domenica 31 gennaio 2016

Incaglio bancario. Davide Giacalone

Non sono ammessi aiuti di Stato alle banche, ma una gestione improvvida delle loro sofferenze può recare un danno allo Stato. Magari la cosa non è immediatamente evidente agli occhi di un cittadino pur informato, ma resta un pesante macigno sospeso sulle nostre teste. Quel che, invece, è piuttosto chiaro è che la classe dirigente italiana arriva tardi e impreparata all’appuntamento con direttive europee, che si conoscono da anni. E’ tutto un fiorire di richieste di moratorie, rinvii e modifiche, così confermando che prima si dormiva il sonno degli incoscienti. Mentre che sia direttamente il governo, e segnatamente il ministero dell’Economia, a occuparsi di fusioni fra diverse banche segnala che al ritardo si cerca di rimediare con pericolose invasioni di campo e potenziali conflitti d’interesse.
Partiamo dal macigno. Con il decreto legge del novembre scorso, destinato a salvare quattro banche, ridotte a colabrodo dai loro amministratori, si sono fissati alcuni paletti. Nel posto sbagliato. E’ vero che si trattava solo dell’1% del sistema bancario, ma quando è stato fissato al 18% del valore di libro quello dei loro crediti deteriorati (il debitore deve 100, la restituzione s’è fermata, valutiamo 18 quel credito e cediamolo ad altri) s’è offerto un parametro al mercato. Quello ha preso la calcolatrice, ha valutato a quel livello il valore dei 350 miliardi analoghi, diffusi in tutte le banche, ed è partito il crollo in Borsa. Che c’è stato anche altrove, ma da noi, appunto, in quel modo aggravato. Poi s’è aggiunta la comunicazione dell’autorità di vigilanza (normale e consueta), sui controlli in atto, e il panico ha preso il sopravvento. Da qui la necessità di chiudere in gran fretta la partita della bad bank, ovvero del posto dove sigillare la robaccia. Non potendolo fare con i soldi dello Stato, non bastando quelli delle banche (altrimenti non ci sarebbe problema), ci voleva un accordo con le autorità dell’Unione europea. Lo scrivemmo subito e così è andata, dopo la fiera strapaesana dei toni striduli.
Solo che la soluzione trovata non risolve, perché l’ipotesi è quella di prendere il credito deteriorato e consegnarlo al mercato con annessa garanzia pubblica. Si dice: non costa un soldo al contribuente. Oggi, ma domani? Che succede se quei titoli non trovano mercato e si deve escutere la garanzia? Ecco come quell’incertezza si riflette sull’affidabilità dei conti pubblici, il cui rating, ricordiamolo, è a un solo gradino dalla spazzatura. Come si evita questa tragedia? Valutando quei crediti in maniera realistica e spalmandone nel tempo le ripercussioni negative. Ed è qui che ci si accorge che manca un soggetto in commedia: il valutatore. Non c’è stato a novembre e non è alle viste ora. Eppure la direttiva europea è chiara: in caso di risoluzioni è un soggetto terzo a fissare i valori dei beni bancari. Se lo si fa al governo si ottengono tre effetti negativi: 1. se troppo basso si arricchiscono gli acquirenti; 2. se troppo alto si esce fuori mercato e si punta dentro le casse pubbliche (visto che c’è la garanzia); 3. ci si consegna nelle mani delle agenzie di rating, che già in passato ci strapazzarono assai. Oggi si può prevenire, domani sarà costoso rimediare.
Al ministero dell’Economia vogliono le aggregazioni fra banche, in modo da mettere i malati al riparo dei sani. Non è un errore, ma sono sbagliati la premessa e il metodo. Emanando il decreto di novembre (che errore!) si disse che così si salvavano dei posti di lavoro. Ma se si fanno aggregazioni si deve licenziare e chiudere sportelli. Difficile sostenere che le banche sono troppe, mentre gli sportelli e i dipendenti sono quelli giusti. Senza contare che il governo non ha poteri sulle banche private, mentre è in conflitto d’interessi per quella di cui parla in ossessiva continuazione: Monte dei Paschi di Siena. Di cui è azionista (a causa della conversione di un credito non rimborsato).
La tesi secondo cui quella banca, la più antica, sia stata rovinata dalla gestione politica, in capo ai dirigenti del Partito Democratico, non la sostiene qualche scamiciato latrante, ma la sostenne Matteo Renzi. Quando ancora era rottamatore. Non a torto. Che, ora, dal governo, si usino “pressioni politiche e psicologiche” (copyright di Federico Fubini) per mettere in sicurezza quel che resta, reggendosi il governo grazie agli stessi che la sfasciarono, non fa che aggiungere una nota di colore a un problema risolto solo nei titoli dei giornali. Per il resto è lì, che pende minaccioso.
Dire, infine, che risolto il problema dei crediti incagliati e deteriorati, si libera il credito, lasciando intendere che i soldi affluiranno copiosi, oscilla fra l’ottimismo sfrenato e il raggiro ostinato. Si elimina un ostacolo, certo, ma se poi non cambia l’andazzo avremo le banche della connivenza nuovamente pronte a dare i soldi ai soggetti sbagliati, in cambio di favori e riverenze, e le banche della convenienza che li daranno ai soggetti solidi. Che non ne hanno bisogno. Forse non è chiaro che se la faccenda di quelle quattro banche non si chiude con la giusta condanna dei malfattori, non ne usciamo, da questa pozza.