lunedì 31 marzo 2008

Il lupo perde il pelo... Gianni Baget Bozzo

La campagna elettorale era iniziata in un clima irenico: sembrava che i due maggiori partiti corressero a legittimarsi l'un l'altro. Ma poi lo schema consueto delle elezioni italiane ha preso il sopravvento ed è tornata la delegittimazione reciproca proprio dei due maggiori partiti, che sembravano filare in perfetta armonia ritenendosi più complementari che alternativi. La politica italiana è sempre stata dominata dalla questione comunista e da quella anticomunista, la Democrazia Cristiana è finita e il Partito Comunista anche, ma la struttura dell'elettorato si fonda sempre sul dilemma nato il 18 aprile del '48: la scelta tra Dc e sinistra. L'elettorato che vota a sinistra legge il suo avversario in chiave negativa, anche quando ha collaborato a lungo con lui. Basti pensare al modo con cui il Pds collaborò alla fine della Dc nei processi degli anni '90, sostenendo che essa era pubblicamente democratica ma privatamente mafiosa. Questo spiega bene come la sinistra abbia sempre visto l'avversario come un pericolo per la democrazia. Naturalmente pensando a se stessa come unica forza democratica del paese. La tesi opposta è nata in risposta a questa; l'anticomunismo è nato in seconda battuta proprio per l'esistenza di una sinistra legata al comunismo internazionale.

Finita la Dc è venuto Berlusconi. E la delegittimazione che la sinistra offre all'avversario è sempre la stessa: Berlusconi è antidemocratico, mafioso, illegittimo. Anzi si può parlare di Berlusconi con un linguaggio più violento, perché non c'è stato con lui quel rapporto istituzionale che, pur malamente, era corso tra democristiani e comunisti. Quando la sinistra fa il tentativo di negarsi come sinistra per porsi come un partito di centro, l'elettorato di centro e di destra ricorda che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Il no alla sinistra diventa corale a destra, non è valso il concetto che bisognasse preparare qualcosa come le larghe intese o, in qualche modo, una collaborazione che riconoscesse in forma reciproca la legittimità.

Quando i partiti tornano dinanzi agli elettori il carattere di reciproca delegittimazione, che è la forma della politica italiana, torna a prevalere. E torna a prevalere proprio a sinistra perché Veltroni si rende conto che il linguaggio dolce e liberale non ha condotto gli elettori di centro e di destra a considerare il Partito Democratico come un voto accettabile. L'espansione della sinistra verso il centro non è avvenuta ora come non era mai avvenuta prima. E allora tornare a dire che Berlusconi è il nemico significa evitare il pericolo che quello che non si guadagna a destra con il linguaggio buonista si perda a sinistra. La definizione del nemico è l'essenza della sinistra italiana, che non è mai riuscita a legittimare ai propri occhi il nemico come avversario e quindi come democratico: l'ha sempre visto come limite alla democrazia, che coincide, per questa cultura, con la sinistra stessa. Qualcosa rimane della rivoluzione in questo scisma morale della sinistra dal sistema sociale in cui viviamo. Senza presentare alternative ma solo ponendosi come differenza, come differenza morale e politica. Così le elezioni italiane tornano quelle che sono sempre state: una piccola guerra civile dentro un pacifico scontro elettorale. (Ragionpolitica)

domenica 30 marzo 2008

Quando l'iceberg affonda il buon senso. Franco Battaglia

Un prezioso lettore mi informa che il distacco di un colossale iceberg (13.000 kmq), occorso pochi giorni fa in Antartide, sarebbe stato riportato dal Tg1 di prima serata addirittura come prima notizia, «manco fosse uno tsunami», col solito allarmismo corroborato dall'intervista a uno dei soliti «esperti» consulenti della Rai. Nel caso specifico, pare che l'«esperto» fosse un laureato in agraria che dice di essere climatologo e uso a giurare, dall'alto della sua agronomia, che l'attuale riscaldamento globale sarebbe colpa delle emissioni antropiche di gas serra. È bene avvisare subito i lettori che la scienza ha già dimostrato che col riscaldamento globale l'uomo non c'entra, come fa fede il Rapporto del N-Ipcc - presentato a New York lo scorso 3 marzo e naturalmente ignorato dal Tg1 - dall'inequivocabile titolo: «È la natura e non le attività umane a governare il clima». L'N-Ipcc è un organismo scientifico internazionale, simile all'Ipcc ma privo del controllo politico dei governi (la «N» sta per «non-governativo»), di cui fanno parte fisici dell'atmosfera, geologi, climatologi e scienziati di scienze affini. Tra gli italiani, nell'N-Ipcc ci sono anch'io, ma segnalo soprattutto il professor Renato Ricci, già presidente delle Società di fisica sia italiana che europea. Invece, l'Ipcc - voluto dai governi perché desse loro una patente scientifica alle dissennate scelte di politica energetica e ambientale, a cominciare da quel disastro che è il protocollo di Kyoto - è l'organismo che nel 2007 fu gratificato del premio Nobel, ma di quello politico per la pace, visto che non poteva prenderne uno per la scienza, essendocene poca o punto nei comunicati dall'Ipcc sottoscritti ogni 5 anni a partire dal 1990.E veniamo all'iceberg. Il maggiore dell'Aeronautica Fabio Malaspina - fisico del clima e vero esperto - precisa che quello che il Tg1 riporta come evento eccezionale conseguente alle attività industriali, eccezionale non è. Ad esempio, ricorda il maggiore, era il 14 aprile 1912 quando, urtato da un iceberg, affondò il Titanic, quasi giunto a destinazione davanti a New York (che, ricordo, è alle latitudini di Napoli). Magari gli agronomi consulenti della Rai diranno che anche quello fu per colpa delle attività industriali - chissà quali - sino al 1912. Peccato che nella sua Storia naturale del lontano 1749, in piena piccola era glaciale, George-Louis Leclerc così ci informa: «Nel 1725 i navigatori hanno trovato i ghiacci ad una latitudine in cui non se ne trovano mai nei nostri mari settentrionali. In quell'anno non vi fu, per così dire, estate, e piovve quasi di continuo: così non soltanto i ghiacci dei mari settentrionali non si erano sciolti al 67º parallelo nel mese di aprile, ma se ne trovarono in giugno anche al 41º». Ricorda il maggiore Malaspina che, anche se sui media i poli sono presentati dal punto di vista climatologico molto simili, l'Artico è un oceano circondato da continenti (i ghiacci sono prevalentemente sull'acqua), mentre l'Antartide è un continente circondato dagli oceani. Una enorme differenza, questa, che contribuisce ai processi che, in questo ultimo periodo, inducono i ghiacci marini in Antartide ad aumentare, come accade già da molti anni, con un record di estensione raggiunto lo scorso anno (notizia naturalmente passata totalmente sotto silenzio).
Per farla breve, la verità allora è che il distacco del colossale iceberg, lontano dall'essere la prova che in Antartide i ghiacci stanno diminuendo (come tutte le Agenzie hanno strillato disinformate), esso è invece la conseguenza del fatto che, lì, i ghiacci, sono aumentati come non mai. E visto che siamo in tema, consentitemi di chiudere consigliandovi una piacevolissima lettura, fresca di stampa e che, anche se non scientifica, è scientificamente scrupolosa e attendibile, perché tali i giornalisti che ne sono autori (Antonio Gaspari e Riccardo Cascioli): «Che tempo farà: falsi allarmismi e menzogne sul clima» (Piemme editore). (il Giornale)

sabato 29 marzo 2008

Figli di avvocato e di operaio, ciò che realmente disse il Cav. (il Velino)

Da Brescia, Walter Veltroni ripropone uno dei tormentoni della sua campagna elettorale: rimproverando a Silvio Berlusconi di favorire l’immobilismo sociale, rispolvera una frase che il Cavaliere avrebbe pronunciato nel secondo confronto televisivo con Romano Prodi prima delle elezioni del 2006. Secondo la versione odierna di Veltroni, Berlusconi avrebbe detto a Prodi: “Lei non penserà mica che il figlio dell’operaio e il figlio dell’avvocato siano alla stessa stregua?”. “Assolutamente sì”, risponde con impeto Veltroni alla domanda retorica attribuita al Cavaliere. In comizi precedenti, Veltroni ha raccontato l’episodio con parole un po’ diverse: “Una volta il leader dello schieramento a noi avverso disse che il figlio di un operaio non potrà mai diventare un avvocato. Noi invece - ha aggiunto - vogliamo esattamente che il figlio di un operaio possa diventare un avvocato”. Ma si era proprio espresso così - nel duello tv del 3 aprile - il Cavaliere? Davvero Berlusconi ritiene che il figlio di un operaio non possa diventare avvocato e viceversa? Andando a rivedere il duello tv datato 2006 si scopre una realtà non proprio sovrapponibile a quella descritta da Veltroni.
Criticando la linea economica e fiscale tracciata dal centrosinistra guidato da Prodi (per esempio sulla proposta di reintrodurre la tassa di successione), il leader del centrodestra aveva scandito: “Questi signori continuano essere convinti che il fine della politica, quindi dell’azione di un governo, sia quello di redistribuire il reddito in modo da intervenire con la tassazione, proprio con lo strumento delle tasse, per far sì che possa avvenire questa redistribuzione. Ciò che propongono - aveva continuato Berlusconi - è rendere uguali il figlio dell’operaio col figlio del professionista, togliere cioè al ceto medio per dare a quella che chiamano ancora classe operaia”. Insomma, una polemica diretta alla politica livellatrice che Berlusconi rimprovera alla sinistra. Ma accusare gli avversari di voler abolire con la leva fiscale le differenze sociali, dunque la diversità tra le condizioni di partenza del figlio di un avvocato (anzi, di un professionista, come realmente disse il Cavaliere) e di un operaio, non significa voler predeterminare l’ordine di arrivo. Insomma, non è vero che per il Cavaliere il figlio di un operaio sia destinato a fare l’operaio. Né che il figlio di un avvocato abbia l’avvocatura già scritta nel proprio futuro.

venerdì 28 marzo 2008

Pettegoli e inutili. Davide Giacalone

Approfitto di Carla Bruni e Chicco Testa per descrivere quanto la classe dirigente italiana, giornalisti “lecca-lecca” in prima fila, marci compatta verso la minchioneria globale. Il buon Testa ha fondato Legambiente e si è battuto contro l’energia nucleare, facendo attiva campagna in occasione dei due demenziali referendum del 1987. Poi, da buon comunista, ha fatto la carriera del sottogoverno democristiano, divenendo boiardo nelle aziende di Stato, presidente di Enel (tanto, appunto, d’energia capiva un accidente) e poi di Acea (sottogoverno municipale). Arricchitosi, ripulitosi e rivestitosi, trova il tempo per pensarci e giunge ad una significativa conclusione: ci vuole l’energia nucleare, meno inquinante di quella prodotta bruciando fossili. Einaudi gli pubblica questa tempestiva riflessione ed i giornali fanno a gara nel commentarla come fosse una cosa seria. Nessuno che dica: ci hai messo vent’anni per accorgerti di avere detto delle sciocchezze, ora fatti da parte.
Da noi non esiste memoria, responsabilità individuale, coerenza. Da noi vale il gesto guitto, l’intuizione legata alla convenienza, la trovata furbetta. Uno così merita d’essere ministro. Bipartisan, naturalmente, come la decadenza morale, del resto.
Mentre ci occupiamo di queste miserie, il presidente francese va dagli inglesi e dice loro due cose: a. facciamo insieme una centrale nucleare di nuova generazione; b. spostiamo l’asse politico europeo, valorizziamo la nostra comune politica atlantica, consolidiamo la collaborazione militare. Mette sul tavolo soldi, dinamismo politico e nuove truppe da schierare in Afghanistan. In pratica si rivoluzionano gli assetti politici, approfittando della coincidente visione fra blairismo e sarkosismo, che poi è la comune lingua di un’Europa che fa i conti con la globalizzazione, senza rimpiattarsi sotto al cuscino. E noi che diciamo di tutto questo, come ci misuriamo con un disegno che rischia di escluderci e marginalizzarci? Come reagiamo, visto che abbiamo un governo che corteggia i fanatici iraniani e neanche riceve il Dalai Lama? Discutendo su com’era vestita la Bruni, per giunta scrivendo tutti la stessa banalità sulle somiglianze kennediane.
Sembriamo tutti seduti dal parrucchiere, con i bigodini in testa, pettegoli, inutili e smidollati. Sembriamo?

Lo chiamano "aiutino". Salvatore Tramontano

Il trucco c’è e si vede pure. Dopo quelli di Obama e Zapatero, ora Veltroni prova i panni del mago Copperfield ma non inventa nulla di nuovo. Lo chiamano «aiutino» ma l’escamotage è solo il remake di una vecchia pellicola elettorale: utilizzare pacchetti di voti sicuri per far vincere i nemici del tuo nemico. Partorito nelle regioni rosse già nel dopoguerra con una doppia lista per il comune di Bologna - la famosa «due Torri» - che serviva a scomporre i voti bulgari per marciare divisi e colpire uniti, incassando più seggi nel consiglio comunale. Anche in tempi più recenti, l’aiutino fu riesumato per dare crisma di dignità alle miserie del ribaltone: era il ’96 e l’esangue lista di Lamberto Dini riuscì a superare il quorum del 4% grazie ai voti fatti dirottare dalle più fedeli sezioni della Quercia. Ora i cervelli del Pd studiano come colpire il Cavaliere rispolverando il vecchio repertorio per tentare di limare la maggioranza del Pdl al Senato.
Prima opzione di voto disgiunto: perché in una regione rossa dove il premio di maggioranza è certo, non far convergere i voti eccedenti su Casini, aiutandolo a superare il quorum per Palazzo Madama? Tant’è che Casini si prepara sparando su Berlusconi come un girotondino.
Seconda opzione: in regioni come la Lombardia, dove il Pdl ha più voti di quanti necessari per il premio di maggioranza, e la sinistra rischia di mancare il quorum, il Pd potrebbe rinunciare ad un senatore per toglierne tre al Pdl, dandone così quattro a Bertinotti. In cambio, nelle regioni piccole o a rischio, i voti della sinistra arcobaleno si trasformerebbero in voto «utile» al Pd. Fantasie? Il primo a ipotizzare due possibili voti di sinistra è stato Bertinotti e ora gli esperti del Pd si sono messi al lavoro. Nel frattempo Veltroni ha cambiato registro, calando la maschera buonista. Ed eccolo rinunciare a Porta a Porta soltanto per inibire la partecipazione di Berlusconi: usando spregiudicatamente la par condicio, che va ignorata per imporre il duello fra i due principali contendenti, ma torna indispensabile se una rinuncia di Veltroni riesce ad oscurare il temibile avversario. Gira e rigira, dal cilindro di Walter Copperfield esce il solito diavolo Berlusconi. (il Giornale)

Il PdL deve stare molto attento a questi espedienti che, peraltro, sono perfettamente leciti.
Speriamo che nella coalizione di centrodestra ci sia qualcuno esperto di legge elettorale che trovi il modo di mettere in atto le opportune contromosse: non sarebbe la prima volta che si perdono seggi per insipienza e dilettantismo.
Sivio, per favore, pensaci tu!

giovedì 27 marzo 2008

E ora siamo al mozzarella-gate. Doppio scandalo: diossina e occultamento della verità. Carlo Panella

La leggerezza alle soglie della criminalità comune dei ministri del governo Prodi sul tema, è tale che ieri l’Unione Europea, appena ha ricevuto il plico con i riscontri delle indagini sulla diossina ha intimato un inusuale, rapidissimo ultimatum di 24 ore per la consegna di dati veri, non opachi. Vale la pena riportare per intero l’agenzia AGI che dà notizia di questa ennesima figuraccia di Prodi e D’Alema in Europa: “Le informazioni inviate ieri dall’Italia alla Commissione europea sulla contaminazione della mozzarella di bufala campana sono incomplete e nella stessa serata di ieri il commissario Ue per la Salute Androula Vassiliou ha scritto una lettera al ministero della Saluteitaliano per chiedere ulteriori dati entro le 18 di oggi. Lo ha riferito la portavoce del commissario Ue Nina Papadoulaki''. “Abbiamo ricevuto le informazioni delle autorità italiane ieri sera ed erano incomplete, per questo il commissario ha chiesto di indagare meglio sul caso ed ha inviato una lettera al ministero della Salute chiedendo di agire in modo appropriato. In particolare, sono richieste informazioni complete sulla chiusura degli stabilimenti, sulla distribuzione dei prodotti contaminati che vengono dagli stabilimenti chiusi. Si richiede inoltre il richiamo immediato dal mercato di tutti i prodotti contaminati e il controllo di tutti gli stabilimenti che potrebbero essere contaminati per verificare se i prodotti sono in regola con le norme europee. Infine, sono state richieste garanzie affinché siano prese misure immediate per assicurare che tutta la mozzarella sul mercato rispetti i limiti per la quantità di diossina e Pcb”.

Questo è dunque il punto scandaloso: “informazioni incomplete”. Esattamente come sono incomplete le informazioni fornita dal governo Prodi, in particolare dal ministro Livia Turco, agli italiani.

Il giallo della mozzarelle va ben oltre il già angoscioso tema dell’avvelenamento pubblico. Evidenzia una totale mancanza di trasparenza, una criminale sottovalutazione del problema da parte dell’esecutivo (e anche una incredibile dabbenaggine politica). Livia Turco sapeva benissimo, e da giorni, dei riscontri positivi di diossina in una percentuale allarmante di mozzarelle. Ma non ha fatto nulla, ha nascosto la polvere infetta sotto il tappeto, ha aspettato che lo scandalo scoppiasse per iniziativa... dei coreani!!!

D’Alema ci ha messo poi del suo, minimizzando, depistando sui giornali, tutto preso dal suo unico problema: reggere alla frana elettorale in Campania in cui è capolista per poi tentare di distruggere la leadership di Veltroni dopo la sconfitta elettorale. Solo questo gli sta a cuore, null’altro (oltre alla sua carriera in Europa).

Il ministro della Salute Paolo de Castro è stato ancora più opaco e ha parlato di “pochi casi”... pochi quanto?Veltroni, da parte sua, tace.

Questo è dunque il tema, Prodi, D’Alema, la Turco, Veltroni, De Castro -tutte le anime del Pd insomma- si stanno comportando nei confronti di un evidente, grave problema di salute pubblica, peggio di George W. Bush con il ciclone di News Orleans.

Il marasma napoletano non è solo fatto di monnezza e diossina, ma di sepolcri imbiancati e di politici opachi. E di giornalisti, quasi tutti i giornalisti italiani che amano solo la trasparenza degli altri e che in Italia si fanno preziosi custodi dell’opacità di un’intera classe dirigente del centrosinistra.

In Italia è scoppiato il mozzarellagate.

Questa è la triste realtà.

mercoledì 26 marzo 2008

Pensioni: da Bertinotti e Veltroni proposte irresponsabili. Benedetto Della Vedova

Le proposte della sinistra antagonista (Bertinotti) e di quella sedicente “riformista” (Veltroni) hanno dell’incredibile. Partiti che governano da due anni (e non da due mesi) il nostro paese denunciano, con indignazione, il “dramma” delle pensioni e promettono, o richiedono con toni ultimativi, aumenti generalizzati. La loro contro-riforma delle pensioni varata tre mesi fa, ha segnato un epocale passo indietro, diminuendo l’età minima per il pensionamento, aumentando i contributi e destinando almeno 10 miliardi in dieci anni al finanziamento delle pensioni - mediamente ricche - dei cinquantottenni. Risorse che potevano essere utilizzate per le situazioni di reale bisogno.
Peraltro sia Veltroni sia Bertinotti parlano del “capitolo pensioni” come se il sistema previdenziale italiano fosse sottofinanziato, mentre, in realtà, non è così: il rapporto fra spesa previdenziale e Pil da una parte e spesa sociale dall’altra è il più alto d’Europa e altrettanto “esosa” è la contribuzione previdenziale obbligatoria a carico dei lavoratori.
I problemi sociali e di equità che il nostro paese evidenzia non dipendono da un “difetto di spesa”, ma da un eccessivo squilibrio maturato nel tempo e indotto da politiche troppo generose in ordine al pensionamento anticipato e al sistema di remunerazione dei contributi versati.
Intervenire, come è doveroso fare e come propone il Pdl, per il recupero del potere d’acquisto delle pensioni più basse (il cui mancato adeguamento fa precipitare i titolari sotto la soglia della povertà) non può divenire il pretesto per promettere “adeguamenti” a tutti i pensionati. Promettere di finanziare per via fiscale gli aumenti per tutti significa aggiungere irresponsabilità a irresponsabilità, non introdurre un correttivo “sociale”. (Riformatori Liberali)

martedì 25 marzo 2008

Tata Motors acquista Jaguar e Land Rover. Adnkronos

Mumbai - Tata Motors avrebbe chiuso l’accordo per acquisire i marchi Jaguar e Land Rover dalla Ford. Lo riporta il canale tv NDTV Profit, secondo cui l’annuncio arriverà alle 19,30 ora italiana. Il valore dell’operazione è di 2,65 miliardi di dollari. È da gennaio che Ford sta trattando la cessione dei due marchi con il colosso automobilistico dell'indiano Ratan Tata (nella foto). Il gruppo Tata ha ricevuto il via libera da parte dei sindacati. Secondo quanto riportaton ieri dal Financial Times, la Ford contribuirà all’accordo avviando un fondo pensione per i lavoratori di Jaguar e Land Rover.

Sembrava impensabile che una "casa" indiana potesse acquisire due prestigiosi marchi inglesi.
E' proprio vero: il mondo è piatto, come dice il titolo del bel libro di Thomas L. Friedman.

Guardare al futuro con ottimismo. Angelo Crespi

Da qualche anno ormai l’Occidente, e nello specifico il nostro Paese, si crogiola in un pessimismo di maniera che è frutto di ideologie post-sessantottine. Questa sorta di “non plus ultra” si manifesta da noi nella litania del precariato e del declino e nella presupposta impossibilità per i giovani di avere un tenore di vita e speranze per il futuro paragonabili a quelle dei loro padri.

Di prim’acchito, le cose sembrerebbero così. Ma a ragionarci meglio, è vero il contrario. Prendiamo per esempio la mia generazione, quella dei trentenni o dei quarantenni. Uno dei miei nonni, un ragazzo del ’99, combatté diciassettenne la Prima guerra mondiale. Fu ferito e solo per un caso fortuito evitò il congelamento e potè fare ritorno a casa. Nei successivi quarant’anni lavorò ogni santissimo giorno in fonderia. Mia nonna, per tutta la vita operaia, partorì mia madre e le mie due zie in casa. Entrambi erano abituati a minestra ogni sera e la carne una volta alla settimana. Quando si sposarono, andarono in viaggio di nozze un giorno solo a Milano. L’altro mio nonno morì poco più che trentenne nella Seconda guerra mondiale. Sua moglie, mia nonna, lavorò come operaia per oltre trent’anni senza un giorno di ferie. Le prime vacanze le fece da vecchia con me bambino in Liguria.

I miei genitori hanno rasentato i bombardamenti e la fame della Seconda guerra mondiale. Mia zia, al modo delle vecchie zie longanesiane, ancora risparmia su tutto e conserva perfino le cose inutili, come la tradizione contadina imponeva. Mio padre ha fatto le scuole superiori frequentando i collegi sparsi nella penisola per gli orfani di guerra. Ovviamente non l’università. Oggi all’alba dei settant’anni, lavora da cinquanta. Se ha costruito qualcosa e se qualcosa ha risparmiato, e come lui la sua generazione (operai, artigiani, imprenditori...), lo deve al fatto che si è rimboccato le maniche. Altro che posto fisso, globalizzazione e menate del genere. Il suo futuro se lo è costruito, con fiducia, da sé.

Sarei un pazzo se pensassi che la mia condizione è peggiore di quella di mio padre o di mio nonno. Io che, come molti miei coetanei, ho potuto comodamente studiare, divertirmi, fare innumerevoli viaggi esotici, pretendere la macchina, il cellulare, il computer e che se non mangio carne tutti i giorni è solo per preservarmi dal colesterolo.
Certo se paragoniamo i ventenni senza futuro di oggi ai loro padri i cinquantenni che, dimenticando i propri doveri, sperperano il futuro dell’Italia, allora forse hanno ragione i pessimisti. Ma non è un problema di declino. Semmai il problema di una generazione di padri e di una generazione di figli restii a rimboccarsi le maniche. Gli altri che seguono le tradizioni di famiglia, e i nuovi che verranno a cui le insegneremo, non avranno certo timore della globalizzazione e del declino. (il Domenicale)

Le pensioni di Walter. Federico Geremicca

Probabilmente l’immagine che rende meglio l’idea dello stato della competition elettorale tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi a tre settimane dal voto è quella di una partita di calcio.

Meglio: del secondo tempo di un match che ricomincia con una squadra che torna in campo dopo aver dato molto, se non tutto, nella prima frazione, e l’altra che - avendo potuto giocare di rimessa - appare più fresca e in grado di controllare la partita. Dopo un avvio sprint, infatti, il passo di Veltroni sembra essersi fatto più pesante: e se è vero che ha recuperato parte dello svantaggio iniziale, la sensazione è che nel momento in cui dovrebbe mettere a segno la rete decisiva si ritrovi d’improvviso col fiato grosso e a corto di energie. Dopo la rimonta iniziale, da una settimana i sondaggi segnano una fase di stagnazione; e messo alle spalle l’avvio spettacolare e coraggioso fatto di rottura delle vecchie alleanze e candidature a effetto, ora la campagna si combatte in un tran tran un po’ noioso (in un gioco a centrocampo, insomma) che avvantaggia soprattutto chi deve difendersi. L’interrogativo dunque è: può - e come - Veltroni ripartire all’attacco per completare la rimonta?

Lo staff perennemente al lavoro nel loft del Circo Massimo esclude cambi di rotta e colpi a sorpresa: «Veltroni - spiegano - continuerà lungo la linea tracciata: niente polemiche e toni alti, replica all’avversario solo se costretto e da adesso in poi insistenza ancor maggiore sugli obiettivi programmatici del suo possibile governo. E’ il profilo di una campagna elettorale normale, finalmente da Paese europeo: ed è un po’ avvilente che la si consideri invece noiosa, solo perché usciamo da quindici anni di competizioni condotte a colpi di insulti e di paure del comunismo». Il fatto, però, che cambi di toni e di rotta non ce ne saranno non vuol dire che Veltroni non abbia ancora in cantiere iniziative capaci di far discutere. Il leader del Pd, infatti, si prepara a mettere in campo alcune proposte tematiche di sicuro impatto: la prima, già oggi, riguarderà le pensioni medio-basse, ferme da anni ed erose dall’inflazione. Ci hanno lavorato per settimane Morando, Tonini e Treu, approdando ad una proposta che punta ad agganciare questa fascia di pensioni al continuo aumento del costo della vita.

Sul piano dei «colpi d’immagine», invece, resta da calare la carta della squadra di governo, che Veltroni vorrebbe riservare per gli ultimi giorni di campagna elettorale. Il leader del Pd non annuncerà i nomi di tutti e 12 i membri del suo possibile esecutivo ma solo quelli che al loft definiscono i «ministri della società civile», cioè personalità non parlamentari ma provenienti dal mondo dell’economia e delle professioni: si tratterà di nomi illustri, portatori di competenze che dovrebbero garantire circa l’efficacia dell’eventuale azione di governo. Basterà a ridare slancio alla rincorsa del Pd? «Dipende naturalmente dal tipo di proposte che avanzerà e dalla qualità di quella parte della squadra di governo che vorrà annunciare - spiega Claudio Velardi, ex consigliere di D’Alema e fondatore, oltre che di Reti, di New Politics, società di marketing politico e comunicazione istituzionale -. E dipende, soprattutto, dalle mosse che farà il suo avversario. La svolta alla campagna elettorale l’ha infatti impressa Berlusconi con la sua sortita su Alitalia, tema di sostanza e di grande impatto. Veltroni deve augurarsi che il Cavaliere non abbia in serbo altri colpi così, e soprattutto deve sperare che alla fine il duello tv si faccia, perché non c’è dubbio che nel confronto diretto la sua freschezza comunicativa prevarrebbe sugli argomenti di Berlusconi».

Non dissimile è l’analisi di Antonio Polito, direttore de «Il Riformista», che alla vicenda Alitalia attribuisce - però - un valore ancor maggiore: «Berlusconi se ne sta avvantaggiando - dice - perché con la sua sortita è riuscito a riportare al centro della scena il governo Prodi, che Veltroni - al contrario - ha tentato in ogni modo di far dimenticare e tener lontano dalla contesa. In Tv c’è di nuovo Prodi che deve spiegare e difendersi, sono ricominciate le liti tra ministri...

Insomma di fronte agli italiani è ricomparso il teatrino che tanti danni aveva fatto al centrosinistra. Credo che per uscire dalle secche - conclude Polito - Veltroni dovrebbe puntare con forza su un tema altrettanto concreto, tirando fuori soluzioni praticabili e accompagnate da dati e cifre. Immagino ci proverà. E immagino lo farà sul tema del precariato, che lui stesso ha definito la priorità delle priorità».Insomma, è necessaria una scossa. Ma è a una scossa assai meno leaderistica che pensa, dal suo osservatorio bolognese, Sergio Cofferati. «A Veltroni non si può chiedere di più. Sta facendo una campagna elettorale ottima e impegnativa perché, dico per dire, se annuncia che toccherà tutte le province italiane, poi deve farlo. L’importante - però - è che prima e dopo l’arrivo del leader, in quelle province poi la campagna elettorale cominci davvero, con le iniziative locali, i porta a porta, i contatti personali... Questa legge elettorale non stimola certo l’attivismo dei candidati, non essendoci le preferenze ed essendo tutti più o meno sicuri o dell’elezione o del fatto che non saranno eletti: ma per completare la rimonta è indispensabile la mobilitazione di tutto il popolo delle primarie». Veltroni ci ha pensato, e domenica prossima saranno allestiti 12 mila gazebo nei quali verranno distribuiti kit con materiale di propaganda pensato per convincere gli elettori ancora indecisi. A quel punto, alla fine della campagna elettorale mancheranno appena una decina di giorni. Un’inezia o un’eternità, secondo i punti vista... (la Stampa)

giovedì 20 marzo 2008

Il coraggio del nulla. Davide Giacalone

Intervenendo nella pagina di Radio Carcere, meritoriamente pubblicata da il Riformista, Veltroni ha affondato il tema dell’azione penale, al solito utilizzando circonlocuzioni che fanno sembrare la prosa di Arnaldo Forlani un mostro di determinazione e ruvidezza. Dopo aver detto che il processo dovrebbe essere più veloce e giusto (quando trovate qualcuno che lo vuole ancora più lento ed ingiusto avvertitemi), ha affermato che si dovrebbe affidarsi “ad un procedimento che veda la partecipazione di Parlamento, Csm e Procuratori della Repubblica nella fissazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale”. Taluno si è spinto a giudicare coraggiosa una simile riflessione. Volendo dare un contributo costruttivo: è totalmente sbagliata.
Intanto si chiamano le cose con il loro nome, cosa che non fa neanche il pdl: abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Istituto che ha perso il suo significato originario (tutti uguali davanti alla legge e nessuna omissione nel perseguimento dei reati) ed è divenuto il suo opposto (ciascun procuratore fa quello che gli pare nei confronti di chi crede). Una volta messisi su questa strada, se ne devono comprendere le necessarie implicazioni, a partire dalla netta separazione delle carriere. Che, ancora una volta, neanche il pdl chiede con la necessaria chiarezza. E’ chiaro che se c’è possibile discrezionalità nello stabilire quali casi portare al processo, a maggior ragione non possono essere colleghi quelli che scelgono l’imputato e quelli che lo giudicano. Non dovrebbero esserlo in nessun caso, ma in questo meno che mai.
Poi si tratta di stabilire chi fissa gli indirizzi. Il modello Veltroni è quello della Rai: il Parlamento con la commissione di vigilanza, il consiglio d’amministrazione con le persone nominate dai partiti, infine la struttura, a rappresentanza dell’azienda. Nel caso giustizia: il Parlamento, il Csm quale camera delle correnti, i procuratori quali diretti interessati. Preclaro esempio di assemblearismo consociativo, utile a non fa funzionare nulla. Difatti neanche la Rai funziona.
Invece l’indirizzo spetta al governo, che ne risponde ogni giorno al Parlamento e con le elezioni al popolo. Si tratta di scelte eminentemente politiche, connaturate al rapporto di fiducia che c’è fra gli eletti ed i governanti, e non solo non giova deresponsabilizzare i secondi, ma neanche è possibile delegare la politica giudiziaria al dibattito parlamentare. Se poi penso che dovrebbero discuterne i rappresentanti dell’inesperienza, mi vengono i brividi.
Obiettano le vestali del partito unico delle toghe: giammai, perché la Costituzione vuole la magistratura autonoma ed indipendente. Il che conferma la mia impressione di sempre: questi la Costituzione la sventolano, ma non la leggono. La magistratura è subordinata alle leggi, e le leggi le fa il Parlamento, quindi la politica. La magistratura è indipendente nell’esercizio della funzione, ma certo non nello stabilire il confine fra lecito ed illecito, fra bene e male. Il pangiustizialismo, le teorie del tipo “mani pulite nel mondo”, sono l’opposto della giustizia e dello Stato di diritto. Capisco che la confusione alberghi nell’animo di chi si allea con Di Pietro ed i suoi valori immobiliari, ma la sindrome è contagiosa, pertanto vale la pena ribadire l’ovvio.
La giustizia italiana è in uno stato pietoso. Non saranno le frasette e gli effettucci a porre alcun rimedio. Quindi scusate se possiamo apparire piccosi ed incontentabili, ma il nulla resta il nulla, anche se pronunciato con tono ispirato.

Prodi è incapace. O in malafede, vedi Alitalia. Carlo Panella

Da mesi, molti mesi, da più parti sono piovute critiche durissime sul modo con cui Prodi ha gestito la crisi Alitalia. Un misto di disattenzione, attesa, un continuo procrastinare le scelte, l'aria di chi non ha fretta.
Il tutto però, sempre con l'obbiettivo chiaro e dichiarato: vendere, o meglio svendere a Air France.
Il risultato finale si è visto: Air France, così smaccatamente favorita dal leader del Pd, ha fatto una offerta indecente.
Alitalia è decotta -anche grazie al tempo perso da Prodi- ma l'offerta transalpina è comunque impresentabile (come sostiene un ampio fronte che va da Epifani della Cgil a Berlusconi, passando per la Marcegaglia).
Ma perché Prodi si è dimostrato così incapace anche su questo fronte?
Forse perché è incapace, come ha domostrato di essere a fronte dell'emergenza rifiuti di Napoli, che ha lasciato marcire nonostante ne fosse stato avvisato da due anni.
Ma non è una tesi credibile. L'unica cosa che Prodi dovrebbe saper fare sono gli affari, invece...Sorge il sospetto che vi sia della malizia in questo incaponirsi su Air France.
Brutto sospetto.
Ora, comunque, tocca a Berlusconi. Nel giro di pochi giorni si vedrà se la cordata che lui ha preannunciato ieri si concretizzerà.
Se così sarà -e se non abbiamo capito male lo si vedrà prima del voto- Berlusconi avrà fatto un colpaccio.
E Prodi avrà in Alitalia il monumento della sua incapacità di governo.

mercoledì 19 marzo 2008

Pacifisti latitanti. Tony Damascelli

Dove sono le bandiere della pace? Qualche lenzuolo grigio di smog resta appeso, mogio, alle finestre dei resistenti. L’arcobaleno è stato sconfitto dalle polveri sottili ma si preannunciano lavaggi energici per la propaganda delle prossime elezioni politiche. Dove sono Agnoletto e Casarini? Dove si sta muovendo l’onorevole Caruso? Che cosa pensa e urla Grillo e, con lui, i suoi fedelissimi? Dico del Tibet. Lo so, non è roba nostra. Dico dei monaci buddisti ammazzati. Sì, al massimo fanno tenerezza e poi noi abbiamo le beghe sui frati nostrani, defunti o vivi, santi o sporcaccioni, figurarsi se possiamo batterci per vicende così «minori». Le olimpiadi di Pechino? Non si svolgono mica domani, eppoi sempre ’sta storia dei Giochi, della solidarietà, della fratellanza, una noia estiva. Meglio il labiale di Ibrahimovic, il calcio d’angolo furbastro della Roma, il test antidoping all’alba per il ciclista addormentato, la centralina svalvolata della Ferrari, il listino degli esportatori di Vaduz, la colomba pasquale che, visti i costi, sembra piuttosto un condor, il diesel che affianca la benzina verde. No, i disobbedienti civili, i girotondini, i ragazzi dei centri sociali hanno altro cui pensare. Eppure là dove la terra scotta e vige la legge delle colt comuniste qualcosa sta accadendo, come accadeva nella collezione primavera estate dell’Ottantanove, quando piazza Tienanmen venne occupata romanticamente dagli studenti e liberata serenamente dai carri armati del governo cinese (comunista si può scrivere o preferite della sinistra radicale?).
Oggi si svolgerà una manifestazione indetta da Il Riformista e da Radio Radicale, non prevedo adunate oceaniche come per il concerto del 1° maggio anche se il tema all’ordine del giorno è meno musicale ma scalda più di una canzone di Jovanotti. Così come nessuna trasmissione televisiva, pubblica e privata, ha presentato il modellino del monastero, la sagoma di un fucile mitragliatore, l’elenco dei morti, l’identikit degli assassini che non sono semplici vicini di casa ma i padroni di tutto il condominio, nel senso del Paese. E nessun giornale (e anche trasmissione televisiva e radiofonica) di informazione sportiva ha dato e sta dando spazio al problema relativo, alla partecipazione ai prossimi Giochi estivi, anche aprendo un dibattito, facendone discutere, non i giornalisti o le vecchie glorie dello sport, ma chi parteciperà alle Olimpiadi. Ci sono spicchi del mappamondo che restano fuori dai discorsi.
Nessuno conosce il nome dei monaci tibetani coperti di sangue, i morti non parlano, i vivi anche, il regime è salvo, bandiera rossa trionferà. Le altre bandiere, ricolorate nell’arcobaleno, quelle della pace insomma, sono in lavanderia. (il Giornale)

venerdì 14 marzo 2008

Veltroni lancia l'allarme rosso: abbiamo sbagliato in pieno la campagna elettorale. Carlo Panella

Ore frenetiche al loft veltroniano. Il candidato del Pd ha chiamato a raccolta il suo stato maggiore e l'ha obligato a elaborare una netta virata nelle strategie di propaganda: il bluff sui sondaggi non funziona, perché le clamorose rimonte annunciate da tre settimane in qua sono regolarmente smentite anche dai sondaggisti più vicini alla sinistra e soprattutto perché è completamente saltata l'intera impostazione concettuale della strategia di comunicazione studiata da Ualther.
Basta aprire i giornali da una settimana in qua e balza agli occhi il dato di fatto: i titoli di apertura sono tutti e solo per Berlusconi.
Veltroni sa bene che non conta nulla che i media -orientati tutti a sinistra tranne due o tre- parlino male di Berlusconi.
In termini di comunicazione il punto vincente è un altro: parlano di Berlusconi e solo di Berlusconi. Veltroni è relegato ad articolini seriosi sulla barbosa operosità del nord ovest nelle pagine interne: un nulla.
Ciarrapico e la battuta di spirito alla precaria, per di più, indignano solo una ristretta cerchia di politically correct: se si guarda ai grandi numeri, ai milioni, si scopre rapidamente che l'uno e l'altra possono portare anche grandi ventate di simpatia per il leader del Pdl.
La verità è che la campagna di comunicazione del Pd era stata impostata troppo a tavolino, senza prendere le misure all'avversario, senza tenere in conto la strardinaria capacità di spettacolo di cui Berlusconi è capace.
Veltroni ha puntato su due cose: segnare una discontinuità con Prodi e l'Unione e confrontarsi sulla sua presunta gioventù e sul suo programma finalmente moderato e non più influenzato dalla sinistra radicale.
La discontinuità con Prodi è rimasta solo sulla carta, perché le pessime notizie sul livello dei salari e sulla stagnazione stanno lì a dimostrare inconfutabilmente e a livello di massa, che il Pd è composto da forze che hanno fallito al governo.
Della giovinezza veltroniana nessuno parla e tantomeno dei suoi assennati programmi.
Al loft studiano contromosse e preannunciano sorprese.
Vedremo...

Quel vizio che non muore. Michele Brambilla

E' giusto definire infelice il «consiglio» che Berlusconi ha dato a una giovane precaria? Sì, direi certamente di sì: è giusto. E ancora: è giusto definire imbarazzante e sgradevole l’intervista con cui Ciarrapico ha rivendicato il suo status di fascista non pentito? Ancor di più è giusto, giustissimo.
Ma, al tempo stesso: ha senso che siano questi i due temi principali dell’agenda politica? No che non ha senso. Eppure da quasi una settimana a tenere banco è il caso-Ciarrapico, non il crollo del Pil o i rifiuti di Napoli. Così come ieri l’argomento più dibattuto non è stato il caro-benzina o l’inflazione, ma quel «sposi un milionario, magari mio figlio» rivolto alla laureanda in cerca di lavoro. Berlusconi ci ha abituati a uscite del genere, spesso accompagnate (come in questo caso) a galanterie di dubbio gusto. Si è liberissimi di provare simpatia o antipatia, nei suoi confronti. Ma ci chiediamo se sia normale un Paese dove una sciocchezza del genere diventa la prima notizia del televideo. Se uno legge le dichiarazioni dei leader del centro sinistra senza conoscere l’antefatto, è indotto a pensare che Berlusconi abbia annunciato come minimo la reintroduzione della schiavitù. «Come italiano mi vergogno», ha detto Franceschini. Per Rosy Bindi, invece, è Berlusconi che «dovrebbe vergognarsi». Bertinotti ha parlato di «allarme». Franco Giordano è «sconcertato e arrabbiato», dice che quanto è accaduto «dimostra che in Italia esiste ancora una lotta di classe». Tutte dichiarazioni gravi e solenni che son diventate d’improvviso ridicole alle 20,43 di ieri sera, quando Perla Pavoncello - questo il nome della precaria - ha dettato alle agenzie poche ma semplici parole: «È stato uno scherzo, un gioco, se Berlusconi andrà al governo mi aspetto che mantenga le promesse». Ed è talmente «offesa», la ragazza, che ha concluso: «Probabilmente voterò per il Pdl».
Ci sarebbe da ridere, se tutto questo non dimostrasse - ahimè - che la sinistra non ha abbandonato la sua tradizionale forma di lotta. Non si tratta solo di anti-berlusconismo. A Berlusconi è stata solo applicata una tecnica che una certa cultura ha sempre applicato al nemico di turno, come ha ben spiegato il 27 gennaio scorso, su La Stampa, uno studioso certo non «di destra» come Luca Ricolfi: «Per potere restare fedele al mito del socialismo sovietico, la cultura comunista ha dovuto sviluppare una straordinaria capacità di ignorare i fatti, distorcere le informazioni e manipolare le coscienze». Quella «capacità» è sopravvissuta alla fine del comunismo e condiziona ancora oggi una sinistra che - paradossalmente - è poi la prima vittima di un simile modo di procedere, che la limita alla demonizzazione dell’avversario e le impedisce di aggiornare la propria analisi della società italiana. (il Giornale)

lunedì 10 marzo 2008

L'eterna rimozione. Ernesto Galli della Loggia

C’è qualcosa di leggermente inquietante nel modo in cui da qualche settimana il Partito democratico ha preso a trattare Romano Prodi. Ciò che sto dicendo non riguarda Walter Veltroni, il quale anzi non manca di ricordare spesso e con accenti positivi l’opera del presidente del Consiglio ancora in carica. Ma il Pd no. Il Pd sembra aver cancellato Prodi dalla propria memoria, averlo consegnato ad un oblio imbarazzato e timoroso: sebbene recentissimo, un ricordo che è meglio seppellire nel passato.

E' un fenomeno che ricorda per un verso il meccanismo del capro espiatorio, per l’altro verso lo scongiuro. Per il Partito democratico Prodi evoca evidentemente un’esperienza di governo non felice, piena di contrasti, povera di risultati rispetto alle attese, che potrebbe avere conseguenze negative sul piano elettorale. Ma resta il fatto che di quell’esperienza il Pd nella persona dei suoi soci fondatori è stato iniziatore, sostenitore, protagonista fino all’ultimo. Com’è possibile dimenticarlo? Com’è possibile che lo faccia in modo tutto particolare quella componente maggioritaria del partito costituita dagli ex diesse?

Non credo che si tratti solo di un calcolo di piccolo cabotaggio politico; la risposta va cercata più a fondo. Va cercata cioè nella tradizione specifica di quella parte del Pd di cui sopra che affonda le radici nelle vicende del comunismo. Che da quelle vicende, pure così lontane, ha acquistato a suo tempo abiti psicologici e modelli di pensiero, ha ereditato una vera e propria antropologia politica. Tra le cui caratteristiche una ne spicca che riguarda il discorso che sto facendo: l’uso frequente e sapiente della rimozione. Su tutto ciò che del passato appariva di volta in volta negativo, o comunque contraddittorio rispetto alle esigenze dell’oggi, era d’uso stendere il velo del silenzio. Si trattasse del contrasto tra Gramsci e Togliatti, di Porzus o delle mille implicazioni dello stalinismo, bisognava fare come se nulla fosse, dimenticare; e ricordare semmai solo quando il tempo trascorso avesse reso politicamente innocuo il ricordo: l’importante era salvare l’immagine dell’insieme, scaricare il partito di ogni responsabilità o errore. Se qualcuno si era messo di traverso o qualcosa non era andata per il verso giusto, anzi in modo giudicato sbagliatissimo, peggio per lui o per la cosa: veniva ex abrupto cacciato dalla storia. A volte con ignominia a volte no, a seconda dei casi. A Prodi, insomma, tocca la stessa sorte toccata a Bordiga, a Cucchi e Magnani, a Occhetto: semplicemente non è mai esistito.

E sì che invece la funzione sua e dei suoi amici rispetto agli eredi della tradizione comunista è stata davvero preziosa. Se ci si pensa bene, infatti, sono stati Prodi e i cattolici cosiddetti democratici, è stata proprio la loro presenza, la sponda politica da essi offerta, che ha consentito agli ex Pci di non diventare ciò che a nessun costo la maggioranza di essi, in obbedienza al proprio codice genetico, voleva diventare: socialdemocratici. Che cioè ha evitato quello che altrimenti sarebbe stato l’esito ovvio, direi inevitabile, della fine della loro vicenda.

Grazie invece alla presenza di quella peculiare corrente del cattolicesimo politico, all’interesse vivissimo da essa sempre coltivato per la vicenda comunista, e dunque all’incontro reciproco scritto in un certo senso nelle cose, grazie a tutto ciò, gli ex Pci sono stati in grado di uscire dalla strettoia in cui la loro storia li aveva cacciati, potendo dar vita all’ennesima anomalia italiana. Ad un’entità politica, il Partito democratico, della cui denominazione (e della cui sostanza), come si sa, non vi è traccia in alcun altro lessico della sinistra europeo-occidentale. Nel quale partito Prodi e i cattolici «democratici» hanno sì potuto trovare posto, ma come soci di minoranza, e per giunta privi di accesso a due strumenti decisivi come le risorse economiche e l’apparato organizzativo. E quindi essendo costretti a saggiare sulla propria pelle quale merce rara sia in politica la gratitudine; quanto i rapporti di forza siano destinati, in politica, ad avere regolarmente la meglio sulla verità e sulla giustizia. (Corriere della Sera)

giovedì 6 marzo 2008

Walter li fa sognare

La prosopopea con la quale la ditta Veltroni & Co. millanta la rimonta sul PdL e ostenta la vittoria alle elezioni di aprile, è frutto di una ben precisa strategia.
Sanno benissimo, dalle parti del centrosinistra, che sarà impossibile far dimenticare -in un mese -il disastro del governo Prodi, togliere di mezzo la spazzatura in Campania, abbattere il carovita e tenere nascosti i candidati impresentabili.
Sanno pure che, perse queste elezioni, non governeranno per parecchi anni.

Allora ecco la furbata: promettere, promettere e promettere.
Tanto non dovranno realizzare nemmeno una promessa stando all'opposizione!
Se poi gli elettori sprovveduti e creduloni faranno salire i consensi del Pd, tanto di guadagnato: a Veltroni interessa solamente evitare una sconfitta disastrosa.
La promessa della felicità, che aveva fatto anche il pacioso reggiano che abita a Bologna, sembra essere il motivo dominante della campagna elettorale: ovviamente della felicità degli eletti, non degli elettori.

Non ci resta che seguire la competizione e prendere nota delle promesse di Walter che saranno ogni giorno più mirabolanti e sempre meno credibili e, a spoglio concluso, contare quanti elettori avranno abboccato.
Speriamo non troppi: sarebbe una dopppia tragedia!

"Così il governo Prodi ha ucciso la crescita" Luca Ricolfi

-Pubblichiamo ampi stralci del saggio del professor Luca Ricolfi, presente nel libro «Ostaggi dello Stato - Le origini politiche del declino e dell’insicurezza», edito dalla Angelo Guerini e Associati (euro 7,50). Il libro, curato dal sociologo, è una raccolta di analisi effettuate da sette ricercatori, esperti in sociologia, psicologia, comunicazione ed economia. Una spietata fotografia dell’Italia, reduce da due anni di governo Prodi.-

Il segnale più negativo è il rallentamento della crescita, iniziato nei primi mesi dell’anno anche «grazie» alla prima Finanziaria del governo Prodi, che fin dall’estate del 2006, con il Documento di Programmazione Economico-Finanziaria, aveva manifestato l’intenzione di correggere l’andamento dei conti pubblici pagando il prezzo di una riduzione del tasso di crescita del Pil (0,3 punti in meno, pari al 20% del tasso di crescita previsto).

Un brusco stop allo sviluppo

Tutto lascia pensare, però, che il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sia maggiore: la stima di 0,3 punti di Pil di contrazione della crescita è decisamente più bassa di quelle prodotte dai centri di ricerca non governativi, e comunque era basata su un mix di aumenti di imposta e riduzioni di spesa che poi è peggiorato nella versione finale della legge finanziaria (gli aggravi fiscali dovevano coprire un terzo della manovra, ma sono saliti a circa due terzi in corso d’opera). È probabile che quella scelta ci sia costata una decina di miliardi di euro, più o meno le risorse che ora si stanno freneticamente cercando per affrontare la «questione salariale» ed evitare lo sciopero generale minacciato dai sindacati. Al momento (inizio 2008) non si conosce ancora il tasso di crescita del Pil nel 2007 (mancano le stime del 4° trimestre), ma già sappiamo che la produzione industriale è in forte rallentamento, la produttività continua a ristagnare, le aspettative delle imprese per i prossimi mesi non sono buone.

Una massiccia pressione fiscale

Il secondo segnale negativo riguarda i mezzi che sono stati usati per ridurre il deficit. Certo siamo tutti felicissimi di essere finalmente rientrati nei parametri di Maastricht, ma la vera domanda è: qual è il prezzo che abbiamo pagato per raddrizzare la barca? La risposta è sconsolante. Poiché non si è trovato il coraggio di ridurre la spesa pubblica, si è fatto ricorso alla comoda via degli aumenti della pressione fiscale (di 1,7 punti fra il 2005 e il 2006, di ulteriori 1,1 punti fra il 2006 e il 2007). Il miglioramento dei conti pubblici nel 2007 è stato ottenuto essenzialmente grazie a tre grandi operazioni: l’aumento dei contributi sociali, il conferimento forzoso del Tfr all’Inps, l’aumento selvaggio delle tasse locali. E questo massiccio aumento del prelievo fiscale – come da manuale – ha frenato la crescita e aggravato i bilanci delle famiglie. È triste notarlo, ma i dati dicono che è toccato al governo dell’Unione contribuire a rendere più vero che mai lo slogan che le ha fatto vincere le elezioni: «non riesco ad arrivare alla fine del mese».

Famiglie sempre più in difficoltà

Un’occhiata alla serie storica dell’indagine Isae sui bilanci familiari mostra che nel 2007 il numero di famiglie in gravi difficoltà economiche ha raggiunto il punto massimo da quando esiste l’indagine (ossia dal 1999). La necessità di ricorrere ai risparmi o far debiti per quadrare il bilancio era aumentata considerevolmente nei primi anni di introduzione dell’euro (specie fra il 2002 e il 2003), poi – nel corso del 2006 – era leggermente diminuita, ma nel 2007 è tornata di nuovo a salire e nella seconda metà dell’anno ha toccato il massimo storico.

Troppe spese improduttive

L’aspetto interessante di questa vicenda è che questo disastroso risultato, certo non dovuto alla sola azione del governo ma anche – ad esempio – all’aumento dei tassi di interesse sui mutui immobiliari e alla ripresa dell’inflazione, non è stato ottenuto dopo un periodo di stagnazione, o dopo una recessione, ma al termine del biennio più positivo dai tempi della crisi del 2000-2001. La ragione di questo paradosso, a mio avviso, è che fra il 2006 e il 2007 non è solo migliorato il deficit, ma è ulteriormente aumentata l’interposizione pubblica, ossia il grado di intromissione dello Stato nell’economia. Già segnalata come un problema nel Rapporto dell’anno scorso, in cui si rilevava la sua continua ascesa a partire dal 2000, l’interposizione pubblica è oggi uno dei più gravi ostacoli alla crescita dell’Italia. Aumento dell’interposizione pubblica significa, infatti, che una quota crescente di risorse viene sottratta al mercato (ossia alle famiglie e alle imprese) e usata per espandere ulteriormente la spesa improduttiva, con quell’incredibile intrico di sprechi, inefficienze, clientele, abusi (e talora anche truffe) che ormai costituiscono la triste costante della nostra Pubblica Amministrazione. Nel solo 2007, ben due decreti (il Dl 81 di luglio e il Dl 159 di ottobre) hanno aumentato di 12,7 miliardi di euro la spesa pubblica, mentre per il 2008 la Finanziaria dispone un altro incremento di 6,1 miliardi, senza contare le molte spese ulteriori (a partire dai contratti pubblici) non ricomprese nella legge finanziaria, ma che certamente verranno deliberate in corso d’anno.

Un welfare costoso e inefficiente

Si potrebbe obiettare – e certamente la maggior parte dei politici dell’Unione obietterebbe – che il nostro Stato sociale è incompleto e che l’aumento del gettito fiscale è frutto della lotta all’evasione. La prima affermazione – il nostro Stato sociale è incompleto – è vera e sacrosanta, ma sorvola su due circostanze:a) su quasi 20 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva deliberata nel 2007, la frazione che va a un reale completamento dello Stato sociale, basato su principi di universalità e selettività, è minima; la maggior parte degli interventi sono favori, sconti e mance elargite a categorie specifiche, senza requisiti stringenti di bisogno (si pensi, per fare solo due esempi, all’ennesimo super-aumento agli statali o allo sconto Ici esteso ai proprietari con redditi alti), e questo è tanto più preoccupante se si dà qualche credito ai dati che segnalano una crescita delle diseguaglianze sociali;b) il nostro Stato sociale resterà sempre incompleto finché non si affronterà il problema di ridurne le inefficienze e gli sprechi (almeno 45 miliardi di euro all’anno, secondo una stima prudente), e ciò non solo perché ogni spreco significa sottrarre risorse ad altri impieghi utili, ma perché una parte della debolezza dello Stato sociale sta precisamente nel fatto che non funziona, e non funzionando penalizza soprattutto le fasce deboli della popolazione.Chi volesse farsi un’idea dell’entità degli sprechi della Pubblica Amministrazione, nonché della loro distribuzione territoriale, può consultare le tabelle riportate alla fine di Profondo rosso, il nostro Rapporto sul 2005.

Le menzogne sull’evasione

Quanto alla seconda affermazione – i soldi li abbiamo presi dalla lotta all’evasione – essa è al tempo stesso falsa e spudorata. Falsa, perché le stime condotte da osservatori indipendenti concordano nel dire che il recupero di evasione fiscale del 2006-2007, ammesso che sia diverso da zero, vale pochissimi decimali di Pil, ossia meno della metà della metà delle cifre tante volte sbandierate dal governo («almeno 20 miliardi di euro»). Spudorata, perché se davvero la lotta all’evasione avesse fruttato da subito 20 miliardi di euro, allora il governo avrebbe dovuto onorare l’impegno preso solennemente con gli elettori: restituire ai contribuenti onesti, attraverso significative riduzioni di aliquote (e senza trucchi sulle basi imponibili), il gettito recuperato dai contribuenti disonesti. Una simile misura avrebbe evitato di soffocare l’economia in nome della «lotta all’evasione fiscale».

Nessuno si sente sicuro

Ma c’è anche un terzo segnale negativo che getta una luce inquietante sull’anno appena trascorso. Fra il 2006 e il 2007 il grado di insicurezza dei cittadini è cresciuto non solo sul versante dell’economia, ma anche su quello dei rapporti sociali. Certo, il ceto politico si fa in quattro per dimostrare agli elettori che la percezione di insicurezza è, appunto, una percezione. Ma gli stessi dati ufficiali mostrano con una certa crudezza che – purtroppo – le percezioni dei cittadini hanno solide radici nella realtà. Nella sezione del Rapporto dedicata ai problemi della sicurezza, abbiamo mostrato che l’indulto, fortemente voluto da tutte le forze politiche (eccetto Lega, An e Italia dei Valori), pare aver determinato un’impressionante crescita dei delitti, sostenuta da un significativo apporto degli immigrati. Questo provvedimento, caparbiamente difeso da Prodi e dai politici dell’Unione anche per ragioni ideologiche (Bertinotti è arrivato ad affermare che esso aveva «un valore pedagogico»), ha creato un vero e proprio baratro fra il governo e l’opinione pubblica, sempre più convinta della micidialità del triangolo indulto-criminalità-immigrazione.

L’emblema dei rifiuti in Campania

Naturalmente quel che è incredibile non è che il provvedimento sia stato emanato (arrivati a quel punto, era difficile agire diversamente), ma che il nostro ceto politico – in questo campo come in mille altri: pensiamo al problema rifiuti in Campania, con cui si è aperto emblematicamente il 2008 – si mostri sempre così incapace di anticipazione. I problemi sono noti da lungo tempo, se ne conoscono la gravità e la tendenza al deterioramento, ma non si prende nessuna decisione finché non esplodono. A quel punto si interviene semplicemente perché non se ne può fare a meno, ma ovviamente qualsiasi cosa si decida non può funzionare, perché il problema è stato lasciato marcire troppo a lungo e ormai è diventato ingestibile.

L’annoso problema delle carceri

Nel caso delle carceri il problema esiste da diversi decenni, era tornato alla ribalta giusto pochi anni fa (2003) con il cosiddetto indultino (che aveva liberato una decina di migliaia di detenuti), è riesploso nel 2006 perché nel frattempo quasi nulla era stato fatto per risolvere i tre grandi problemi «a monte»: carceri non degne di un Paese civile, numero di posti insufficiente, processi troppo lenti. Ora la storia si ripete, con il governo che libera oltre 26mila detenuti, non riorganizza la giustizia, non avvia piani straordinari (e accelerati) per la costruzione di nuove carceri e la ristrutturazione di quelle vecchie, litiga disperatamente per mettere insieme un pacchetto di misure per combattere l’illegalità. La gente, nel frattempo, diventa sempre più diffidente nei confronti degli immigrati. (il Giornale)

martedì 4 marzo 2008

I 5 "perché meno". Lodovico Festa

Il programma di Silvio Berlusconi non è malaccio: buoni assi generali e convincenti obiettivi prioritari. Walter Veltroni lo accusa di ridire le stesse cose. Non si accorge di rendersi ridicolo. Da Piero Sansonetti a Pier Ferdinando Casini alla mia portinaia sono tutti lì a imputare a Veltroni di dire le stesse cose di Berlusconi. A parte il tocco da Bandiera gialla di Red Ronnie: torneremo agli anni Sessanta. Mezzo autogol. Perché Berlusca antropologicamente è uomo da anni Sessanta, il mitico cummenda, mentre Veltroni non esisterebbe senza il Nanni Moretti anni Settanta. Detto questo, Berlusconi deve centrare meglio "la campagna" e raccontare bene la sua scommessa agli italiani. A mio avviso al centro del messaggio (un po' è già calibrato così, ma va migliorato) va posta l'idea "stiamo completando un programma": libertà (anche da bisogni fondamentali), meno tasse, più opere pubbliche e sicurezza dei cittadini. Queste le idee forza del 2001, queste quelle del 2008. Che siano attuali è dimostrato anche dal programma del centrosinistra che è sulla stessa scia. Va argomentato il perché questa volta si riuscirà ad andare fino in fondo nella loro realizzazione.

Io ho i miei cinque "perché" ("perché meno" per così dire). Il primo "perché"' è: ci sono meno Casini. Piccola ma tenace la presenza dell'Udc è stata perniciosa. Pessimi ministri da Rocco Buttiglione a Mario Baccini per non parlare del sabotatore vicepresidente del Consiglio Marco Follini, quelli dell'Udc hanno applicato dopo un anno di governo una tattica distruttiva: un pezzo di partito (i sociali) chiedeva una cosa, un altro (i liberisti) il contrario. Essersi liberati di questo centro di caos è elemento di forza per il probabile nuovo governo di centrodestra. Intanto la "campagna" Udc appare ubriaca. Si accusa contemporaneamente il centrodestra di essere estremista e di avere un accordo in tasca con Veltroni. Casini deve essere, poi, andato un po' fuori di testa: solo così si spiega la scelta di presentarsi come un ultramodernizzatore. Che è come se Jennifer Lopez interpretasse il ruolo di Madre Teresa di Calcutta. Per essere fino in fondo convincenti rispetto al superamento della sindrome da inCasinamento, quelli del centrodestra (Berlusconi, Fini e Bossi) dovrebbero coordinarsi meglio anche già dalla campagna elettorale.

Il secondo "perché meno" è l'uscita di scena di Luca Cordero di Montezemolo. Il suo arrivo alla presidenza di Confindustria provocò subito guai: Antonio Fazio serviva alla Fiat, fu appoggiato contro Giulio Tremonti interrompendo una positiva azione di governo. Si rimise in pieno gioco la Cgil, proprio nel momento del contratto del pubblico impiego dando una bella mano ad aumentare la spesa statale. Vennero messi in un cassetto gli obiettivi di riforma lanciati dalla stagione damatiana, facendo perdere spinta al governo di centrodestra. Si varò l'alleanza con Romano Prodi sulla base di un programma tassaiolo che vinse le elezioni per 25 mila voti. Le malefatte montezemoliane, pur senza clamore, sono state elaborate dagli imprenditori, tanto è vero che tutti gli uomini più legati a lui scappano o comunque sono tentati di scappare con Veltroni perché non hanno più spazio in viale dell'Astronomia. Quella di Emma Marcegaglia sarà una Confindustria molto "sindacale" e poco politica, comunque non tramerà più contro l'azione di un governo di centrodestra.

Danni limitati a due anni di governo ulivista
II terzo "perché meno" riguarda la Cgil: in odio più a Massimo D'Alema e Savino Pezzotta che a Berlusconi, Sergio Cofferati scatenò contro il governo una tempesta che provocò seri guasti. Quella Cgil non esiste più, Guglielmo Epifani fino a due anni fa guidava la lotta per abrogare il programma del centrodestra, poi ha firmato un accordo che ritarda di due anni la legge Maroni sulle pensioni, (così confermandola) e ha tolto due cose utili (job on call e staff leasing) dalla legge Biagi salvandone però largamente la struttura. Paolo Nerozzi, il potente uomo del pubblico impiego nella segreteria Cgil, che voleva essere ponte tra Pd e Fausto Bertinotti, è corso a rincantucciarsi da Veltroni, dove rende omaggio allo storico nemico Pietro Ichino. Con un governo di centrosinistra una Cgil che non ha maturato una vera svolta ma è solo stordita, metterebbe piombo nelle ali. Con un governo di centrodestra non avrà la forza di sconvolgere il mondo su obiettivi demagogia: sono stati seppelliti dal voto di quattro milioni di lavoratori pro Biagi e pensione a 65 anni.

Il quarto "perché meno" riguarda la fine dell'aggressione sistematica a Berlusconi, mirata a colpire Mediaset e metterlo in galera. Non è che Veltroni sia buono: qualche anno fa era alla testa del referendum per sfasciare Mediaset. E' però furbo e ha compreso come la guerra sia finita e che l'obiettivo di D'Alema (da lui un tempo sabotato) "la pacificazione" è oggi necessario. E così ha smantellato (pur con trucchi) la coalizione "tutto e tutti contro Berlusconi". L'effetto di questa scelta sulla politica è fondamentale: una serie di agguati politici ma anche di settori di magistratura e stampa "indipendente", non saranno più possibili. E' alle viste una stagione più serena. Il sollievo immediato che verrà al governo è che non vi sarà più bisogno di sprecare tante energie per "difendere" le libertà del presidente del Consiglio.

L'ultimo "perché meno" riguarda il fatto che il nuovo governo dovrà rimediare ai guasti di "solo" due anni di centrosinistra, non ai cinque dell'ultima volta. Quindi ci sarà meno deficit di spesa, meno imprese in malora, meno capitali in fuga. Si potrà ripartire da un "heri dicebamus" su un terreno più solido. (il Foglio)

Mafioso innocente e giustizia colpevole. Davide Giacalone

Non si è colpevoli perché figli di un mafioso. Non si è colpevoli fino a quando una sentenza definitiva non lo stabilisce. Non si è colpevoli perché lo decreta la voce popolare. Si è colpevoli, invece, se non si riesce, in sei anni, ad emettere una sentenza definitiva di condanna nei confronti di un criminale associato alla mafia. Si è colpevoli se si redigono sentenze che poi la cassazione deve cancellare perché non motivate, non coerenti e razionali, o semplicemente campate per aria. Si è colpevoli quando si amministra la giustizia del Paese più condannato per violazione dei diritti umani, fra quelli del Consiglio d’Europa. Quindi: il figlio del boss, e forse boss egli stesso, esce dal carcere da presunto innocente, mentre nei tribunali resta una giustizia sicuramente colpevole. I giornali pubblicano con orgoglio la voce di alcuni giovani corleonesi: qui non ce lo vogliamo. Un ostracizzato per ragioni di discendenza? Ancora un passo, verso l’inciviltà.
Le nostre procure continuano ad avere troppo potere nella fase delle indagini, troppa influenza nel processo, troppa colleganza con i giudici, troppa possibilità di trasformare in prescrizioni quelle che sarebbero loro sconfitte processuali. Le difese si sono messe al vento, così, se proprio l’imputato non è un eroe, ci si associa nel perdere tempo lasciando che s’estingua la giustizia. Nei tribunali, intanto si lavora poco e male. Per pigrizia, incapacità ed anche perché si cambiano in continuazione, e senza coerenza, le regole processuali. Su tutto si sparge il protagonismo mediatico di alcuni e l’ignavia dei più. Ed addio giustizia.Complici dello scempio sono le cattedre universitarie, dove siedono tanti che parlano per avere e senza sapere. Lo sono intellettuali che s’indignano ad intermittenza, coscienze a tassametro del doppiopesismo. Lo è una politica colma di profittatori, ignoranti e colpevoli che si nascondono. Capace di scrivere programmi che segnano il trionfo della tautologia. Tutti assieme hanno bandito la cultura del diritto ed il valore della legge, regalandoci a piene mani un moralismo senza etica e senza anima, capace di trasformare i più zozzi in tribuni. Sono quelli che a chi reclama sicurezza offrono l’idea della galera senza giustizia, ma non spiegano che ci fanno i colpevoli in libertà.

Le occasioni perdute. Francesco Giavazzi

«Vi chiedo di aver fiducia. Non solo nella mia capacità di cambiare la politica americana. Vi chiedo di aver fiducia in voi stessi ». C’è un po’ di Barack Obama nel programma elettorale del Partito democratico: «In Italia 2-3 mila imprese si sono ristrutturate e ora si sono riproposte da leader nell’economia globale. Migliaia di giovani calabresi hanno sfidato la mafia: "ora uccideteci tutti". E sono italiani quegli imprenditori che in Sicilia rifiutano di pagare il pizzo ed espellono dalle loro associazioni chi continua a pagarlo».

E’ vero, e un po’ di ottimismo ci vuole. Perché l’Italia ha potenzialità straordinarie e non è—come talvolta la descrive il centrodestra — una società impaurita che deve difendersi alzando barriere e cercando protezione nello Stato. E tuttavia il programma del Pd ricorda Obama anche nella sua vaghezza: ogni volta che affronta un tema spinoso scivola via e passa ad altro. La parola «pensioni» non appare mai, ma c’è un paragrafo un po’ sibillino su «politiche per l’invecchiamento attivo»: è il linguaggio veltroniano per definire l’innalzamento dell’età pensionistica? Sulla giustizia si chiede maggior severità delle pene. Bene, ma le carceri si avviano a raggiungere la soglia dei 60 mila detenuti, a fronte dei 43 mila regolamentari: come fare non si dice. Per rendere più efficienti i tribunali si propone di «monitorarli per fare emergere le migliori pratiche»: non una parola sulla responsabilità dei giudici e sull’autorità dei presidenti dei tribunali e dei capi delle procure (il costo della partecipazione di Di Pietro alle liste del Pd?).

Sulle banche si punta l’indice contro le rendite di cui ancora godono: vuol dire che il Pd sosterrà la proposta del governatore della Banca d’Italia di non consentire più che le banche posseggano fondi di investimento, oppure si preferisce rimanere vaghi per non disturbare i banchieri? «Ciascuna università deve essere libera di assumere i propri docenti»: ottimo, ma non si può fare senza abolire i concorsi e il valore legale delle lauree. E’ questo il progetto? Si propone una legge annuale sulla concorrenza, ma tra le molte liberalizzazioni citate non compare il gas: solo una dimenticanza o timore dell’Eni? Sui servizi pubblici locali si parla di gare e di mercato, ma non una parola sulla proprietà delle aziende. Sul metodo della concertazione tra Stato e parti sociali si ammette (finalmente) che è un modello da abbandonare e sostituire con la contrattazione decentrata. Quando poi si dice che ciò richiede una riforma delle regole di «rappresentanza delle forze sociali », fra le righe si capisce che ci si riferisce anche alla rappresentatività dei sindacati: se è vero, non era meglio essere espliciti?

Si propone un salario minimo di «1.000 euro al mese»: anche per un lavoratore part-time? E perché un disoccupato disposto a lavorare per 900 euro al mese deve rimanere senza lavoro? Sui problemi del lavoro Walter Veltroni ha perso una grande occasione: proporre di abolire lo Statuto dei lavoratori (del 1970), tutto, non solo l’articolo 18, e sostituirlo con regole moderne, a partire da un sistema generalizzato di sussidi di disoccupazione. Tony Blair avrebbe avuto il coraggio di farlo, e forse avrebbe vinto le elezioni. (Corriere della Sera)

lunedì 3 marzo 2008

"Voi siete il nostro bersaglio, vi vogliamo morti". Così parla Hamas (e lo dice perfino in ebraico). Giulio Meotti

I missili palestinesi cadono sui centri commerciali, sugli ospedali, sulle scuole e sugli obiettivi civili in Israele, e Hamas si rivolge direttamente agli ebrei. Lo fa in inglese e persino in ebraico: “Voi siete il nostro bersaglio, vi vogliamo morti”. Lo si legge nel sito web ufficiale di Hamas. In uno degli ultimi poster on line sui siti di Hamas, con didascalie che non lasciano spazio al dubbio, sono raffigurati bambini di Sderot rannicchiati in un rifugio durante un attacco di Qassam palestinesi: “I sionisti si nascondono bene”. Nel frattempo il ministero della Difesa d'Israele ha diffuso i dati sul fatto che sono sempre più numerosi i giovani israeliani, i cui genitori vivono all'estero, che scelgono di tornare in Israele all'età di 18 anni per servire nelle Forze di difesa. Fra loro, il 90 per cento si arruola nelle unità combattenti e il 70 per cento si stabilisce in Israele una volta completato il servizio militare. E’ la forza del sionismo, ricostruire dopo la distruzione, accorrere per la difesa della propria gente nel momento del pericolo esistenziale. Una splendida risposta proporzionata. (il Foglio)

Il coraggio di governare. Gianni Baget Bozzo

Presidente Berlusconi, ci voleva coraggio a sfidare nel '94 il circolo mediatico-giudiziario e appellarsi agli elettori senza avere un partito, ma solo dei sondaggi: un vero salto nel vuoto. Lei ha mostrato però di conoscere il suo paese meglio dei partiti che lo governavano e ritenevano di essere essi, e non il popolo, il volto della democrazia. Lei ha dato coscienza al popolo di esistere, perché la democrazia non era la delega ai partiti e ai corpi collettivi e la televisione permetteva un messaggio al popolo con il volto di una persona. Lei ha dato ai cittadini la coscienza della loro libertà come autorità sulla politica nella voce di uno che, come loro, non apparteneva al mondo del potere.

Ma questo è niente in confronto alla situazione in cui lei affronta la sfida di governare oggi l'Italia, quando l'immagine del paese è la spazzatura di Napoli. Lei ha sentito che quella immondizia diffusa nel mondo come simbolo dell'Italia era la fine dell'Italia come luogo della bellezza, dell'eccellenza, del senso della vita. Era un senso di morte che usciva da quella scena, essa esprimeva il volto dell'Italia nell'immaginario del mondo. Quella di oggi è una situazione molto diversa da quella del '94: allora vi era la crisi dei partiti, oggi vi è la crisi del paese. Il prezzo dell'euro e quello del petrolio, l'aumento dell'inflazione e il peso del debito pubblico rendono il mestiere di governare difficile. Tanto più che lei sa quello che aveva appreso Nenni: che la decisione del governo passa per i tempi e i modi della burocrazia e non raggiunge il cittadino, se non quando l'eco della decisione governativa è ormai spenta e il vantaggio acquisito dimenticato. Che cosa è più cristiano del prendere sulle spalle questo peso quando il compito è così difficile e le attese così grandi?

Lei ha di fronte Veltroni e sa che Veltroni è troppo leggero per affrontare altro che buoni discorsi televisivi, fondati sulla predicazione della pace con tutti. Non si sente in Veltroni il peso del governo, ma solo la volontà di nascondere la crisi della sinistra usando il linguaggio di Berlusconi. Europa, quotidiano ex Margherita, chiama il Partito Democratico un partito liberale di massa. La sinistra respinge la sua storia, avverte che essa non ha più il senso comune, può lasciarla a Bertinotti. Perde la sua essenza, cioè il suo linguaggio. Ma dietro Veltroni vi è ancora la sinistra con il suo potere radicato nel paese, nelle regioni, nei sindacati, nella cultura, nella stampa, nella scuola. La sinistra si sente disarcionata e si nasconde dietro il linguaggio del supremo avversario, ma esiste ancora come sistema di potere. Il Popolo della Libertà ha un grande leader e partiti leggeri, il Partito Democratico ha un leader leggero e partiti pesanti. Per collaborare con il Pd - in qualunque forma ciò avvenga - bisognerà tenere conto del peso di questi interessi che sono incorporati nella spesa pubblica e sono costati al nostro popolo la discriminazione e l'oltraggio.

Che cosa glielo fa fare, Presidente? La volontà di potere certo no. Nessuno accetterebbe il potere oggi, nelle condizioni in cui la lunga egemonia della sinistra e il governo Prodi ce lo lasciano. La sinistra è fallita, la crisi del paese è quello che resta. Far decollare l'Italia dopo i tempi della sinistra richiede una dedizione e una speranza che nessun uomo della politica ha. Lei viene dalla società, dal popolo e ha amore per quest'Italia. Il suo impegno è indebolito dalla questione dei cattolici in quanto tali, che si pongono come liste proprie di credenti. Se le faranno perdere la maggioranza e daranno il potere alla sinistra, la responsabilità sarà dei cattolici, di persone in particolare che le devono tutto e si presentano con lo scudo crociato e la moratoria: una memoria e un segno nell'aria. Oggi l'interesse dei cattolici è salvare l'Italia dalla sua crisi, come nel '94 fu interesse dei cattolici che lei salvasse la libertà nel nostro paese.

Ora il sistema Italia fa acqua e non credo sia nell'interesse dei cattolici che vinca la sinistra diessina e popolare inclusa nel Partito Democratico. Non credo che la Chiesa italiana abbia interesse più alto di quello che una maggioranza di libertà governi questo paese e riconosca che la persona da cui venne la salvezza della democrazia nel '94 può dare spazio ai valori sulla famiglia e sulla vita nel 2008. Nel momento in cui i problemi reali pesano tanto sulla politica e richiedono un sistema di due partiti alternativi, ma che possono anche collaborare, non ha senso porre una questione religiosa come rottura di questo schema, imposto dalla necessità di mantenere l'Italia nell'economia globale e nella libertà. La Democrazia Cristiana è finita ed essa si fondava sull'unità dei cattolici sostenuta come principio obbligante dalla gerarchia ecclesiastica, la Dc è implosa e doveva nascere un'altra forza al suo posto: quella che lei, Presidente, ha creato, cioè una forza di liberali e di moderati che includa cattolici e laici e riconosca il ruolo del cristianesimo nella storia italiana. La legislatura in cui lei governò fu quella in cui i cattolici e i laici, uniti nel governo e nel suo partito, diedero vita alla legislatura più favorevole alla tradizione cattolica della storia parlamentare italiana. Il passato indica presente e futuro. (Ragionpolitica)