martedì 31 maggio 2011

Caro Cavaliere torni a fare il Berlusconi. Vittorio Feltri

Caro Berlusconi, quello che è successo lo sa meglio di me. Una catastrofe per il centrodestra ovvero Pdl e Lega. Letizia Moratti è caduta a Milano. E a Napoli Gianni Lettieri è letteralmente crollato.

Se però contiamo i voti raccolti dai singoli partiti, ci accorgiamo che quasi in ogni città anche il Pd si è azzoppato; il Terzo polo ha fatto flop, il Fli non ha dato segni di vita e l'Idv, tranne nel capoluogo campano, con Luigi De Magistris, non ha guadagnato consensi. Anzi. E allora chi può dirsi soddisfatto?

I soli a sfondare sono stati i rappresentanti dell'antipolitica, personaggi fuori dai giri convenzionali. Segno che il vento è cambiato. E se spirano refoli sinistri è perché a destra non c'è niente di nuovo che offra all'elettorato una via di fuga dalla contrapposizione berlusconiani-antiberlusconiani.

Questo il punto. La gente si è stufata. Non tanto di lei quanto della politica. Che non ce la fa, da troppo tempo ormai, a discutere d'altro se non di sé. Lei Presidente per anni è stato una speranza o addirittura una certezza: grazie a Silvio, dicevano i suoi aficionados, faremo la rivoluzione liberale, l'Italia sarà più moderna, verrà sconfitta la dittatura della burocrazia, dello statalismo, della spesa pubblica, dei poteri forti, delle corporazioni, della magistratura, dei sindacati rossi.

La maggioranza dei cittadini era convinta che lei la liberasse davvero da tante oppressioni. Non è andata così, probabilmente non per colpa sua, Presidente, o non soltanto per colpa sua. Sta di fatto che - trascorsi tre lustri e passa - la delusione e lo sconforto hanno preso il posto, in molti cuori, della speranza e della fiducia.

Vari italiani si sono resi conto che lei ha le mani legate e la testa occupata da enormi problemi personali. La Costituzione è un vincolo di ferro e non si riesce a modificarla, rendendola adatta alle esigenze di oggi. La Corte costituzionale è pronta a bloccare ogni legge innovativa.

L'opposizione esercita un forte potere ostativo, è sorretta da programmi televisivi importanti e dalla stampa più influente. La magistratura, da quando non esiste più l'immunità parlamentare, ha in pugno qualsiasi uomo politico: per metterlo in soggezione basta l'apertura di una inchiesta.

Se a tutto questo aggiungiamo che il Pdl non è più un efficiente comitato elettorale, come era agli inizi, ma non è mai diventato un partito con una gerarchia affidabile ed è stato, e in parte è ancora, dilaniato da lotte intestine, il quadro è completo. Un quadro desolante che spiega il motivo per cui lei è stato travolto da mille difficoltà.

La crisi economica mondiale ha fatto il resto, impedendo al governo - sommerso dal debito pubblico - di investire in favore della ripresa. Non è un caso che, ultimamente, perfino gli imprenditori, mostrando un cinismo degno di sottolineatura, ce l'abbiano con Palazzo Chigi.

Sorvoliamo sui processi che la angustiano e sulle vicende di letto, che pure hanno contribuito a far dire alle masse: uffa, ma questo Berlusconi ne ha sempre una, potrebbe almeno evitare di esporre il fianco, ogni cinque minuti, alle critiche.

È evidente che, dopo circa vent'anni di tribolazioni d'ogni genere, lei sia indotto a parlare più di sé che dei suoi elettori. Ma è altrettanto evidente che questi si siano un po' stancati di considerarla il centro dell'universo e comincino a bussare a porte diverse dalla sua, illudendosi di essere ascoltati.

Desiderano che si parli anche di loro. Quando poi la voglia di cambiamento cresce ed è insopprimibile, c'è chi, pur di cambiare, è disposto a cambiare in peggio. Ecco perché, caro Presidente, lei ha perso le elezioni amministrative.

Non è la fine del mondo e neanche la fine del berlusconismo. Le opportunità di riparare non mancano. Serve però che lei torni ad essere e a fare il Berlusconi, un uomo nel quale potersi identificare.

Un consiglio e una preghiera: provveda a tutti noi oltre che a se stesso. Buon lavoro e buona fortuna. (Libero)

Draghi e le urne. Davide Giacalone

I giornali d’oggi annunciano risultati elettorali che già tutti conoscono e fanno l’eco a commenti politici già archiviati. E’ l’inesorabile lentezza della carta stampata nel mondo della comunicazione elettronica. Eppure la parola scritta resta il mezzo più adatto a capire e, se possibile, prevedere. Quello che succede lo avevamo visto e descritto per tempo, come oggi leggiamo un verdetto che solo il propagandismo può annettere alla vittoria della sinistra. La metterei così: le forze dello statu quo hanno perso la presa, la realtà comincia a scivolar loro dalle mani. Sarà un processo non breve e non indolore, che piegherà le istituzioni e minerà l’intero sistema politico. Sarà un’occasione, ma solo a patto che non sia l’ennesima avventura. Proviamo a ragionare su quel che deve ancora accadere, proprio questa mattina, quando Mario Draghi prenderà la parola per le sue ultime “considerazioni finali”.

Il governatore della Banca d’Italia farà un quadro della situazione, esaminando l’influenza dei mercati internazionali sui conti di casa nostra. I primi saranno presto accantonati, nei commenti. E’ vero che le variabili economiche sono prevalentemente fuori dalla portata dei governi nazionali, esercitando un ruolo determinante. Ma non fanno parte del discorso interno, che più appassiona. Il governatore, quindi, riconoscerà i meriti del rigore finanziario, elogiando una disciplina di bilancio fra le migliori d’Europa. Dato importante, visto che s’avvia a presiedere la Banca Centrale Europea. Dopo di che, però, passerà a esaminare, con tono pacato e fermo, i guasti strutturali dei nostri conti e del nostro mercato, a cominciare dalla crescita rallentata, ricordando la necessità di porvi rimedio in tempi stretti. La prima cosa sarà sbandierata dal governo, a proprio vanto. La seconda sarà brandita dall’opposizione, che ne attribuirà la responsabilità alla maggioranza. Qualche osservatore, meno aduso al clangore delle sciabole, farà notare che si tratta di mali antichi, ma il punto veramente rilevante è chiedersi se si tratta anche di mali permanenti e futuri.

Per evitare che sia così Draghi tornerà a delineare le necessità del nostro mercato, che, in definitiva, sono le medesime della nostra società: premi alla produttività, incentivi alla competitività, meritocrazia, allentamento dell’asfissia burocratica e fiscale. Questi principi hanno declinazioni specifiche in ogni settore, dalla scuola al mondo del lavoro, dagli obblighi contributivi ai privilegi pensionistici, dal sistema di tassazione alla regolazione delle gare, dalla giustizia alla spesa pubblica. Tutte cose che conosciamo a memoria, che abbiamo ripetuto fin oltre la nausea, ma che si schiantano tutte contro il muro ottuso di una politica concentrata nella rappresentanza delle tifoserie piuttosto che nella rappresentanza degli interessi. Nella sostanza non ci sono in giro ricette radicalmente diverse da quelle tante volte illustrate, ma neanche ci sono in giro soggetti politici interessati ad altro che a fregare gli avversari.

La sinistra che ha vinto le elezioni amministrative è la stessa che si batte, in vista dell’imminente referendum, contro la “privatizzazione dell’acqua”, che non solo non esiste, ma, nelle modalità fin troppo tiepide previste dalla legge, è il minimo si possa fare per evitare il disastro idrico. La sinistra che vince, la stessa che saluterà con gioia arcigna le parole di Draghi, è la stessa che va in direzione esattamente opposta. E, del resto, al governo è vero che ci sono le forze che hanno varato quella legge, ma è anche vero che lo hanno fatto solo perché una direttiva europea lo imponeva e si sono guardate bene dal difenderla. Questo è il dramma italiano, mica chi mette la fascia di sindaco.

venerdì 27 maggio 2011

Mettere in moto il cervello

Ammesso e non concesso che il Pdl perda le amministrative di Milano e Napoli, il Pd non è il caso che canti vittoria: se Berlusconi piange, Bersani non ha proprio niente da ridere.
Sia a Milano che a Napoli i candidati sindaco non provengono dalle file del Pd e sono appoggiati obtorto collo dal partito di Bersani.
Se poi prendiamo in considerazione le elezioni politiche, gli ex comunisti hanno governato solo con D'Alema nel 1999, mettendo il faccione di Prodi nelle altre occasioni.

C'è veramente da stupirsi della mistificazione cui l'elettore del Pd è sottoposto e del suo rassegnato atteggiamento gregario.
A dimostrazione che il cervello per molti è un optional c'è la reazione isterica e inconsulta alle esternazioni di Berlusconi al vertice del G8 con Obama.
Quando è la sinistra che sputtana l'Italia va tutto bene, se invece Berlusconi tranquillizza un alleato importante del fatto che un'eventuale sconfitta alle amministrative non dipende dai processi in corso e non minerà la stabilità del governo, ecco che si scatena il finimondo.

Cari sinistri, state alla larga da quei politici e dai radical chic intellettualoidi che vi manipolano e vi strumentalizzano, mentre loro fanno affari, la bella vita e si puliscono la coscienza con qualche frase di solidarietà e di circostanza, e se sborsano un euro lo fanno solo per tornaconto.

Vi hanno inculcato l'antiberlusconismo per rimpiazzare l'antifascismo ormai stantio, ma non hanno un'idea, non un progetto, non un programma: solo il potere per il potere. E voi credete negli ideali dell'uguaglianza, della solidarietà, del welfare per tutti e per sempre, dello Stato che procura posti di lavoro e del capitalista che sfrutta gli operai.

Se avete un cervello, mettetelo in moto.

Anche gli amici di centrodestra dovrebbero far funzionare la materia grigia: bisogna andare a votare perché non ci possiamo permettere che diventino sindaci personaggi che non penseranno al bene della città, ma faranno di tutto per rimanere saldi al potere.
Provate a riflettere sui programmi: quanto è proposto nell'interesse e beneficio dei cittadini e quanto, invece, è presentato a sostegno di ideologie, valori, utopie e visioni astratte e generiche; vedrete che l'ideologia è sempre dalla stessa parte.

Anche voi mettete in moto il cervello.

giovedì 26 maggio 2011

La macchina dell'intimidazione. Augusto Minzolini

Sono un pragmatico. Diffidente per natura verso le frasi reboanti o a effetto. Ma questa campagna elettorale mi sta facendo sorgere davvero qualche dubbio sullo stato della democrazia in Italia.

Nel giro di due settimane sono stato sanzionato per ben due volte dall'Agcom, l'Agenzia garante per le comunicazioni. La prima volta perché la decisione di organizzare due edizioni speciali del Tg1 nel giorno dell'uccisione di Osama Bin Laden mi aveva portato a sentire i ministri della Difesa e degli Esteri (fonti privilegiate per avere le ultime notizie, in casi del genere) con la conseguenza di alzare troppo la presenza del governo nei conteggi aritmetici dell'Autorità. D'ora in avanti un mese prima delle elezioni dovrò far finta di niente e voltarmi dall'altra parte di fronte a ogni fatto di rilevanza planetaria.

La seconda volta per avere intervistato per 3 minuti e 33 secondi il presidente del Consiglio, che contemporaneamente aveva rilasciato interviste ad altre quattro tv. Se penso che il Tg3, lo stesso giorno ha intervistato per 3 minuti e 49 secondi Antonio Di Pietro sul tema dell'invadenza di Silvio Berlusconi nelle televisioni, senza entrare nelle mire dell'Autorità, mi viene da ridere.

In questo caso, appunto, la questione è ancora più assurda perché non investe la par condicio (nella settimana in questione, secondo l'Osservatorio di Pavia, il Tgl ha dato la parola per il 40,2 per cento a maggioranza e governo messi insieme e per il 55,3 a tutte le opposizioni), semmai un nuovo criterio dai contorni confusi che può essere ribattezzato «impar condicio»: una sorta di «conventio ad excludendum», per usare il latino amato dai cavillosi guardiani della libertà di informazione a senso unico, per cui il Cavaliere non va intervistato.

Insomma, secondo l'Autorità il Tgl non avrebbe dovuto fare l'intervista di un premier che non parlava dal giorno delle elezioni e, quindi, rifiutare uno scoop e prendere scientemente un buco, per restare nel gergo giornalistico.

Pura follia, che si trasforma in tragedia se diventa la filosofia di un'autorità di garanzia. La verità è che non ci sono più regole se si pensa che paradossalmente, con i dati a disposizione (40,2 per cento alla maggioranza, 55,3 all'opposizione), dovrebbe essere il Cavaliere a reclamare la par condicio.

Ma come si è arrivati a questo punto? Con una costante opera d'intimidazione e disinformazione che va avanti da due anni. La Repubblica s'inventa che l'intervista di Berlusconi al Tgl è di 4 minuti e 54 secondi, invece di 3 minuti e 33. L'ex presidente della Rai Roberto Zaccaria denuncia che l'apertura del tg è sul capo del governo e non si accorge che è sulla presunta eliminazione del mullah Omar.

Si grida al regime contro il governo, si organizzano manifestazioni sulla libertà di stampa, e intanto si tenta di instaurare un «regime alla rovescia». Chi si professa contro ogni censura (da Pier Luigi Bersani a Marco Travaglio) usa strumenti illiberali per imporre un'altra censura, la sua.

L'anticonformista Pierluigi Battista sul Corriere della sera sostiene che la batosta del centrodestra nel primo turno delle amministrative dimostra che in Italia non c'è alcun regime mediatico. Il Robespierre «de noantri» Marco Travaglio lo redarguisce e qualche giorno dopo l'editorialista del quotidiano milanese si lascia andare a una filippica contro il centrodestra.

Insomma, si lamentano della «macchina del fango» dell'editoria di destra e ne utilizzano una ben più spietata e violenta. In un'atmosfera del genere, con la moda dei sit-in davanti alle authority e con Bersani che minaccia di salire sui tetti un giorno sì e uno no, che garanzie ci sono? Nessuna. Anche gli arbitri «tengono famiglia» e pensano al proprio futuro, mentre i registi dell'intimidazione militante in queste elezioni amministrative provano l'armamentario che useranno in quelle politiche. (Panorama)

Caro Direttore, mi consenta, sono incazzato nero con Berlusconi.Milton

Caro Direttore, mi consenta. Sono incazzato nero con Berlusconi.

Mi lasci partire da lontano. Dopo aver promesso già nel fortunato ’94 di liberare il Paese dai comunisti, veri ex, e post (intendiamoci, già l’intenzione era di per sé meritevole di gloria e onore) ci siamo ritrovati, in questi anni di seconda Repubblica con, nell’ordine, il primo Presidente del Consiglio comunista e il primo Presidente della Repubblica comunista della storia. Come se non bastasse, ormai da tre anni, ci stiamo sorbendo sullo scranno di Montecitorio il primo fascista rinnegato, che sarà pure un povero frustrato rancoroso, ma che qualche danno l’ha fatto e lo sta facendo, pur avendo comunque l’indubbio merito di aver favorito l’espulsione dal PdL di tipi come Bocchino e Granata.

Rimanendo in argomento, il tiranno Berlusconi è riuscito pure nell’arduo compito di coabitare con un Presidente della Repubblica che autonomamente, ormai da mesi, decide su tutto, da ultimo sull’entrata in guerra dell’Italia a fianco di chi vuole consegnare la Libia a un gruppo di rivoltosi sconosciuti, che probabilmente ci ritroveremo fra qualche anno con uno zainetto zeppo di esplosivo a passeggio su qualche linea della metropolitana di una qualsiasi città europea.

Il Quirinale detta la linea sulla politica estera promettendo (ma chi l’ha deciso?) ai Palestinesi l’apertura di un’ambasciata a Roma come riconoscimento dell’autorità palestinese, senza peraltro nemmeno sognarsi di chiedere ai Palestinesi tutti, almeno di riconoscere lo Stato di Israele. Tra moniti, richiami ed inviti ad abbassare i toni (ma che significa, è una questione di decibel?), nulla si muove che il Quirinale non voglia, anche e soprattutto in politica interna, dove ogni proposta di legge non viene nemmeno presa in considerazione dal Parlamento (con l’aiuto dell’oplita Fini), se non c’è il via libera indiretto del Colle. In questa apoteosi della Repubblica parlamentare non c’è traccia per esempio della riforma della giustizia o della legge sulle intercettazioni, entrambe sacrosante e da approvare a colpi di maggioranza, costasse pure un altro sottosegretariato per i Responsabili. L’attuale Presidente Napolitano chiese per molto meno l’impeachement del suo predecessore Kossiga (a me piace scriverlo così!), che Dio l’abbia in gloria.

Ed ancora. Non voglio qui attaccarmi al solito argomento della rivoluzione liberale mancata, è infatti ormai subentrata la rassegnazione; ma che cavolo, almeno una misera lenzuolata di liberalizzazioni a costo zero, un sostegno anche solo morale a quei poveri sindaci che volevano consentire ai commercianti di tenere aperte le proprie attività il primo Maggio, un sussulto a sostegno del No al referendum sulla liberalizzazione nella gestione dell’acqua, due parole a difesa degli imprenditori che rischiano, dopo la recente sentenza Thyssen, ogni giorno un’incriminazione per omicidio volontario, un po’ più di coraggio sulla riforma dell’università, modesta e di basso profilo e su quella della PA. Niente di niente.

Per non parlare del nucleare. Stendiamo un velo pietoso sul dietrofront rispetto al programma per la costruzione di centrali nucleari. Dopo l’incidente di Fukushima che ha sprigionato su Tokio lo stesso livello di radiazioni che ci sono a Roma ogni giorno dell’anno, siamo l’unico Paese al mondo che ha cambiato i propri piani rispetto alla politica energetica nucleare, così da continuare ad essere il Paese che paga l’energia elettrica tre volte la media OCSE, energia che proviene da centrali nucleari piazzate a pochi chilometri dai nostri confini.

Ma l’incazzatura più grande viene dal non aver saputo gestire il conflitto d’interessi, una vera benedizione, un dono di dio, una manna, in un Paese dove l’opinione pubblica da sempre è opinione di sinistra. Nonostante questo, il Presidente Berlusconi è riuscito e riesce addirittura a farsi sbertucciare da nani e ballerine che lavorano nelle sue televisioni, televisioni che vengono persino multate quando lo intervistano. Lo stesso accade con i pennivendoli con la scorta ospitati da Mondadori. Ma perché non si è continuato con gli editti bulgari, perché dobbiamo sopportare le psicosi di Santoro ogni giovedì, le cantilene della Dandini ogni sera, le furbe faziosità di Floris ogni martedì, la patetica ilarità del milionario Fazio, il fastidioso vittimismo di Mentana e poi Vauro, Lerner e tutti quei residuati del ‘68 che la rivoluzione del proletariato ora la fanno dallo yacht di De Benedetti. Ma è possibile che con un conflitto d’interessi grande come una casa e la maggioranza nel CdA RAI non si riesca a fare una bella pulizia ? Ma è mai possibile che questo Caimano straricco non riesca a scardinare i patti di sindacato che reggono il Corriere ridotto ormai a foglio di partito nei suoi endorsement periodici da Prodi a Pisapia.

Vogliamo poi parlare del rapporto con la Chiesa. Da Famiglia Cristiana al Cardinal Tettamanzi, ad alcuni ambienti della CEI, nessuno più nasconde le simpatie per gli amici di Zapatero, Berlusconi è riuscito anche in questo,… Solo perché al Cav piacciono le donne (tendenza, ahime, non più politically correct), don Sciortino è diventato un padre della Chiesa, poco sotto San Tommaso, e a piazza Duomo si preferisce ospitare i mullah piuttosto che i tifosi in festa per lo scudetto di Inter o Milan.

Per venire infine alla cronaca di questi giorni, sono incazzato nero anche perché la maggioranza è riuscita probabilmente a regalare Milano a un comunista (garantista, ma pur sempre comunista) con simpatie giovanili con quelli che volevano cambiare il mondo con le P38 e che si troverà a gestire l’Expo (un comunista che gestisce l’Expo, potrebbe essere il soggetto di una commedia di Ionesco) tra un matrimonio gay celebrato in municipio ed una visita alla comunità mussulmana in preghiera sul sagrato del Duomo. Per non parlare di Napoli dove un magistrato che detiene il record planetario di bufale investigative, potrebbe diventare sindaco, dopo che la coalizione che lo sostiene ha ridotto la città ad una latrina.

Ci pensi Presidente, anche se per puro caso vincesse i ballottaggi di Milano e Napoli, ci pensi. (l'Occidentale)

martedì 24 maggio 2011

Contabilità della miseria. Davide Giacalone

In un paese veramente povero, popolato da morti di fame, l’Istat, applicando le misurazioni che portano a considerare a rischio miseria un quarto (24,7%) degli italiani, stabilirebbe che stanno tutti alla grande, con un tasso di rischio esclusione pari a zero. All’opposto, in un paese in cui tutti fossero miliardari, applicando quei criteri contabili, si stabilirebbe essere a rischio quel poveraccio che guadagna solo 400 milioni l’anno. Tutto ciò perché si utilizzano parametri, indicati dalla Commissione Europea, che non misurano affatto la ricchezza e la povertà, ma lo scostamento, superiore al 60%, dal reddito mediano disponibile. Quindi: dove tutti sono accattoni e nessuno si discosta non per questo si vive in ricchezza, e dove la società è ricca, ma anche con redditi che si distribuiscono diversamente, non per questo si muore di stenti. Chi, allora, strillerà che un quarto degli italiani è povero, complice un comunicato malandrino dell’Istat (dove sanno bene che nessuno va a leggere le 400 pagine del rapporto), o è fesso o è disonesto. E non ci sono incompatibilità.

Gli indicatori per monitorare l’inclusione sociale sono tre: rischio di povertà dopo i trasferimenti; situazione di grave deprivazione materiale; intensità lavorativa molto bassa. Da questi si ricava un indice sintetico. In Italia le persone a rischio di povertà, dopo i trasferimenti sociali, sono il 18,4% (16,3 per cento in media UE) e, nel 2009, i gravemente deprivati sono circa il 7 per cento. I paesi con un elevato valore dell’indicatore di rischio di povertà associato a un ridotto valore per quello di grave deprivazione presentano una marcata disuguaglianza nella distribuzione del reddito, ma standard di vita accettabili anche per i più poveri. E’ anche il caso dell’Italia, come di Spagna e Regno Unito. Al contrario, un ridotto valore del rischio di povertà associato a un’elevata deprivazione segnala una contenuta disuguaglianza nella distribuzione del reddito, ma notevoli difficoltà per le persone con quelli più bassi. E ovvio che, a dispetto dei clamori e dei titoli sparati a casaccio, la seconda condizione è di gran lunga peggiore della prima.

Chiarito ciò, qualificate come meritano sia la propaganda della miseria che la geremiade della fine del mese, accertato che se un italiano su quattro fosse straccione dovemmo incontrarne a frotte e, invece, non è così, occorre stare attenti a non cadere nella propaganda e nell’illusione opposte, ovvero che si viva tutti in ricchezza e felicità, talché le cose meglio non potrebbero andare. Anzi, direi che le cose vanno male, anche a causa dei due eserciti dissennati: quello che ama annunciare la fame e quello che vuol convincerci dell’abbondanza.

I dati Istat, da questo punto di vista, confermano quel che scriviamo da anni, a cominciare dal fatto che tutta la necessaria elasticità del mercato del lavoro si scarica sui giovani e sui contratti atipici, essendo, in questo modo, al tempo stesso ingiusta e insufficiente. Che una massa di giovani non fa assolutamente nulla: non studia, non lavora e non cerca un lavoro. Ha ragione Luca Ricolfi: non sono disoccupati, sono nullafacenti. Il fatto è che li trovi in massa all’happy hour e che sono patrimonialmente ricchi. Il che li rende insensibili, ma non per questo sicuri. E’ una bomba sociale a orologeria.

La dinamica dei redditi non è preoccupante perché dispersa in molti livelli, sicché c’è chi guadagna molto e chi poco, perché questo è il mercato, ed è anche la libertà, è inquietante, piuttosto, il massiccio prelievo, sia fiscale che contributivo, e la scarsa crescita. Le due cose messe assieme inducono una sensazione di progressivo impoverimento, che a sua volta innesca un sentimento d’insicurezza. Non è un fenomeno solo italiano e, difatti, tutti i governi europei continuano a perdere le elezioni. Ma noi conosciamo le nostre specificità, sappiamo cosa si dovrebbe fare per ripartire, e vediamo che non lo si fa. Il governo scopre che il fisco è invasivo, come se l’avessero amministrato altri, e l’opposizione ha un capo (si fa per dire) che continua a ripetere: parliamo di lavoro, per salvare questo paese qui. E ne parli, una buona volta, senza limitarsi a rammentarne l’esistenza.

A me non importa un piffero di spegnere l’allarme lanciato dall’Istat, magari per favorire chi oggi governa. Osservo che quel tipo d’allarme, propagandato in modo incosciente, induce a correre, con i secchi in mano, dalla parte sbagliata, magari chiedendo l’aumento di sovvenzioni e spesa pubblica. Una secchiata, almeno una, tiriamola al capofila: l’incendio è da un’altra parte.

Il mondo non finisce ad Arcore. Marcello Veneziani

Ma siete davvero convinti che tutto il malessere (o il benessere) degli italiani dipenda da Berlusconi e dalle sue comparsate alluvionali in tv? Siete davvero convinti che l'Italia sia trascinata nel baratro dal declino del suo leader, dato per bollito? Vi siete troppo info­gnati nella vicenda italiana e non riuscite più a vedere gli scenari più grandi di noi e le ragioni profonde e strutturali del presente. In Spagna crolla il mito di Zapatero e il suo governo, gli Indignados non reagiscono a don Silvio Berluscones e alla sua Derecha (la destra), ma alla Izquierda (la sinistra) e al suo fallimento; in Germania e negli Stati Uniti, in Francia e in Austria, i governi de­strorsi e sinistrorsi perdono consensi. La de­stra estrema avanza quasi ovunque nel nord Europa perché cavalca il malconten­to. Ma lo cavalca, non lo inventa: il malcon­tento è autentico, diffuso e contagioso.

E noi facciamo risalire il malessere italia­no a qualche battuta greve o fuori posto, a qualche eccesso di promesse e di tv, a pur deprecabili intemperanze sessuali o barzel­lette... In realtà, se alziamo un po' gli occhi, ci rendiamo conto che i veri problemi del nostro Paese sono i problemi del nostro tem­po. La percezione della crisi è globale ed epocale, non può essere casereccia o televi­siva. Il precariato, il rincaro della benzina, la diffusa sensazione di un impoverimento, la difficile integrazione dei flussi migratori, l'insicurezza sociale, l'incapacità di uscire dalla crisi dei consumi, gli abusi di sesso e di potere (vedi il caso Strauss-Kahn o la tempe­­sta pedofila sulla Chiesa), colpiscono l'Occi­dente e i suoi santuari religiosi, laici e finan­ziari. E noi ci crogioliamo nella nostra dome­stica anomalìa, pensando che tutto dipen­da dai prodotti locali e dai vizi del berlusco­nismo. Accecati dai bagliori del nulla nostra­no, abbiamo perso il senso del nostro tem­po e dell'Occidente. Non siamo più capaci di pensare scenari più ampi, ci siamo chiusi in questo provincialismo malato, domina un pensiero corto e malcavato che in realtà non pensa ma si lamenta o elude la verità attraverso l'invettiva e il capro espiatorio.

Ma davvero credete che facendo saltare il tappo del berlusconismo avverrà la libera­zione d'Italia e la salvezza degli italiani, fini­rà il degrado morale e civile e riprenderà l'economia, la salute e l'occupazione? Vi in­dignano le promesse elettorali della Morat­ti e di Berlusconi, ma sono poca cosa rispet­to alle aspettative enormi che state alimen­tando sul dopo Berlusconi. Per carità, la cri­tica politica va esercitata con implacabile ri­gore, fino in fondo. Ci sono problemi specifi­ci nel nostro Paese che vanno affrontati e denunciati. E viceversa, è doveroso parago­nare le offerte politiche sul campo, sceglie­re mali minori o mali necessari, rispetto a mali peggiori e minacce venture. Ma è tem­po di sollevare lo sguardo, allungare il pen­siero e non ridurre il malessere generale al­la faccia di Berlusconi in tv. Il mondo non finisce ad Arcore. (il Giornale)

venerdì 20 maggio 2011

Patacche e pataccari. il Foglio

Il Foglio si sta occupando senza sosta di pentiti pataccari e stampa pataccara: uno scandalo di stato manovrato da Massimo Ciancimino, figlio del boss Vito Ciancimino, che ha tenuto in pugno le istituzioni per tre anni con la complicità di alcuna stampa e alcuni pm. Tutto è nato il 21 aprile 2011, con l’arresto di Ciancimino Jr. e il crollo delle inchieste di Palermo sulla trattativa stato-mafia.

La polizia scientifica ha accertato che il documento che Ciancimino Jr. aveva consegnato alla procura palermitana a sostegno delle accuse al cosiddetto “quarto livello” dei funzionari collusi con la mafia è un falso, e che il nome dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, era stato inserito con una specie di copia e incolla. Così, la procura ha dovuto ordinare il fermo di quello che aveva considerato il principale testimone della presunta trattativa tra mafia e stato.

In quella occasione abbiamo parlato della caduta di un idolo, abbattuto dallo stesso magistrato che lo aveva portato sugli altari, Antonio Ingroia. Abbiamo raccontato inoltre come giornali e televisioni hanno bevuto e gonfiato le patacche rifilate dal giovane Ciancimino ai pm guidati da Antonio Ingroia.

Poi, il 28 aprile scorso, l’ufficio di presidenza del Csm ha aperto un’indagine sull’arresto di Ciancimino jr, disposto dai pm palermitani Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, nell'elusione e nelle divagazioni del circo mediatico-giudiziario. Ma con l’inchiesta del Csm si apre uno scandalo di stato. L’indagine sulla gestione di Ciancimino Jr. dovrà appurare molte cose, non solo i contrasti tra procure. Abbiamo parlato del partito dei pm come Antistato, della vicenda dei candelotti trovati nel giardino di Ciancimino e della possibilità, da parte del ministero della Giustizia, di mandare gli ispettori a Palermo.

Il 10 maggio scorso Ciancimino ha testimoniato nell'udienza del processo intentato contro il generale dei carabinieri Mario Mori, mentre oggi si è consumata al Csm l'audizione del procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso. Eppure sembra ancora che ai pm di Palermo non vada di fare chiarezza sul caso Ciancimino Jr.
Nel frattempo Giovanni Brusca si riscalda ai bordi del campo: è pronto a subentrare al povero Massimo Ciancimino. (il Foglio)

martedì 17 maggio 2011

Gioie e dolori della politica confidenziale. Marcello Veneziani

Ma cos’è il berlusconismo,di cui si nar­ra la sconfitta nelle urne? Lasciamo il fumo elettorale e proviamo a definirlo: il berlusconismo è la politica confidenzia­le che mira a compiacere il cittadino e a farsi amare da lui come se il leader fosse la sua proiezione. Mi spiego. Berlusconi più che uno stile politico ha un tono confiden­ziale (che è pure un genere musicale); punta a un rapporto intimo e diretto, qua­si privato, con il pubblico, ma anche con i leader stranieri. Ogni suo messaggio è una richiesta di amicizia, come su Face­book. Ti sussurra: confida in me e abbi confidenza, mettiti comodo, come a casa tua. Ma l’amicizia non basta, la politica ha bisogno pure del nemico. E lui lo indi­ca e lo drammatizza.

Berlusconi, poi, vuol compiacere. Non esige ma blandisce. Da lui ti puoi aspetta­re che non mantenga le promesse, ma non che minacci la tua libertà, i tuoi dirit­ti, i tuoi beni. Un leader che vuol compia­cere è tutto meno che un tiranno; puoi cri­ticarlo perché permissivo e complice, ma non perché dittatore; puoi criticare la sua logica commerciale da «il cliente ha sem­pre ragione » ma non la vessazione e la per­secuzione. Il danno che può produrre la politica compiacente non è opprimere ma viziare gli italiani. Lui ti lusinga, ti può raccontare comode bugìe o vantare cose esagerate, ma sai che non ti punisce e non vuole correggerti. Il fine del suo compia­cere non è solo farsi votare, ma, di più, far­si amare.

Sì, è vero, Berlusconi è egocen­trico e narciso, come dice Scalfari, che di questo se ne intende. Vuol farsi amare, si spende un sacco per conquistare. È un se­duttore, non un carismatico. Corteggia il popolo, porta a porta, si propone come la gigantografia di ciascuno; non pone la di­stanza altera del capo carismatico ma si avvicina, s’immedesima. Ama i bagni di folla. Non chiede rispetto ma simpatia. Ti vuol lusingare,divertire e sedurre.

Qui c’è la forza e la debolezza del suo consenso. Se è vero che, come scrive Philip Roth, «gli uomini per la maggior parte vorrebbe­ro tornare bambini, o essere re, o giocato­ri di football o ricconi», Berlusconi ha in­carnato questi desideri. Ma quando il vo­to non è diretto su di lui l’incanto s’incri­na. (il Giornale)

Corte incostituzionale. Davide Giacalone

Se ti viene in mente di dire che la Costituzione deve essere modificata, anche nella sua prima parte, c’è il rischio ti bollino quale nemico della civiltà. Se, invece, calpesti liberamente il testo esistente e plaudi al fatto che la Corte Costituzionale lo violi, può capitarti, come al professor Alessandro Pace, che ti eleggano presidente dell’associazione costituzionalisti. Egli, da ultimo e non da solo, tenta di menarci per il naso e farci credere che tutti i giudici della Corte hanno l’inviolabile diritto di fare, a turno, il presidente, a meno che non siano iracondi, nel qual caso lo perdono. Non riesco a immaginare più oltraggiosa offesa alla Carta, oltre che all’intelligenza altrui.
Nel testo entrato in vigore il primo gennaio del 1948 era scritto (articolo 135) che la Corte elegge, nel suo seno, un presidente. Il dettato fu modificato nel 1967, prevedendo che il presidente “rimane in carica per un triennio”. E’ chiarissimo: si elegge chi presiede per tre anni, lo si può rieleggere una sola volta e, comunque, rimane invariata la data di scadenza del mandato. Qualsiasi persona sensata ci legge che chi viene eletto per una seconda volta non per questo allunga la propria permanenza. Pace, invece, forte del suo essere professore e già presidente della citata associazione, ci legge che i tre anni non esistono, è come se non fossero mai stati scritti, che la Corte ha una gestione assembleare e che il presidente lo fanno i più anziani, sicché non ci sarebbe neanche bisogno di eleggerlo, se non fosse che, talora, il più anziano è anche un po’ andato di testa, quindi meglio controllare. E queste cose le insegna. Orrore.

Posto che il criterio dell’anzianità non esiste nella Carta, posto che si tratta di una prassi deprecabile e scandalosa, posto che lo stesso Giovanni Maria Flick, quando per questo lo criticai, non poté non riconoscere la distanza fra il dettato e la realtà, di tutto questo si torna a parlare perché il presidente in carica, durato poche settimane, è in scadenza. Il suo potenziale successore, Paolo Maddalena, resterebbe alla presidenza fino al prossimo 30 luglio, per poi lasciare il posto ad Alfio Finocchiaro, che lascerebbe l’incarico il 5 dicembre. Il primo ad avere un tempo di permanenza non ridicolmente sincopato è Alfonso Quaranta, che almeno presiederebbe fino al 2013. Ma c’è un problema: è considerato amico della destra. Il che dischiude il meraviglioso mondo del doppiopesismo e della doppiezza morale.

Perché se dico che il Tale giudice è amico della sinistra vengo subito accusato di trivialità e ignoranza delle regole, quando non d’azionare la mitica “macchina del fango”, laddove, invece, del Tizio si può dire che è amico della destra e, già che ci si trova, tirare in ballo anche la vita del figlio, senza che questo provochi neanche l’espulsione dall’osannata associazione costituzionalisti? Risposta: perché l’unica morale cui certe scuole si rifanno non è la coerenza, ma la convenienza.

Perché si tenta di far fuori Quaranta, cui già la volta scorsa mancò un solo voto per evitare l’ennesimo sconcio delle presidenze sveltina, quando, sostenendo l’incostituzionale criterio dell’anzianità, se lo ritroveranno comunque presidente già prima di Natale? Risposta: perché della Carta e della Corte poco gliene cale, quel che conta è un paio di questioni con le quali si può esercitare influenza politica mediante le sentenze. Ma si deve farlo subito. Nobilissimo criterio, come si vede.

Propongo una soluzione: dato che tutta questa menata dell’anzianità non ha alcuna legittimità, se esiste una maggioranza di sinistra, nella Corte, non deve fare altro che eleggere presidente Franco Gallo, già ministro nel governo di Carlo Azelio Ciampi e da questi nominato giudice costituzionale. Si ottiene il risultato, senza ulteriori sfregi costituzionali. Ma se, invece, quella maggioranza non c’è, allora questa storia dell’anzianità, a favore della quale Pace prende la parola con tanto ardore e falsa dottrina, è un imbroglio. Una truffa pura e semplice, purtroppo avvalorata da una prassi meschina.

Non è offensivo considerare questo o quel giudice di destra o di sinistra, progressista o conservatore. Alcuni sono di nomina parlamentare, quindi è ovvio che vengano scelti per le idee. E’ ingiurioso considerarli non liberi e non indipendenti, privi, quindi, di cultura solida e schiena dritta. Quello che segue è un buon esempio. La settimana scorsa ha fatto scalpore la giusta sentenza costituzionale con la quale si abroga l’obbligo della detenzione in carcere per i sospetti d’omicidio (il che non significa non si possano carcerare, ma che la scelta tocca al giudice). La sentenza ha demolito un pezzo del decreto sicurezza, voluto da questo governo. Ebbene, a redigerla è stato un giudice, Giuseppe Frigo, che fu nominato da quella stessa maggioranza parlamentare. Ciò non gli ha impedito d’essere retto e libero. Sono sicuro che uno così, se gli si offrisse la presidenza per anzianità e per due settimane estive, la rifiuterebbe con sdegno.

mercoledì 11 maggio 2011

Berlusconi non c'è più.

Lo scenario che rappresento qui di seguito è frutto della fantasia di un appassionato di politica: è pura invenzione, ma spesso la realtà riesce ad andare oltre la più sfrenata immaginazione.

Malpensa giugno 2013, il jet personale di Silvio Berlusconi decolla con destinazione Antigua.
Le elezioni politiche di fine aprile hanno visto il centrodestra vincere con quasi il 52% dei voti ed il nuovo presidente del Consiglio, Giulio Tremonti, si è insediato a palazzo Chigi da poche settimane.
L'ex presidente del Consiglio, prima di lasciare l'Italia, ha dichiarato alle agenzie di stampa che si riposerà per qualche giorno e poi si dedicherà alla creazione di ospedali per bambini in tutto il mondo ed ha aggiunto: " Il giorno più bello della legislatura appena conclusa è stato l'ultimo".

Berlusconi, che è presidente onorario del Popolo delle Libertà, si è impegnato a seguire le vicende italiane anche dall'estero e a mettere a disposizione del movimento tutta la sua esperienza e i suoi consigli.
"La riforma della giustizia" ha detto "con la separazione delle carriere, la responsabilità dei magistrati, il rinnovamento del Csm e la grande riforma della Pubblica Amministrazione, la riduzione dei parlamentari e l'avvio del riordinamento del fisco, sono traguardi che mi ero posto e sono orgoglioso di averli raggiunti."

Per quale motivo il Cav. lascia? Perché rinuncia alla corsa per il Quirinale? Ora che avrebbe potuto prendersi la rivincita dopo le assoluzioni su tutta la linea in sede giudiziaria, dopo lo squagliamento del Pd, la marcia indietro di molti suoi detrattori, l'ammissione di aver esagerato da parte di certa stampa, perché rinuncia?
Semplicemente perché ritiene di aver esaurito il suo compito, di aver traghettato l'Italia nella terza(?) Repubblica, di aver liberato gli italiani da certe ideologie e da uno Stato opprimente che ora è, finalmente, al servizio del cittadino.
Qualcuno aveva capito che il candidato Berlusconi avrebbe rinunciato alla presidenza dal fatto che la scheda elettorale non portava più nel logo "Berlusconi Presidente" bensì "Berlusconi per il Popolo delle Libertà" e dal fatto che in campagna elettorale continuasse a ripetere che il partito era pronto per camminare senza di lui e che i suoi possibili successori erano tanti e tutti bravi e preparati.

Non lo aveva capito la sinistra, che si era trovata letteralmente spiazzata quando Berlusconi rifiutò la presidenza del Consiglio che Napolitano gli aveva offerto quale vincitore delle elezioni.
Non lo avevano capito i politologi né tantomeno i giornalisti.
Anche il popolo azzurro sulle prime rimase basito, ma poi, vedendo lo sconcerto e lo sbandamento della sinistra rimasta senza il bersaglio preferito, si adeguò di buon grado ed anzi festeggiò la grande, assoluta e meritata rivincita del grande statista.

martedì 10 maggio 2011

Memoria, Thyssen e Morichini. Davide Giacalone

Non è stata una buona idea, quella di utilizzare la facciata del tribunale di Milano per esporre tre gigantografie. Più che un omaggio, un insulto alla memoria. L’Italia rimbambita dal berlusconismo, che brama d’abbatterlo con ogni mezzo e non s’accorge d’esserne un sottoprodotto, può darsi si senta furba nell’additare quelle immagini. Farebbe meglio, invece, a prestare orecchio agli applausi che la Confindustria ha riservato all’amministratore della Thyssen, o a fare attenzione alle cose che dice Vincenzo Morichini, finito sui giornali quale ipotetico collettore di tangenti destinate a Massimo D’Alema.

Quegli striscioni dovrebbero essere la risposta a chi dimentica, a chi chiede che le Brigate Rosse escano dalle procure, a chi descrive certi magistrati come un cancro. Strumento illegittimo e obiettivo mancato. Giorgio Ambrosoli non era un magistrato, ma un avvocato, non fu difeso da nessuno, era considerato un uomo di destra, negli anni e nell’Italia sbagliati, ha ricevuto una medaglia al merito venti anni dopo, ai suoi funerali erano presenti solo gli uomini della Banca d’Italia e fu un’amministrazione di centro destra (sindaco Gabriele Albertini) a dedicargli una piazza. La fila di quelli che dovrebbero vergognarsi, davanti a quella foto, è troppo lunga per essere significativa. Emilio Alessandrini, come anche Giuorgio Galli, fu freddato da quelli di Prima Linea, terroristi comunisti. Indagò anche sul Banco Ambrosiano, di cui era socio e vice-presidente (di Roberto Calvi) Carlo De Benedetti, non Marcello Dell’Utri. Indagò sui legami fra servizi segreti e terrorismo di sinistra. Morì solo, come un cane. Le loro foto mi danno un senso di vertigine, come quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quasi sempre brandite da chi fu loro avversario, da chi li sconfisse e isolò. In quanto a memoria: Prima Linea e Brigate Rosse non furono la stessa cosa, e quel demente che ha fatto stampare il manifesto si ricordi che l’affermarsi delle toghe rosse coincide esattamente con la lotta al terrorismo.

Tutto questo non c’entra un fico secco con quel che discutiamo. Se qualcuno ha argomenti per contestare la nostra analisi sulla malagiustizia si faccia avanti, ma se mi mette sul muso la foto di un morto vuol dire che annaspa nel vuoto. Piuttosto, credete che gli industriali italiani si sentano solidali con chi manda a morire gli operai? Il fatto è che, come segnalammo solitari, la sentenza sulla Thyssen è stata accolta da un coro di forsennati festeggiamenti, il cui sapore era forcaiolo e anti-industriale. Se quei dirigenti sono colpevoli, se a loro si può ascrivere un omicidio, allora è bene che vadano in galera. Ma questo, oggi, nessuno è autorizzato a dirlo, perché essi sono degli innocenti. La sentenza di primo grado, che accoglie un ardito nesso di causa-effetto, non cambia tale condizione, sicché chi si chiede con quale faccia Confindustria abbia invitato un condannato a parlare è a dir poco ignorante. Com’è ignorante chi parlò di “precedente”, come a dire che, da lì in poi, le sentenze sarebbero state tutte dello stesso tipo, fregandosene dell’appello e della cassazione.

Gli industriali, però, farebbero bene a non limitarsi alla solidarietà (non necessariamente ben riposta) con il collega, ma a spendersi per una riforma vera della giustizia. Non basta lamentarsi, si deve agire, sostenendo chi si batte su quel fronte. Invece niente, perché, come dimostrano le reazioni alla sentenza Thyssen, si vuole manifestare disagio, ma poi si pretende d’essere super partes. Secondo il latinorum dell’impotenza.

E quando Morichini dice che, perquisendo casa sua, cercavano solo documenti relativi a Italianieuropei, la fondazione di D’Alema, segnala la convinzione che si tratta di un’inchiesta a fini politici. I vertici del Pd, e lo stesso D’Alema, allora, non possono dire che hanno fiducia nella magistratura, perché sono parole false. E’ quello che disse Bettino Craxi, quando se la prese con il “mariuolo”. S’è visto com’è finita. Suggerisco (non richiesto) a Morichini di non giurare sui figli: non è bello e fa tanto Berlusconi. Così come lo invito a non difendersi dicendo che alla provincia di Roma governano i veltroniani, quindi lui, dalemiano, non poteva farci affari, perché questa somiglia a una confessione e a un’accusa verso il “capo”. E quando dice che Poste e Finmeccanica davano più soldi degli altri, alla Fondazione, invitiamo a riflettere sul significato di quelle parole: sono le imprese partecipate o possedute dallo Stato che finanziano maggiormente la politica. Ora come allora, ma allora la magistratura salvò solo alcuni. Non siete curiosi di sapere come e perché?

Allora, signori ipocriti e falsificatori della memoria, facciamola finita con questa commedia ignobile: nessuno vuol chiudere i tribunali e non c’è una corporazione togata il cui lavoro merita d’essere difeso, la nostra giustizia fa schifo e si deve porre rimedio, anche cancellando la politicizzazione di non pochi procuratori. Questo pensa la gente ragionevole, di ogni colore. Preferite tifare per le condanne di Berlusconi? Accomodatevi, sciocchi: ogni volta che esce dalle aule di giustizia prende qualche punto in più nei sondaggi. Per merito vostro.

lunedì 9 maggio 2011

Andrea's Version. 9 maggio 2011

Primissima mattina. Uno si alza, prende il caffè, apre il giornale e legge: la dottoressa Ilda Boccassini ha parlato ieri davanti a 400 studenti dell’Università Statale di Milano, dicendo loro questo: “Io non avrei mai dato credito a chi collabora a distanza di 17 anni, come Ciancimino junior”. E aggiungendo che, secondo lei, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo è sempre stato inattendibile. Bon. Passi a un altro giornale. Qui è Travaglio che parla: “Quando Stefania Ariosto , nell’estate del 1995, prima alla Finanza e poi alla Procura, raccontò la corruzione al palazzo di Giustizia di Roma, cui aveva assistito negli anni ’80, la Boccassini si guardò bene dal mandarla via. Anche se raccontava vicende accadute dieci anni prima o più”. Riassumiamo. La Boccassini, sintetizzo volgarmente, ha più o meno detto: Ingroia dev’essere scemo. Travaglio le ha risposto: se lui è scemo oggi, allora anche tu nel 1995. Ecco. E come può sentirsi, uno che di prima mattina deve dar ragione a tutti e due? © - FOGLIO QUOTIDIANO
di Andrea Marcenaro

venerdì 6 maggio 2011

Se in politica vince l'infedeltà. Michele Brambilla

Nell’annunciare il rimpasto di governo, Berlusconi ha avuto perlomeno il pregio della sincerità: «Siccome la politica è anche concretezza - ha detto - non è il caso di fare gli schizzinosi». In pratica, ha voluto comunicare questo concetto: so benissimo che i nuovi sottosegretari non sono dei geni, ma le loro promozioni sono funzionali al proseguimento dell’attività di governo, e vorrei che nessuno facesse la verginella perché in politica s’è sempre fatto così.

Su questo, il premier non ha torto. Non è la prima volta che le nomine vengono fatte non per merito o per competenza specifica, ma perché è utile premiare qualcuno che rende un servigio. Non è bello, ma sarebbe ingiusto dire che succede solo ora con il governo Berlusconi. La politica è stata tante volte il regno del «todos caballeros», l’onorificenza collettiva che Carlo V, da un balcone, concesse agli algheresi per ricompensarli della loro fedeltà.

Ma il «todos caballeros» è sempre stato - se non un premio alla qualità - un premio, appunto, alla fedeltà.

Tanto che, da che la politica è politica, chi andava in cerca di poltrone si preoccupava di mostrare la propria lunga e inossidabile militanza. Al tempo del fascismo, ad esempio, si creò a un certo punto una curiosa categoria: quella degli «antemarcia», camicie nere che cercavano di dimostrare al partito quanto la propria fedeltà al Duce risalisse a tempi non sospetti; a prima, appunto, della marcia su Roma.

Si può dire lo stesso dei nuovi sottosegretari? Si può dire che sia stata premiata la fedeltà di chi nel 2008 è stato eletto con il Pdl, ma l’anno scorso è passato con Fini; tre mesi dopo, il ritorno con Berlusconi e ieri la nomina a sottosegretario. Ma se questi casi sono come la parabola del figliol prodigo, che dire ad esempio di Daniela Melchiorre? È stata sottosegretaria del governo Prodi, poi è passata al Pdl, quindi è passata con i Liberal Democratici Riformisti che sono all’opposizione, a dicembre 2010 ha firmato una mozione di sfiducia contro il governo Berlusconi e ieri è diventata sottosegretario del governo Berlusconi.

C’è da perderci la testa. Se guardate le biografie dei nuovi sottosegretari, vedete che otto su nove hanno una storia così, un po’ di qua e un po’ di là; e che «di qua» - nel senso di «con Berlusconi» ci sono appena arrivati o tornati, giusto in tempo per salvare il governo e poter battere cassa.

Solo uno, dei nove nuovi sottosegretari, può esibire un curriculum immacolato. Si chiama Antonio Gentile ed è un mezzo sconosciuto: ma nel quadro appena descritto la sua figura emerge come quella di un gigante. È sempre stato con Berlusconi: da Forza Italia al Pdl, mai uno sbandamento. Gentile segna il gol della bandiera per quelle legioni di berlusconiani antemarcia che hanno sempre servito la causa e che restano al palo per non avere da offrire neanche un adulterio. Perché, paradossalmente, i più inferociti per la premiazione di tante disinvolte conversioni sono probabilmente i berlusconiani più duri e puri, i tanti parlamentari o consiglieri comunali o semplici militanti di partito che hanno cominciato la battaglia per il Cavaliere nel lontano ‘94, da peones: e che peones sono rimasti. In questo trionfo di fedifraghi, Antonio Gentile è l’unico a poter dare una speranza ai vecchi bigotti che credono ancora che la fedeltà sia un valore da premiare.

Senza voler fare troppo i moralisti, il rimpasto di ieri appare come uno dei punti più bassi della pur non eccelsa politica di questi nostri ultimi tempi. C’è come un’impudenza, questa volta, nel mostrarsi cinici e opportunisti. Che insegnamento devono trarre dal rimpasto di ieri gli italiani, soprattutto i giovani che faticano a trovare un posto di lavoro? Visti i tempi che corrono, non ci stupiremmo se oggi si scoprisse che la nomina di Gentile è frutto di un errore, o di un caso di omonimia; e che - appena scoperto lo scambio di persona - l’ingenuo monogamo non venga invitato a dimettersi, e a lasciare il posto a qualcuno meno affidabile e quindi più presentabile. (la Stampa)

Mafiadipendenti. Davide Giacalone

I fratelli Graviano, mafiosi della zona Brancaccio, a Palermo, non avranno grande spazio sulle prime pagine. Avare cronache, forse. Hanno solo detto, in fondo, che il loro soldato, il loro macellaio di fiducia, Gaspare Spatuzza, ha raccontato corbellerie a due a due finché non fanno dispari, sicché la storia secondo la quale, seduti al bar, gli avrebbero detto di avere “l’Italia in mano”, grazie a Berlusconi, è una bubbola. Uno dei fratelli, il più naturalmente boss, ha aggiunto di non volere parlare di politica, che ci sono processi in corso e si vedrà. Non si sa mai. L’altro, invece, ha detto di non conoscere Marcello Dell’Utri e di non avere mai dato indicazione di votare per Forza Italia, tanto più che era latitante da anni, lontano da Palermo. Che noi tutti non si perda gran tempo a palare di loro, delle parole di due disonorati, è giusto. Peccato che se avessero detto il contrario, invece, non avremmo fatto altro. Per giorni, settimane, mesi. Anni.

Prima di loro, nella stessa aula, è stato interrogato Giovanni Brusca. Altro disonorato, altro macellaio. Ha detto che Nicola Mancino, allora ministro dell’interno, era il “committente finale” (chi suggerisce dovrebbe, almeno, spiegare la lingua italiana, a questi animali) del papello, ovvero di quel documento a metà strada fra il comico e l’assurdo, stilato, si dice, da Totò Riina. Ha anche detto che la mafia aveva rapporti con la sinistra e che Silvio Berlusconi non è il mandante delle stragi del 1993 (che non furono stragi e che finirono dopo che Giovanni Conso, ministro del governo Ciampi, su suggerimento di un uomo segnalato da Oscar Luigi Scalfaro, disapplicò il carcere duro). Ha aggiunto che, comunque, la mafia provò a contattare Berlusconi, per il tramite di un addetto alle pulizie di Canale 5, segnalato da Vittorio Mangano, minacciando sfracelli ove non avesse trattato con loro. I titoli dei giornali, in prima pagina, erano di questo tenore: Busca, trattammo con Berlusconi. Alla faccia del fatto che il 41 bis era stato ripristinato e che non è più scoppiato neanche un petardo.

Brusca, lo stesso soggetto che, parlando con il cognato, in carcere, disse che la mafia avrebbe dovuto fare un piacere a Berlusconi, ammazzando Carlo De Benedetti, casualmente facendosi intercettare e irragionevolmente intrattenendosi con un congiunto libero, ha già avuto benefici e prova a riaverli. Quale ringraziamento per la sua collaborazione. I fratelli Graviano, invece, se ne stanno seppelliti nel cemento carcerario. Come meritano, del resto.

Sicché noi tutti, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, alla sola condizione d’essere mediamente intelligenti e passabilmente onesti, dovremmo porci una e una sola domanda: per quanto tempo ancora il nostro dibattito civile deve andare a rimorchio dei delinquenti? e per quanto, ancora, le loro parole diventeranno oracolo se accusano Berlusconi e saranno segno di perdurante mafiosità se accusano gli altri? Tutto qui.

Questa storia d’inciviltà e di prostituzione alla mafia comincia quando finisce una vita, il 23 maggio del 1992. Quel giorno fu ammazzato Giovanni Falcone, che era già un perdente, era già stato battuto e isolato dalla sinistra politica e giudiziaria, ma, da vivente, avrebbe reso difficile, se non impossibile, l’uso dei pentiti quali jukebox pronti a cantare canzoni politiche. Da quel giorno si diparte una follia di cui continuiamo ad essere vittime, consegnando nelle mani dei peggiori la possibilità d’inquinare la storia di tutti.

Dovremo riscriverla per intero, la storia, proprio a partire da quel giorno di maggio, diciannove anni fa. Non sarà né facile né indolore. Ma, nel frattempo, potremo, almeno, mettere la testa a posto, provvedere a non versare altro veleno nei pozzi. Certo, chi ha commesso reati deve essere processato. Certo, i collaboratori di giustizia devono essere utilizzati. Ma, per non finire strangolati dai ricatti e non mettersi al servizio dei mafiosi, basterebbe aggiungere un dettaglio: chi collabora sarà premiato, ma chi non dice tutto in tempi certi e brevi, chi mente, chi nasconde e chi torna a delinquere, anche solo per riappropriarsi di soldi frutto del crimine, non è che va incontro alla sospensione dei benefici, paga l’intero debito, raddoppiato. Puoi prendere in giro un procuratore, o puoi pensare d’essere furbo mettendoti al servizio di un procuratore che fa politica, ma rischi non di dovere trattare nuovamente, bensì d’essere seppellito dove è più che giusto che solo la morte venga a raccoglierti.

La colpa della sinistra, colpa enorme, è quella di avere assecondato chiunque e qualsiasi cosa l’aiutasse a vincere una partita che, con la democrazia e le elezioni, non riesce a vincere. La colpa della destra, colpa enorme, è quella di avere difeso se stessa, i suoi capi, senza accorgersi che, per difendere la collettività, occorre una riforma profonda, garantista e severa, della giustizia. Queste colpe hanno provocato guasti straordinari. In attesa di porre rimedio, di riscrivere la nostra storia, almeno, si fermi la macchia infernale. Costruita sul sangue dei magistrati onesti e competenti.

mercoledì 4 maggio 2011

Nato a Honolulu, morto ad Abbotabad. Christian Rocca

Prima tormentavano Obama perché non mostrava il certificato di nascita, ora perché non fa vedere il certificato di morte. (Camillo blog)

Bruscagliate. Davide Giacalone

Si può decidere: ragionare di mafia, usando la testa e mettendo in fila le date, oppure battere la testa sulle dichiarazioni dei mafiosi, mettendosi in fila per farsi turlupinare. Deponendo al processo di Firenze, per la bomba ai Georgofili, Giovanni Brusca, assassino e mafioso al servizio di Salvatore Riina, un disonorato che ha avuto benefici per la collaborazione con la giustizia, salvo continuare in una condotta inammissibile, ha detto che la mafia aveva contatti con la sinistra, con Salvo Lima e con Giulio Andreotti, aggiungendo che Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri non c’entrano nulla con le bombe del 1993 e che il destinatario (“committente finale”, nel suo italiano immaginifico e di riporto) del “papello” era l’allora ministro degli interni, Nicola Mancino. Ora, seguendo il copione demenziale delle tifoserie, del leggere tutto alla luce delle contrapposizioni politiche, non ci resterebbe che dire: avete visto, avevamo ragione. Siamo noi che, date e dati alla mano, sostenevamo che se le bombe servivano a negoziare, tale trattativa non poteva che essere con il governo di Carlo Azelio Ciampi, che, difatti, concesse l’attenuazione del 41 bis. Invece diciamo: avevamo ragione, andare appresso alle parole di questi disonorati è pura follia.

Il racconto di Brusca non sta in piedi. Secondo lui il problema del riagganciare i rapporti con qualcuno, nelle stanze dello Stato, si sarebbe sentito dopo l’omicidio di Paolo Borsellino (19 luglio 1992), allorquando Riina avvertì che si erano interrotti i contatti. Non è credibile, perché Giavanni Falcone (ucciso il 23 maggio precedente) e Borsellino erano due perdenti, due isolati, due battuti sia dalla magistratura che dalla politica. Perché mai ucciderli avrebbe dovuto provocare la rottura di tutti i rapporti? Semmai il contrario, visto che restavano in vita quelli che già prima erano vincenti. Difatti: l’inchiesta mafia-appalti, che i due volevano continuare, viene spezzettata e archiviata. Non credo i mafiosi se ne dolessero. Sempre secondo Brusca è in quel momento che si materializza un nuovo interlocutore, forse un referente: Mancino. Le bombe, dice il mafioso, servivano per sollecitare la politica a rispettare gli impegni presi.

Quando scoppiò quella fiorentina (27 maggio 1993, cinque morti), Mancino capì (ma lo disse poi) la sua natura mafiosa. Ma, dice sempre Brusca, il mancato attentato allo stadio Olimpico, sarebbe servito per vendicarsi contro chi non manteneva le promesse. Il fatto è che quella bomba fece cilecca il 31 ottobre 1993, mentre prima ne erano esplose altre tre: Via Palestro, Milano (27 luglio 1993, cinque morti), San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, Roma (28 luglio, nessuna vittima). Subito dopo, nel novembre 1993, Giovanni Conso non firma due rinnovi del 41 bis (carcere duro) sostenendo (sempre poi) di averlo fatto per evitare nuovi attentati. Il suggerimento gli venne da un uomo indicato e voluto da Oscar Luigi Scalfaro.

Sempre nel 1993 Brusca dice che Dell’Utri e Vito Ciancimino si offrono volontari per “portare” alla mafia la Lega Nord. E questa è una scena che avrei voluto vedere. Immagino fossero pronte le cuffie con gli interpreti. Oltre alla Lega ci sarebbe anche un’altra forza politica, di cui, però, non ricorda il nome. Passi che non scarseggiamo, ma addirittura dimenticarne il nome! Non paghi di ciò, o, forse, non riuscendo a farsi capire, decidono di prendere contatti con Berlusconi, per il tramite di un uomo delle pulizie di Canale 5, cui li avrebbe indirizzati Vittorio Mangano, il celebre stalliere di Arcore. Diciamo che non si trattava di entrature di prim’ordine. Mangano, quand’era vivo, non confermò mai roba simile. Ma, ammettiamolo. A che serviva il contatto? Era destinato ad avvertire (parole di Brusca) il futuro presidente del Consiglio che con la mafia non si scherza, che le condizioni del papello, consegnato a Mancino, dovevano essere rispettate e che il 41 bis doveva essere disapplicato. Peccato che, nell’ordine: 1. nel 1993 l’unico che poteva immaginare di finire a Palazzo Chigi era Berlusconi medesimo, visto che il resto d’Italia non ci credeva e lo prendeva anche in giro, i mafiosi, quindi, saranno pure disonorati, macellai e analfabeti, ma vedono lungo; 2. nessuna delle condizioni contenute nel papello fu mai onorata; 3. Il 41 bis, disapplicato da Conso, durante il governo Ciampi, fu ripristinato. Brusca sottolinea che il messaggio a Dell’Utri e Berlusconi era chiaro: se non obbedite sul 41 bis scoppieranno altre bombe. Non obbedirono e non successe nulla. Serve altro?

Sulle bombe precedenti, quelle del 1993, come ricordato all’inizio, Brusca sostiene che gli arcoriani non c’entrano, essendo da inquadrarsi in un vecchio discorso, condotto con quelli di prima. Ciò detto, la cosa più fessa del mondo è prendere queste parole e utilizzarle per tirarsele sulla schiena, con accuse reciproche. Noi constatiamo che il nostro ragionare su quegli anni si dimostra ogni giorno sempre più corretto, e ribadisco che non si può non partire dal modo e dai tempi scelti per la morte di Falcone. La storia di quegli anni deve essere ancora scritta, quella fin qui narrata è una barzelletta che non fa ridere. Il luogocomunismo mafiologico ha partorito mostri, e Brusca è uno di essi. Certo, quando si sentono le affrettate parole di Valter Veltroni, e la sua invocazione a che Berlusconi venga subito sentito dalla commissione antimafia, cascano le braccia, perché tanta impreparazione e arroganza non sono ragionevoli. Ma sì, si senta Berlusconi. Un minuto prima, però, provate a fare qualche domanda a Ciampi e Scalfaro. Magari chiedete a Luciano Violante.

martedì 3 maggio 2011

Anche Napolitano contro i sogni di Marco. Ruggiero Capone

Nessuno sprecherebbe un euro per un quotidiano che non sia audace. E chi afferma di preferire una stampa pacata, intenta solo a parlare di ciò che funziona nella società, o è un gran bugiardo o fa parte della banda bassotti. Ma ne passa dall’osare al farsi male con le proprie mani.
E’ il caso di Marco Travaglio, che spesso si mette nell’angolo, procurando grane al “Il Fatto” come ad altre testate. “Non c’è stata nessuna telefonata tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il segretario del Pd Pierluigi Bersani sull’intervento in Libia”, si legge in una nota del Quirinale, che definisce “semplicemente inventata” la notizia del colloquio telefonico col segretario democratico riferita dal vice direttore de “Il Fatto Quotidiano”.
Il problema di Travaglio sono le pièce politiche che vanno in scena nella sua mente, una sorta d’inestricabile giungla popolata da fiere partitocratiche. Dove finisca l’egregio cronista e inizi il pregevole commediografo è arduo da definire. Solo in minima parte fanno testo i 16mila euro che Travaglio deve risarcire per diffamazione al presidente del Senato, Renato Schifani, per quanto ha scritto su “L’Unità”.
I suoi accoliti obietteranno che Travaglio sarebbe in grado di prevedere il futuro giudiziario di qualsivoglia comune mortale. Così nel 2000 è stato condannato in primo grado (e in sede civile) dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti: in un articolo su “L’Indipendente” definiva Previti “futuro cliente di procure e tribunali”.
Il tribunale civile di Roma ha ravvisato nella frase un contenuto diffamatorio, all’epoca (il 1995) “nessuna indagine era aperta nei confronti dell’on. Previti”. I fedeli di Travaglio (quelli vestiti di viola che lo vorrebbero beato subito) ribattevano “in seguito Cesare Previti è stato indagato e condannato in via definitiva per corruzione, quindi Travaglio ha visto oltre”.
Peccato che la giustizia non preveda la revisione per intervenuta veggenza magica, e Travaglio s’è visto pignorare 79 milioni di vecchie lire. Poi il 20 febbraio 2008 il giudice unico della VII sezione civile del Tribunale di Torino lo ha condannato in primo grado a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26mila euro: nella rubrica Uliwood Party, su l’Unità del 16 luglio 2006, aveva scritto “Piazzale Loreto? Magari”.
La sentenza afferma che il giornalista s’è espresso ingiuriosamente nei confronti di Confalonieri. Querelare un giornalista non è bello, testimonia che c’è tanta acredine verso l’informazione. A Travaglio necessiterebbe ribattere durante tenzoni polemiche. Così Antonio Socci ha deciso di rimettere la querela a seguito delle pubbliche scuse di Travaglio.
Ma, per l’ennesima querela di Cesare Previti, Travaglio ha ottenuto 8 mesi di reclusione con sospensione condizionale. Il magistrato ha ritenuto che l’articolo “Patto scellerato tra mafia e Forza Italia”, pubblicato sull’ “Espresso” il 3 ottobre 2002, fosse frutto di fantasie. (l'Opinione)

lunedì 2 maggio 2011

La sinistra non esiste. Fabrizio Rondolino

E’ da qualche giorno in libreria L’Italia non esiste (per non parlare degli italiani), un mio pamphlet in occasione del centocinquantenario dell’Unità di cui i lettori di FrontPage hanno già potuto leggere una parte del primo capitolo. Contrariamente alla lettera del titolo, la tesi del libro è che l’Italia purtroppo esiste, ma soltanto come somma di vizi, errori e storture non rimediabili e, anzi, destinati ad aggravarsi sempre più. Non si suggeriscono soluzioni, ma si prova a ragionare sulle cause.
Il settimo capitolo è dedicato alla figura dell’antitaliano, cioè l’italiano che parla male dell’Italia e dei suoi abitanti. E’ una figura che preesiste all’Unità, percorre molti intellettuali risorgimentali, e diventa infine, da Gobetti a Berlinguer (a Saviano), l’architrave dell’autorappresentazione ideale della sinistra.

***

La sinistra italiana è la parte peggiore del Paese, perché ne condivide tutti i vizi e tutte le mancanze, ma si crede diversa e migliore.

C’è, al fondo della sinistra italiana, un disprezzo radicato e profondo per l’Italia e per gli italiani; una diffidenza e un’incomprensione, quasi un mancato riconoscimento reciproco; l’istintiva convinzione che qualcosa di profondamente sbagliato nella natura stessa del Paese la condanni ogni volta al fallimento. Probabilmente è per questo che non ha mai vinto davvero: per vincere bisogna sedurre: e non è facile sedurre chi, al fondo, si disprezza.

Il disprezzo per gli italiani, e la conseguente teorizzazione di una sinistra “antitaliana”, diversa e migliore, hanno come data di nascita ideale il 23 novembre 1922.

Quel giorno, ad un mese dalla marcia su Roma, Piero Gobetti pubblica sulla Rivoluzione liberale, il giornale che ha fondato a vent’anni, un editoriale intitolato “Elogio della ghigliottina”. È in questo articolo che Gobetti conia una definizione del fascismo destinata ad un enorme successo, e a non meno grandi conseguenze: il fascismo, scrive, è l’“autobiografia di una nazione”. Gli italiani, in altre parole, raccontando se stessi diventano fascisti; o, il che è lo stesso, l’Italia è per sua natura fascista: perché il fascismo non è un governo come gli altri, ma, sostiene Gobetti, è l’espressione paradigmatica di “certi difetti sostanziali” del popolo italiano, che “rinuncia per pigrizia alla lotta politica”, manca di coraggio, si piega a Mussolini per paura e vigliaccheria, e così mostra al mondo intero il proprio “animo di schiavi”.

Gobetti non capiva molto di politica: nel maggio del ’22 definì Mussolini un “anacronismo”, sottovalutando completamente la forza e la portata del movimento fascista. E anche la sua interpretazione del fascismo come semplice ipostasi del carattere nazionale è a dir poco riduttiva rispetto alla complessità, alla portata e alla peculiarità novecentesca, e niente affatto soltanto italiana, del totalitarismo moderno. Anche in questo, tuttavia, Gobetti va annoverato tra i padri della sinistra italiana, che di analisi sballate sarà dispensatrice feconda e prolifica.

Ma torniamo, per ora, agli italiani. A Gobetti, come del resto a quasi tutti gli intellettuali primonovecenteschi, molti dei quali apertamente di destra, gli italiani non piacevano per niente. Nel primo numero della Rivoluzione liberale il giovane torinese abbozza un’analisi spietata dell’Italia, che gli appare profondamente arretrata, senza una classe dirigente moderna e un sistema di relazioni economiche paragonabile a quelli europei, nonché storicamente priva di “una coscienza e un diretto esercizio della libertà”. Il risultato – ma potrebbe esserne anche la causa – è un paese senza un sistema politico efficiente e senza cittadini dotati di senso dello Stato. “Abbiamo sempre saputo – scriverà, sempre nel ’22, Gobetti – di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione”.

Non stupisce dunque che l’intellettuale torinese abbia definito una volta il suo antifascismo come una “polemica contro gli italiani”. I quali avevano ritrovato in Mussolini l’uomo che più di tutti ne impersonava le peggiori caratteristiche, scambiandole per virtù: l’ottimismo e la “sicurezza di sé”, l’“astuzia oratoria”, l’“amore per il successo”, la “virtù della mistificazione e dell’enfasi”, la teatralità. Sembra di leggere un ritratto di Berlusconi: non perché il presidente del Consiglio in carica (2010) sia il nuovo Mussolini, ma perché la sinistra cent’anni dopo preferisce ancora la caricatura all’analisi, il (pre)giudizio morale alla sfida politica.

Nell’addossare agli “italiani” in quanto tali ogni responsabilità per l’ascesa del fascismo, si scorge un altro tratto caratteristico della sinistra italiana: l’autoassoluzione. È certo vero che non vi furono insurrezioni democratiche all’indomani della marcia su Roma, e che l’Italia si prese il fascismo senza troppo protestare; ma è altrettanto vero che le opposizioni fecero di tutto per rendere più agevole la strada che Mussolini intendeva percorrere. Frammentati e litigiosi, gli antifascisti erano profondamente divisi fra loro: democratici, liberali progressisti, popolari (quella parte che non appoggiava Mussolini), socialisti riformisti, socialisti massimalisti, comunisti: ciascuno giocava per sé, e nessuno aveva un’idea precisa di quanto stesse accadendo. Anziché riflettere sulla propria impotenza, l’opposizione antifascista preferì prendersela con gli italiani.

E infatti nella condanna degli italiani Gobetti non è affatto solo. Giustino Fortunato scrive di un “popolo organicamente anarchico, corrotto, molto servile”, Anna Kuliscioff di un “paese di servi”, Carlo Rosselli di un popolo “moralmente pigro”, che ad Antonio Gramsci appare “inquinato dalla lue individualista, disorganizzato da lunghi secoli di malgoverno, viziato da impulsive tendenze egoarchiche e disgregatrici”. Storia e psicologia si mescolano fino a diventare inseparabili, e l’elenco dei difetti degli italiani – più o meno invariato da tre o quattro secoli – assurge a categoria storico-politica fondamentale, e dunque anche a chiave dell’agire politico individuale e collettivo.

La sinistra prende a percepirsi e a presentarsi come “antitaliana”, cioè come diversa e alternativa al tipo italiano medio: l’antropologia e la morale si sovrappongono alla politica fino a sostituirvisi. Il senso di superiorità coltivato dalla sinistra, che in realtà non è che un paravento dietro cui nascondere malamente le insufficienze teoriche, organizzative e politiche delle opposizioni antifasciste, denuncia un senso di estraneità profonda rispetto al paese reale, e ancora una volta, come sempre accade in Italia, trasforma un vizio in una virtù. Essere altra cosa rispetto agli italiani, da Gobetti in poi, diventerà un segno di nobiltà e di superiorità morale.

La patria ideale degli antitaliani, nella visione del torinese Gobetti (ma anche in quella dell’immigrato sardo Gramsci), è il Piemonte. L’“altra Italia”, l’Italia diversa e migliore, s’incarna secondo Gobetti in quella regione del paese che, promuovendo l’unità a costo di rinunciare alla propria stessa identità (e alle proprie virtù), cercò con ogni sforzo di “tenere il collegamento tra gli istinti africani della penisola e la civiltà europea”. Gobetti ripercorre qui un altro topos della polemica antitaliana di fine Ottocento, soprattutto di matrice anglosassone: la contrapposizione fra i popoli “latini”, per natura e per indole indisciplinati e inefficienti, e i popoli anglosassoni, dinamici e produttivi.

Al Piemonte e ai piemontesi spetterebbe, in questa visione profondamente razzista della complessità e delle diversità dell’Italia, il compito nobile e improbo di “civilizzare” un paese “africano”. Compito evidentemente fallito, come dimostra l’avvento del fascismo “italiano”. Ciò nondimeno, Torino e il Piemonte restano secondo Gobetti il fulcro dell’“altra Italia”: per la presenza di un forte “spirito pratico” e concreto, per la crescente industrializzazione, e persino per l’“anglomania” dei suoi imprenditori.

Non la pensava diversamente Gramsci, che nella Torino operaia vedeva l’unico faro di modernità acceso su un paese arretrato e “indisciplinato” (la “disciplina”, anche in senso militare-sabaudo, sarà un’ossessione ricorrente nel fondatore del Pci, che non per caso chiamò la sua rivista L’Ordine nuovo). Torino è “poco italiana”, secondo Gramsci, perché “la larga massa dei suoi abitanti è tutta viva e compone armonicamente un organismo sociale che vibra tutto”.

Fa una certa impressione leggere tante sciocchezze idealistiche nel più grande teorico marxista italiano; la fascinazione per la classe operaia è tutta estetica, diresti quasi futurista: la modernità è uno spettacolo disciplinato in cui l’ordine nuovo si afferma come armonia tanto astratta quanto totalitaria; e la politica diventa una branca dell’etica.

***

Con Gramsci siamo al cuore della sinistra italiana, e all’origine di una visione del paese più antropologica che socioeconomica, più morale che politica. Quando Gramsci pone l’accento sulla “riforma intellettuale e morale” degli italiani anziché sulla rivoluzione sociale, che gli pare insufficiente, da sola, a risolvere i problemi del paese, la prospettiva stessa del compito dei rivoluzionari cambia profondamente, fino a capovolgersi da ampliamento della sfera della libertà, quale era all’origine e nelle intenzioni, in sforzo di condizionamento e limitazione delle singole libertà.

Tutto il gramscismo è una grande, complessa e impotente teorizzazione del compito educativo, pedagogico e missionario che spetta alla classe operaia e al suo partito in un paese privo di civiltà politica, di cultura, di classi dirigenti, di virtù civili. I comunisti sono i rappresentanti di una civiltà superiore, scesi su questa pessima Italia per trasformare i suoi disastrati abitanti in uomini veri: e così, nella sostanza, si considerano ancor oggi che si chiamano “democratici”.

La raffinatezza teorica con cui Gramsci analizza la modernizzazione fordista che accompagna la nascita della grande fabbrica, la sua attenzione quasi maniacale per la “società civile”, e persino l’enfasi posta sulla conquista dell’“egemonia”, che è concetto ben più complesso e articolato della semplice presa del potere, lo rendono certo un unicum nel panorama del rozzo pensiero marxista della prima metà del Novecento, ma anche ne segnalano l’arretratezza profonda.

Non è un caso se, fra tutte le metafore e i rimandi storici cui poteva ricorrere, Gramsci scelse proprio il Principe di Machiavelli per definire la sua idea mitologica di partito. I liberali vi hanno visto, e giustamente, una minaccia alle libertà; ben più preoccupante, però, è l’idea di politica che quella metafora suggerisce: l’Italia non potrà mai governarsi da sé, poiché mancano agli italiani le capacità per farlo; soltanto un principe illuminato, autorevole e autoritario e paternalista, intriso di buona volontà e pedagogicamente predisposto alla formazione di nuovi e migliori cittadini, può svolgere con successo l’incarico.

La politica è pedagogia, e la pedagogia è morale: è così in Gramsci, e così sarà in tutti i leader comunisti venuti dopo di lui. La sinistra italiana, egemonizzata per l’intero secondo dopoguerra dal Pci, fa della “riforma intellettuale e morale” il suo mantra e la sua missione, attribuendosi una medaglia di superiorità che nessuno le ha mai conferito, e guardando sprezzante, dall’alto di una cattedra immaginaria, il brulicare scomposto degli italiani comuni.

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Per questo la storia della sinistra italiana è una storia di fallimenti: non si possono vincere le elezioni disprezzando chi dovrebbe votarti, né si può conquistare la maggioranza degli italiani impancandosi ad antitaliano. Anziché sedurre l’elettorato, la sinistra l’ha sempre redarguito. Anziché promuovere la modernizzazione e progettare concretamente il futuro, ha sempre gridato all’imminente catastrofe. Anziché proporsi di governare l’Italia, ha preferito gloriarsi della propria diversità.

È stato Enrico Berlinguer, com’è noto, a coniare per il Pci la parola “diversità”. Lo fece quando l’assurdità della politica di compromesso storico divenne talmente evidente da non poter più essere tollerata, nemmeno dal gruppo dirigente di Botteghe Oscure. Il Pci si è sempre autorappresentato come diverso: Togliatti lo paragonò alla giraffa, un animale ben strano che in natura non dovrebbe neppure esistere. L’elogio della diversità è stato nel corso degli anni una giustificazione del legame politico e finanziario con l’Unione sovietica, un potente collante per la collettività dei militanti, un formidabile alibi ideologico per l’impotenza politica. Con Berlinguer, tuttavia, la parola assume una nuova coloritura morale, che porta alle estreme conseguenze, e cioè alla bancarotta politica, il calvinismo astratto di Gobetti.

Il “compromesso storico”, va ricordato, fu il tentativo di mascherare l’unica vera diversità del Pci, cioè la sua dipendenza finanziaria (e dunque politica) dall’Urss, affidando il partito alla tutela della Democrazia cristiana, i cui da trent’anni di fedeltà atlantica bastavano a rassicurare gli americani.

Berlinguer sapeva bene di non poter dar vita ad un governo di alternativa imperniato sul Pci: non certo perché sarebbe finita come nel Cile di Salvador Allende, cioè con un colpo di Stato militare organizzato dalla Cia, ma per la semplice ragione che nessuna coalizione si sarebbe potuta realisticamente formare intorno ad un partito legato a doppio filo all’Unione sovietica e al Patto di Varsavia.

Anziché procedere speditamente – e con almeno vent’anni di ritardo – sulla strada dell’emancipazione definitiva dal movimento comunista e dell’elaborazione di una nuova cultura politica socialdemocratica, anziché insomma “andare a Bad Godesberg”, come allora si diceva ricordando l’esempio dei socialdemocratici tedeschi, Berlinguer fece in un certo senso l’esatto contrario: portò alle estreme conseguenze l’accordo consociativo che, in forme diverse, aveva retto gli equilibri politici della “Repubblica nata dalla Resistenza”.

Il Pci di Berlinguer non capì mai l’Italia che lo aveva votato, come non aveva capito né il Sessantotto, né la portata del referendum sul divorzio. Abituato gramscianamente alla “guerra di posizione” – tradotta nei fatti in una rendita di posizione – il Pci sbagliò completamente la “guerra di movimento”, fraintendendo e demonizzando la spinta alla modernizzazione che saliva impetuosa dalla società, esattamente come era stato frainteso e demonizzato il centro-sinistra dieci anni prima.

Alla parte del paese che votava Pci perché si era stufata dei democristiani e voleva un’alternativa di governo, cioè una normale fisiologia democratica, Berlinguer rispose con l’esaltazione opportunistica della Dc, riconsacrata perno immutabile del sistema. Alla parte del paese che chiedeva la modernità, offrì l’elogio pauperista dell’“austerità”, dei sacrifici, dell’emergenza. E quando infine l’esperimento consociativo – com’era da aspettarsi – fallì, e il Pci fu riaccompagnato all’opposizione mentre molti elettori lo lasciavano per sempre, Berlinguer rilanciò e rispose con la “questione morale”.

La “diversità” era divenuta infine un contrassegno etico, indiscutibile e non mediabile, nonché la coperta ideologica sotto cui nascondere l’impotenza politica, la devastante arretratezza culturale accumulata negli anni, e, non ultima, la paralizzante incapacità di sciogliere fino in fondo ogni legame con il Patto di Varsavia (si sciolse prima il Patto di Varsavia).

La “diversità”, a ben guardare, è un’altra forma del qualunquismo italiano: il popolo è ignorante, sceglie sempre la pagnotta; la maggioranza degli italiani è di per sé moralmente debole quando non corrotta, perdere in queste condizioni è un onore. Con il corollario metafisico che il potere, in quanto tale, corrompe. Abbacinata per troppi anni da questa convinzione inespressa, la sinistra italiana ha perso, regolarmente, tutti gli appuntamenti con la storia.

La “diversità” è, anche, un’altra forma dell’arretratezza italiana. Tutte le democrazie occidentali si sono sviluppare lungo un asse destra liberale/sinistra socialdemocratica: soltanto in Italia l’egemonia di un partito comunista ha segnato così pesantemente il sistema politico (e naturalmente anche quello culturale), cancellando nei fatti la possibilità stessa dell’alternativa.

L’anomalia del Pci, anziché essere affrontata e risolta, come ci si sarebbe aspettati da un gruppo dirigente responsabile, cioè impegnato nella conquista democratica del governo e non nella tutela di sé e dei propri privilegi castali, è diventata invece un motivo di orgoglio. L’Italia, si è detto spesso a sinistra, almeno dagli anni Sessanta del secolo scorso in poi, è un “laboratorio”: qui si sperimentano le formule politiche più interessanti, più innovative, più fantasiose. La grande sciocchezza della “terza via” – cioè l’illusione di poter essere né comunisti né socialdemocratici – conquista rapidamente un’immensa popolarità perché in questo modo, come sempre accade in Italia, un elemento di arretratezza si trasforma magicamente (e illusoriamente) in un vanto, in un tratto originale, in una diversità di cui andare fieramente orgogliosi.

La “terza via”, del resto, non era che una riproposizione della “via italiana al socialismo”, la grande trovata con cui Togliatti inventò il partito a due scomparti, democratico e riformista nel gioco politico locale e nazionale, sovietico in politica estera e nelle fonti di finanziamento. Di italiano, nella “via italiana”, c’è dunque, e vistosamente, molto: la vocazione al compromesso, una certa vigliaccheria, l’idea che le verità siano sempre almeno due, il tornaconto personale, l’ambiguità, la furbizia.

È la furbizia di Togliatti, in un popolo di furbi, a plasmare i comunisti italiani, e a renderli ben presto egemoni a sinistra. Il senso di superiorità si sposa perfettamente all’ambiguità gesuitica dei capi; l’autoreferenzialità rafforza i vincoli comunitari dei militanti; ogni compromesso è giustificato alla luce di una verità superiore; le opinioni personali sono riservate alla sfera privata; la disciplina è rigorosa quanto generoso è il perdono. Sembra davvero la Chiesa cattolica plasmata dalla Controriforma.

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Il “cattocomunismo” – e ne parleremo qui una volta per tutte – non è una sintesi più o meno riuscita di culture diverse, né un incontro, né un dialogo; e non è neppure un esperimento politico più o meno avanzato, più o meno significativo: è, né più né meno, il modo d’essere del comunismo italiano, il modo italiano di essere comunisti.

I tentativi di elaborazione teorica e culturale, così come i programmi politici o la strategia delle alleanze, costituiscono in questo quadro un aspetto del tutto secondario e irrilevante, che infatti viene regolarmente manipolato e persino rovesciato a seconda delle convenienze tattiche e delle opportunità che si presentano. Come i Gesuiti, anche i comunisti in nome della causa e a fin di bene possono stringere qualsiasi alleanza, sottoscrivere qualsiasi dichiarazione di principio, interpretare in qualsiasi modo qualsivoglia testo o documento ufficiale, e mutare qualsiasi opinione nella contraria.

Se ne accorse con ilare chiarezza Luigi Barzini all’inizio degli anni Sessanta: “Gramsci non visse quanto bastava per vedere persino il suo piccolo ed eroico partito trasformato, dopo l’ultima guerra, in un’ennesima e vasta associazione all’italiana di mutua assistenza, diretta solo vagamente dall’ortodossia ideologica, e soprattutto da un agile senso tattico di adattamento.”

Il cattocomunismo costruisce il suo equilibrio vincente mediando con furba sapienza fra ideologie vagamente (o espressamente) totalitarie, antindividualiste e antimoderne, e pratiche consociative, compromissorie, lottizzatrici, immobiliste. E quando comunisti e democristiani finalmente si incontreranno per fare un governo insieme – in pompa magna nel 1976, come reduci scampati ad una guerra termonucleare nel 1996 –, il risultato sarà il mesto incontro di due conservatorismi, che spengono sul nascere ogni speranza di rinnovamento, rinunciano alla sfida della modernizzazione, rapidamente ripiegano nella gestione feudale dell’esistente, e infine crollano nell’impopolarità generale.

Non dev’essere un caso se le due vere novità della storia politica repubblicana – Bettino Craxi e Silvio Berlusconi – acquistano, ciascuno a modo suo, centralità politica e culturale proprio all’indomani del fallimento dei due soli governi cattocomunisti – guidati rispettivamente da Giulio Andreotti e da Romano Prodi – che l’Italia abbia mai avuto.

Intorno a questo nucleo ideologico a doppio strato – il sol dell’avvenire e la consociazione –, il Pci di Togliatti costruì rapidamente una vera e propria Italia alternativa: ovvero, per usare un’espressione più comune, un radicato sistema di potere che sopravvive ancor oggi. Case editrici, riviste, produzioni cinematografiche, giornali, festival e rassegne, università e fondazioni: il mercato della cultura italiana divenne ben presto controllato quasi esclusivamente dai comunisti.

Colpa, certo, di una Dc disattenta al “culturame” e concentrata esclusivamente – e profeticamente – sul ministero della Pubblica istruzione, che non lascerà mai per cinquant’anni, e sul nascente mezzo televisivo, che dominerà fino alla fine degli anni Settanta. Ma, soprattutto, merito di una scelta strategica lungimirante, di cui va dato atto a Togliatti.

Il fatto è che questa scelta – l’egemonia del Pci sulla cultura italiana – ha finito col perpetuare, in forme sempre più devastanti, la tradizionale arretratezza dei nostri intellettuali, sostanzialmente tagliati fuori dal pensiero contemporaneo più vivace, e prigionieri invece di una vulgata crociano-gramsciana che li ha sempre più allontanati da quanto di nuovo e importante accadeva nelle università e sulle riviste straniere. O forse vale l’inverso: proprio perché arretrati, i nostri intellettuali sono diventati en masse comunisti. Di certo, il nostro zdanovismo è stato provinciale, conservatore e impregnato di idealismo: per questo oggi non esiste una cultura di sinistra in Italia, ma soltanto un suo sistema di potere culturale.

Egemonia culturale in Italia ed egemonia politica sulla sinistra procedono di pari passo, e ben presto definiscono il ruolo del Pci nel Paese. Sono queste le due cause della mancanza, caso unico in Europa, di una sinistra moderna, riformista, socialdemocratica. Ogni volta che s’è presentata l’occasione riformista – dalla scissione socialdemocratica di Saragat del ’47 alla crisi del ’56 seguita all’invasione sovietica dell’Ungheria, dal primo centro-sinistra degli anni Sessanta al Psi di Craxi degli anni Settanta e Ottanta – il Pci si è sempre schierato fermamente all’opposizione, ha boicottato in ogni modo e con tutti i mezzi la novità politica e culturale che si andava profilando, e così comportandosi, in virtù della sua forza, l’ha condannata presto o tardi alla sconfitta.

È la posizione ostruzionistica del Pci, rilevante tanto per la mole elettorale e organizzativa quanto per la costanza nel tempo, ad aver fatto fallire ogni tentativo di costruire in Italia una cultura e una politica riformiste. Da Saragat a Craxi, nessuno è sopravvissuto al corpo morto della “diversità”. Che, per una crudele ironia della storia, il Pci morente seppe brandire anche contro se stesso: quando nel 1989 cade il Muro di Berlino, Occhetto infatti scioglie il Pci continuando a difenderne la diversità e l’originalità rispetto al “socialismo reale”, sbarrando la strada al riformismo con il pretesto che in Italia fosse “craxiano”, e tornando al mito di una nuova “terza via” che avrebbe dovuto andare “oltre” le tradizioni socialdemocratiche europee – salvo poi, nell’azione politica concreta, accodarsi ai giudici e alle inchieste di Mani Pulite nella speranza di cavarne quel vantaggio politico che le urne erano reticenti ad affidargli.

Il risultato è che ancora oggi, vent’anni dopo la “svolta” di Occhetto, nessuno sa che cosa sia e che cosa voglia il Partito democratico, che della lunga agonia del Pci è l’ultima, fatiscente incarnazione.

***

Così la sinistra si ritrova oggi minoranza nel proprio stesso elettorato, tradisce quotidianamente i propri ideali libertari sposando la lugubre causa giustizialista, alimenta un sistema di potere sempre più asfittico, non riesce a venire a capo di un dilemma – se essere “riformisti” o “radicali” – che il resto del mondo ha archiviato mezzo secolo fa, è felicemente e consapevolmente prigioniera della conservazione, detesta gli italiani che continuano a non votarla, e quando non diffida della modernità ne imita malamente gli aspetti più volgari.

In altre parole, la sinistra in Italia non esiste. E se non ci fosse Berlusconi, non saprebbe neppure come riempirsi le giornate. (the Front Page)

Beato globalizzazione. Davide Gicalone

Non sono abilitato ad avere opinioni sulla beatificazione di Karol Wojtyla. L’intero procedimento, il suo esito e la sua finalità hanno a che vedere con la fede. Leggo che della santità di Giovanni Paolo II si cominciò a parlare già al conclave chiamato ad eleggere il suo successore, bruciando i tempi previsti, per decisioni di questo genere. Non altrettanto velocemente si sono mossi gli storici, che dovranno occuparsi della figura politica e culturale di Wojtyla, del suo passaggio nella storia di noi tutti. Senza timori reverenziali, naturalmente, senza porsi problemi di santità, ma anche senza sottovalutazioni. Perché quello del polacco è stato un papato globale, con esiti ed effetti ben al di là del mondo religioso.
E’ stato il pontefice della globalizzazione, perché è stato il capo della chiesa che non ha esitato a schierarla in modo da compromettere l’equilibrio del blocco sovietico, quindi, poi, della guerra fredda. Non ci sarebbe mai stata globalizzazione senza la fine di quel conflitto politico, ereditato dalla chiusura della seconda guerra mondiale, e non ci sarebbe mai stato il suo esaurimento senza il crollo dell’impero comunista. Wojtyla è uno dei padri di questo processo. Non il solo, ma uno di loro.

Non era una scelta affatto scontata. Chi crede che il capo della cattolicità non potesse che trovarsi in contrasto con l’incarnazione storica del comunismo, ateo per definizione, sconosce totalmente la storia vaticana. I proclami papali contro il comunismo, fino alla scomunica, non sono mai mancati, ma neanche una politica d’attenzione e rispetto. Agostino Casaroli, segretario di stato, ne è stato a lungo un interprete. E, del resto, le due dottrine avevano una cosa in comune: l’avversione al mercato, l’identificazione del male nel profitto, il giudizio negativo circa la ricerca della ricchezza, la condanna dei consumi.

L’elezione di un polacco, succeduta alla breve (e non del tutto chiara) parentesi di Albino Luciani, non è stata solo la rottura di una continuità italiana, che durava da 455 anni, ha rappresentato anche un cambio di rotta nella politica estera, quindi nel ruolo globale dell’ecclesia. Anche Giovanni Paolo II non fece mancare le sue parole di fuoco contro il capitalismo e il consumismo, ma lavorò contro i suoi avversari storici. La sua radice polacca prevalse, come la sua determinazione nell’affermare la libertà religiosa sopra ogni cosa. Prevalse sui fitti intrighi vaticani, sul fatto che la segreteria di stato fosse stata penetrata da agenti dell’est. Prevalse sui ricatti per gli affari finanziari, mentre noi, ancora oggi, non sappiamo se e a quale dei due filoni si deve la vicenda di Emanuela Orlandi. E prevalse anche sulle spinte teologiche favorevoli all’alleanza anticapitalista, che specie nel continente latino americano avevano preso piede, sotto il suggestivo, ma mendace, nome di “teologia della liberazione”. Wojtyla non si lasciò deviare da quella che aveva scelto come la sua strada, e se è vero che seppe parlare alle masse, in ogni parte del pianeta, non per questo si piegò mai alle richieste, ai luoghi comuni e alle omologazioni dei mezzi di comunicazione. Li usò, ma non si fece usare.

Passata la stagione, tutta europea, dell’ostpolitk, cadute le illusioni della “distensione”, dopo lo schieramento sovietico dei missili SS20, puntati sull’Europa, e il contro schieramento dei Pershing e Cruise (che travagliarono il mondo politico dei Paesi più esposti all’influenza comunista, l’Italia e la Germania Federale, con la fondamentale e benefica decisione che, da noi, si deve a Bettino Craxi e Giovanni Spadolini), il pontefice polacco trovò un naturale partner in Ronald Reagan. I due erano assai diversi, ma su un punto si ritrovarono: il futuro poteva essere pensato anche senza l’Unione Sovietica. La storia confermò quell’ipotesi.

Sulla via della globalizzazione, del considerare il pianeta un unico mondo, quindi anche un unico mercato, c’era un ulteriore ostacolo, con il quale ancora facciamo i conti: il fondamentalismo religioso. Le abbattute frontiere dell’ideologie potevano e possono essere riedificate quali frontiere del fondamentalismo. Wojtyla vide questo pericolo e, a costo di far venire il mal di pancia a non pochi membri delle proprie gerarchie, avviò i dialoghi interreligiosi. Non solo si recò in sinagoga, non solo entrò nella moschea, ma convocò le giornate di comune preghiera, che si tennero ad Assisi. Quello che ora la chiesa proclama santo avrebbe rischiato, da sacerdote meno quotato, un processo per eresia. Quel che gli premeva, credo, non era far scemare le differenze, ovviamente permanenti, fra le diverse religioni monoteiste, quanto il marcare la differenza netta fra loro e il fanatismo che vede nel diverso da sé il male del mondo, quindi il nemico da convertire o cancellare.

Seguì la sua politica, che per i credenti è la sua missione di pastore, senza oscillazioni, ma anche con realismo e costante attenzione alle forze in campo. E’ indubbio che a guidarlo fosse la fede, ma è altrettanto indubbio che per guidare tenne sempre gli occhi alla strada, senza nulla concedere all’astrazione. Certe scelte, dalla politica dello Ior all’atteggiamento verso il diffondersi della pedofilia nelle diocesi statunitensi, possono essergli rimproverate. Ma è singolare che lo faccia chi predilige la lettura materialistica e storica, che non dovrebbe mai smarrire la cruda valutazione delle forze in campo.

Per i fedeli, adesso, Wojtyla è un santo. Per tutti gli altri un protagonista dell’ultima parte del secolo scorso. Quella che ha archiviato le conseguenze di due conflitti mondiali, fatto sparire un impero ideologico e aperto i mercati alla globalizzazione. Poi è iniziata una storia diversa, nella quale siamo immersi.