mercoledì 27 luglio 2011

Ma se il killer di Oslo fosse comunista non farebbe così orrore. Marcello Veneziani

Questa volta l’avete fatta sporca, amici e nemici della sini­stra nostrana. Sui giornali di sinistra insistono da giorni a dare una connotazione politica alla strage compiuta dal mostro di Oslo. Ieri su la Repubblica , Michele Serra si è accodato a definir­lo un delitto politico compiuto da «uno schifoso fanatico di de­stra », paragonandolo a Hitler e sostenendo che la pazzia di am­bedue non cancella la matrice politica di entrambi.

E sempre su la Repubblica Francesco Merlo ha definito Breivik la versio­ne degenerata di Oriana Fallaci e dei giornali italiani di centro­destra, pur concludendo che si tratta di un colossale cretino. Non sono un fan della Fallaci e non ho fobie antislamiche e pulsioni nordico- occidentaliste, ma questo paragone che circola sottotraccia sulla stampa di sinistra e a volte affiora in superficie, mi pare davvero carognesco. Non ho mai pensato di giudicare, che so, il terrorista Cesare Battisti, la versione estrema di Bersani, Vendola, la Repubblica o di chi volete voi. E parliamo di un terrorista politico, mica di un paranoico come Breivik. Cosa differenzia un terrorista politico da un mostro malato di paranoia? Il fatto che il primo compie il suo atto nell’ambito di un gruppo e con il consenso di un’area da cui il gruppo attinge le sue leve, colpendo obbiettivi mirati e condivisi. Il secondo invece compie il suo gesto nella solitudine della sua mente malata, spesso colpendo obbiettivi che sono la proiezione della sua paranoia.

Mi pare una differenza elementare e abissale. I brigatisti rossi, per esempio, compivano i loro delitti in gruppo, con un collettivo, una pianificazione e una struttura piramidale, riscuotevano un certo consenso in alcune aree estreme della sinistra e reclutavano le loro cellule ai margini del sindacato, dell’università, dei movimenti estremisti di sinistra. Così i fanatici islamici. Se un uomo fa strage dei suoi vicini perché hanno offeso la sua famiglia, non possiamo desumere dal suo atto feroce che l’amore per la famiglia produce questi frutti estremi. Non è l’idea di famiglia che spinge alla strage di chi l’ha offesa, ma la follia di una mente bacata che trasforma un valore positivo, l’amore per i suoi cari, in un crimine orrendo. Lo stesso vale per la civiltà cristiana, per la tradizione europea.

Dovrebbe essere una verità solare, ma il senso della realtà ormai è una rarità filatelica. Il marchio politico su Breivik non nasce solo dalla faziosità e dalla criminalizzazione assoluta del nemico politico. Nasce da un vizio originario, assai diffuso a sinistra: giudicare gli atti sulla base delle idee professate. Sono le idee che decidono se sei un criminale o un combattente politico, non gli atti e gli effetti. Tra chi sogna una società pura nel suo cristianesimo o anche nel suo comunismo, ed uno che nel nome del cristianesimo o del comunismo fa strage di impuri, corre l’abisso. Il primo può essere un utopista, il secondo è un criminale; non c’è relazione tra i due, se non nell’immaginazione. Quel che conta è l’atto compiuto, la realtà dell’effetto, e non l’intenzione ideale che lo ha mosso. Invece, giudicando gli atti sulla base delle idee professate, accade, per esempio, che gli orrori del comunismo vengano attribuiti alle persone o alle circostanze storiche, così viene salvata l’incontaminata purezza del comunismo.

Mentre gli orrori compiuti dall’estremismo cristiano-occidentale, dal nazionalismo e dal nazismo, sono orrori cristiani, nazionalisti, nazisti....

Il criminale coincide perfettamente con l’idea professata. Nel caso del comunismo invece la tradisce. Eppure non si conoscono comunismi ben riusciti. Se ogni applicazione storica di un’idea produce disastri, allora il difetto sta nel manico. Invece, gli orrori compiuti nel nome del comunismo vengono classificati alla voce brigatismo, stalinismo, regime sovietico, mai citando il comunismo. E gli orrori compiuti nel nome del nazismo o d’altro, vengono classificati come crimini nazisti.

Perché al primo si attribuisce il beneficio delle buone intenzioni, e così viene salvata l’immacolata purezza dell’Idea dalle sue degenerazioni. Agli altri invece, non solo ai nazisti, il crimine viene attribuito direttamente alla malignità delle idee professate; anche quel che appartiene alla patologia di individui isolati. Se il mostro di Oslo avesse ucciso nel nome dell’uguaglianza e del comunismo sarebbe per questo «meno schifoso»? Se rispondete di no, ammettete che non è il movente ma è lo sterminio a determinare l’orrore. Se rispondete di sì, fate leggermente schifo anche voi. (il Giornale)

martedì 26 luglio 2011

Default e democrazia. Davide Giacalone

I mercati, scrivono in tanti, hanno paura del debito statunitense, dell’ipotesi che la più grande potenza mondiale (economica, politica e militare) vada in bancarotta entro il 2 agosto. Non succederà e chi rischia di più siamo noi europei. La paura è alimentata dall’irrazionale, dal muoversi ondeggiante dei mercati, dal tenere gli occhi chiusi. Apriteli, invece: gli Stati Uniti non corrono alcun rischio di bancarotta. E aprite anche le orecchie: le democrazie non saranno perfette, ma funzionano assai meglio dei regimi dispotici. Nel lungo periodo, ma anche in quel tempo che è l’unico considerabile: il corso della nostra vita.

Il default statunitense può essere solo giuridico, non economico. Non c’è il rischio che non riescano a pagare i debiti contratti, alla loro scadenza naturale, ma che non possano più spendere soldi pubblici perché è stato raggiunto il tetto fissato da un voto parlamentare. Considerato che quel tetto viene periodicamente, e, da ultimo, soventemente rialzato, in modo da contenere sempre il debito reale, il problema è “solo” quello di convincere la maggioranza. Cosa rispetto alla quale c’è una difficoltà: l’attuale Presidente, quand’era senatore, diceva al suo predecessore che chiedere quei rialzi altro non era che l’ammissione del fallimento politico. Posto che i repubblicani persero le elezioni a causa della crisi, adesso vorrebbero sentire qualche parola di scuse. Insomma, non intendono concedere gratis quel che sanno benissimo essere una necessità. Specie nell’imminenza delle elezioni presidenziali e dopo che il Presidente in carica ha già perso quelle di medio termine. Tutto qui. Non è poco, ma è tutto qui. Per cui una soluzione si troverà.

La paura è alimentata dal fatto che, senza un accordo in tempi brevi, in queste stesse ore, le agenzie di rating potrebbero declassare il debito americano, considerato sicurissimo. Ammesso che avvenga, ciò porterebbe, nell’immediato, ad un rialzo dei tassi per tutti, salvo che il giudizio sarà subito rivisto, non appena un accordo si troverà. Se così andassero le cose a trovarci con le dita nello stipite saremmo noi europei, non gli americani, saremmo noi a pagare di più, non loro.

Gli Stati Uniti hanno problemi seri, a cominciare dal fatto che il loro mercato cresce (magari crescessimo allo stesso ritmo!), ma non produce nuovi posti di lavoro, non, comunque, in modo da riassorbire quelli persi negli ultimi due anni. E hanno un debito pubblico pari (leggermente più alto) al prodotto interno, con un’amministrazione che preme sulla spesa. Ma hanno anche dei punti di vantaggio, che Martin Feldstein, professore ad Harvard e già consigliere di Reagan, non manca di sottolineare: a. la pressione fiscale è considerevolmente più bassa di quella che grava sugli europei; b. c’è molta manodopera a basso costo; c. governano il dollaro, mentre noi non governiamo l’euro. Ci sono ampi margini per correggere i conti. Naturalmente la partita è politica, con la presidenza che non esclude nuove tasse (sempre con l’impostazione demagogica di colpire i più ricchi) e l’opposizione repubblicana, che ha la maggioranza al Congresso, che vi si oppone e reclama tagli alla spesa. Ma le ricette sono realmente applicabili, mica parole al vento e minacce sociali, come capita dalle nostre parti.

Inoltre, e la cosa è decisiva, i mercati possono praticare un solo tasso d’interesse per il debito pubblico dell’intera federazione, mentre da noi è la non federalizzazione del debito, quindi la possibilità di diversi tassi d’interesse, che ci espone ad ogni speculazione.

Il conflitto fra la presidenza e la maggioranza del Congresso, infine, non è una dimostrazione di debolezza, ma, all’opposto, di forza democratica. Solo da noi si pensa che i problemi economici si risolvano creando maggioranze con tutti dentro, mentre nel mondo razionale sono proprio i problemi a richiedere che lo scontro sulle soluzioni alternative sia trasparente e deciso dall’unico rappresentate degli interessi collettivi: l’elettorato. Se qualcuno, oltre Atlantico, proponesse di consegnare il governo ai tecnici sarebbe subito consegnato alla neurodeliri. I repubblicani che usano il debito per mettere in difficoltà il Presidente e quest’ultimo che usa il default per forzare la mano a chi gli si oppone non sono rappresentanti d’egoismi dissennati, ma d’interessi diversi e contrapposti. E questa è la democrazia, che può sospendersi in casi di disastri naturali o d’invasioni militari, mica su questioni che sono la ciccia vera della politica.

Il debito americano si trova in diverse mani internazionali, comprese quelle cinesi. Questo pesa. Ma sulla bilancia occorre mettere anche il fatto che più della metà della spesa militare nel mondo è statunitense. Sarà brutale da sentirsi, ma impossibile da ignorarsi. Non raggiungendo l’accordo, tenendo ciascuno duro sulle proprie posizioni, democratici e repubblicani scherzano con il fuoco, ma sulla pira ci siamo noi che, per giunta, anche quando immaginiamo d’avere pompieri europei non li dotiamo d’estintori comuni.

mercoledì 20 luglio 2011

In debito di politica. Davide Giacalone

Se il problema italiano, e del nostro enorme debito pubblico, fosse liberarsi di Berlusconi e del suo governo sarebbe facile da risolversi, tanto, oramai, si è prossimi al capolinea. Ma è una presa in giro. Ieri abbiano visto perché il governissimo è una parola priva di contenuti, oggi vale la pena allargare la riflessione al resto dei governi occidentali. In Spagna il governo è cotto, Zapatero ha annunciato che neanche si ricandiderà, eppure non si mette in dubbio la sua legittimità attuale. La signora Merkel non vince un’elezione manco per sbaglio, ma sfida l’opposizione e punta alle prossime elezioni politiche dicendo che se lei ha le idee confuse gli altri non ne dispongono proprio. Sarkozy punta sul pancione, e sul fatto che i socialisti non sono in grado di gonfiare neanche quello. Cameron era in minoranza già il giorno delle elezioni. Obama ha il conto alla rovescia che corre e, se non trova un accordo con i repubblicani, che hanno la maggioranza al congresso, avrà presto un debito pubblico fuorilegge. Possibile che l’Italia viva tanto fuori dal mondo da credere seriamente che il problema sia liberarsi di Berlusconi, o, all’opposto, di dare a Berlusconi il potere che gli manca?

Solo la miope miseria del nostro dibattito interno può far credere una cosa del genere. E, del resto, come giusto ieri avvertivamo, se il calo in borsa era da considerarsi una bocciatura del governo un suo successivo rialzo vale la promozione? Quante volte si fanno, questi scrutini? Mi trovo in Cina e leggo sui giornali italiani che il ministro degli esteri sarebbe venuto qui a confortare i creditori sull’affidabilità del debito pubblico italiano. Ma quando mai?! L’Italia è un debitore affidabilissimo, con un patrimonio molte volte superiore al debito, che non ha mai mancato di rimborsare un solo centesimo e non lo ha mai fatto con un solo giorno di ritardo. L’Italia, da questa parte del mondo, è vissuta come ricchezza. I discorsi più realistici e fiduciosi, sulle cose che siamo stati capaci di fare, li pronuncia il ministro degli esteri cinese, non quello italiano.

Il nostro debito pubblico non è un problema degli altri, ma nostro. Siamo noi che ne paghiamo il prezzo, gli altri incassano. E siamo affidabili. Abbiamo a portata di mano un governo che ne assicura una più saggia gestione? No. Abbiamo un’opposizione che sappia rimproverare il governo per le cose che non ha fatto e che prometta di farle? No. Il nostro problema è di essere un Paese bloccato da una resa dei conti sul passato, da una diatriba su quel che è già successo. I guasti del governo li vediamo, ma quelli dell’opposizione sono giganteschi. Nelle democrazie il crollo di un governo non è un dramma, se c’è chi è in grado di prenderne il posto, ma non è il nostro caso.

E’ vero che gli italiani hanno l’anima colma dall’arrogante insipienza della politica dominante. Ma quello di cui difettano è l’alternativa. Guardiamo al resto del mondo, e accorgiamoci che le cose non sono, altrove, più allegre. Il che non c’induca a rassegnarci, ma, almeno, ad avere un minimio di rispetto per la realtà.

lunedì 18 luglio 2011

L'Altra Italia. Davide Giacalone

Liberale sarà lei! Oh direttore. E non s’azzardi oltre a inserirmi nella pattuglia di quanti a quella cultura si richiamano. Per essere più convincente farò alcuni esempi, pregandola di arrivare fino in fondo, talché mi sia possibile dirle dove passa il confine fra l’Italia che, da tempo, s’esibisce sul palcoscenico della politica e quella che pensa la politica sia una cosa seria.

La manovra economica del governo e l’atteggiamento accondiscendente dell’opposizione, a ciò indotta dall’orientamento politico del Quirinale, dimostrano, ancora una volta, che l’Italia si muove quando è pressata da vincoli esterni. Come lo scolaro somaro, insomma, che non studia per interesse o passione, ma a seguito degli scapaccioni che riceve. Il vincolo esterno, questa volta, è rappresentato da un presunto attacco speculativo contro l’Italia. In realtà si tratta del fatto che l’euro, la moneta che abbiamo in tasca, ha squilibri strutturali e la sola idea che possa essere nelle mani di cittadini che pagano tassi d’interesse, sul debito del loro Paese, distanti fino a dieci punti fra di loro è un assurdo. Ma tant’è: basta che altrove si dica che le colpe sono nostre che tacchete, in casa il governo procede a fare l’unica cosa che sanno fare i disperati: tassare. Si sarebbe potuto, e si potrebbe, invece, fare tante cose utili e rivoluzionarie, capaci di aprire un futuro rigoglioso. Esempi.

1. Anziché parlare di tagli alle pensioni, praticandoli con insensato sadismo, si potrebbe ragionare di riforme serie. Con la manovra governativa si dovrà attendere il 2030 per avere la parificazione dell’età pensionabile di donne e uomini, e il 2050 perché si ritirino dal lavoro a 70 anni. Nel frattempo le impiegate pubbliche parificano alla svelta l’età con i colleghi maschi, perché a ciò ci costringe una (giusta) sentenza europea. Si poteva fare in tempi identici, così smorzando un dibattito che rischia di durare tra i 15 ei 35 anni. Che alla sola idea mi sento male.

2. Sempre in tema di pensioni, si dovrebbe cancellare la reversibilità, ovvero la pensione lasciata in eredità ai vedovi. Non per colpire le belle slave che sposano i nostri vecchietti, rinvigorendo in loro l’amore per la famiglia, ma per prendere atto che la società è cambiata, le famiglie non sono quelle di una volta e le donne non c’è proprio motivo di considerarle minorate. Lo so, la sola idea fa impazzire sindacati e sinistra, ma si potrebbe ricordare loro chi introdusse le pensioni di reversibilità: Benito Mussolini. In cambio si deve dare ai lavoratori minore pressione contributiva, di modo che abbiano risparmi da potere investire, se lo vogliono, in pensioni integrative per sé e per i propri familiari. Della serie: sono persone adulte, capaci di decidere.

3. Si parla tanto di privatizzazioni, ma noi amanti del mercato c’insospettiamo. Abbiamo già vissuto la stagione delle privatizzazioni fatte malissimo, utili solo a trasferire ricchezza pubblica in poche tasche private. Si deve vendere non ciò che produce utili, o, almeno, non per prima cosa, ma quel che produce guasti. E senza acquirenti protetti. Esempio: si venda la Rai, territorio di lottizzazioni e sprechi, in modo da rendere più forte la concorrenza a Mediaset. Perché mi guarda così, direttore? E’ stato lei a darmi del liberale, così impara. Si vende quel che crea mercato e aumenta la competizione, non quello che consente rendite a privati profittatori.

4. Oltre a privatizzare si deve esternalizzare. La gran parte della spesa pubblica potrebbe essere compressa se fosse amministrata da chi deve trarne profitto, anziché clientele e quella roba che chiamano “pace sociale” e in realtà è dilapidazione infruttuosa. Se prendete interi settori di spesa (il personale scolastico, o quello sanitario) e dite a un gestore privato: ti do il 95% di quel che ho speso l’anno scorso e voglio maggiore efficienza, quello corre. Anzi, corrono in tanti.

5. A scuola si scateni il merito, con gran tripudio per i ragazzi. Si prendano gli insegnanti che dettano le soluzioni ai test Invalsi e li si licenzi, in tronco. Si abolisca il valore legale del titolo di studio. Si adottino i libri digitali e si doti ciascuno studente di un computer. Ci costa meno della baracca che teniamo in piedi.

6. Con il debito pubblico che abbiamo non possiamo permetterci di veder crescere il pil solo all’1%. Quando va bene. Non sto a farla palloccolosa, ma è matematica. Come si fa a crescere di più senza drogare il mercato con spesa pubblica aggiuntiva? Liberalizzando e facendo trionfare la meritocrazia, nel mercato, negli studi, negli orari e nelle professioni.

7. Deburocratizzare è impossibile se non capovolgiamo il paradigma: non è lo stato che deve assicurare che sono onesto e non avveleno i clienti, sono io che garantisco, poi, se mi trovano a sgarrare, mi fanno chiudere. Qui, invece, con la smania dei controlli, fioriscono solo le mazzette.

Si è stufato, direttore? Potrei continuare per ore. Sa quali sono le due italie? Una è quella di Machiavelli, che crede esistano idee per le quali vale la pena combattere, l’altra è quella di Guicciardini, che crede valga la pena sbattersi solo per il proprio “particulare”. I cavoli propri. Tutti hanno sentito nominare il primo, ma la stragrande maggioranza è seguace del secondo. Compreso il mondo politico che vedo alla ribalta.

Sicché, direttore, lo ammetto: lei ha ragione. Siamo pochi, isolati, non contiamo un piffero. Però siamo contenti, perché a noi piace l’Altra Italia.

giovedì 14 luglio 2011

Bidoni bipartisan. Davide Giacalone

Quel che serve all’Italia, per sottrarsi al mirino della speculazione e per riprendere la via di uno sviluppo meno asfittico, lo sappiamo bene, ma non si riesce ad agguantarlo. A chiacchiere concordano in molti, ma alla prova dei fatti le opposizioni s’oppongono, com’è naturale, e le maggioranze si spaccano. A turno. Dopo i fasti del bipolarismo millantato e del maggioritario tradito, s’è preso a parlare di politiche “bipartisan”. C’è la crisi? C’è la ripresa? C’è bisogno di riforme? La risposta è sempre quella parolina magica, per giunta in idioma non autoctono: bipartisan. Non ci credo. Anzi, è una truffa.

Nella cultura italica l’emergenza si cronicizza e offre la base per quel che più piace al mondo cattolico e alla sinistra: il governo di tutti. Un afflato di fratellanza. Uno sforzo comune. Un tempo si chiamava in modo più schietto: consociativismo, e gli dobbiamo la gran parte di quel debito pubblico che non riusciamo a toglierci dal groppone. Ebbe dei meriti, il consociativismo, perché l’Italia visse in modo dilaniante la guerra fredda ma non cedette né alla guerra civile né all’autoritarismo. Onore al merito. Ma è stato costoso. Ora, di grazia, che ci facciamo con il bipartisan?

Abbiamo bisogno di mercato, privatizzazioni, competizione, di tagliare la spesa pubblica e riqualificarla, esternalizzandone la gran parte della gestione (vale anche per scuole e ospedali), e chi dovrebbe farla, questa roba, un accordo bipartisan fra chi è contrario alla gestione privata dell’acqua e chi è favorevole ma non ha il coraggio manco di dirlo? Guardiamo ad una partita aperta, quella delle pensioni: si discute sull’alzare l’età pensionabile, a partire da un mese in più dal 2012. Ma vi pare serio? E’ più doloroso discutere per due anni di un mese in più, di cui non s’accorge nessun lavoratore, piuttosto che alzare di botto l’età, spiegando che, altrimenti, i giovani non avranno nulla e il sistema va in bancarotta perché non sostenibile. Ecco, se avessimo misure di questo tipo sarebbe ragionevole l’accordo bipartisan. Ma vi ricordo che la volta scorsa il centro destra spostò lo scalone nel futuro lontano, e il centro sinistra lo cancellò del tutto, mettendolo in conto ai precari. Se questi sono gli istinti da far concordare, meglio che si prendano a sediate in testa.

Piacerebbe anche a me un bel governo di concordia e salvezza nazionale, capace di mettere in pratica le cose che le persone ragionevoli, di destra e di sinistra, si dicono da anni nei convegni senza pubblico e senza che i giornalisti sappiano raccontare altro se non le tartine del rinfresco. Ma non è alle viste. Allora, volete sapere cosa è veramente bipartisan, dalle nostre parti? La necessità di obbedire a vincoli esterni. Il Presidente della Repubblica sapeva bene che istituzioni europee sarebbero intervenute per non vedersi messe in difficoltà da un attacco all’Italia, il governo sa bene che il debito pubblico è sostenibile, ma non per questo accettabile (a quei livelli), sicché è partito l’appello alla concordia, subito raccolto perché il collante, appunto, viene dal vincolo esterno. Collante che funziona anche per la guerra in Libia, una delle più eclatanti manifestazioni di subalternità politica dell’Italia. Ma mai che questo si verifichi nel cercare di rendere meno corporativo, anchilosato, arretrato e demenziale il nostro mercato interno del lavoro, della produzione, dell’istruzione e del fisco.

Non ci riescono nemmeno nel far mostra di tagliare i costi della politica, qui e ora, non altrove e in futuro. Bipartisan, invece, è il voto per salvare le province. Non ci riescono perché la gran parte della popolazione parlamentare è culturalmente cresciuta (si fa per dire) nell’avversità al mercato e s’è materialmente mantenuta (bene) fuori dal mercato. La cosa più bipartisan che riescono a concepire, quindi, è il conto da far pagare. Non è cotto (solo) il governo, è stracotto un intero mondo politico.

martedì 12 luglio 2011

Considerazioni di un piccolo giornale sui contributi all'editoria. L'uovo di giornata

La notizia è di ieri, il giorno del crollo delle borse nazionali. Quando si lanciavano, parametri economici reali e non virtuali alla mano, i primi allarmi che anche noi rischiamo di fare la fine della Grecia. E si riferisce ai dati di una inchiesta pubblicata sul numero corrente del mensile free press Pocket (ma a onor del vero resi pubblici anche sul sito del governo) che analizza come sono stati spartiti i circa 160 milioni di euro che nel 2009 (ultimo dato disponibile) giornali di partito e di cooperative hanno ricevuto come contributo diretto dal Dipartimento per l’Informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ve li riportiamo.

Nel 2009 il quotidiano Europa ha intascato dallo Stato oltre 3 milioni e mezzo di euro, vale a dire quasi 3 euro per ognuna delle copie vendute, che complessivamente sono state 1.284.425.

Il Secolo d’Italia (Fini e compagni, almeno fino a qualche mese fa) ha ricevuto un contributo di 3 milioni di euro: quasi 6 euro a copia per un venduto complessivo di 521.278 copie nel 2009.

L’Unità ha intascato 6.337.209 di euro, La Padania 3.896.339, Il Foglio 3.441.668, Liberazione 3.340.443, Cronache di Liberal 2.798.767.

E ancora: fra le testate edite da cooperative di giornalisti o da imprese la cui maggioranza del capitale è detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali figura Avvenire a cui sono stati erogati 5.871.082 di euro, ma c'è anche Italia Oggi che ha intascato 5.263.728 euro e Il Manifesto 3.745.345 euro.

Come se non bastasse, nel lunghissimo elenco (oltre 250 testate) dei giornali che ricevono il contributo di Stato figurano Il Romanista, Italia ornitologica, Lampade viventi nella Chiesa, Suono Stereo Hi Fi, Motocross, Il Mucchio Selvaggio, Il Granchio, Superpartes in the world e molto altro. Per non parlare di Radio e Tv, dove saltano all'occhio i finanziamenti ottenuti da Red Tv, 3.494.140 euro, Radio città futura o Radio Radicale, per citare solo quelle più politically oriented.

Come vengono erogati questi contributi? Fino ad oggi l’entità della regalia pubblica non era determinata dal numero di copie vendute in edicola o tramite abbonamenti, ma sommariamente dal numero delle copie tirate. Fregandosene di qualsiasi regola del mercato e di qualsiasi rapporto tra domanda ed offerta di un bene, fino all’anno scorso bastava tirare il numero maggiore possibile di copie per ottenere un finanziamento maggiore possibile di denaro pubblico.

Ma dal prossimo anno la storia dovrebbe cambiare. Si spera. E l'apporto del finanziamento dovrebbe commisurarsi al numero reale di copie vendute.

Nessuno come noi sa quanto difficile sia di questi tempi tirare avanti una attività editoriale. Anche per questo fin dall'inizio decidemmo di fare quel che oggi per molti editori americani è una realtà: rinunciare alla carta. Oggi – dopo 4 anni – abbiamo in media 1 milione e 900mila visitatori unici all’anno e nessun finanziamento pubblico. Di questo almeno un poco fateci andare fieri. (l'Occidentale)

martedì 5 luglio 2011

05/07/11 18:03:24 Manovra, Berlusconi ritira norma Lodo anche se giusta. Teleborsa

"Nell'ambito della cosiddetta Manovra è stata approvata una norma per evitare attraverso il rilascio di una fideiussione bancaria il pagamento di enormi somme a seguito di sentenze non ancora definitive, senza alcuna garanzia sulla restituzione in caso di modifica della sentenza nel grado successivo". Ad affermarlo il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, sulle polemiche scaturite dalla norma salva-Mediaset inserita all'ultimo minuto nel decreto. "Si tratta di una norma non solo giusta ma doverosa specie in un momento di crisi dove una sentenza sbagliata può creare gravissimi problemi alle imprese e ai cittadini. Le opposizioni hanno promosso una nuova crociata contro questa norma pensando che, tra migliaia di potenziali destinatari, si potrebbe applicare anche a una società del mio gruppo. Si è prospettato infatti che tale norma avrebbe trovato applicazione nella vertenza CIR - FININVEST dando così per scontato che la Corte di Appello di Milano effettivamente condannerà la Fininvest al pagamento di una somma addirittura superiore al valore di borsa delle quote di Mondadori possedute dalla Fininvest. Conoscendo la vicenda ritengo di poter escludere che ciò possa accadere e anzi sono certo che la Corte d'Appello di Milano non potrà che annullare una sentenza di primo grado assolutamente infondata e profondamente ingiusta. Il contrario costituirebbe un'assurda e incredibile negazione di principi giuridici fondamentali. Per sgombrare il campo da ogni polemica ho dato disposizione che questa norma giusta e doverosa sia ritirata. Spero non accada che i lavoratori di qualche impresa, in crisi perché colpita da una sentenza provvisoria esecutiva, si debbano ricordare di questa vergognosa montatura".

venerdì 1 luglio 2011

La destra fa i conti, la sinistra i racconti. Marcello Veneziani

Ettore Scola, premiato alla Milanesia­na, va sul podio e alludendo alla vitto­­ria della sinistra, dice:«Ho notato a Mila­no un’aria diversa». Che miracolo. Pisa­pia, tutto il male porta via. Sarebbe facile replicare che la sua è una sensazione fon­data sul nulla, pura fuffa psicologica e ideologica.Ma quell’impressione diven­ta favola metropolitana ed è la spia di un’attitudine: la sinistra ha il monopo­lio del racconto. Cosa significa? Che la sinistra diffusa detiene la rappresenta­zione del Paese, indica il clima, le meta­fore, gli eroi e gli infami, la storia e la criti­ca, i codici di linguaggio, i giudizi e i pre­giudizi. Non credo che sia frutto di un disegno prestabilito ordito da chissà quale Botte­ga Oscura, ma di una sintonia che passa dalla politica e dalla cultura, dai giornali alla tv, da attori e autori a registi e comi­ci, a volte giudici.

È una macchina del fango e dell’incenso che fabbrica miti e demoni, accredita o discredita perso­naggi e opere, veicola dogmi e paradig­mi. Un tempo il monopolio del racconto si chiamava supremazia ideologica, o egemonia. Oggi si chiama con Vendola narrazione. Certo, coi racconti non si go­verna un Paese, non si affronta la realtà ma la si inscena.Si sostituisce ai fatti l’im­pressione, alla realtà la fiaba o il film. Viceversa, il centro-destra non sa rac­contare la realtà e se stesso, oscilla tra la cruda realtà e l’evasione.Per dirla in me­­tafora, oscilla fra Tremonti e Signorini, eccellenti nei loro rispettivi campi.

A vol­te insegue con affanno il racconto avver­so, lo contrasta, tenta di smontarlo, ma non ne produce uno suo, gioca in difesa; anche perché l'industria del racconto gli è ostile. Berlusconi ha l’hardware della comunicazione, non il software, ne con­trolla la proprietà e il commercio, non i messaggi e la cultura. È la sinistra a rac­contare l’Italia, a narrare il Bordello o la P4, a rappresentare gli italiani, ieri degra­dati e oggi rinati, solo grazie a un esito elettorale. Tremonti conta, la sinistra racconta. Questa disparità fotografa una sinistra inabile ad affrontare la realtà e a gover­narla, ma abile a raccontarla e a trasfigu­rarla. (il Giornale)