vi rimando al blog http://biotecnologiebastabugie.blogspot.com/). Ora si vede che quelle firme (poche o tante, vere o finte) sono state raccolte grazie alla cattiva informazione dei cittadini, a cui vengono sottratti dati di conoscenza essenziali, contro il loro benessere e contro la loro salute. (l'Occidentale)

martedì 13 novembre 2007

L'amicizia non ha retroscena. Filippo Facci

Ho sempre pensato che mancasse un sostantivo per definire una misura intermedia tra l’amicizia autentica e quella superficiale. «Conoscenti» è ambiguo, sa di questura, «sodali» non lo usa nessuno. Basta niente, in mancanza d’altro, e siamo tutti amici, mentre sovente apprendiamo che si creano e disfano amicizie come se l’amicizia fosse un rapporto a prestazione e non la merce meno disponibile su piazza. Non c’è bisogno di tornare all’Ottocento per risapere che la vera amicizia prescinde dalla morale e soprattutto dal casellario penale: è per questo che in politica ce n’è così poca, è per questo che è affare più da forti che da buoni. Quando Silvio Berlusconi mostra una pubblica amicizia per Marcello Dell’Utri, invero, non so se mi faccia più pena chi vi cerca clamorosi retroscena giudiziari o chi biasima che si possa essere amici con chi è inguaiato con la giustizia. Talvolta ci si chiede che cosa sia un giustizialista: ecco, un giustizialista è chi denuncerebbe un amico financo un familiare, oppure chi, volendolo fare, non staccherebbe il respiratore della moglie o del padre solo perché la legge lo proibisce. A ciascuno la sua morale. Meglio in galera che senza amici veri: questa, per esempio, è la mia. (il Giornale)

Riprendiamoci lo Stato. Massimo Gramellini

Quei teppisti non sono l’Italia, sospira il Presidente della Repubblica, osservando avvilito dal Qatar le immagini dell’assalto ultrà alla caserma di Roma. Non c’è dubbio. Ma allora qual è l’Italia che in queste ore dà così misero spettacolo di sé nei telegiornali di mezzo mondo? Quell’Italia siamo anche noi giornalisti, che invece di dare la notizia dell’assassinio di un ragazzo al casello autostradale, annunciamo che è stato ucciso un tifoso.

Senza minimamente considerare l’effetto che una simile frase potrà provocare nella crapa bacata dei violenti in procinto di andare alla partita: la frequentazione quotidiana con le dichiarazioni volatili dei politici ci ha indotti a dimenticare il potere devastante delle parole.

Quell’Italia sono certi poliziotti sotto pagati e male addestrati, mandati allo sbaraglio da superiori che poi cercano goffamente di proteggerli: non ci è toccato addirittura ascoltare che all’agente «era partito un colpo»? Quell’Italia è uno Stato di diritto dove il diritto è un consiglio, una traccia, uno stato d’animo: i protagonisti della rissa all’autogrill non sono stati nemmeno denunciati. E il ragazzo ammazzato, per il solo fatto di essere una vittima, è diventato già un santo, anche se dentro l’auto in cui è morto gli amici suoi non tenevano bandiere e fischietti, ma coltelli, biglie e sassi.Quell’Italia sono migliaia di teste vuote e i loro genitori ed educatori, tv compresa, che non hanno fatto nessuno sforzo per riempirle con qualche valore che non fosse quotato in Borsa. Quell’Italia è il Paese dove non si arriva mai al fondo di niente e tutto rimane in superficie, a cominciare dai nervi. La calma è dei forti e noi siamo deboli, isterici, fragili: quindi agitati. Le istituzioni non producono progetti ma gesti dimostrativi, sull’onda dell’emozione, possibilmente in tempo utile per sbarcare nei tg. L’ultimo è vietare le trasferte ai violenti, il classico cioccolatino duro fuori e morbido dentro, dato che sono già previste decine di deroghe ed eccezioni. E la contestazione dell’aggravante di terrorismo ai teppisti di Roma? Al processo sarà sicuramente derubricata, ma intanto dà l’illusione di uno Stato che sa il fatto suo, mentre non sa nemmeno sfogliare un calendario, per cui annuncia solennemente che domenica i campionati si fermeranno, quando l’unico campionato che conta, la serie A, era già fermo di suo per la partita della Nazionale.

Quell’Italia è un governo che reagisce (male) alle disgrazie, ma non sa mai prevenirle. Dopo l’omicidio del poliziotto di Catania ci dissero: «Metteremo subito gli steward negli stadi come a Londra». Sono dieci anni che ci dicono che risolveranno il cancro degli hooligans come a Londra. Da quando a Londra lo hanno risolto, appunto. Adesso, un cadavere dopo, e nemmeno in uno stadio, veniamo a sapere che gli steward stanno finalmente per arrivare. Il primo marzo. Vale a dire fra quattro mesi. Forse sarebbe più appropriato travestirli da pesci e spostarli al primo aprile.

Quell’Italia rimane soprattutto un Paese dove piccole minoranze organizzate sottraggono alla maggioranza il diritto di esercitare i propri diritti. Succede nella politica, nelle professioni. E negli stadi. Atalanta-Milan è stata sospesa perché dieci - non mille non cento, dieci - premiati soci della casta ultrà, roteando un tombino appena divelto, minacciavano di invadere il campo. A nulla è servito che decine di migliaia di spettatori muniti di regolare biglietto li contestassero al grido fin troppo tenero di «Scemi scemi». Quei dieci hanno fatto valere le loro regole. Le regole di chi esercita la sopraffazione con la violenza, coperto dall’ombrello di un’impunità che dirigenti e giocatori di calcio - mossi da un unico istinto: la paura - hanno contribuito in questi anni a consolidare, offrendo loro biglietti, magliette e cene gratis. E quale senso di sicurezza trasmette il capo della polizia, quando di fronte a un’orda che arriva a transennare le strade di un quartiere della capitale, spiega di aver ritirato i suoi uomini per evitare che diventassero un facile bersaglio?

Ha ragione il Presidente: quei teppisti non sono l’Italia. Ma neanche quell’Italia può continuare a essere l’Italia in cui vogliamo abitare. L’Italia che sa punire i poliziotti che sbagliano e premiare quelli che lo meritano, anche se non hanno raccomandazioni in paradiso. L’Italia che estirpa i violenti dagli stadi e dalle strade. E non protegge le caste, ma le persone. Perseguendo gli individui e non generiche categorie sociali: i tifosi, i romeni. L'Italia a viso aperto. Tollerante, giusta, decisa. Senza ferocia. Ma senza paura. (la Stampa)

lunedì 12 novembre 2007

Il petrolio non finirà. Istituto Bruno Leoni

Il petrolio non finirà, non c’è in vista alcun picco di produzione e i recenti aumenti di prezzo dipendono da fattori economici e geopolitici, non da una scarsità di greggio. Lo dimostra l’ultimo Occasional Paper dell’Istituto Bruno Leoni, intitolato “Petrolio: uno sguardo al picco” (PDF) e firmato da uno dei massimi esperti mondiali del tema, Michael C. Lynch, presidente della società di consulenza Strategic Energy and Economic Research, ricercatore presso il Center for International Studies del MIT, e già presidente dell’Associazione americana degli economisti dell’energia.

Commenta Carlo Stagnaro, direttore Energia e ambiente dell’IBL: “in questo studio, Lynch viviseziona le tesi dei maggiori teorici del picco petrolifero, secondo cui la produzione di greggio sarebbe prossima al livello oltre il quale sarebbe inesorabilmente destinata a declinare. In realtà, tali teoremi poggiano sull’applicazione ingiustificata di modelli semplicistici a fenomenti tanto complessi come la scoperta e la produzione di petrolio. In particolare, essi lasciano fuori la variabile fondamentale, quella economica: sono il rapporto tra domanda e offerta, e il meccanismo dei prezzi che la riflette, a guidare gli investimenti in esplorazione e produzione, e quindi a determinare le quantità effettivamente estratte dal sottosuolo. Vi sono, naturalmente, problemi di accesso alle risorse, ma questi dipendono da questioni di natura politica e possono essere risolti solo promuovendo la massima integrazione economica tra i mercati dei paesi consumatori e produttori. La risposta alla ‘quota 100’, se mai il barile la raggiungerà, non è il socialismo energetico, ma la libertà economica”.

L’Occasional Paper “Petrolio: uno sguardo al picco” può essere scaricato cliccando qui (PDF). (IBL)

Buoni e cattivi: Gianteo Bordero

I morti riposano in pace, ma per i vivi pace non c'è. Così i funerali di Enzo Biagi si trasformano nell'ennesima occasione per un attacco frontale a Silvio Berlusconi. I paladini del Bene e della Libertà d'Informazione si scagliano contro il Cavaliere del Male e della Censura, con un cinismo che lascia quasi senza parole. Le poche che riusciamo a trovare le dedichiamo a Romano Prodi, che dopo le esequie, di fronte al primo microfono che trova, dichiara, riferendosi al cosiddetto «editto bulgaro» di Berlusconi, che «l'Italia sa benissimo quali sono le giustizie e quali le ingiustizie». Strumentalizzare la morte per fini di bassa polemica politica è una delle cose peggiori che si possano fare, e si potrebbe benissimo replicare a Prodi ricordandogli le varie «epurazioni» compiute dal suo governo in questo anno e mezzo di legislatura. Ma non è questo il punto.

Il fatto più preoccupante, di cui le parole del presidente del Consiglio sono espressione paradigmatica, è la cappa di conformismo che regna sovrana nel nostro Paese, quella fitta nube di politicamente corretto che eleva gli amici al rango di eroi della libertà e i nemici a quello di oppressori. Come se fossimo ancora nel 1943, in piena guerra civile, e al posto del fascismo e del Duce ci fosse il leader dell'opposizione democraticamente eletto da milioni di cittadini. Passano gli anni, ma il manicheismo che ha appestato nell'ultimo sessantennio la nostra vita civile sembra non finire mai. I buoni da una parte, i cattivi dall'altra. E poco importa se i primi hanno dalla loro tutto l'establishment intellettuale del Paese: ciò che conta è ripetere che occorre «resistere, resistere, resistere». Oggi come ieri, la resistenza come imperativo categorico è l'unica patente di presentabilità in questo strano Belpaese.

Allora tutto ciò torna utile per ricordare, in tempo di vacche magre e di consensi che colano a picco, che si è al governo per una sorta di superiore missione morale da compiere, per ripristinare la «giustizia» dopo il quinquennio dell'«ingiustizia». Non, in primis, per migliorare la vita dei cittadini, ma per rieducarli dopo l'ubriacatura berlusconiana. Così persino i funerali di Biagi divengono l'occasione per la precettistica, per il richiamo ai sommi doveri civili, per ricordare che il nemico è ancora tra noi. Come se gli italiani fossero un «popolo bue» incapace di intendere e di volere, facile a lasciarsi irretire dalle scintillanti promesse di benessere e sordo ai supremi principi morali.

In un bell'articolo pubblicato su Libero, Marcello Veneziani ha scritto, parlando delle reazioni dei mezzi d'informazione e dei politici alla morte di Biagi, che «non si possono sacrificare settant'anni di grande giornalismo agli ultimi sette di senile e ossessivo antiberlusconismo», perché Biagi «non fu mai, nei lunghi decenni della sua attività giornalistica, un giornalista impegnato, schierato, percepito dalla gente come partigiano». Egli - prosegue Veneziani - «non è stato un militante di parte ma altro: pioniere del giornalismo televisivo, comunicatore affabile e popolare, volto e firma di successo».

E' chiara, dunque, l'opera di strumentalizzazione politica che di Biagi è stata fatta da chi, come Prodi, invece che guardare all'uomo concreto, in carne ed ossa, ha preferito servirsene per scopi ideologici, per appiccicare un'altra figurina nell'album dei «martiri della libertà» e per ricordare al Paese che la guerra, in fondo, non è finita; che c'è sempre una «giustizia» da ristabilire; e che c'è ancora un Duce da combattere. E mentre i fantasmi dell'oppressore vagano per l'Italia, i cittadini pagano sulla loro pelle il prezzo salato di tanto cinismo e di tanto moralismo. (Ragionpolitica)

domenica 11 novembre 2007

Strenna di Natale, sbarazzarsi di Alitalia. Carlo Stagnaro

La telenovela di Alitalia non sembra avviarsi a una conclusione, e decisamente non a un lieto fine, se perfino il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi viola il tabù e comincia a parlare di rischio fallimento. Si tranquillizzino, piloti e dipendenti: la bancarotta non ci sarà, perché in un modo o nell'altro il governo ci metterà una pezza.

Ma è un bene? No. Quando una compagnia si trova nelle condizioni del vettore di bandiera, ci sono due strade: portare i libri in tribunale oppure venderla. Venderla, però, sul serio: bandendo un'asta vera e propria in cui il maggior offerente si aggiudica i resti del gruppo, senza dover rispettare improbabili paletti e non lasciando alcuno spazio all'arbitrio della politica.

Se Alitalia si trova in uno stato comatoso è infatti proprio a causa delle continue incursioni governative e del potere di fatto dei sindacati, che si muovono ai piani alti della compagnia come i gangster della Chicago anni Venti. Il risultato è che i dipendenti di Alitalia, specie alcune categorie, godono di condizioni a cui nessun loro collega in nessuna parte del mondo può neppure aspirare. Buon per loro, si dirà, ma a lungo andare questo comportamento può produrre solo inefficienza e buchi di bilancio. Come si è verificato. L'aspetto più sconfortante dell'intera vicenda è che le criticità sono sotto gli occhi di tutti. Al punto che l'amministratore delegato Maurizio Prato ha proposto un piano di rilancio preciso e ragionevole. Peccato che, come ha rilevato Andrea Giuricin in un suo studio per l'Istituto Bruno Leoni, il piano non sia credibile: se i sindacati non hanno concesso neppure un'unghia fino ad ora, perché mai dovrebbero cambiare atteggiamento? Non lo faranno, se non costretti. E non c'è modo di costringerli finché Alitalia resta in mano pubblica, cioè soggetta agli andirivieni della politica. Si torna, allora, al punto di partenza: che fare?

Che la via maestra sia la privatizzazione, nessuno lo discute. Che venderla per trattativa privata sia uno strumento spuntato, lo dimostra l'anno perso da quando il governo annunciò che avrebbe ceduto la compagnia. Non resta, dunque, che bandire un'asta competitiva, ben sapendo che - se dovesse spuntarla Air One - si porrebbero grossi problemi di natura antitrust per cui sulle principali rotte andrebbero liberati degli slot. Resta un ultimo dubbio: anche al netto delle pressioni dei sindacati, la legislazione del lavoro in Italia è quella che è, e i necessari adeguamenti non sarebbero facili. Il governo, dunque, dovrebbe impegnarsi a non mettere più il becco negli affari della compagnia. E se, anche a queste condizioni, nessuno si facesse avanti? C'è un solo modo: regalatela. A chi volete, ma datela via. I contribuenti non potrebbero ricevere per Natale un dono più bello che scrollarsi Alitalia dal groppone.(Il Tempo)

venerdì 9 novembre 2007

Irresponsabili per legge. Davide Giacalone

Esattamente venti anni fa, l’8 ed il 9 novembre 1987, gli italiani stabilirono, con un referendum il cui merito va ai radicali, che i magistrati dovessero essere personalmente e civilmente responsabili per i danni arrecati da loro atti dolosi, colposi, negligenti, omissivi, o frutto d’incapacità. Se il chirurgo m’asporta il rene sbagliato non ha importanza che sostenga di non avercela personalmente con me, di non avere goduto od essersi arricchito. Paga. Era giusto che anche altri, magistrati compresi, non fossero irresponsabili. Ma subito dopo il referendum, il 13 aprile 1988, una maggioranza parlamentare comprendente democristiani, socialisti e comunisti approvò la legge numero 117 e fece una gran pernacchia all’80 per cento degli italiani: a. non si denuncia e non ci si rivale sul magistrato, ma sullo Stato; b. il magistrato è censurabile solo se ha agito con deliberato sadismo, altrimenti ha sempre ragione.
Quattro anni dopo democristiani e socialisti, assieme ai laici, furono liquidati da un colpo di mano giudiziario. I comunisti, al contrario, incassarono l’appoggio della magistratura politicizzata. C’erano state le condizioni per rendere migliore e più seria la giustizia italiana, ma erano state sprecate dagli stessi che ne saranno schiacciati. Gli errori si pagano, e furono pagati. Il fatto è che la politica inginocchiatasi allora non s’è più rialzata, l’intero mondo giudiziario è stato lasciato in mano alle corporazioni ed il risultato è una totale, inescusabile ed intollerabile bancarotta. Un patrimonio di consenso popolare è stato dilapidato, prima sguinzagliando il giustizialismo latrante, poi abbandonando la giustizia al suo infausto destino. Oggi ci s’accorge che riducendola a strumento di potere ed empireo dell’inefficienza si moltiplica l’insicurezza, ma pur di non mettere le mani laddove si è troppo esposti e ricattabili ci s’acconcia a dar poteri ai prefetti, sperando di sottrarli al loro destino di progressiva inutilità.
Divenuti irresponsabili per legge, i magistrati non si sono trovati più liberi ed indipendenti, solo più corporativi ed esibizionisti. Calcano la scena da protagonisti, ma sono solo comparse nel disfacimento dello stato di diritto. In venti anni siamo scivolati indietro, senza neanche un fondo su cui battere il cranio.

giovedì 8 novembre 2007

Eppure c'è chi taglia le tasse. Paolo Del Debbio

Diminuire le tasse si può. Solo il centrosinistra non ci crede e non ci riesce. La Lombardia lo ha fatto. Dall’anno prossimo nella regione presieduta da Roberto Formigoni i cittadini con un reddito fino a 15.500 euro all’anno non pagheranno più l’imposta regionale e a tutti gli altri sarà ridotta. Non siamo chissà dove. Siamo in Italia, in una regione alla quale lo Stato, quest’anno, ha dato 170 milioni di euro in meno, dove i conti devono essere tenuti in ordine, dove bisogna stare molto attenti alle spese. Anche perché dei soldi che i lombardi danno allo Stato indietro ne tornano pochi. Quindi bisogna pagare per sé e per altri. Magari per sistemare anche i conti delle regioni che hanno bilanci da far spavento.
Per abbassare le tasse bisogna, prima di tutto, crederci. È una questione di modo di pensare. Ci sono politici che, conoscendo un po’ di più la vita della gente comune, sapendo delle loro ansie e delle loro angosce a fine mese, prima di mettere le mani nelle loro tasche ci pensano due volte. Sapete perché? Per un motivo semplice: sanno cosa vuol dire guadagnarsi i soldi per campare. Sanno cosa vuol dire rischiare in proprio. Nella loro vita precedente alla politica hanno dovuto ingegnarsi per costruirsi uno stipendio alla fine del mese.
Questi sono (o almeno dovrebbero essere) i politici del centrodestra italiano. Quelli della sacralità della tasca del contribuente, del lavoro e dei suoi frutti. Quelli del rispetto del valore della fatica di ognuno, singoli e famiglie, vecchi e giovani, uomini e donne.
Per Prodi, Padoa-Schioppa e Visco questa non è una priorità. E la sacralità è quella del governo, non quella della tasca. Per chi governa la Lombardia e Milano, evidentemente, sì. Anche a Milano, infatti, negli ultimi anni le tasse non sono aumentate, anzi diminuite.
Secondo il Sole 24 Ore Milano è il capoluogo di provincia italiano dove si pagano meno tasse comunali. Nel 2007 l’Ici è passata dal 5 al 4,7 per mille e non pagano un centesimo i milanesi con un reddito fino a 17mila euro. Chissà cosa avrebbe da dire il sempre più evanescente Veltroni, sindaco che non ha diminuito le tasse, anzi le ha aumentate.
Non c’è un altro strumento per far prosperare l’economia se non quello che far prosperare le tasche dei cittadini: l’economia, alla fine passa tutta da lì. (il Giornale)

mercoledì 7 novembre 2007

Durezza fasulla. Davide Giacalone

Adesso si gareggerà a chi ce l’ha più duro, il decreto espulsioni. Ma sono le teste ad essere dure, perché quella roba non funzionerà e non faremo quel che si deve. Anziché procedere da ubriachi, oscillando fra il pietismo e la faccia feroce, dovremmo prima di tutto chiarire chi e cosa intendiamo tutelare: i cittadini italiani, la loro sicurezza e gli immigrati che vengono qui per lavorare. Senza la prima cosa crescerà la xenofobia cieca, e senza la seconda continueremo ad importare delinquenti. Ferme restando le leggi civili e penali, la prima condizione è: chi viene deve mantenersi e vivere civilmente. La direttiva europea non prevede affatto che possa recarmi, io italiano, a Parigi e mettere su una baracca nei giardini pubblici, campando d’espedienti. Entro tre mesi o si dimostra di avere un reddito (regolare) o fuori. Su questo il decreto governativo è totalmente inutile.
I quattrini vanno dove il fisco è meno esoso, i delinquenti dove la giustizia fa ridere. I secondi vengono da noi. Tolleriamo reati a montagne, sulle strade e lungo i viali, dimostriamo che i controlli sono una burletta, il resto arriva da sé. Fra gli immigrati regolari il tasso di criminalità è simile a quello degli italiani, ma i reati commessi da stranieri sono numerosissimi. Questo significa che c’è un sacco di gente irregolare, ed è lo Stato a fare cilecca. Ora, secondo il governo, li becchiamo la prima volta e gli diciamo, nella loro lingua, di andare via, non prima di un mese, se non lo fanno e li ribecchiamo ammenda fino a 2000 euro e galera fino a sei mesi. Se ne fregheranno, a parte il fatto che non li ribecchi con la stessa identità. Se invece li punissimo, e sul serio, per i reati commessi, se avessimo una giustizia che decide in tre mesi e non in dieci anni, quelli neanche si farebbero vedere.
Ma ora va di moda la durezza, quindi si può espellere, scavalcando la giustizia, chi ha un “familiare” che ha compromesso la dignità umana. Che non so cosa significhi, ma se vuol dire che espelliamo un violentatore e gli mandiamo al seguito moglie e figlie vuol dire che siamo matti. Vedrete che la pratica trasformerà il decreto in coriandoli, ci terremo la peggiore giustizia d’Europa e saremo, quindi, il Paese più insicuro, la pacchia dei delinquenti e l’inferno delle persone per bene.

Quanta retorica sul povero Enzo. Giovanni Cerruti

E meno male che alle otto di sera Paolo Mieli è andato in tv per dire che «Enzo Biagi era poco amante della retorica e dei piagnistei». E Ferruccio de Bortoli, sempre per stare ai direttori del Corriere della Sera, a ricordare che era «uomo di semplicità, rapidità e battuta». Meno male perchè a Biagi morto, e certo non per colpa sua, succede il contrario ed è cominciata la solita, prevedibile, esagerata, noiosa, spesso ipocrita esibizione dello stupidario funebre, con le dichiarazioni che cominciano sempre con le stesse parole: «Con lui scompare...», e vai di retorica. E non può mancare, ovvio, il ricordo dell’ultima telefonata.
Di tutto e di tutti. E già cominciano a girare, come sempre, le frasi dette all’amico, le confidenze, i severi moniti, gli autorevoli insegnamenti, l’imperituro lascito. Leggere, per credere, le vagonate di agenzie stampa. O guardare, come a molti sarà capitato, una qualsiasi tv nazionale. Ieri sera la morte di Biagi ha invaso tg e speciali in seconda serata. Questa mattina sarà materia di litigi attorno all’auditel. Hanno vinto i 12 minuti del Tg1 o i 10 del Tg3, Vespa o Costanzo, Ballarò, Skytg24 o RaiSat? Rai1 ha dato l’handicap a tutte, aveva in studio Bice Biagi, la figlia maggiore che non poteva rifiutare.
Alle tre del pomeriggio, quando alla camera ardente si è presentata Alba Parietti, affranta davvero, si è capito che il lutto privato, la famiglia, gli amici veri, si son dovuti arrendere. Biagi uomo pubblico, Biagi personaggio tv, entra nella spettacolarizzazione della morte e nella banalità della retorica. Lo ricordano le Istituzioni, com’è giusto. Ma poi le agenzie di stampa faranno indigestione di alate frasi di cordoglio che prontamente virano sulla politica e «il famoso editto bulgaro di Berlusconi» (Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani, da Mosca). «E con lui scompare un pezzo della nostra storia migliore» (Piero Marrazzo, presidente Regione Lazio).
Forse Enzo Biagi non l’ha mai saputo, «ma è sempre stato nel mio cuore, è anche venuto alle mie sfilate» (Giorgio Armani, stilista). «Una volta mi raccontò...» (Pippo Baudo, presentatore). «Ricordo il suo amore per la nostra montagna» (Pierferdinando Casini, leader Udc). «Una volta mi disse...» (Maurizio Costanzo, giornalista). «Ho imparato da Biagi...» (Sergio De Gregorio, Presidente della commissione Difesa del Senato). «Con lui scompare una delle figure storiche del giornalismo» (Paolo Bonaiuti, Forza Italia). Insomma l’importante è esserci. O non esserci, ma farlo sapere: «Sono troppo addolorato» (Michele Santoro, giornalista).
E allora «Grazie Enzo», titola il tg3. O «Ciao Enzo», come si può leggere sui muri di Napoli, manifesti firmati Forza Italia, nientemeno. O «Ciao Direttore», come dice in diretta al Tg4 Emilio Fede: «Mi ha assunto in Rai e mi ha dato la la vita». Poi è arrivato Berlusconi e ne è cominciata un’altra, per tutt’e due.
Questa mattina riapre la camera ardente e ci saranno ancora le tv, lo stupidario, gli amici veri o verosimili che arriveranno per un saluto e una dichiarazione. A uno come Biagi magari scapperebbe un «Ma non avete proprio nient’altro da fare?». In coda, silenziosi, i suoi lettori. Con un fiore, o un grazie. Il miglior addio. (la Stampa)

lunedì 5 novembre 2007

La generazione Tuareg. Davide Giacalone

Francesco Delzìo, da giovane (33 anni, una posizione in Confindustria), scrive dei giovani come della “Generazione Tuareg” (Rubbettino), alludendo al fatto che, per traversare il deserto, è bene restare in gruppo e non abbandonarsi all’individualismo (anche se, forse, sarebbe stato meglio parlare di “egoismo”). Talora, però, si ha l’impressione che qualcuno oscuri o sposti le stelle, in modo che la carovana perda l’orientamento e nel deserto ci resti a vita.
Prendiamo, ad esempio, il rientro televisivo di Daniele Luttazzi, esponente del cerchiobottismo con speranze comiche, il quale ha voluto dire ai giovani: attenti, con la legge Biagi, definita 30 per evitare di dover fare i conti con il morto ammazzato, ve lo mettono …. Immagine edificante, ma prima di tutto totalmente falsa: la fregatura non sta nella flessibilità, che, semmai, serve a creare ed offrire lavoro, ma nel suo concentrarsi in una sola fascia. Quella legge non dovrebbe essere soppressa, come chiedono i Luttazzi che si vogliono dimostrare oppositori del buon senso, ma semmai ampliata all’intero mondo del lavoro.
Il patto fra generazioni, la continuità del dare e dell’avere, non salta con la legge Biagi, semmai con le continue non riforme del sistema pensionistico, con lo spostare risorse a favore di chi esce dal lavoro, anziché a favore del lavoro e di chi vi entra. “Quanto – si chiede Delzìo – dovremo attendere per il primo sciopero dei ventenni e dei trentenni a sostegno della riforma delle pensioni? Chi riuscirà a spiegare loro qual è il loro vero interesse?”. Lui, con il suo libro, ci riesce, semmai si deve essere più tempestivi nell’accorgersi e nel condannare le luttazzate, che diffondono disinformazione e pregiudizi a piene mani.
A quanti continuavano a chiedergli della sorte dei giovani Benedetto Croce rispose che “l’unico problema dei giovani è invecchiare”, intendendo così negare una specificità politica o culturale. Non aveva torto. Il fatto paradossale è che quella battuta torna anche nella riflessione di Delzìo, ma in versione più prosaica: “nel 2050 la mia generazione avrà superato i 70 anni e sarà in splendide condizioni di salute. (…) Rappresenterà la classe anagrafica più numerosa”. Solo che oggi sono interessati a rivoluzionare lo Stato sociale, mentre domani ne avranno assorbito il fallimento. Il salto generazionale avverrà, ma confermando il potere dei vecchi. Quindi è ora il momento di darsi da fare. Proprio per questo, e proprio perché consiglio di leggere questo libro (breve ed efficace), faccio osservare all’autore due errori.
Egli definisce Tommaso Padoa Schioppa un “tecnico prestato alla politica”, proprio per questo capace di dire cose vere. No, prestiti di questo tipo esistono solo nei rotocalchi per non pensanti, e l’idea che ci siano tecnici in politica, per dirla ancora con Croce, è un’illusione che canta nell’animo degli sciocchi. Il governo della Repubblica è sempre politico, e non potrebbe essere diversamente. E’ un bene che a comporlo non siano chiamati (solo) analfabeti, ma la responsabilità di ciascuno è politica. E qui Padoa Schioppa ha fatto cilecca alla grande, perché la pratica ha tradito l’enunciazione. Non perché egli sia un incoerente, ma proprio perché, non avendo forza politica, non conta nulla e fa da copertura. Di questo i giovani devono ben rendersi conto, perché, altrimenti, non si capisce il motivo che spinge ed impone di far politica in prima persona, senza delegare.
Il secondo errore è credere che i governi della Repubblica siano stati, prima del crollo del muro di Berlino, sempre “eguali a se stessi”. Niente affatto: erano composti da coalizioni che ruotavano attorno allo stesso partito, la democrazia cristiana, ma la stagione centrista e quella del centro sinistra, quella della solidarietà nazionale e quella del pentapartito, non si somigliano affatto e non sono manco per niente sempre lo stesso governo. Se ci si lascia sfuggire le differenze, se si cede al luogo comune di morettiana memoria, si capisce poco del passato e non si riescono a porre seriamente le basi del cambiamento. Oggi, del resto, sono poi così diversi i governi che nascono dal bipolarismo bislacco ed elettoralistico?
Stiano attenti, i Tuareg generazionali, a non accettare l’eredità velenosa di una politica che ha perso spinta ideale e voglia di governare. Anche per quello l’Italia è priva di classe dirigente, quindi non affezioniamoci alle dune e non rifugiamoci nelle oasi.