mercoledì 29 aprile 2015

La spada e la bilancia. Davide Giacalone




La giustizia è raffigurata talora bendata e talora vigile, ma sempre con la bilancia più in alto della spada. L’equilibrio prima della forza. La garanzia prima della punizione. La nostra giustizia fa precedere la spada alla bilancia, la punizione al giudizio. Non le basta essere cieca, pratica anche l’insensibilità. In poche ore una collana di fatti, che è una catena al collo di tutti.
Stiamo ancora aspettando che il presidente della Repubblica intervenga, come è necessario. Stiamo ancora aspettando una risposta alle domande: come è possibile che la Cassazione pensi di dirimere un conflitto giurisprudenziale con un comunicato stampa, insultando i giudici autori delle sentenze? E come è possibile che in quello neghi l’esistenza di alcune massime, elaborate dalla Cassazione stessa? Nessuno creda che la faccenda si possa chiudere sol perché il silenzio di quasi tutti l’accompagna. Nessuno creda che il tacere, increscioso e imbarazzante, dell’informazione sia capace di silenziare le coscienze. Restiamo in attesa.

Nel frattempo apprendiamo che Gai Mattiolo, stilista, è innocente del reato ascrittogli. La procura aveva chiesto di condannarlo a 4 anni e 4 mesi di galera. Il tribunale ha sentenziato: “il fatto non sussiste”. Non ci fu bancarotta, non ci furono distrazioni, non ci furono falsi. Nessuno degli imputati è colpevole. Sussiste un fatto, però: Mattiolo ha subito quattro mesi di custodia cautelare, ha vissuto sette anni da imputato, ne vivrà ancora altri, perché l’accusa presenterà sicuramente ricorso, ha subìto un danno economico enorme e solo ora, dopo sette anni, gli restituiscono i beni allora sequestrati. La procura non avrebbe dovuto indagare e accusare? Certo che deve, se pensa di averne gli elementi, ma ora sappiamo, per certo, che il giudice che dispose gli arresti commise un gravissimo errore. E sappiamo che un processo con prove documentali non può arrivare sette anni dopo (infatti il giudizio vero è stato veloce). E ancora siamo solo al primo terzo. Se qualcuno non paga, per questi errori, tutto il resto perde dignità e credibilità.

Sento già la critica, figlia della più sudicia ipocrisia: vi occupate di queste cose solo quando riguardano gente ricca e potente. Ce ne occupiamo assai spesso, ma degli altri non frega niente a nessuno. E meno che mai a quelli che dicono la castroneria appena riportata.

Prima di apprendere l’assoluzione di Mattiolo abbiamo potuto vedere il filmato dell’arresto di un muratore. Un altro nessuno, divenuto qualcuno per l’accusa che pende su di lui. Colpevole? Innocente? Lo stabilisca il processo. Ma perché vengono diffuse, dopo un anno, le immagini dell’arresto? C’entra qualche cosa che si era alla vigilia dell’udienza preliminare? Perché era la vigilia. Ed è uno schifo. Una pressione che falsa la giustizia. Toccherebbe al Consiglio superiore della magistratura chiedere di sapere chi ha fornito quel filmato e perché ha scelto quella data. Il colpevole va condannato, ma lo spettacolo dell’uomo braccato e spaurito è l’opposto di quel che rende legittimo un verdetto.

Quel filmato ancora scorreva e scorre, nel mentre un padre decide di suicidarsi per la custodia cautelare cui è sottoposto il figlio. Scandagliare l’animo e la mente è impresa temeraria. Esprimere giudizi è privo di senso. Un suicidio di quel tipo è l’eco di uno sconvolgimento che, fortunatamente, non si trova nelle successive parole del figlio (scarcerato dopo il suicidio paterno, ma le ragioni della custodia cautelare c’erano o no?). Se, però, il morituro lascia scritto: “la magistratura miope talora uccide”, la magistratura seria tace. Invece un procuratore ha sostenuto: “oramai dicono tutti così”. E lui chi crede di essere, se gli altri sono “tutti”? Chi gli ha assegnato il diritto di ultima parola? Non pago, ha aggiunto: “Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre. Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono tanti soldi in ballo. Quiando arriviamo noi e blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite chi non può più fare la vita di prima ci attacca”. Ma quel signore si è ammazzato. E quello che parla fa il procuratore, l’accusatore, non il giudice! La spada prima della bilancia. E gli sembra pure giusto. Se queste condotte non vengono punite poi è normale che ciascuno si scelga la propria, seguendo deontologia o esibizionismo, a seconda dei gusti.

Arturo Diaconale, dopo l’esperienza del tribunale Dreyfus, presenta in Campania una lista “Vittime della Giustizia e del Fisco”. Il fatto è che le “vittime” non sono quelli che incappano nel tritacarne, ma tutti. Una società senza giustizia funzionante è profondamente corrotta. E la politica che se ne occupa con un occhio reverenziale al corporativismo togato e l’altro incanaglito dall’uso della giustizia contro l’avversario, non è solo politica cattiva: è già sepolta.

www.davidegiacalone.it

@DavideGiac

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martedì 28 aprile 2015

Punire i ricchi, pessima politica. Gianni Pardo




La cartamoneta non è un valore in sé. Chi fabbrica e vende una sedia, guadagna denaro ma, finché non compra qualcosa, ha soltanto un titolo di credito: “Con questo documento ho diritto d'avere dalla comunità un bene o un servizio di valore corrispondente a quello della sedia da me prodotta”. Mentre nel momento in cui passa di mano, il denaro è uno strumento facilitatore degli scambi, nel momento in cui, avendolo ottenuto, lo si detiene senza spenderlo, si ha il risparmio. Questo corrisponde ad una ricchezza prodotta e ceduta, sul momento in cambio di niente. O più esattamente della possibilità di una spesa futura.

Se il risparmio fosse un fenomeno eccezionale, non si creerebbero problemi. Se invece diviene un fenomeno di grandi dimensioni, il valore della moneta ne risente. Dire che molti cittadini “risparmiano” corrisponde a dire che molti cittadini “producono più ricchezza di quanta ne consumino”. Essi ottengono in cambio una promessa ed è ragionevole chiedersi in quale misura quella promessa sarà mantenuta. In particolare se, nel momento in cui spenderanno quel denaro, otterranno una ricchezza di pari valore di quella da essi prima prodotta.
Il modo più semplice, per chiarire il problema, è immaginare che il denaro costituisca esso stesso un valore, come nel caso delle monete d'oro. Con l'oro infatti l'inflazione diviene impossibile. Essendo una merce, l'oro, anche se monetizzato, non potrà mai dare grandi sorprese, a parte quelle dipendenti dalla domanda e dall'offerta. Ma non più di quante ne diano case e terreni. Con la circolazione aurea, coloro che producono più ricchezza di quanta ne consumino finiranno col concentrare nelle loro mani più oro della media. Dal momento che questo oro lo “congeleranno”, nel senso che lo deterranno senza spenderlo, la conseguenza sarà una rarefazione del metallo sul mercato, e per conseguenza – secondo la legge della domanda e dell'offerta – un suo apprezzamento. In altri termini, i prezzi scenderanno, perché si dovranno offrire più beni di prima per ottenere la stessa quantità di oro. Nell'ipotesi della circolazione aurea è come se il denaro non esistesse e si fosse nella situazione del baratto.
Tutto ciò cessa d'essere vero se il denaro è costituito dalla cartamoneta. Se c'è molto risparmio, lo Stato può facilmente introdurre nel mercato una maggiore quantità di banconote aumentandone così l'offerta e abbassandone per conseguenza il valore, fino a mantenere invariato il potere d'acquisto della moneta Inoltre l'Erario trae dall'operazione il vantaggio di spendere questo “denaro fresco” per i propri scopi, con soddisfazione di tutti. Purtroppo lo Stato – per motivi politici, per motivi elettorali, per demagogia o per supposta necessità – ha tendenza a immettere in circolo molto più denaro di quello che corrisponderebbe all'(eventuale) aumento della ricchezza prodotta. Così arriva a creare un debito pubblico astronomico - in Italia oltre 2.130.000.000.000€ - su cui l'Erario riesce a stento a pagare gli interessi. Ché anzi, per pagarli, contrae ancora debiti.
Purtroppo, l'operazione non presenta nessuna difficoltà: si tratta soltanto di stampare fogli di carta. Così l'Erario aumenta la massa monetaria (a fronte di niente), e crea inflazione. O, più esattamente, la creerebbe, se quel denaro entrasse realmente in circolazione. Nella realtà invece i risparmiatori il denaro rappresentato dai titoli di Stato lo detengono e basta, contentandosi degli interessi (un tempo lauti) ed è come se dei giocatori, dopo aver scambiato del denaro al botteghino, si contentassero per sempre delle fiches di plastica. Di fatto i detentori di titoli pubblici congelano un'enorme massa di denaro, rendendo invisibile l'inflazione.
Se la situazione fosse stabile, potremmo dire che i “non risparmiatori” hanno fatto un affare. Quel denaro lo Stato l'ha speso per loro, sottraendolo ai risparmiatori, e quegli ingenui si sono contentati dell'illusione che un giorno potrebbero ricuperarlo. Purtroppo in quel momento nessuno avrà da gioire.
Col tempo, l'illusione che un giorno si possano spendere i soldi rappresentati dai titoli di Stato comincerà a svanire. Arriverà il momento in cui un grosso risparmiatore comincerà a temere una crisi di fiducia e penserà che, se incassa subito i suoi crediti, otterrà una quantità di denaro corrispondente al valore di ciò che ha risparmiato; mentre, se perde tempo, potrebbe subire grosse perdite. Altri capitalisti, assaliti dai suoi stessi dubbi, potrebbero cominciare a spendere e naturalmente quel denaro, riversandosi sul mercato, farebbe salire i prezzi. Sarebbe l'inflazione. Per evitarlo, il primo risparmiatore comincerà a liquidare i titoli, ma ciò allarmerà anche gli altri, e sarà una gara di velocità verso la catastrofe. Quando la crisi di fiducia si generalizza, tutti si precipitano ad incassare i titoli di Stato in scadenza e a vendere quelli non in scadenza, con la conseguenza di un autentico tsunami finanziario. I prezzi hanno una spaventosa impennata e ad essi potranno far fronte – se pure imprecando contro la propria dabbenaggine – i risparmiatori, che magari otterranno la metà di ciò che credevano di avere ma di cui dopo tutto potevano fare a meno. La sorte peggiore sarà invece quella di coloro che non hanno risparmi e vivono di reddito fisso. Essi infatti non avranno riserve e sarà come se di botto gli avessero tolto metà del loro reddito mensile.
La circolazione aurea non permetterebbe questi disastri, ma molti sostengono che essa non sia possibile in un'economia moderna. E sia. Ma lo Stato dovrebbe manovrare la cartamoneta più o meno come se fosse oro. Se si illude che sia soltanto carta e ne stampa enormi quantitativi con spensierata voluttà, pone le premesse di un disastro. E si sbaglia anche se pensa che il debito pubblico sia uno strumento per depredare gli ingenui risparmiatori (i “ricchi” della propaganda di sinistra) a favore dei poveri, perché le conseguenze potrebbero essere opposte. La massima quantità di lacrime e sangue sarà versata dai cittadini più deboli.
De te fabula narratur, dicevano i latini. Non stiamo parlando di cose teoriche, stiamo parlando del futuro dell'Italia.

pardonuovo.myblog.it




Sono stato condannato. Davide Giacalone

 
Sono stato condannato, in primo grado, per avere diffamato il magistrato Marcello Maddalena. Ritengo corretto quel che scrissi e lo riscriverei. Non lo considero solo un diritto, ma un dovere.

In breve: Cesare Romiti aveva scritto che Maddalena li aveva avvertiti che arrivavano in procura delle denunce anonime. Testualmente: “Fu il vicecapo della procura di Torino, Maddalena, che mi aprì gli occhi. Un giorno chiamò il nostro responsabile dell’ufficio legale, Ezio Gandini, e gli disse: <
Il dottor Maddalena querelò Romiti e me. Nel corso del processo è emerso che le cose erano andate come Romiti le aveva raccontate. Maddalena ha ritirato la querela nei confronti di Romiti e insistito contro di me. La requisitoria del pubblico ministero s’è soffermata su un punto: Maddalena è un magistrato. Osservazione pertinente.

Mi ha querelato anche perché ho citato il suo libro e l’idea che l’arresto sia un “momento magico”. Per quello mi querelò a suo tempo. Fui condannato in primo e secondo grado, nonché assolto in Cassazione. E’ bello rifare, ogni tanto, sempre lo stesso processo. Ci si mantiene giovani. Vero è che la legge esclude si possa celebrare due volte lo stesso processo sul medesimo fatto, ma, che volete, come opportunamente il pubblico ministero ha sottolineato: è un magistrato.

Non mi dolgo della condanna. Per quella la battaglia continua. A me basta che Maddalena abbia ritirato la querela a Romiti, confermando quel che vidi e scrissi allora.

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martedì 21 aprile 2015

Cassazione scassata. Davide Giacalone



Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la Corte di cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata.

Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere.

Con sentenza della cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali.

Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della Corte di cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la cassazione, a pagina 10 della sentenza: “In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un <> al sottoscrittore della dichiarazione” (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una.

Scrive la Corte: “Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74”. Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla “contraria” e “assolutamente costante e pacifica giurisprudenza” della cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita.

Alla sentenza si accompagnano delle “massime”, che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della cassazione, “conformi”, vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi.

Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la cassazione, con “assolutamente costante e pacifica giurisprudenza”.

Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il “consigliere relatore” è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva.

Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente.

Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.

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venerdì 10 aprile 2015

La previsione di Cantone e la corruzione di sistema. Arturo Diaconale




l'Opinione - Secondo il presidente dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, il prossimo futuro ci riserva l’esplosione di nuovi scandali provenienti dal mondo delle cooperative tradizionalmente legato a quello della sinistra. È da escludere che Cantone possa poggiare questa previsione sulla convinzione che una parte dei dirigenti delle cooperative siano stati colpiti da un qualche misterioso morbo che li spinge a compiere individualmente comportamenti corruttivi. Più probabile che il presidente dell’Anticorruzione si sia convinto che i fenomeni di corruzione non siano solo frutto delle debolezze degli uomini, ma anche delle carenze del sistema dei rapporti esistente da decenni tra amministrazioni pubbliche e cooperative “rosse”. E abbia formulato la propria previsione dando per scontato che questi rapporti malati non possano non continuare a produrre conseguenze penalmente rilevanti.

Quella di Cantone non è una tesi azzardata. È una convinzione fin troppo generalizzata. Nella Prima Repubblica tutti sapevano come funzionava il sistema degli appalti pubblici con quote fisse e rigide alle aziende vicine alla Democrazia cristiana, a quelle vicine al Psi ed ai minori partiti laici ed alle cooperative rosse legate a stretto filo all’allora Pci. La rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite ha scardinato la parte di quel sistema riguardante i partiti democratici, ma ha lasciato intatta la parte relativa alla sinistra ed alle sue cooperative. E da allora ad oggi questa condizione di favore, aiutata dal crescente predominio politico delle forze di sinistra sulle amministrazioni locali, ha allargato a dismisura la “quota” originaria delle cooperative. Il difetto di sistema è tutto qui. Non nel progressivo degrado morale dei singoli dirigenti, ma nell’intreccio sempre più ampio e più stretto tra apparati pubblici e mondo cooperativo legato a chi occupa gli apparati pubblici.

Naturalmente accanto a questo difetto ve ne sono anche altri. Perché, come ha dimostrato il Mose, l’Expo ed una serie infinita di altri scandali, gli eredi dei partiti democratici della Prima Repubblica e le aziende a loro collegate direttamente o indirettamente non sono rimasti con le mani in mano. Hanno occupato quanto più hanno potuto. Alla faccia di quanti, a dispetto del fallimento di Mani Pulite, hanno continuato a pensare (spesso in cattiva fede) che la corruzione sia un difetto antropologico degli italiani e non la conseguenza inevitabile di un sistema perverso di occupazione dello Stato.

Logica vorrebbe che per risolvere un così lampante problema si ricorresse ad una modifica del sistema e non alla sola repressione degli atti dei singoli. Invece avviene l’esatto contrario. Il sistema rimane invariato e, a beneficio della più banale demagogia giustizialista, il Parlamento produce una legislazione anticorruzione diretta solo alla repressione delle devianze personali. Perché? Già, perché se non per rimanere fedeli alla tradizione del Gattopardo?

Oooooh, Landini. Claudio Cerasa






il Foglio - Maurizio Landini è un simpatico sindacalista che conosce i segreti della comunicazione, che riesce senza difficoltà a risultare insopportabile agli interlocutori, e dunque spesso a farli uscire di senno, che sa quando è il momento giusto per mostrare a favore di telecamere la propria canotta sudata, spiegazzata e pregna di infaticabile lavoro, e mediaticamente parlando è riuscito a occupare una casella che fa la felicità di ogni autore di ogni talk-show: quello che prende, parte e dice du’ cose a caso contro Renzi. Nell’èra dell’egemonia della Leopolda, avere Landini in tv, con i suoi wuuuuuaaaa, oooohh, ehhhhh, è più eccitante che ospitare un monologo della signora (zzzzz) Camusso. Ma più passa il tempo in tv, più l’osservatore prende confidenza con la grammatica landiniana e più si rende conto di come questo simpatico sindacalista si stia trasformando nell’erede naturale di Antonio Ingroia. Stesso pubblico. Stessi fan. Stessa stampa.

E proprio come il nostro beniamino che ha allegramente usato le proprie inchieste per fare politica, Landini oggi sta usando il consenso che ha costruito in una vita passata nel sindacato per fare la sua rivoluzione civile. Si candiderà? Non si candiderà? Poco importa. Il progetto della coalizione sociale, vaste programme, è chiaro, è speculare a quello che provò a incarnare con il successo quotidiano che sappiamo Ingroia ed è un tentativo che punta a mettere insieme, più che una proposta precisa, tutti gli antagonismi. Da un certo punto di vista, Ingroia è stato più coerente di Landini e quando il suo primo lavoro (il magistrato) era diventato parente stretto del suo futuro lavoro (la politica) ha deciso di fare un passo in avanti per candidarsi alla guida del paese. Landini forse non arriverà a tanto (peccato, sarebbe uno spasso) ma attorno alla sua figura si gioca una partita importante che è quella che riguarda la Cgil.

In un primo momento, Landini poteva essere la persona giusta, per spirito, carattere, estetica e gusto per le canotte, per trasformare la Fiom nel giusto interlocutore del governo e rottamare il vecchio arnese Camusso. Landini ha avuto un anno di tempo ma tra una serata a Porta a Porta, un’intervistina a Ballarò, una chiacchiera da Floris, un cappuccino con Agorà, non è riuscito a incassare nessuno dei risultati che avrebbe potuto ottenere. Che fine ha fatto la battaglia sulla rappresentanza sindacale? Che cosa aspetta la Fiom a chiedere una seria riforma che semplifichi la contrattazione aziendale? E perché Landini non ha detto una sola parola quando è scaduta la delega legislativa della legge Fornero (comma 62, articolo 4, legge 28 giugno 2012 numero 92) che avrebbe rimosso il divieto di partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori dipendenti nei consigli di sorveglianza? Zero assoluto. Più che stupirsi dunque per il divario che esiste tra esposizione mediatica (a manetta) e successi ottenuti (lo scorso 14 febbraio, la Fiom ha indetto uno sciopero a Pomigliano a cui hanno aderito 5 operai su 1.478; il 15 gennaio stessa scena alla Sevel, in Val Di Sangro: 3 per cento della partecipazione; il 28 febbraio stessa scena a Melfi: allo sciopero partecipano 15 operai su 1.500) ciò che stupisce è l’incapacità del leader della Cgil, Camusso, di capire che ha l’occasione di fare una cosa che non ha mai fatto finora: contare qualcosa. Come? Non regalando il suo sindacato a Landini-Ingroia ma capendo che oggi chi cambia il sindacato può aiutare a cambiare il paese. La magistratura, dopo il caso Ingroia, non ha fatto molto per autoriformarsi. Il sindacato, invece, è ancora in tempo. Riuscirà Camusso a capire che quella che ha oggi è l’occasione della vita? Chissà.

La tortura dell'irresponsabilità. Davide Giacalone


Sentirsi condannare per tortura è già in sé mostruoso, ma è l’intera vicenda legata al G8 di Genova (luglio del 2001) a rappresentare il peggio di un Paese che scivola nell’orrore per mancanza di responsabilità e memoria. I fatti sono gravi, ma è quel che li accompagna a renderli inaccettabili. Disonorevoli. Si tratta di faccende così contorte che, lungi dal volerle o poterle esaurire, preferisco isolarne alcuni punti.

1. In piazza si vide una violenza organizzata e determinata. Reprimerla, anche duramente, non era solo legittimo, ma doveroso. Uno dei violenti perse la vita, ucciso dal rimbalzo di una pallottola esplosa da un carabiniere. Ma quel che stava facendo consisteva nell’attentare alla vita di alcuni carabinieri. Lui era dalla parte del torto, i carabinieri da quella della ragione. Il racconto successivo capovolse le parti, fino a voler far sembrare vittima ed eroe il criminale, mancato carnefice. Si giunse a intitolargli l’aula di un gruppo parlamentare, allora guidato da un signore (Fausto Bertinotti) che, in attesa di rifondare il comunismo, ha trovato di maggiore interesse le questioni di fede. E chissà che colà non ottenga perdono.

2. Un nutrito gruppo di manifestanti, fra i quali si trovavano persone, storie e atteggiamenti diversi (come sempre capita, in questi casi), pensò di passare la notte in una scuola, la Diaz. La Polizia ricevette l’ordine d’intervenire. Alcuni dirigenti, presenti in quel momento, proposero di usare i lacrimogeni, per far uscire gli occupanti. Ma la decisione fu diversa: fare irruzione. Era il termine di una giornata difficile, c’erano già stati scontri durissimi. Chi diede quell’ordine fece una scelta pericolosa. L’irruzione ci fu e si tradusse in un massacro.

3. Non bastasse questo, che già basterebbe, quanti furono fermati e portati nella caserma Bolzaneto ebbero un supplemento di ruvidità. Tanto più ripugnante quanto, a quel punto, del tutto inutile. Non mi piace l’ipocrisia, quindi la dico in modo piatto: se c’è bisogno di picchiare le forze dell’ordine devono farlo, se serve a fermare i violenti è bene farlo, se serve a ridurre il pericolo di violenze più efferate è saggio ordinarlo. Ma picchiare per picchiare è da selvaggi. E quella fu una notte selvaggia.

4. Ci sono stati dei processi, in Italia, e delle condanne. Così come ce ne sono stati con delle assoluzioni (fu processato, e assolto, il carabiniere che aveva sparato e ucciso). Ben prima dei processi, e, comunque, nel loro corso, mancò la sola cosa che era lecito attendersi: un grado superiore che si assumesse la responsabilità dell’accaduto. Non è neanche detto che la cosa dovesse necessariamente avere valore penale, ma ne avrebbe avuto, e molto, morale. Non è accaduto. E questo è molto grave. E’ decisivo e gravissimo.

5. Neanche dal governo e dal mondo politico giunsero assunzioni di responsabilità. Manifestazioni di solidarietà, agli uni o agli altri, ma da parte di soggetti inutilmente estranei alla catena del comando e del potere. Anche questo è molto significativo, perché non esiste potere senza responsabilità e chi rifiuta di assumersene è un impotente alla nascita, o un vile alla crescita. Tenete a mente questi ultimi due punti, perché ci servono a capire il pericolo che corriamo, per il futuro.

6. Si sostenne, in pratica, che se qualche cosa era andato storto (il che era documentato dalle immagini) la responsabilità era da attribuirsi a chi ne era fisico protagonista. Il che, in teoria, ci può anche stare: si arma la mano di un carabiniere o di un poliziotto, ma se poi quello la usa, singolarmente, in modo inappropriato o esagerato, ne risponde personalmente. Non è quello che accadde, però, perché se un’intera truppa si comporta in quel modo è segno che qualcuno aveva innescato il comando, o, se si preferisce, ne aveva perso il controllo. In ambo i casi ne è responsabile. Dico di più: onore e onere del ruolo impone che sia il capo, il primo della gerarchia, ad assumersi la responsabilità, salvo poi usare tutti gli strumenti interni per accertare e punire quelle diverse dalla sua. Il capo della Polizia (era Gianni De Gennaro) non lo fece. Lo stesso fu poi premiato con incarichi di altissimo livello, fino a divenire presidente di Finmeccanica, che con le sue funzioni di allora non hanno nulla a che vedere. Mettiamola così: a comportarsi in quel modo ci guadagnò. Che sia un guadagno anche per la collettività, ne dubito. Per le ragioni che seguono.

7. Il milite o l’agente delle forze dell’ordine, in casi come quelli, risponde agli ordini e rischia la propria incolumità, se non direttamente la pelle. Se, in casi d’incidente, viene anche abbandonato al suo destino, quasi si trovasse da quelle parti per personale trastullo, o per soddisfare il proprio sadismo, la sola cosa che se ne ottiene è il dilagare dell’ammutinamento. Se negli scontri e nelle violenze di piazza, come è poi accaduto anche in altri casi, sebbene meno gravi, è il singolo poliziotto e il singolo carabiniere che risponde di quel che gli succede, saltando la responsabilità dei comandi e quella dell’addestramento cui è stato sottoposto, più prima che poi si trasformeranno quei corpi in un fritto misto di stipendiati ignavi e di invasati fanatici. Che è l’esatto opposto dell’interesse collettivo.

8. Siamo stati condannati (noi tutti, noi italiani), dalla Corte di Strasburgo, per la semplice ragione che un cittadino ha fatto ricorso visto che i suoi aguzzini non sono stati processati per il reato di tortura. E non lo sono stati perché in Italia non esiste. Sebbene l’Italia abbia sottoscritto e ratificato una serie di trattati internazionali che lo prevedono e impongono.

9. Attenti, questo non significa che la tortura sia da noi consentita. Cerchiamo di non perdere la testa. La tortura è esclusa dalla nostra stessa Costituzione! Il fatto è che la definizione e tipizzazione (quindi specificazione di cos’è e quando ricorre) di quel reato è stata costantemente rinviata proprio perché s’è costruito un mondo irresponsabile: i comandi non vogliono gli oneri del comando, mentre risulta evidente che è insensato prendersela con i sottoposti. E con questo siamo arrivati al cuore del male italiano, al nocciolo duro del collettivo disfacimento: la fuga dalle responsabilità.

Quella notte del 21 luglio 2001 sarebbe stato meglio non fosse stata vissuta. Ma è successo. Le persone razionali e le collettività ragionevoli non possono evitare gli errori, ma possono e devono farci i conti, capirne l’origine e lavorare perché non si ripetano. E’ quello che non abbiamo fatto. Ciascuno pensando di rimpiattarsi, tutti supponendo che dimenticare sia meglio che ragionare. Così siamo riusciti a beccarci una condanna per tortura. Che grida vendetta al cospetto del cielo.

mercoledì 1 aprile 2015

Toh, ora i compagni scoprono il fetore delle intercettazioni. Vittorio Feltri



Fin dagli anni Cinquanta la sinistra si dà tante arie e suole dividere l'umanità in buoni e cattivi, mettendosi dalla parte dei primi che essa definisce non a caso progressisti.
Già. Talmente progressisti da arrivare ultimi in ogni circostanza. Lo abbiamo constatato anche stavolta a proposito delle intercettazioni, da decenni al centro di polemiche, oggetto di numerose proposte di legge dibattute all'infinito eppure rimaste lettera morta poiché prive del nullaosta indovinate di chi? Degli ex o postcomunisti, decida il lettore come chiamarli; tanto, comunisti erano e la loro mentalità settaria è ancora intatta dai tempi che furono.

Il problema è semplice. Ai politici col birignao e sedicenti colti in quanto militanti o simpatizzanti di sinistra, le parole rubate al telefono (contenenti millanterie e forzature di ogni genere sul cui significato occorrerebbe detrarre la tara) hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena. Un gioco facile facile. Le Procure inserivano negli atti processuali le registrazioni di colloqui malandrini, compresi quelli penalmente irrilevanti ma giornalisticamente interessanti, piccanti, e a divulgarle provvedeva solerte la stampa, suscitando la curiosità morbosa dell'opinione pubblica.

Gli sventurati, vittime delle incursioni nella loro vita privata, venivano infilzati con soddisfazione da chi se ne avvantaggiava. Questo tipo di falli erano e sono impuniti: manca una legge apposita che li sanzioni. Clemente Mastella, quando era guardasigilli, predispose una normativa per arginare il traffico delle intercettazioni (poco giudiziarie e molto gossippare), però la maggioranza progressista che all'epoca reggeva il governo lo mandò al diavolo, creando i presupposti per eliminarlo dalla scena.

È chiaro a chiunque che le intercettazioni violano il segreto delle conversazioni private, ma poiché di solito riguardano la gente comune (della quale non importa nulla a nessuno nel Palazzo) oppure «nemici» di partito da sputtanare, ogni iniziativa tesa a disciplinare la materia è stata sistematicamente bocciata. Per lustri il personale politico di destra e centrodestra ne ha fatto le spese, mentre quello di sinistra ne ha tratto dei benefici sotto il profilo elettorale, essendo scontato che dai faldoni dei tribunali non uscisse nemmeno un sospiro delle loro telefonate innocenti o no. Una pacchia per i progressisti durata fin troppo. Infatti la musica sta cambiando.

Qualche spiffero velenoso comincia ad ammorbare le sacre stanze degli «intelligenti per antonomasia», i quali, sfiorati dal fetore delle intercettazioni, sono sul punto di cambiare idea; anzi, l'hanno cambiata, tanto è vero che si stanno attrezzando per impedire la fuga di notizie frutto di «furti» negli uffici dei magistrati. Come? Sbattendo in galera i giornalisti «ricettatori» del materiale scottante. Se la stampa aiuta la sinistra, i progressisti predicano in favore del diritto alla libertà della medesima; se, invece, essa si concede un attacco antigauche, allora meditano d'ingabbiare i ficcanaso delle redazioni. Sinché erano i berlusconiani a essere massacrati dai quotidiani con paginate e paginate di chiacchierate intime, non c'era anima bella che suggerisse di porre fine alle gratuite diffamazioni. Al contrario, adesso i progressisti, colpiti dalle indiscrezioni, invocano la Costituzione affinché agli scribi sia tolta la licenza di ferire con la penna riportando il contenuto di nastri registrati su ordine delle Procure.

Questa è la storia delle intercettazioni che attendono ancora - per poco, suppongo - una regolamentazione: non per vietarne l'impiego a scopo investigativo (ci mancherebbe), bensì perché si pubblichino soltanto quelle relative all'accertamento di reati. Ci si domanda come sia possibile procedere in questo senso. Visto che siamo tanto cretini da non recuperare in proprio una soluzione che salvi la capra (la dignità delle persone) e i cavoli (giudiziari), sarebbe opportuno dare un'occhiata alle legislazioni di altri Paesi e copiare la migliore. Non è un'operazione complicata, basta alzare i glutei dalla sedia ministeriale e recarsi, per esempio, negli Stati Uniti a verificare come agiscano le autorità americane. Chi avrà l'energia per affrontare la trasferta scoprirà che negli Usa non sfugge una parola dei discorsi intercettati. Motivo? I magistrati statunitensi non mollano ai giornalisti neppure uno spiffero. Sarà perché ignorano l'esistenza di Pulcinella, per loro il segreto è una cosa seria.

(il Giornale)