giovedì 31 dicembre 2009

L'irripetibile congiunzione astrale delle riforme. Luca Ricolfi

Con la fine del 2009 si chiude il peggior anno dalla fine della Seconda Guerra mondiale, non solo in Italia ma in tutte le economie sviluppate. Difficile dire se, quando e come ne usciremo sul piano economico, perché dipenderà poco da noi e molto dal resto del mondo. Sul piano politico, invece, qualcosa si riesce a intuire fin da ora.

A prima vista si direbbe che, dopo l'aggressione a Berlusconi, qualcosa stia cambiando nel clima politico generale, che gli inviti alla ragionevolezza e al rispetto reciproco qualche risultato lo stiano ottenendo. Si riparla di «riforme condivise» e qualcuno, forse immemore degli innumerevoli fallimenti passati, si spinge persino a parlare di «legislatura costituente», auspicando che - finalmente - destra e sinistra riescano a mettersi d'accordo sulle regole del gioco: poteri del premier, assetto istituzionale, rapporti fra politica e giustizia, legge elettorale.

E tuttavia l'aggressione al premier non è, a mio parere, la ragione principale per cui la politica, in questi ultimi scampoli del 2009, sta mostrando un volto più civile. La ragione di fondo è che l'Italia, per la prima volta da oltre 30 anni, sta per entrare in una congiuntura astrale specialissima e difficilmente ripetibile: un triennio senza elezioni di portata nazionale, e dunque senza micidiali occasioni di contrapposizione e di scontro. Gli appuntamenti elettorali con valenza politica nazionale sono infatti solo di tre tipi: le elezioni politiche, le elezioni regionali, le elezioni europee. Ebbene, noi ci siamo appena lasciati alle spalle sia le elezioni europee (nel 2009) sia le elezioni politiche (nel 2008) e fra meno di tre mesi, ossia alla fine del prossimo mese di marzo, ci saremo lasciati alle spalle anche le elezioni regionali. Dopo il 21 marzo 2010, quando rinnoveremo la maggior parte dei consigli regionali, per oltre tre anni la politica italiana sarà del tutto priva di test elettorali nazionali: un’occasione unica per iniziare un confronto politico non inquinato dall’obbligo di litigare in vista delle prossime elezioni.

Che cosa succederà dunque a partire dal 2010?

Fino al 21 marzo 2010, data dello scontro per le Regionali, possiamo star certi che non succederà nulla di significativo. I partiti torneranno a combattersi più o meno aspramente, il governo non rivelerà in quali regioni intende costruire le centrali nucleari, il federalismo resterà ibernato come lo è rimasto in tutta questa prima parte della legislatura. Poi, però, a partire dalla primavera del nuovo anno, cominceremo a vedere le carte dei giocatori in campo. La maggioranza, che finora ha navigato a vista e non ha certo grandi risultati da esibire, dovrà usare i tre anni che le rimangono per convincere gli italiani a confermarle la fiducia che le hanno finora concesso. La Lega, in particolare, non può permettersi di arrivare al 2013 senza qualche prova tangibile che il federalismo dà i suoi frutti: meno tasse, servizi migliori, più crescita. Quanto all'opposizione, finora anch’essa ha navigato a vista, ed è impensabile che si presenti all'appuntamento del 2013 senza un profilo assai più chiaro di quello di oggi. Se Bersani non dovesse riuscire in un simile compito, le uniche chance della sinistra di tornare al governo risiederebbero nel fallimento del centro-destra e nella stanchezza degli elettori, una ben triste prospettiva per tutti noi.

L’immobilismo, dunque, non serve né agli uni né agli altri. Questo però non basta a garantire che qualcosa si muoverà. Lo scenario più verosimile, a mio parere, è che le divisioni interne ad entrambi i campi paralizzino sia il governo sia l'opposizione. A sinistra l'ossessione di «farla pagare» a Berlusconi renderà difficile il confronto anche sulle cose su cui un accordo sarebbe possibile, ossia su alcune regole del gioco e su tutte le più importanti riforme economico-sociali. E’ strano che se ne parli così poco, ma già oggi maggioranza e opposizione dialogano (o hanno dialogato) sulla riforma della Pubblica amministrazione, sul federalismo, sull’Università, sui nuovi ammortizzatori sociali, sulle pensioni (è di questi giorni una proposta comune Pd-Pdl, a firma Cazzola e Treu). E sulle regole del gioco l'unico ostacolo veramente insormontabile sono le leggi ad personam (legittimo impedimento e «lodo Alfano costituzionale»), che la destra non sembra disposta ad abbandonare e la sinistra non sembra disposta a stralciare da tutto il resto.

A destra la tentazione di far da soli è sempre molto forte, anche se si presenta talora in vesti curiose. Marcello Pera, ad esempio, qualche giorno fa ha duramente criticato la dottrina delle «riforme condivise», e ha contrapposto ad essa il progetto di fare finalmente - a colpi di maggioranza - la «rivoluzione liberale» promessa da Berlusconi fin dal 1994 e mai attuata né allora, né nel 2001-2006, né oggi. L'ex presidente del Senato, tuttavia, non ci spiega come mai tale rivoluzione non sia mai stata attuata, né perché proprio ora il centro-destra dovrebbe trovare la determinazione che gli è sempre mancata finora.

Una possibile risposta a questa domanda è che i fautori di una rivoluzione liberale sono minoranza sia nel centro-destra sia nel centro-sinistra. In entrambi gli schieramenti la tentazione egemone, quella che finora ha prevalso, è stata sempre quella di aumentare l'interposizione pubblica - tasse, spesa, deficit pubblico - in modo da rafforzare il potere discrezionale della politica. Si può ritenere che, anche alleandosi fra loro, i liberali dei due schieramenti peserebbero comunque troppo poco, così come si può paventare che siano gli elettori stessi a preferire le promesse di protezione ai rischi di una autentica rivoluzione liberale, che valorizzasse il merito e la responsabilità individuale. Ma è lecito dubitare che una simile rivoluzione il centro-destra sarebbe in grado di attuarla senza una sponda sul versante del Partito democratico, che dopotutto come segretario ha appena eletto Bersani, il più liberale fra i suoi uomini che contano.

Come cittadino, mi auguro naturalmente che i due schieramenti si mettano d'accordo sulle regole del gioco. Ma ancora di più mi auguro che, anziché continuare a delegittimarsi a vicenda, approfittino della miracolosa congiunzione astrale che ci attende - tre anni senza elezioni - per competere fra loro nel compito che entrambi assegnano a se stessi, quello di rendere l'Italia di domani un po’ più moderna e più libera dell'Italia di oggi. (la Stampa)

martedì 29 dicembre 2009

Odio da fantozziani. Giuliano Ferrara

I faticoni dell’odio ci si mettono d’impegno. Si riuniscono e decidono di costruire un grattacielo di cartapesta, in cima al quale fissano una gigantografia di Silvio Berlusconi con la faccia insanguinata. Poi sfilano nel freddo e cantano le nenie solite, sicuri del fatto loro, uniti intorno al totem.

Altri introducono avventurosamente nello stadio striscioni con scritte cubitali inneggianti all’eroismo e alle virtù di Massimo Tartaglia, il deficiente (sarà permesso dire pane al pane…) che ha sfasciato il grugno del presidente del Consiglio con un Duomo d’alabastro, poi ha detto di averlo fatto perché lo odia, poi di essersi pentito, poi di ammirare Antonio Di Pietro e infine di «voler vivere senza televisione» (e così la sua ossessione è rivelata appieno).

Bisogna specificare bene un’evidenza, a scanso di equivoci. La psicologia dell’odio può avere una sua maestà, una sua dignità fosca e terribile, e d’altra parte le guerre civili sono state forze motrici nella storia, per quanto sangue e per quanta crudeltà abbiano generato, ma non è questo il caso. Qui siamo a un livello decisamente più basso. L’odio verso Berlusconi nell’Italia contemporanea ha il timbro del riflesso condizionato, della stupidità a comando, di un ribollente crogiolo di emozioni farlocche macerate nel succo dell’ideologia e dello spirito di branco.

Di più. Il pubblico in quanto tale, che si tratti di un talk show, di un reality, di un festival di letteratura, della rubrica delle lettere ai giornali, del blogger collettivo online, il pubblico in quanto tale tende a qualificarsi come soggetto largamente inferiore all’individuo demassificato, solidale ma solitario, intellettualmente ed emotivamente autonomo. Il pubblico, diciamocelo senza indulgenza, è per sua natura un po’ scemo.

Si può essere molto stupidi anche quando si ama collettivamente, quando si venera o si adora l’Indispensabilità di un carisma. Ma nel caso in questione bisogna fare due conti. Odio e amore sono in qualche misura prodotti dello scambio, in ogni caso non possono essere giudicati solo con il metro della gratuità, qualcosa deve passare tra chi odia e chi è odiato, tra chi ama e chi è amato.
Chi ama Berlusconi, per esempio, delle ragioni le ha: l’uomo ha fornito tre canali generalisti gratuiti all’intrattenimento familiare, giovanile, alla satira, alla chiacchiera, all’immaginazione emotiva dei consumatori di fiction, rompendo il monopolio Rai di un’Italia un po’ plumbea, in bianco e nero; eppoi ha procurato all’orgoglio pallonaro un inverosimile numero di coppe e trofei nel mondo appassionato del calcio italiano e internazionale; eppoi in politica ha provocato nientedimeno che l’alternanza di forze diverse alla guida dello Stato, costituzionalizzando leghismo ribelle e secessionista, integrando i fratelli separati della storia civile del Novecento, i neofascisti che con lui diventano postfascisti, antifascisti e ora con il nuovo Gianfranco Fini campioni di repubblicanesimo perfetto.

Non è poco, per tralasciare tante altre cose e cosette, compresi i suoi modi, la sua sincerità di riccone e di generoso, il suo talento liberale naturale, il suo sorriso, la bonomia, ma anche le scenatacce, le incursioni ardite in ogni campo, e perfino le celebri, portentose gaffe senza le quali ci annoieremmo tutti mortalmente.
A odiare Berlusconi che cosa ci si guadagna, a parte il fremito e il parossismo che ogni odio gratuito comporta? Niente. Le ragioni sono fiacche.

Sono legate a una versione favolistica della sua personalità, una versione nera, intrattabile, che non ha radici nella realtà percepibile. Bisogna credere ciecamente nei sottofondi della storia, nella doppiezza di tutto quel che si vede, e bisogna pensare che tutto il mondo di Berlusconi sia inquinato dalla cattiveria. Bisogna, in una parola, essere «fantozziani», invidiosi di un Paese che non si conosce e che non ti conosce; bisogna essere larve sentimentali, fascine che prendono fuoco in modo grossolanamente sproporzionato. Bisogna essere esageratamente fantozziani, per odiare Berlusconi. Mediocri. (Panorama)

lunedì 28 dicembre 2009

Vietnanistan. Davide Giacalone

L’Afghanistan, fanno dire i talebani a Bowe Bergdahl, giovane militare statunitense da loro rapito, si sta trasformando nel Viet Nam. Intendono dire: non vincerete mai, resterete infognati nella guerra, vi dissanguerete fin quando sarà il vostro popolo a chiedervi di smettere, perché incapace di comprendere la ragione del conflitto. A parte ogni altra considerazione, noi italiani non c’eravamo, in Vietnam, qui sì. Non solo ci siamo, ma siamo i terzi, in ordine di consistenza militare, e dopo la decisione di rafforzare le truppe, presa dagli alleati, ma fortemente voluta dal presidente americano, siamo i secondi, dato che i rinforzi italiani sono di gran lunga superiori a quelli inglesi. Ci riguardava anche il Vietnam, ma l’Afghanistan ci riguarda di più.
Una prima considerazione: sui giornali italiani, e spesso nelle dichiarazioni di politici che parlano senza preoccuparsi di pensare, si legge e rilegge che il rapporto fra italiani ed americani si stia logorando, a causa delle nostre relazioni con i russi ed i libici. Il dato che ho appena citato depone in senso opposto. Ma, a volere ragionare, anche sul resto c’è da ridire: senza un buon rapporto con i russi l’Afghanistan sarebbe una trappola peggiore, come lo fu per loro, quando vi combattevano, sfidando anche l’occidente. C’è una lotta aperta, dietro le mura del Cremlino, e c’è l’uso politico del gas, con cui i russi stanno comprando una parte della politica europea, ma guai a dimenticare che a noi quel gas serve, ed all’occidente serve la collaborazione russa. In quanto alla Libia, era assai più imbarazzante il rapporto di sudditanza con i fanatici ed aggressivi teocrati iraniani, che non l’accondiscendenza nei confronti di “er monnezza”. E sempre di petrolio si parla. Sono terreni difficilissimi, che meritano meno fretta e più ponderazione. Le stelle polari restano due: le relazioni con gli Usa e con Israele. Fin qui, va bene così.
Il Vietnam fu una guerra giusta, voluta da Kennedy e dai democratici (come Obama), per avvertire il comunismo che l’occidente non si sarebbe fatto sfilare fette di mondo. La sfida non fu esclusiva, ma in quella ex colonia francese fu mortale. Gli americani combattevano con una mano legata dietro la schiena, rinunciando alle armi più potenti. In compenso usavano il napalm, con l’orrore conseguente. Non erano padroni del territorio, dovendo procedere anche contro i villaggi. I khmer rossi non erano combattenti per la libertà, ma soldati di una dittatura genocida. Nuotavano nelle loro acque, purtroppo, che non si potevano né avvelenare né prosciugare. Alla lunga, la durezza e la crudeltà della guerra (non ne esistono, di umanitarie), consigliarono un presidente repubblicano, Nixon, di porre fine alla faccenda, abbandonando quella gente al proprio massacro nazionale. La sinistra, in particolar modo quella europea, festeggiò. Ancora oggi mi domando se abbiano capito qualche cosa, di quel che successe.
L’Afghanistan si trova in un contesto differente, ma vi sono anche somiglianze. Non c’è la guerra fredda, ma c’è il confronto geostrategico con la Russia e quello economico e commerciale con Cina ed India. Quest’ultimo Paese è avversario del Pakistan (entrambe potenze nucleari), la cui collaborazione è per noi indispensabile in Afghanistan.
In più ci sono gli iraniani, che detestano i talebani, per ragioni religiose, ma li vedrebbero volentieri vincitori, per ragioni strategiche. Si combatte su fronti diversi, non omogenei.In più, non utilizziamo tutte le armi, perché quando si parte per una guerra “buona” si cerca di non essere troppo cattivi, sicché ai talebani è permesso quel che fu ieri permesso ai khmer: utilizzare la popolazione civile come strumento mimetico e come scudo.
La guerra nacque, opportunamente, quando si volle chiarire, in via definitiva, che non era possibile utilizzare stati canaglia, fanatizzati dall’islam ed arricchiti dalla droga, per sferrare attacchi contro le democrazie. Fu cosa giusta. Una guerra di questo tipo non si può perdere, perché, in quel terribile caso, sarebbero indeboliti tutti i governi islamici dialoganti con l’occidente, a tutto vantaggio dei fondamentalisti. Ma, per vincerla, occorre accettarne le peggiori regole.
Obama, in campagna elettorale, solleticò le voglie di chi vuol vedere i ragazzi tornare a casa e vuol smettere di spendere soldi per portare la democrazia in un Paese che non la conosce e non sa usarla. Che se la vedano loro, pensano in molti. Ma, divenuto presidente, Obama fa l’esatto contrario. E non ha scelta, perché quella guerra non è affar loro, ma nostro. Ci fanno sapere che sta diventando il Vietnam? Bé, cerchiamo di comprendere il messaggio e di evitare gli errori di allora, ricordando che, per le democrazie in guerra, c’è un fattore fondamentale: il tempo. La guerra deve chiudersi prima che i popoli dimentichino perché è iniziata. Solo così, possiamo vincere.

domenica 27 dicembre 2009

Moretti è bravo. L'arroganza è figlia del monopolio. Alberto Mingardi

È passato qualche giorno, è piovuto, siamo tornati alla normalità, e possiamo finalmente parlare di lui con la dovuta calma. Per lui s’intende Mauro Moretti. Il più mussoliniano dei manager di Stato, e non solo perché la sua missione della vita è fare arrivare i treni in orario. Mussoliniano perché quest’uomo, al culmine della tragedia delle ferrovie, s’è alzato, è uscito sul balcone, s’è piantato le mani sui fianchi, e ha urlato alla folla vociante: ringraziate se arrivate a destinazione. Portatevi un panino e una copertina. Se nevica, non è colpa mia. In sintesi: non rompete i coglioni.

Personalmente, sono convinto che lo sfogo di Moretti rientri in una categoria ben precisa. Quella di chi da giorni si sente di fare il possibile e oltre, e quando a un certo punto viene messo al muro dalle critiche, perde la brocca e si concede un vaffa. Moretti è un manager capace, che conosce il settore in cui opera e nello stesso tempo è bravissimo a imboccare i media e l’establishment, come ha fatto giocando sui tempi del Freccia Rossa. Giulio Andreotti, con la solita fulminante battuta, disse una volta a Pietro Nenni che i matti nei manicomi erano di due razze: quelli che si credevano Napoleone, e quelli che ambivano a ripianare i bilanci delle Ferrovie. Moretti, nella lunga storia dei gestori che si sono avvicendati al timone dei uno dei più perniciosi ed inefficienti monopolisti italiani, è l’Homo Sapiens che segue una genia di neanderthaliani. Fra l’altro, è anche simpatico. Efficiente come un very powerful CEO, introdotto come un sindacalista, accattivante come un lobbista, non c’è da stupirsi se i giornali in questi giorni non abbiano giocato a freccette con la sua testa. Come sarebbe stato il caso.

Ve l’immaginate, un manager di un’industria dolciaria - poniamo: della Ferrero - che davanti ad un coro di proteste dei consumatori per una partita di Ferrero Rocher difettosi e finiti comunque in negozio, risponde con la cravatta ben annodata e il capello in ordine: ma andatevene a quel Paese?No che non ve l’immaginate. Ludwig von Mises, forse il più grande economista del Ventesimo secolo, amava parlare di “sovranità del consumatore”. Milton Friedman descriveva l’economia come di un contesto nel quale si vota ogni giorno, in ogni momento: e gli elettori sono i consumatori. Ma perché i consumatori possano votare, non deve esserci un partito unico.

Il problema dei treni è precisamente questo. A tutti i pendolari italiani è ora limpidamente chiaro che viaggiamo (se ci va bene) sulla strada ferrata per gentile concessione del signor Moretti. Noi non acquistiamo un biglietto: siamo ospiti paganti. Il manager della Ferrero avrebbe chiesto scusa in cinese, e regalato all’universo mondo dei consumatori che, a torto o a ragione, si sentivano ingiuriati, Nutella a iosa. I viaggiatori italiani si sono presi cartellate in faccia dai compagni di sventura, hanno macinato chilometri battendo i denti, quelli che potevano si sono ingegnati diversamente, altrimenti hanno inghiottito i ritardi senza colpo ferire. Solo il Ministro Matteoli ha avuto per loro parole di conforto (grazie).

Moretti è un bravo manager - e non è responsabile della sua arroganza. La sua è l’educazione del monopolista. Quello che mangi questa minestra, o buttati pure dalla finestra. Il manager della Ferrero con una rispostaccia farebbe un danno al suo azionista, e rischierebbe il posto. Guai a mettere a repentaglio la reputazione dell’impresa per cui lavora. La reputazione dell’azienda di Moretti è ai minimi termini per definizione. Ci sono tre cose certe nella vita: la morte, le tasse, e il fatto che le ferrovie facciano schifo. È vero in quasi tutti i Paesi, ed è per questo che quando sull’Eurostar da Milano a Roma una vocina ci annuncia che "su questo treno è al lavoro un addetto per la pulizia delle toilettes" non ci viene da ridere. Perché sui treni, diversamente che al ristorante o in casa di amici, che i cessi non siano sporchi non è cosa che si possa dare per scontata.

Alle Ferrovie non serve un nuovo manager. Serve più concorrenza, serve una rete autenticamente indipendente, che faccia tariffe eque anche ai nuovi, eventuali competitori. E serve che si spuntino all’incumbent le unghie in modo che, quando una Regione (per esempio, il Piemonte) decide di ricorrere ad altri, aprendo trasparentemente le gare per il servizio locale, non si insinui che “ha messo all’indice” le FS (intervista di Moretti a Paolo Baroni, sulla Stampa del 19 dicembre) perché traguarda le elezioni.

In un’analisi per l’IBL, un giovane studioso di trasporti, Claudio Brenna, ha fatto una stima interessante. Oggi Trenitalia considera redditizio un servizio con una domanda media di 215 passeggeri a treno. “In uno scenario concorrenziale”, per Brenna, “a parità di prezzi attuali, ovunque ci sia una domanda media di almeno 126 passeggeri ci sarà almeno un'impresa che voglia effettuare servizio senza chiedere un euro allo Stato”. Per carità, l’onere della prova sta ai futuri new comers. Però, sostiene Brenna, l’inefficienza che si è accumulata in tanti anni di cattiva gestione crea interstizi in cui altri possono fare efficienza e provare a fare profitti, stando in piedi sul mercato. La performance delle Ferrovie sotto la neve è la prova provata che il monopolio nuoce anche al monopolista. A Moretti per essere ancora più bravo (e più gentile) serve un po' di ansia da prestazione, del genere che solo un concorrente privato puo' garantire. (il Riformista)

mercoledì 23 dicembre 2009

Le cosiddette leggi "ad personam" di Berlusconi

Dal blog del "no Berlusconi day", riporto il post con l'elenco delle leggi ad personam del "dittatore" Berlusconi.
Come è facile capire il modo di presentarle è interessato, incompleto, malizioso e fuorviante: lascio alla sensibilità del lettore il giudizio e spero che i responsabili del Pdl si decidano a spiegare- ed eventualmente difendere- queste leggi che hanno voluto e votato.

Qui di seguito tutte le leggi approvate dal 2001 ad oggi dai governi di centrodestra che hanno prodotto benefici effetti per Berlusconi e le sue società.

1 Legge n. 367/2001. Rogatorie internazionali. Limita l'utilizzabilità delle prove acquisite attraverso una rogatoria. La nuova disciplina ha lo scopo di coprire i movimenti illeciti sui conti svizzeri effettuati da Cesare Previti e Renato Squillante, al centro del processo "Sme-Ariosto 1" (corruzione in atti giudiziari).

2 Legge n. 383/2001 (cosiddetta "Tremonti bis"). Abolizione dell'imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni. (Il governo dell'Ulivo l'aveva abolita per patrimoni fino a 350 milioni di lire).

3 Legge n.61/2001 (Riforma del diritto societario). Depenalizzazione del falso in bilancio. La nuova disciplina del falso in bilancio consente a Berlusconi di essere assolto perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato" nei processi "All Iberian 2" e "Sme-Ariosto2".

4 Legge 248/2002 (cosiddetta "legge Cirami sul legittimo sospetto"). Introduce il "legittimo sospetto" sull'imparzialità del giudice, quale causa di ricusazione e trasferimento del processo ("In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice"). La norma è sistematicamente invocata dagli avvocati di Berlusconi e Previti nei processi che li vedono imputati.

5 Decreto legge n. 282/2002 (cosiddetto "decreto salva-calcio"). Introduce una norma che consente alle società sportive (tra cui il Milan) di diluire le svalutazioni dei giocatori sui bilanci in un arco di dieci anni, con importanti benefici economici in termini fiscali.

6 Legge n. 289/2002 (Legge finanziaria 2003). Condono fiscale. A beneficiare del condono "tombale" anche le imprese del gruppo Mediaset.

7 Legge n.140/2003 (cosiddetto "Lodo Schifani"). E' il primo tentativo per rendere immune Silvio Berlusconi. Introduce ildivieto di sottomissione a processi delle cinque più altre cariche dello Stato (presidenti della Repubblica, della Corte Costituzionale, del Senato, della Camera, del Consiglio). La legge è dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 13 del 2004.

8 Decreto-legge n.352/2003 (cosiddetto "Decreto-salva Rete 4"). Introduce una norma ad hoc per consentire a rete 4 di continuare a trasmettere in analogico.

9 Legge n.350/2003 (Finanziaria 2004). Legge 311/2004 (Finanziaria 2005). Nelle norme sul digitale terrestre, è introdotto un incentivo statale all'acquisto di decoder. A beneficiare in forma prevalente dell'incentivo è la società Solari. com, il principale distributore in Italia dei decoder digitali Amstrad del tipo "Mhp". La società controllata al 51 per cento da Paolo e Alessia Berlusconi.

10 Legge 112/2004 (cosiddetta "Legge Gasparri"). Riordino del sistema radiotelevisivo e delle comunicazioni. Introduce il Sistema integrato delle comunicazioni. Scriverà il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi: "Il sistema integrato delle comunicazioni (Sic) - assunto dalla legge in esame come base di riferimento per il calcolo dei ricavi dei singoli operatori di comunicazione - potrebbe consentire, a causa della sua dimensione, a chi ne detenga il 20% di disporre di strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di posizioni dominanti".

11 Legge n.308/2004. Estensione del condono edilizio alle aree protette. Nella scia del condono edilizio introdotto dal decreto legge n. 269/2003, la nuova disciplina ammette le zone protette tra le aree condonabili. E quindi anche alle aree di Villa Certosa di proprietà della famiglia Berlusconi.

12 Legge n. 251/2005 (cosiddetta "ex Cirielli"). Introduce una riduzione dei termini di prescrizione. La norma consente l'estinzione per prescrizione dei reati di corruzione in atti giudiziari e falso in bilancio nei processi "Lodo Mondadori", "Lentini", "Diritti tv Mediaset".

13 Decreto legislativo n. 252 del 2005 (Testo unico della previdenza complementare). Nella scia della riforma della previdenza complementare, si inseriscono norme che favoriscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale, a beneficio anche della società assicurative di proprietà della famiglia Berlusconi.

14 Legge 46/2006 (cosiddetta "legge Pecorella"). Introduce l'inappellabilità da parte del pubblico ministero per le sole sentenze di proscioglimento. La Corte Costituzionale la dichiara parzialmente incostituzionale con la sentenza n. 26 del 2007.

15 Legge n.124/2008 (cosiddetto "lodo Alfano"). Ripropone i contenuti del 2lodo Schifani". Sospende il processo penale per le alte cariche dello Stato. La nuova disciplina è emenata poco prima delle ultime udienze del processo per corruzione dell'avvocato inglese Davis Mills (testimone corrotto), in cui Berlusconi (corruttore) è coimputato. Mills sarà condannato in primo grado e in appello a quattro anni e sei mesi di carcere. La Consulta, sentenza n. 262 del 2009, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione.

16 Decreto legge n. 185/2008. Aumentata dal 10 al 20 per cento l'IVA sulla pay tv "Sky Italia", il principale competitore privato del gruppo Mediaset.

17 Aumento dal 10 al 20 per cento della quota di azione proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La disposizione è stata immediatamente utilizzata dalla Fininvest per aumentare il controllo su Mediaset.

18 Disegno di legge sul "processo breve". Per l'imputato incensurato, il processo non può durare più di sei anni (due anni per grado e due anni per il giudizio di legittimità). Una norma transitoria applica le nuove norme anche i processi di primo grado in corso. Berlusconi ne beneficerebbe nei processi per corruzione in atti giudiziari dell'avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset.

Abominio canonico. Davide Giacalone

L’esistenza del canone Rai è abominevole in sé, contenendo anche una truffa semantica. Ogni volta che ci si mette mano, senza volerlo cancellare, non si fa che peggiorare lo sgorbio. L’aumento, deciso dal governo, è un errore motivato con degli orrori. Temo si sopravvaluti la distrazione natalizia degli italiani e il loro oblio circa le promesse elettorali.

Non è un “canone” e non è un “abbonamento”. E’ scandaloso che porti il nome della Rai, è inaccettabile che una società per azioni ne richieda la riscossione, insolentendo i cittadini. Si tratta di una tassa. Adesso aumenta, dicono al governo, seguendo l’andazzo dell’inflazione programmata. Fatemi capire: si è combattuta una battaglia, lunga e dolosa, per togliere la scala mobile ai salari, e, adesso, il governo la offre alle tasse? Hanno scambiato la Rai per una famiglia, e siccome è cresciuto il costo della vita s’è ritenuto utile far crescere gli incassi. Bella pensata, utile solo ad impoverire le famiglie, quelle vere. Che saranno mai, 1,5 euro a testa? Sono 24 milioni sottratti ai consumi privati, alla libertà dei cittadini, e consegnati, con la forza dell’imposizione fiscale, a chi non ha saputo amministrare un business ricco, come quello televisivo. Ecco, cosa sono.

Ma non basta, perché stiamo vivendo gli ultimi giorni di un anno contrassegnato dalla recessione, quindi con un tasso d’inflazione reale inferiore a quello programmato. In altre parole: alla Rai daremo più di quel che serve per coprire l’aumento dei prezzi. Quell’azienda s’arricchisce, a spese dei cittadini.

La gnagnera è sempre la stessa, progressivamente sempre più insopportabile: i talleri servono a garantire il servizio pubblico. Quale? Quello che diffonde la cultura promuovendo l’arricchimento a botte di culo? “Scelgo il pacco sedici, la Campania” e parte la musichetta. Sarà dotata di chiappe, la signora? Mamma mia che suspense. Una volta c’era il Rischiatutto, almeno quattro cose dovevi saperle. Ora si va di pacchi. Che mi sta anche bene, perché ciascuno ha diritto di rincitrullirsi come meglio crede. Ma non a spese mie, please.

Cos’è il servizio pubblico, le trasmissioni d’informazione? L’Italia del nord è sotto la neve, c’è fame di sapere cosa succede. Non perché si temano drammi, non perché qualche giornalista sciarpato di cachemire si faccia bello raccontando dei morti di fame e di freddo, secondo il copione pulp che fa audience, ma perché, quando le comunicazioni sono difficili, le informazioni sono essenziali. E che ti fanno i telegiornali? Trasmettono una collana di dichiarazioni politiche, con ritrattini di questo e di quella, cercati con il bilancino politico e tutti atteggiati a quel che non sono: leaders. Per giunta, tutti pensosamente intenti a valutare la frase di Napolitano, circa il clima politico. Mentre il clima, fuori, gela le città. Chi è il regista, Woody Allen?

O sono servizio pubblico le trasmissioni in cui, nel nome del pluralismo, parlano solo in due, dando libero sfogo al proprio esibizionismo qualunquistico? Che se dici che ne hai le tasche piene sembri un despota che vuol farli tacere, ma, nella realtà, sono loro che ti mettono a tacere, dato che sono sempre lì, mentre tu ti sfoghi al videocitofono. Possono continuare? Certamente. Non a spese mie, please.

Invece, il governo ha deciso: siccome le loro spese non sono comprimibili, poverelli, siccome la famiglia da mantenere è assai allargata, talché non pochi sono i figli di madre legittima, né meno numerosi quelli d’ignoti, allora è la mia spesa che deve crescere, per aiutarli in questo difficile momento. Che durerà per sempre, fino a quando non si prenderà l’unica decisione accettabilmente seria: si vende la Rai e si cancella il canone.

martedì 22 dicembre 2009

L'Italia del "piove governo ladro" che non accetta le emergenze. Paolo Granzotto

Anche i più devoti adoratori di Terra Madre, anche i più zelanti ambientalisti per i quali la natura è buona, generosa e benigna chiamano questa la brutta o la cattiva stagione. Perché d’inverno fa freddo, piove e nevica: fenomeni che creano disagi e a un’umanità che ha preso gusto a vivere nell’agio le situazioni incomode poco garbano. È la nostalgia del Paradiso terrestre, dove il termometro non andava sottozero: Adamo ed Eva erano nudi come vermi e quando per via del serpente e della mela dovettero poi coprirsi, lo fecero con una foglia, mica con una palandra di lana di cammello.

Per millenni, all’arrivo dei primi freddi ci si copriva preparandosi a sopportare gli imprevisti che l’inverno comporta. Ora se cade un po’ di neve esattamente quando deve cadere, intendo dire non fuori stagione, invece protestiamo. Protestiamo e ci indigniamo. Non potendo rivolgere i nostri lai e riversare la nostra indignazione sulla Natura (che è buona, generosa e via dicendo), ce la prendiamo con lo Stato. Che non fa, che non è capace di fronteggiare l’emergenza neve o l’emergenza gelo. Due emergenze che in realtà non emergono, presentandosi inaspettate.

Da che mondo è mondo è sempre andata così: d’inverno le temperature calano, e di molto. Eppure, niente da fare: il treno che ritarda perché ci sono gli scambi bloccati dal gelo è colpa delle ferrovie, non del gelo. L’aeroporto chiuso per neve è colpa dell’autorità aeroportuale, non della neve. La scuola chiusa perché vi fa freddo non ostante la caldaia pompi al massimo, è colpa della Gelmini, non del freddo. Gente che poi s’imbarca nelle vacanze «estreme», che rimane inchiodata in una grotta per dieci giorni causa monsone o che in una sgangherata stazione eritrea aspetta venti ore la coincidenza per Massaua o che con un caldo boia si trascina nella sabbia e il bagaglio per imbarcarlo sul volo per Faya-Laregeau, non sopporta, si stizzisce se a casa propria neve o gelo ritardino un treno, determino la chiusura d’un aeroporto o mettano a repentaglio il diritto (umano) alla libera circolazione in autostrada o sulla Porrettana.

Con la cattiva stagione diventiamo tutti intolleranti, impazienti e rabbiosi. Sempre prosciogliendo da ogni addebito il clima (che pure dovrebbe virare al caldo, che pure dovrebbe desertificarci e non surgelarci, come assicura Al Gore. Ma questo è un altro discorso) ce la prendiamo e di brutto con «lorsignori». Portando sempre a riscontro della nostra inefficienza la zelante operatività, ma diciamo pure la serietà d’una Germania, d’una Francia o d’una America dove anche con la neve alta così i treni arrivano puntuali e puntuali decollano gli aerei. Dove fischiasse il vento e soffiasse pure la bufera, strade e autostrade le trovi sempre agibili e anzi, invitanti. Mentre invece anche in Finlandia, dove pure il gelo è di casa, d’inverno son dolori. Mentre perfino quello schicchissimo gioiello tecnologico del treno ad alta velocità che collega Londra con Parigi, causa «brutto» tempo s’è inchiodato nel tunnel sotto la Manica.

Lasciando al freddo e al buio una folta rappresentanza di vippissimi pendolari fra le due capitali indecisi se prendersela con la Regina o con il marito di Carlà per il deplorevole incidente. E a New York, la città più attrezzata e eccitante del mondo, basta che nevichi più di tanto e la Grande Mela va in tilt. «È l’inverno, bellezza!», sdrammatizzano laggiù. Mentre noi dell’inverno non ce ne facciamo una ragione pretendendo che i mitici «lorsignori» non solo forniscano, ma anche infilino le mutande di lana al Paese. (il Giornale)

domenica 20 dicembre 2009

L'integrazione degli islamici. Giovanni Sartori

In tempi brevi la Ca­mera dovrà pronun­ciarsi sulla cittadi­nanza e quindi, an­che, sull’«italianizzazio­ne » di chi, bene o male, si è accasato in casa no­stra. Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chia­ve di «razzismo». Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno «xenofobo», mentre chi lo gradisce è uno «xenofi­lo ». E che non c’è intrinse­camente niente di male in nessuna delle due rea­zioni.

Chi più avversa l’immi­grazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini fir­mò, con Bossi, una legge molto restrittiva. Ora, in­vece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapi­da. Chissà perché. Fini è un tattico e il suo dire è «asciutto»: troppo asciut­to per chi vorrebbe capi­re. Ma a parte questa gira­volta, il fronte è da tempo lo stesso. Berlusconi ap­poggia Bossi (per esserne appoggiato in contrac­cambio nelle cose che lo interessano). Invece il fronte «accogliente» è co­stituito dalla Chiesa e dal­la sinistra. La Chiesa deve essere, si sa, misericordio­sa, mentre la xenofilia del­la sinistra è soltanto un «politicamente corretto» che finora è restato male approfondito e spiegato.

Due premesse. Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla «integra­bilità » dell’islamico. Se­condo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall'espe­rienza. La domanda è allo­ra se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorpo­razione etico-politica (nei valori del sistema politi­co), in società non islami­che. La risposta è sconfor­tante: no.

Il caso esemplare è l’In­dia, dove le armate di Al­lah si affacciarono agli ini­zi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominaro­no l’intero Paese. Si avver­ta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi pa­ciosi, pacifici; e la maggio­ranza è indù, e cioè poli­teista capace di accoglie­re nel suo pantheon di di­vinità persino un Mao­metto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventa­re il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesi­stenza in cagnesco finisse­ro in un mare di sangue. Conosco, s’intende, an­che altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Tur­chia. Tutti casi che rivela­no un ritorno a una mag­giore islamizzazione, e non (come si sperava al­meno per la Turchia) l’av­vento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico.

Veniamo all’Europa. In­ghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritro­vano con una terza gene­razione di giovani islami­ci più infervorati e incatti­viti che mai. Il fatto sor­prende perché cinesi, giapponesi, indiani, si ac­casano senza problemi nell’Occidente pur mante­nendo le loro rispettive identità culturali e religio­se. Ma — ecco la differen­za — l’Islam non è una re­ligione domestica; è inve­ce un invasivo monotei­smo teocratico che dopo un lungo ristagno si è ri­svegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo «italianizzan­dolo » è un rischio da gi­ganteschi sprovveduti, un rischio da non rischia­re. (Corriere della Sera)

sabato 19 dicembre 2009

A Copenaghen anche i leader occidentali invocano la catastrofe. Anna Bono

Se il vertice di Copenhagen sul cambiamento climatico si conclude senza un accordo globale e definitivo, sarà la seconda volta in poche settimane che un summit internazionale delle Nazioni Unite non riesce ad andare oltre a una dichiarazione politica di intenti. Così è stato infatti del vertice FAO sulla sicurezza alimentare svoltosi a Roma dal 16 al 18 novembre che non ha prodotto nulla di propositivo per combattere la fame, ma in compenso è servito da palcoscenico ai leader di alcuni paesi che, come al solito, si sono avvicendati accusando l’Occidente di affamare il resto del mondo.

Però a Copenhagen, al contrario che a Roma, si discute e si cercano soluzioni a un problema che a quanto pare neanche esiste perché è stato inventato spacciando per previsioni delle proiezioni e delle simulazioni e falsificando e omettendo dati, come risulta dalla corrispondenza via e mail del Centro di ricerca sul clima dell’università britannica dell’East Anglia. Magari la Terra non si sta riscaldando; se e come cambierà il clima nei prossimi anni è imprevedibile, dipende essenzialmente da fattori naturali come l’attività solare; un aumento della temperatura porta benefici oltre che danni e comunque l’umanità ha migliorato costantemente la propria capacità di far fronte ai capricci della natura; oggi, come in passato, i fattori antropici hanno una rilevanza infima sul clima: queste sono affermazioni di scienziati che sempre più numerosi contestano i dati, le teorie e le previsioni degli esperti dell’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Changeil creato nel 1988 dalle Nazioni Unite.

“Signor Presidente, sul clima ha torto”: così iniziava, ad esempio, una lettera aperta indirizzata al presidente degli Stati Uniti Barack Obama firmata da 114 scienziati, alcuni dei quali premi Nobel, e pubblicata lo scorso aprile a pagamento sul New York Times. “Noi sottoscritti scienziati – si legge nella lettera – confermiamo che l’allarme sui cambiamenti climatici è grossolanamente esagerato. Con tutto il rispetto, Signor Presidente, non è vero; la sua descrizione dei fatti scientifici riguardo ai cambiamenti climatici e il livello di informazione del dibattito scientifico è semplicemente non corretta”.

Eppure nei giorni scorsi, come se niente fosse, a Copenhagen si è detto che l’aumento della temperatura deve essere contenuto con opportuni provvedimenti entro i due gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali o sarà la catastrofe, che bisogna perciò ridurre le emissioni di CO2 (rimandando ai prossimi mesi la stesura di un protocollo più dettagliato) e che i paesi più industrializzati e da più tempo sono i principali colpevoli del global warming e quindi devono risarcire quelli poveri, ingiustamente vittime di un problema che non hanno contribuito a creare.

Nella bozza della risoluzione finale si annuncia un primo stanziamento di 10 miliardi all’anno tra il 2010 e il 2012. L’importo salirà a 50 miliardi l’anno dal 2013 al 2015 e a 100 nel quinquennio successivo, con un contributo di 100 miliardi dagli Stati Uniti. Ma si tratta di cifre nettamente inferiori a quelle richieste: l’Africa da sola reclama circa 60 miliardi di dollari all’anno a partire da ora, denunciando danni da riscaldamento globale già ingenti.

Il presupposto dal quale sono partiti i rappresentanti dei 193 stati presenti al summit, quindi, è che il global warming sia senza dubbio un fenomeno reale e causato dall’uomo: checchè ne dicano scienziati e premi Nobel. I leader africani ricavano dal global warming nuovi finanziamenti e un nuovo argomento per dirottare sull’Occidente la collera dei loro connazionali in realtà ridotti in miseria dalla corruzione e dal malgoverno.

Personaggi come il presidente venezuelano Hugo Chavez e quello boliviano Evo Morales trovano nel global warming un pretesto per una nuova campagna d’avversione all’Occidente. A Copenhagen Chavez ha accusato i paesi industrializzati di distruggere il pianeta: “Viviamo sotto una dittatura imperiale – ha detto – ci sono paesi che si credono superiori a noi del Sud, del Terzo Mondo”. Morales ha esortato a cambiare il sistema capitalista, responsabile del cambiamento climatico, e ha proposto la creazione di un tribunale internazionale di giustizia climatica sotto l’egida dell’ONU. Resta incomprensibile che il presidente americano Barack Obama, il premier britannico Gordon Brown o il presidente francese Nicolas Sarkozy si comportino anche loro come se davvero restassero – per usare le parole del delegato dell’organizzazione ambientalista Greenpeace – “ormai solo poche ore per decidere o per essere ricordati come coloro che consegnarono il mondo al caos”. (l'Occidentale)

Più Valium per tutti. Peppino Caldarola

La sorpresa dell’anno è stata Gianfranco Fini. L’acidulo segretario di An non solo si è buttato un po’ a sinistra, ma si è messo a fare lo spiritoso. Secondo la mitica Velina Rossa di Pasquale Laurito, esemplare unico di giornalismo corrosivo, il presidente della Camera avrebbe mandato un flacone di Valium come regalo di Natale a Vittorio Feltri. Se Massimo Tartaglia avesse preso esempio da lui non saremmo precipitati in questo casino. Probabilmente il direttore del Giornale non prenderà le gocce di tranquillante. Forse gli sono venuti in mente i versi di una canzone di Vasco Rossi: «10 gocce di valium / per dormire meglio / 10 gocce di valium / per dormire sul serio / 100 gocce di valium / per non sentire più niente / cancellare la mente / e domani mattina / non svegliarsi neanche». È per questo che il direttore del Giornale appare più affezionato a calmanti tradizionali da usare con parsimonia, infatti ha suggerito a Fini «di non esagerare con il lambrusco».

Il gesto del presidente della Camera, tuttavia, rischia di diventare una moda. Mandare psicofarmaci come dono di Natale può risolvere l’annoso problema dei regali.

Dieci gocce a quello, una compressa appena sveglio a quell’altro, uno sciroppo al terzo e ci si toglie dall’imbarazzo di girare per negozi. L’unico problema è trovare un medico e un farmacista compiacenti oppure, in qualche caso, essere costretti ad ordinare direttamente al produttore una confezione magnum.

Ne avrebbe bisogno ad esempio il mio amico Fabrizio Cicchitto. Sono anni che gli rompono i maroni su questa storia dell’affiliazione giovanile alla P2. Lo vedete che sta sempre in guardia perché sa che il cretino di turno gli rimprovererà prima o poi l’iscrizione alla Loggia. Persino Luca Telese, un tempo prima firma del Giornale, oggi fa lo spiritoso sul Fatto con la biografia del capogruppo Pdl. Cicchitto, come faceva da ragazzo quando si buttava all’assalto dei fascisti e si faceva regolarmente menare, non sopporta più di essere definito un uomo di destra. Lui, che non è mai stato craxiano ma che da Craxi è stato tirato fuori dall’ombra, vede complotti ad ogni angolo di strada. Gli fa più paura il comunismo da quando non c’è più che negli anni d’oro del Pci. Mistero glorioso. Anche a lui un sedativo non farebbe male.

Valium o uno sciroppo per la gola, con divieto assoluto di ingurgitare contemporaneamente bevande alcoliche, lo darei anche a Daniele Capezzone. Il portavoce dei falchi del Pdl, volando alto sui cieli freddi della politica, strepita contro il mondo che non ha scoperto, come lui ha fatto tardivamente, le virtù del Cavaliere. Si sa che i convertiti sono visionari, ci mettono in guardia dal Diavolo e ci illustrano i miracoli dei Santi. Capezzone, che è persona intelligente con un buon uso della sintassi, spesso esagera e si lancia in battaglie improbabili, tutte ad uso e consumo delle agenzie di stampa, che non trovano proseliti neppure fra i più accesi fautori del premier. Da quando in tv appare più spesso Giorgio Straquadanio, altro acceso sostenitore del premier, il suo malumore è accresciuto. Serve una dose da cavallo.

Una tisana di finocchio, con poche gocce di valeriana, la darei invece a Marco Travaglio. Il suo cattivo umore e la risatina isterica sono sicuramente frutto di cattiva digestione. Se capite il suo problema proverete molta comprensione per lui. Sono vent'anni che è costretto a fare le fusa per la categoria più noiosa e spocchiosa che esista sulla faccia della terra, i magistrati. Deve per di più mandare a memoria migliaia di pagine al giorno di sentenze sgrammaticate e deve fingere di essere amico di Michele Santoro e di Furio Colombo, le etoile della danza giustizialista. Sono anni che solo lui tira su le copie e l’audience e figura invece sempre come l’invitato di lusso invece che come il benefattore. È chiaro che gli viene il mal di stomaco.

Andrebbe sedato anche Alfonso Signorini, detto da Dagospia “Alfonsina la pazza”. Il direttore di Chi impazza su tutte le reti tv e da quando ha gestito lo scandalo Marrazzo crede di avere in mano non solo il destino di Belen e Fabrizio Corona, un altro da calmare con dosi gigantesche, ma anche quello della repubblica. Il gossip è diventata materia di notismo politico e chi meglio di lui può introdursi nelle camere da letto? Il troppo sesso non fa male alla vista, come ci dicevano da piccoli, tuttavia suscita un’ipertrofia dell’ego, anche senza Viagra, in questo caso del tutto inutile.

Il Pd pugliese, e Massimo D’Alema, una confezione magnum di Valium la manderebbero volentieri a Nichi Vendola. Il governatore pugliese è uno sfascia-famiglie. Come don Rodrigo cerca di impedire il matrimonio fra Renzo-Pd e Lucia-Udc. I suoi “bravi” sono un migliaio di supporter che lo seguono dappertutto e che intasano internet di messaggi che lo santificano. Se fosse più grasso sembrerebbe Chavez. È la prima volta nella storia della sinistra che un leader rischia di mandare all’aria una campagna elettorale e l’intero schieramento amico perché è sicuro di avere gli dei dalla sua parte. Calmarlo sarà un’impresa impossibile.

Regalerei un unguento per il lato B a Piero Sansonetti. Il mio caro amico gira sempre in bicicletta ed è diventato l’ospite prediletto di tante trasmissioni televisive. Lo vedono correre con la sua bicicletta scassata in lungo e in largo fra via Teulada, Saxa Rubra e la sede di Mediaset, con il sole e con la pioggia. Temo che se continua così soffrirà prima o poi di quella fastidiosa foruncolosi che patiscono tutti i campioni delle due ruote.

Una buona confezione di psicofarmaci la darei anche a Giorgio Merlo, deputato Pd, e a Pancho Pardi, senatore Idv. Li sento molto vicini. Sono stato un parlamentare facondo. Non c’era giorno che non avessi un parere da regalare a una agenzia di stampa o a un quotidiano. In verità non ho mai chiamato un collega, mi chiamavano loro. Tuttavia di rado stavo zitto. Merlo e Pardi mi hanno superato. Anche la domenica mattina, alla prim’ora, troverete una loro frase, un insulto, una polemica sulla “qualunque”. Qualche goccia di un farmaco esilarante e passa subito. Una buona risata calma anche il protagonismo eccessivo.

A Di Pietro non darei nulla. È incurabile. In verità gli psichiatri affrontano anche le ossessioni più tenaci, ma credo che questo caso umano sia al di sopra anche della scienza. Si può provare con Milingo. Sennò pazienza, tenetevelo.

A Walter e Massimo manderei una tisana dell’amore. Questi due vecchi ragazzi ci hanno rovinato la vita. Prima d’amore e d’accordo, addirittura si erano fatti fotografare insieme in piazza San Pietro con prole in attesa di un discorso del papa, poi hanno preso a menarsi come due maniscalchi. Chi si è messo in mezzo le ha prese da tutti e due, chi ha provato a tifare ora per l’uno ora per l’altro è stato triturato dai portaborse, chi ha sperato che si togliessero dalle balle li ha visti miracolosamente riuniti il tempo di far fuori l’importuno. Suggerisco l’erba degli Angeli, detta “angelica” ovvero Angelica archangelica ombrellifera che dovrebbe riaccendere il desiderio. Se non si riappacificano adesso che hanno raggiunto la mezza età rischiano di apparire patetici.

Una dose massiccia di sedativi la darei ad Antonio Cassano che più si avvicinano i mondiali, da cui sarà escluso, e più rischia di dare i numeri. È in buona compagnia. Prima di lui hanno patito Rivera, Baggio e Zola. La “lippite” è una brutta malattia da cui possono guarire tutti, tranne la Nazionale e la Juventus. José Mourinho, invece, può ritirare piante officinali gratis direttamente da Harrods a Londra dove potremmo rispedirlo con un biglietto di sola andata e vaffanculo compreso.

Al Cavaliere un lecca-lecca con la statuina del Duomo di pan di zucchero e camomilla. Quest’anno gliene sono capitate talmente tante che pover’uomo ha bisogno di addolcirsi la bocca. Se penso che lunedì mattina scorsa appena sveglio e dolorante si è trovato di fronte Ignazio La Russa non posso non provare un intimo sentimento di compassione.

A Gianni Pennacchi un pensiero affettuoso. In mezzo a tanta gente livorosa a cui consigliamo psicofarmaci e tisane, si sentirà la sua mancanza, siamo stati privati delle sue battute sferzanti e del suo sorriso. Lui forse il Valium l’avrebbe mandato a tutti noi. (il Riformista)

venerdì 18 dicembre 2009

Il Cavaliere nemico perfetto. Luca Ricolfi

Sono passati quasi vent’anni dalla fine della prima Repubblica, ne sono passati più di quindici dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi. La legislatura finirà nel 2013, giusto nel ventennale della discesa in campo.

Come racconteranno questo lungo periodo gli storici di domani?

Fino a qualche tempo fa pensavo che questi anni sarebbero stati ricordati come l’era del berlusconismo. Un periodo in cui il costume ha subito mutazioni profonde, la politica si è personalizzata, i media sono stati militarizzati, la Tv è diventata sempre più volgare, il privato ha invaso la sfera pubblica, i rapporti fra le istituzioni si sono ingarbugliati. Un periodo in cui la figura del leader politico è cambiata profondamente: non più espressione di un partito e di un’ideologia, ma personaggio carismatico che trae il suo consenso dal rapporto con la «gente».

Ma molti dei caratteri che si è soliti associare al berlusconismo si sono manifestati ben prima del suo avvento e non solo in Italia. La deriva delle Tv (il Grande Fratello è un format internazionale), la messa in scena del privato (Bill Clinton e Monica Lewinsky), il declino dei partiti tradizionali, la personalizzazione della politica, il modo di porsi dei leader, la ricerca del contatto con la gente, l’insofferenza per i protocolli, l’informalità, gli atteggiamenti irrituali: tutte cose che esistono da tempo anche all’estero, e che in Italia sono cominciate con i presidenti della Repubblica Pertini e Cossiga (non per nulla chiamato il «picconatore»), e sono culminate nel pontificato di papa Wojtyla.

Ecco perché, oggi, penso invece che lo specifico del ventennio 1992-2013 gli storici del futuro lo troveranno semmai nell'antiberlusconismo, inteso come imperativo etico e come stato d’animo collettivo. E’ questo, almeno sulla scena politico-culturale, il tratto dominante dell’epoca che ora va tramontando in Italia. E lo è per le ragioni che in questi giorni cominciamo lentamente a mettere a fuoco: quale che sia la responsabilità degli attori in campo, non esiste, nella storia repubblicana, alcun leader presente o passato che abbia attirato sulla propria persona tanto astio, disprezzo e odio. Né Togliatti né Moro, né Andreotti né Cossiga, né Craxi né Prodi sono mai stati investiti da un simile sentimento di ostilità. Un sentimento certo coltivato soltanto da una minoranza (a mio parere valutabile fra l'1% e il 5% del corpo elettorale), ma pur sempre una minoranza cospicua. L'ostilità reciproca fra i due schieramenti corre sia lungo la direttrice che va da destra a sinistra, sia nella direttrice opposta. Da questo punto di vista anti-comunismo e anti-berlusconismo sono speculari e gemelli. Ma solo in quest’ultimo caso, quello del sentimento antiberlusconiano, la corrente dell’ostilità si coagula contro un solo individuo, percepito come la personificazione e la sintesi di ogni male. Non era mai successo in passato, non succede in nessun altro Paese democratico.

Perché l’odio va a bersaglio solo a destra?

Ci sono ragioni ovvie. La prima è che Berlusconi non è solo un leader politico, ma è innanzitutto il padrone di un impero economico-mediatico. La seconda è che Berlusconi è sospettato di gravi reati e si sottrae ai processi. Ma esiste anche un’altra ragione, su cui è venuto il tempo di farsi domande vere, non retoriche. Dietro l’odio per Berlusconi, che quotidianamente si manifesta su Internet ed episodicamente si incarna nel gesto di qualche sconosciuto (ieri il lancio del treppiede, oggi quello della statuetta del Duomo di Milano), c'è un’analisi precisa della società italiana. Io ho cominciato ad ascoltarla con le mie orecchie nel lontano 1994, quando il mio preside, un illustre storico della Resistenza, cominciò ad arringare il Consiglio di Facoltà perché in Italia stava rinascendo il fascismo: la colpa di Berlusconi, allora, era quella di aver sdoganato Fini, quello stesso Fini che oggi con autoironia la sinistra chiama «compagno Fini». Poi vennero gli allarmi sul razzismo, perché Berlusconi era tornato con la Lega, quella stessa Lega che poco prima, dopo la rottura fra Bossi e Berlusconi, D'Alema aveva definito «una costola della sinistra». Poi, prima delle elezioni del 2001, vennero l’appello di Bobbio per salvare la democrazia e l’appello-profezia di Umberto Eco: secondo lui, se il centro-destra avesse vinto (come in effetti avvenne), Berlusconi sarebbe divenuto proprietario di tutti i principali quotidiani e periodici, Corriere della Sera, La Stampa, Repubblica, Unità, Espresso. Ora si parla di regime, dittatura dolce, grave pericolo per le istituzioni democratiche. Ma anche di indulgenza verso gli evasori, rapporti con la mafia, responsabilità nelle stragi del 1992-1993. Persino gli effetti della crisi, i licenziamenti, le difficoltà economiche, l’inquinamento atmosferico sono messi in conto a Berlusconi: il governo «sta rovinando l’Italia», e sarebbe questo che spiegherebbe il clima di ostilità nei suoi confronti. E il bello è che questa incessante attività di costruzione di una certa rappresentazione della società italiana non è condotta da un’équipe di studiosi, fatta di storici, sociologi, economisti, scienziati politici, statistici, criminologi, bensì da una compagnia di giro formata in massima parte da giornalisti, conduttori televisivi, politici, cantanti, attori, registi, comici, vignettisti, scrittori, letterati, filosofi.

Ebbene, di fronte a questa opera dell’ingegno collettiva è difficile sfuggire al dilemma. O l’analisi è sostanzialmente esatta, e allora è venuto il momento di imbracciare le armi e iniziare la resistenza. Come ha ricordato Antonio Polito ieri sul Riformista, «persino la dottrina liberale prevede il tirannicidio»: se credessimo anche solo alla metà di quello che più o meno obliquamente ci suggeriscono i detrattori di Berlusconi, sarebbe naturale emigrare o darsi alla macchia. Sottoscrivere quell’analisi e invocare il confronto civile è semplicemente illogico, e infatti il confronto civile non decolla mai.

Oppure quell'analisi è gravemente distorta, e allora è venuto il momento di separare le critiche che stanno in piedi (e che sono tante) dal quadro apocalittico che le incornicia e che alimenta un clima da ultima spiaggia, da resa dei conti finale. Se non lo faremo, anche le critiche più serie finiranno per apparire sterili e preconcette. E gli appelli ad «abbassare i toni», a tornare a un confronto civile, non sortiranno alcun effetto: perché è vero che alla fine del suo lungo percorso l’antiberlusconismo si è raggrumato in un sentimento viscerale, ma all’origine è stato soprattutto un’idea, una costruzione intellettuale, una descrizione dell’Italia lungamente coltivata e ribadita. E’ con questa ricostruzione che è arrivato il momento di fare i conti, con pacatezza e amore per la verità. (la Stampa)

mercoledì 16 dicembre 2009

Se la politica passa dalle teste fini alle teste Fini. Lodovico Festa

“Sento dire che il Pd avrebbe addirittura complottato con le Procure e Spatuzza, ma che scherziamo?”. Dice Marco Travaglio sulla Stampa (16 dicembre). Figurarsi se le Procure per complottare hanno bisogno del Pd: quando serve gli danno un ordine di servizio.

“Si scambia la vittima con l’aggressore”. Dice Antonio Di Pietro all’Unità (16 dicembre). E’ stato Berlusconi a scagliare una statuetta contro Tartaglia?

“Chi legge il Fatto ha due ‘strade’: o è stupido o è terrorista”. Dice un titolo del Fatto (16 dicembre). Ma perché mai i terroristi devono essere tutti intelligenti?

“Questi non hanno la testa per fare politica”. Dice Gianfranco Fini al Riformista (16 dicembre). Povera politica dalle teste fini alle teste Fini. (l'Occidentale)

Malagiustizia assassina. Davide Giacalone

Che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanni l’Italia non fa notizia, avviene spesso. Ma la condanna per la scarcerazione di Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, costata la vita a due donne, è di quelle che strappano un grido di rabbia e vergogna. Se il dibattito sulla giustizia, sulla necessità di riforme profonde, volesse avere un andamento serio, se volesse occuparsi di quel che riguarda tutti, senza sconti per nessuno, dovrebbe ripartire proprio da qui, da questa condanna. Che ora, a noi cittadini, costa anche 45 mila euro di danni morali, che paghiamo, prelevandoli dalle casse statali, alla famiglia delle vittime. Troppi, se si calcola che la responsablità non è delle leggi, ma di chi le ha male amministrate. Troppo pochi, se si riferiscono a due vite, violentemente recise.

Siamo stati condannati, noi italiani, noi Italia, per avere violato il “diritto alla vita”, sancito dall’articolo due della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come abbiamo fatto? Leggete appresso, ed indignatevi, per favore. Abbiamo violato il diritto alla vita di quelle due donne perché avevamo in custodia, presso le patrie galere, un condannato all’ergastolo, già dimostratosi uomo violento. Un torturatore. Le nostre leggi stabiliscono che anche il peggiore dei delinquenti può redimersi. E’ giusto. Lo riconosce anche la Corte, che non contesta affatto quella legge, non contesta l’ipotesi che un detenuto possa avere la semilibertà, anche se condannato per omicidio. Contesta il modo in cui è avvenuto: è stata non applicata, ma violata la legge.

Il detenuto Izzo godeva della semilibertà, anche se ne aveva già tradito le regole e, pertanto, doveva essergli revocata. Ma i giudici di Palermo lo misero in libertà nonostante le violazioni. Ed i giudici di Campobasso non informarono il tribunale di sorveglianza di ulteriori, gravi infrazioni. Quindi, un po’ perché i giudici agirono con leggerezza, un po’ perché omisero di fare il loro dovere, trasmettendo a chi di dovere informazioni vitali (in senso letterale), è andata a finire che il detenuto Izzo era in libertà pur non avendone diritto. In questo modo lo Stato ha violato l’articolo due, che non solo prevede l’obbligo di non procurare la morte, ma anche quello di prendere le misure necessarie per preservare la vita.

La malagiustizia è costata la vita a due donne, e, ora, costa la condanna a noi tutti. Poniamoci ancora una domanda, per darci una risposta raccapricciante: perché i familiari sono ricorsi a Strasburgo? Risposta: perché, come ha ricordato la Corte di Strasburgo, nei confronti dei magistrati di Palermo fu avviata un’azione disciplinare, ma non ci fu nessuna sanzione, neanche amministrativa, e nei confronti di quelli di Campobasso fu la famiglia delle vittime ad avviare un’azione penale, ma fu archiviata.

Chi uccise è tornato ad uccidere, ma secondo la nostra giustizia nessuno ne è responsabile. Fra irresponsabilità e caos burocratico, fra approssimazione e arroganza autoprotettiva, la giustizia muore. Ma di queste cose non si parla, quando si discute di riforme, forse perché riguardano tutti e non solo qualcuno. Di questo non si tiene conto, quando ci si lamenta per l’immagine dell’Italia nel mondo, forse perché si presta poco alle inutili polemiche.

Da qui, allora, si dovrebbe ripartire, azzerando speculazioni e corporativismi, cercando di restituire un senso alla giustizia.

martedì 15 dicembre 2009

Scalfari era un mito per me...

La domenica assaporare l'editoriale di Barbapapà era come assistere ad una bella predica per i credenti.
La Repubblica era il mio giornale ed era, per me, obiettiva ed imparziale perché ero di centrosinistra e ritenevo che la normalità fosse essere di sinistra o di centrosinistra: gli altri non capivano o non volevano adattarsi all'ideologia dominante.
Poi, una domenica, leggendo il solito editoriale mi scatta qualcosa dentro.
Scalfari attaccava, come sempre del resto, Berlusconi con un'invettiva becera e gratuita denigrandolo sul piano fisico e personale: quelle frasi mi fecero indignare.
Che importanza può avere l'altezza, cosa c'entra la capigliatura e quanto incide la taglia per un candidato al Parlamento?
Evidentemente per me i tempi erano maturi e quell'editoriale fu la goccia che fece traboccare il vaso.

L'attacco personale non paga, signori miei!

L'aggressione di domenica scorsa al premier avrà fatto stappare bottiglie di spumante a molti, ma quanti di più, prima tiepidi o indifferenti, sono passati dalla parte della vittima?
E' ora di smascherare i cattivi maestri che per tornaconto personale, per invidia, per ignoranza o ingenuità aizzano la folle.
La cocente delusione che ho provato nel comprendere l'opportunismo di Scalfari, mi induce a pensare che, quando altri apriranno finalmente gli occhi, la reazione sarà esiziale.
Azzardo una previsione che spero non si avveri: se un giorno verrà attaccato violentemente qualche cattivo maestro, non sarà uno dei nostri a colpire, ma uno di loro che avrà cominciato a ragionare con la propria testa.

lunedì 14 dicembre 2009

Berlusconi colpito

Chi amministra un blog di centrodestra e che vede in Berlusconi il salvatore della patria, non può esimersi, all'indomani dell'aggressione al premier, dal prendere posizione.

Ne farei volentieri a meno.

Primo, perché se non fosse successo il fatto di Milano, sarebbe stato meglio per tutti.
Secondo, perché aggiungere esecrazione alle parole già dette da tutti, non risolve il problema.

Abbiamo già vissuto campagne di odio che hanno portato a "giustificare" la violenza estrema, Calabresi docet, e siccome la storia si ripete, ma non si impara mai: stiamo attenti, non sottovalutiamo, non permettiamo ai Di Pietro e alle Bindi di giustificare l'atto rabbioso e cruento come provocato dall'atteggiamento della vittima, non lasciamo passare le attenuanti di un'instabilità psichica dell'aggressore, non consoliamoci del fatto che sarebbe potuto andare peggio, non smettiamo di stare dalla parte dell'offeso, continuiamo a batterci per gli ideali del centrodestra senza tentennamenti e dubbi e dimostriamo al nostro Presidente che siamo con lui e ci battiamo insieme a lui per gli stessi valori.

Esprimiamo in tutti i modi e con tutte le forme solidarietà a Silvio Berlusconi: mandiamo lettere ai giornali, fax, scriviamo e-mail, interveniamo nei siti del Popolo della Libertà, usiamo i blog vicini a noi, ma inondiamo di messaggi anche quelli dei nostri oppositori (ammesso che abbiamo il coraggio di pubblicarli), parliamone con tutti, mobilitiamo gli indifferenti e svegliamo le coscienze.
Non possiamo permettere altri attacchi ad un Presidente democraticamente eletto ed apprezzato dalla maggioranza degli italiani, che non è mafioso, non ha corrotto, non ha rubato e non ha ordinato stragi.

martedì 8 dicembre 2009

Confisca e scudo

Qualcuno mi dovrebbe spiegare perché c'è, da parte dell'opposizione, tanta contrarietà alla vendita dei beni confiscati alla mafia (scritto minuscolo, per favore).

Quando i beni sono immediatamente utilizzabili da cooperative agricole, se la confisca riguarda terreni, occupabili per pubblica utilità, assegnabili alle Forze dell'ordine, allorché si tratti di edifici e appartamenti, il problema non si pone.

La polemica scaturisce dalla vendita all'asta di beni di lusso, alberghi e residence, auto sportive e quanto non possa essere devoluto e assegnato a fini sociali: c'è il rischio che, nonostante i controlli e i filtri, la mafia (sempre minuscolo, mi raccomando) se li possa ricomprare.

Dove sta il problema? Se l'asta è regolare, se viene fissato un prezzo base congruo, se non ci sono intimidazioni, ben venga che il boss di turno si ricompri la Ferrari confiscata pagando il giusto prezzo allo Stato e non sarebbe male se si ricomprasse l'hotel di lusso versando cash alla collettività.

Sono convinto che difficilmente i mafiosi sborseranno denaro contante per riprendersi i beni confiscati: un conto era riprenderli a suon di carte bollate, un altro conto è farlo a suon di bigliettoni.
Se hanno denaro da investire, e purtroppo ne hanno anche se sempre meno, lo investiranno in altri appartamenti, alberghi, negozi, auto di lusso e beni "vergini".

Due parole sullo scudo fiscale.
All'estero ci sono parecchi miliardi di euro che gli italiani hanno esportato illegalmente per:
1) paura del comunismo,
2) pagare meno tasse in Italia,
3) nascondere proventi illeciti.
Questa massa è meglio che torni in Italia per essere spesa nel nostro Paese.
Gli altri due scudi hanno funzionato, ma purtroppo per molti gli incentivi non sono bastati.
Lo scudo fiscale in vigore ha una caratteristica sostanziale che non è stata evidenziata a sufficienza: chi non rientra adesso sarà stanato e stangato, perché i paradisi fiscali diventeranno per gli evasori purgatori e poi inferni.
Certo, ci saranno anche capitali mafiosi che rientreranno come gli altri sotto anonimato, ma non è meglio averli in casa questi capitali, in modo da poterli intercettare, piuttosto che all'estero?
Permettendo il rientro, facciamo forse un favore alla mafia (minuscolo) che, se vuole, li fa girare per il mondo senza che nessuno se ne accorga?

Lasciamo lavorare questo governo in "odore di mafia (min.)" come qualcuno vorrebbe farci credere e aspettiamo di vedere i risultati prima di giudicare.
Personalmente sono convinto che quanto prima vinceremo la nostra guerra contro la criminalità organizzata.

lunedì 7 dicembre 2009

Spatuzza e il suo padrino. Davide Giacalone

Non mi hanno colpito le parole di Gaspare Spatuzza, semmai le reazioni politiche e giornalistiche. L’ho ascoltato in diretta, riconoscendo quel che guidava il suo dire. Faccio fatica, invece, a capire chi ne discetta senza cognizione di causa. Ci sono cresciuto, a Palermo, una grande città le cui pietre sanno di avere una storia incancellabile, sentendosi ciascuna pezzo di una trama indistinguibile. Puoi studiarla una vita, la Sicilia, ma se non ne conosci lo sguardo quando ha gli occhi chiusi, se non ne hai respirato l’apnea, non c’è verso di capirne nulla.
I mafiosi sono dei disonorati, degli uomini da niente. A scuola li riconoscevi: somari e cacasotto. I candidati perfetti. Se avevano un problema correvano da “‘u parrinu”, per invocarne la copertura. Mi domandavo, ascoltando quella bestia ben nutrita che deponeva in tribunale, chissà quanti se ne sono accorti, che sta manifestando devozione al suo “parrinu”? Già, il “padrino” di Mario Puzo, poi film di successo, la figura d’origine religiosa, poi incarnazione della subordinazione. Il mafioso è un essere inferiore, fa quello che dice il padrino, che è inferiore pure lui, ma ha fatto carriera. Non c’è motivo, però, di volerli battere in deficienza. Magari credendo a roba come la conversione. Suvvia, quello è un killer in servizio, e sebbene solo chi ha molto peccato, eccetera, c’è un limite antitrust anche in quel settore.
Rispettiamo la nostra, però, d’intelligenza. Quindi, i mafiosi votarono, nel 1986, per quei “crasti” dei socialisti, che, però, non fecero niente in loro favore. Questa demenzialità è ripetuta spesso, ma tale rimane. I socialisti furono quelli, assieme ad Andreotti, che diedero ospitalità ad uno sconfitto Giovanni Falcone, fatto fuori da Luciano Violante e dal corporativismo insabbiatore. Nel mentre a Palermo imperversava Leoluca Orlando Cascio, che attaccava Falcone in nome dell’antimafia, e prendeva i voti nei quartieri mafianti. Quanto si deve essere deficienti per credere che i mafiosi s’aspettassero d’essere aiutati dai socialisti di Milano? Prima di votare per quelli del garofano, votarono per gli andreottiani, sempre in cambio di protezioni. Lucide, queste mezze seghe che mettono la coppola sul niente, visto che fu il governo Andreotti a varare un decreto legge (spudoratamente incostituzionale e liberticida) destinato ad allungare la carcerazione preventiva dei mafiosi che sarebbero stati, di lì a poche ore, scarcerati. Poi, sempre dotati di tanta ficcante intelligenza, fecero l’accordo con Berlusconi, per il tramite di Dell’Utri. Roba grossa! Strategia raffinatissima, tanto che se la dicono al bar, raggianti. Abbiamo l’Italia in mano, proclamava un presunto capo, parlando con un picciotto che aveva all’attivo sette stragi e quaranta omicidi. La persona adatta cui fare confidenze, uno che non sarebbe mai stato arrestato.
Ma che volevano? Cosa avrebbero fatto, se avessero avuto l’Italia in mano? Attenti, perché le due risposte che seguono sono decisive: avrebbero “aggiustato” i processi ed avrebbero utilizzato gli appalti pubblici per arricchirsi e riciclare denaro. Queste sono le cose di cui Spatuzza non parla, che, se ne parlasse, sarebbe un pentito, non un soldato. Per “aggiustare” i processi ci vuole la complicità dei magistrati, non dei governanti. Certo, questi ultimi possono cambiare le leggi, ma sono decenni che lo fanno solo per inseguire l’emergenza e consegnare alla giustizia armi utili a combattere il “fenomeno” della mafia. Ad opporci siamo in pochini, solitamente fraintesi, più spesso ignorati. Per scappare alla carcerazione dura, per continuare a mafiare, e, magari, approfittare di qualche smagliatura giudiziaria, occorre avere sponde efficienti nei palazzi di giustizia. La politica può servire da copertura ed entratura, ma l’eventuale complice veste la toga. Di questo, del resto, cominciò a parlare Angelo Siino, identificato come il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. Diceva la verità? Domanda sciocca, perché questi non sanno dove stia di casa, la verità. Diceva cose che vanno capite.
Poi ci sono gli appalti, e la politica serve a quelli. Un tempo il rapporto era rovesciato: il capo politico si appoggiava alla rete mafiosa, in modo che i lavori arrivassero agli amici, alimentando finanziamenti e clientele, senza che ci fossero mancanze di rispetto o di parola. Per un assegno a vuoto si va in tribunale, e ci si perdono gli anni, per un mancato pagamento a questi sgherri si va al cimitero, sempre che trovino il cadavere. Oggi le cose vanno peggio, perché di soldi ce ne sono tanti, in mano pubblica, e la politica partorisce uomini e partiti di transito. Questo, pertanto, è il settore più inquietante e delicato, perché vivo.
Attenti, però. Quando sento dire che Paolo Borsellino fu ammazzato perché contrario alla trattativa (che non c’era) fra mafia e Stato, penso subito che è in atto un depistaggio. Quando vedo che non si parla dell’inchiesta mafia appalti, sulla quale s’incaponì, convinto di trovarvi la ragione della morte di Falcone, e ci si dimentica come nacque, come progredì e come morì (perché morì, nei palazzi di giustizia), allora penso che il depistaggio ha raggiunto l’obiettivo.
Ecco, Spatuzza è una comparsa, sanguinolenta e coerente, che riscuote il premio della protezione. Assegnato non dalla politica, ma dalla magistratura. Che altro aggiungere? Che in un Paese normale, dopo l’esibizione torinese, ci sarebbero due sole vie: o l’incriminazione del dichiarante per calunnia, oppure quella del capo del governo per mafia. Vedo che tutti i giornali s’affrettano a voler scongiurare la seconda, senza neanche prendere in considerazione la prima. Eccola qui, l’Italia che ignora le regole ed il diritto, quella, appunto, in cui ancora può esistere un’associazione di disonorati e cornuti, la mafia.

venerdì 4 dicembre 2009

Il direttore Feltri su Dino Boffo. Le parole di Bagnasco. Andrea Tornielli

Sul Giornale di oggi, in prima pagina, è pubblicata la risposta del direttore Vittorio Feltri a una lettrice che gli chiede del caso Boffo. Feltri scrive: «Non mi sarei occupato di Dino Boffo, giornalista prestigioso e apprezzato, se non mi fosse stata consegnata da un informatore attendibile e direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziario che recava la condanna del direttore». Insieme «c’era un secondo documento (una nota) che riassumeva le motivazioni della condanna». Feltri precisa che «la ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali». «Da quelle carte, Dino Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali - prosegue Feltri -, tantomeno si parla di omosessuale attenzionato. Questa è la verità. Oggi Boffo sarebbe ancora al vertice di Avvenire. Inoltre Boffo ha saputo aspettare, nonostante tutto quello che è stato detto e scritto, tenendo un atteggiamento sobrio e dignitoso che non può che suscitare ammirazione». Questo è ciò che scrive il direttore del Giornale.Sempre oggi è intervenuto sui temi dell’etica dell’informazione il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, nel messaggio da lui inviato al convegno dell’Ucsi in corso a Roma: «Il nostro Paese di fronte alle grandi questioni che lo interrogano ha bisogno di un linguaggio serio e sereno, di cultura del rispetto, di passione per il bene comune». (il Giornale.it)

mercoledì 2 dicembre 2009

Forza Silvio

I tempi sono maturi, Silvio. Adesso o mai più.

Da quindici anni sei sotto scacco della magistratura, da quindici anni ti devi difendere da accuse improbabili, pretestuose e fasulle, da quindici anni ti viene impedito di riformare la giustizia anche con attacchi personali che prendono di mira la vita privata.
Persino tua moglie sembra seguire l'andazzo.
La dose avrebbe ammazzato anche un toro, ma tu hai resistito.
Avresti potuto, e potresti in qualsiasi momento, ritirarti e goderti un meritato riposo con la matematica certezza che i tuoi guai giudiziari finirebbero per incanto e diventeresti un ascoltato e rispettato, anche dalla sinistra, leader in pensione.
Non lo farai, lo sappiamo, perché ci hai promesso di riformare la giustizia prima di uscire di scena.
Abbiamo dovuto, insieme a te, sopportare gli attacchi più beceri e vigliacchi; ci siamo rassegnati alle sconfitte immeritate; abbiamo anche "digerito" certi tuoi colpi di testa solo perché siamo convinti della tua buona fede; abbiamo fatto finta di credere alla fedeltà di Casini e Fini; ci rassegniamo alla presenza, tra i tuoi, di collaboratori che vorremmo più energici, mentre altri validi sono tenuti in disparte; abbiamo chiuso un occhio alla presentazione di leggi preparate in fretta e furia; abbiamo subito gli attacchi della sinistra per leggi "ad personam" che tali non erano e che sono state troppo poco difese; abbiamo tollerato, ci siamo rassegnati, adattati, assoggettati, abbiamo retto e sofferto: ora basta!
La riforma radicale della giustizia o la morte.

Ciò premesso la proposta è la seguente: manda in una baita di montagna, isolata dal mondo, una ventina di professori di diritto, avvocati, parlamentari, esperti e studiosi per scrivere la riforma della giustizia in tutti i suoi aspetti. Dalla separazione delle carriere, alla responsabilità civile dei magistrati, all'obbligatorietà dell'azione penale, alla questione carceri, alla mancanza di risorse, all'accorpamento di sedi, all'assetto del Csm, alla durata dei processi, prescrizione, amnistia eccetera.
Quando i "costituenti" avranno terminato il lavoro, la legge si porta in Parlamento e si vota ponendo la questione di fiducia.
Se, caro Silvio, aspetti di non avere pendenze giudiziarie per riformare la giustizia, stai certo che non ci riuscirai.
Siamo tutti con te. Non indugiare: con la maggioranza che hai in Parlamento e il gradimento della gente, puoi veramente realizzare il tuo progetto.

Te lo chiediamo con forza, certi dell'improrogabilità e urgenza del provvedimento.

martedì 1 dicembre 2009

La vergogna di Sofri. Arturo Diaconale

Ognuno è libero di vergognarsi di ciò che vuole. Carlo Ginzburg sostiene che si ricorda di essere italiano solo quando se ne vergogna. Cioè che si vergogna di essere italiano. Adriano Sofri, proprio rifacendosi a questo pensiero profondo di Ginzburg, si vergogna invece di essere italiano per quanto detto da Silvio Berlusconi a proposito della mafia. In particolare, per le frasi ironiche e scherzose pronunciate dal Premier sui danni provocati all’immagine del paese dalla “Piovra” e dalle produzioni televisive e cinematografiche del filone cosiddetto mafioso. Ma se Sofri ha diritto di vergognarsi di essere italiano quando ascolta Berlusconi, esiste il diritto opposto di chi si vergogna non di essere italiano a causa delle parole di Sofri ma di vergognarsi per il fatto che in Italia continua ad esercitare il ruolo di maestro indiscusso ed indiscutibile un personaggio con alle spalle la storia di Sofri. Se si dovesse seguire la logica dipietresca e travagliesca dei giustizialisti si dovrebbe sentenziare che essendo Sofri un condannato con sentenza definitiva dovrebbe astenersi per semplice buon gusto dal manifestare qualsiasi motivo di vergogna per i comportamenti altrui. Si vergognasse dei propri. E la facesse finita. Ma chi non ha pulsioni e cultura giustizialista ed, al contrario, da sempre crede nella necessità di difendere i diritti e le garanzie individuali, non avverte alcun bisogno di tappare la bocca a Sofri tirando in ballo le sentenze che lo hanno condannato. Questo, però, non comporta un automatico riconoscimento all’ex leader di Lotta Continua di una indiscussa ed indiscutibile autorità morale. Al contrario, può e deve consentire di rilevare che Sofri non ha alcun titolo per sollevare una questione morale ed etica (la vergogna) per contestare i comportamenti e le parole di Berlusconi. E che le sue affermazioni, se depurate da questo alone di presunta autorevolezza morale, sono tranquillamente definibili come delle semplici sciocchezze.

L’ironia e l’umorismo del Presidente del Consiglio possono anche non piacere. Ma è difficile contestare l’affermazione che l’aver cavalcato per ragioni esclusivamente commerciali (ed il Cavaliere non è mondo da questo peccato) il filone televisivo cinematografico della mafia, ha continuato ad alimentare nel mondo lo stereotipo negativo dell’identità tra Italia e Mafia. È ancora più difficile sostenere che questa immagine non contribuisca a danneggiare il nostro paese esponendolo ad ogni sorta di pregiudizio non solo morale ma anche materiale (gli investimenti esteri sempre più ridotti ). Ed è praticamente impossibile sostenere che denunciare gli effetti negativi del fenomeno significa negare l’esistenza della mafia o, peggio, rinunciare ad esercitare una seria azione dei lotta nei confronti della criminalità organizzata. Sofri, quindi, non deve vergognarsi perchè Berlusconi ha detto che “strozzerebbe” chi ha scritto “La Piovra”. Dovrebbe, semmai, interrogarsi sul perchè la legittima e doverosa denuncia mediatica del fenomeno mafioso abbia prodotto non solo grandi vantaggi a chi l’ha sfruttata commercialmente ma anche una serie di conseguenze negative all’immagine complessiva del paese. È forse perché la cultura egemone della sinistra, della sua sinistra, ha favorito non tanto la lotta alla mafia quanto un processo continuo di autodenigrazione nazionale che avrebbe dovuto portare al superamento dell’identità italiana in nome di un internazionalismo un tempo comunista, successivamente terzomondista ed infine privo di una qualsiasi definizione precisa? Sofri, dunque, dovrebbe scendere dalla cattedra morale che si è costruito e confrontarsi con la realtà. Ma l’impresa è impossibile. Perché se l’ex leader di Lotta Continua si toglie l’aureola dell’icona santificata della sinistra diventa solo uno dei tanti cattivi maestri che hanno seminato i germi della intolleranza e della violenza negli ultimi quarant’anni della vita politica del paese. Quelli di cui veramente vergognarsi! (l'Opinione)

Mafia, leggi, trame e cultura. Davide Giacalone

Siamo ai dilettanti dell’antimafia, tristi successori di un antico professionismo. Che fu politico, culturale e giudiziario. Non li vorrei strozzati, questi incapaci, abili solo nell’arte circense di saltare da un’altalena all’altra di parole senza senso e senza storia. Però, se le chiacchiere si strozzassero loro in gola, prima di giungere a disturbare le nostre orecchie, non sarebbe poi così male. La Repubblica danza sull’orlo di una rottura istituzionale, ma anche nel tragico c’è il grottesco, perché il ritmo è da avvinazzati. Mi limiterò a tre aspetti: le leggi, la trattativa e la cultura. L’ultimo servirà a dire che, se ce ne fosse, le case editrici di Berlusconi non le darebbero spazio.
Le leggi. Svegliate dal letargo, prima di tutto morale, vedo che alcune belle coscienze hanno preso a pensare sulla riforma del concorso esterno in associazione mafiosa e sul governo dei pentiti. Le soluzioni sono semplici, se solo ci si pensa senza avere la necessità di salvare qualche compagno o difendere la memoria di se stessi, dopo avere tanto sbagliato. Quel reato non esiste, né c’è alcuna ragione di farlo esistere. Non va riformata la legge, va cancellata la consuetudine. Rimane l’articolo 110, codice penale, che regola il concorso, talché chiunque merita punizione se prende le parti, con azioni concrete, funzionali ed individuabili, di un disegno criminale. E resta il 416 bis, sicché resta reato l’associarsi alla mafia. Punto, gli animali misti non servono.
In quanto ai pentiti, anche in questo caso, la cosa da farsi è semplice: prevedere benefici per chi collabora, anche spingendosi fino all’impunità, e commisurando il premio al reale contributo dato nell’accertamento della verità, ma stabilire che chi collabora deve dire tutto subito, e chi dice fesserie, o tace cose vere, perde le agevolazioni e se ne torna a marcire in galera. Punto, il resto sono perdite di tempo, dibattiti per chi ha voce ma difetta di pensiero.
Le trattative. Quelle fra mafiosi (plurale) e uomini dello Stato ci sono state, e ci sono. Le vediamo tutti: si svolgono fra inquirenti e presunti pentiti. I primi sperano di procedere con le indagini, i secondi di riconquistare la libertà. L’assoluta discrezionalità della gestione, unita ai ritardi micidiali della giustizia, fa sì che i secondi finiscono nelle mani dei primi. Essendo degli infami, essendo uomini da niente, è facile immaginare a cosa sono disposti, pur di farsi gli unici affari che li interessano: i propri.
Immaginiamo che ce ne sia stata una, fra il 1990 ed il 1993, destinata a destabilizzare l’Italia per spianare la strada a Berlusconi. Guardate, se mi facessero la domanda generica risponderei di sì, che, in effetti, i magistrati milanesi di mani pulite cancellarono i partiti democratici e consegnarono il governo ad un nuovo protagonista. Ma chi pensa che le bombe mafiose furono messe per questo fine vive in un altro mondo: l’Italia era già destabilizzata, l’opera di demolizione era condotta dalle procure e dai giornali, il terrore veniva addebitato a politici oramai inerti e sconfitti, utilizzandolo per sostenere il “cambiamento”, nel senso di governi commissariati e sostenuti dalla sinistra. Furono le bombe mafiose a portare Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. Che vogliamo fare? Lo indaghiamo, o la piantiamo di dire sciocchezze?
I mafiosi, poi, devono essere dei deficienti se pensavano, in quel modo, di conquistare l’impunità o la scarcerazione. Era ovvio il contrario. In quanto all’ipotesi di cancellare o alleviare il regime di carcere duro, questa è una proposta giunta dalla sinistra. E chi l’ha sostenuta, come Piero Fassino, aveva ragione, perché il rigore dello Stato non è la durezza, ma la certezza della pena. Che facciamo? Accusiamo Fassino di connivenza o la facciamo finita con le cretinate?
La cultura. Tutto questo è possibile perché sono in troppi a non sapere quel che dicono, ma a dirlo con l’aria furba e saputa di chi ha una qualche idea in testa. La mafia è criminalità, indirizzata all’accumulazione di ricchezza e retta da un linguaggio disonorato per mezze seghe sanguinarie. Se è chiaro questo, si va in battaglia e si vince, con la forza. Ma se si pensa ad un avversario diverso, che domina le cose e parla con i governanti, ci si spara sui piedi.
Leggo Adriano Sofri e resto sconcertato. Come si fa a citare Giovanni Falcone e poi prendere le parti della Piovra? Falcone sostenne, pagando con l’ostracismo dei suoi colleghi e della sinistra, che non esisteva il terzo livello, il luogo della strategia politica mafiosa. La Piovra racconta di poteri occulti e raffigura capi acculturati, non pizzinari ricottari. E leggo, dalla pena dello stesso Sofri, che ripugnante era la politica che si compiaceva dei mafiosi intenti ad ammazzarsi fra di loro. Ma quello era Michele Pantaleone, grandioso autore (“Mafia e politica”, 1962) che tenne a battesimo l’antimafia culturale (e politica)!
L’incultura confonde le acque ed inquina le menti. Una cosa è Mariano Arena, protagonista mafioso dello sciasciano “Il giorno della civetta” (1961), che dialoga da pari a pari con l’atro “uomo” del romanzo, il carabiniere Bellodi (trasfigurazione di un carabiniere vero, Renato Candida), altra un gruppo di stragisti senza onore che pensava di far saltare in aria, con sistema che richiede il solo coraggio dell’orrore, un centinaio di carabinieri. Regalare ai secondi il carisma del primo è un gesto d’autolesionismo troglodita.
L’invettiva di Sciascia contro i professionisti (e si riferiva a Borsellino) era un inno alla legalità ed alle garanzie che la legge deve offrire ai cittadini, tutti. E fu la violazione della legalità e delle garanzie, nonché la politicizzazione di carriere ed inchieste, a rivoltarsi contro Falcone e Borsellino.
Ma chi scrivesse un libro per raccontare le miserie della mafia, chi raccontasse l’omicidio di Paolo Borsellino non come la conseguenza di trame continentali, bensì come il frutto dell’inchiesta su mafia e appalti, con gli scontri che quella provocò all’interno della procura palermitana, chi riportasse la storia alla sua concretezza, rifiutando di romanzarla, non troverebbe editore e men che meno produttore cinematografico e televisivo. Gli sarebbero opposte ragioni commerciali, le stesse che hanno coperto di gloria la falsificazione.
Si è fatta prevalere la legge dell’audience? Bene, beccatevene le conseguenze.

lunedì 30 novembre 2009

"Repubblica" comanda, sinistra chiamata a obbedire? Daniele Capezzone

Quando si scriverà, sine ira et studio, con la necessaria distanza temporale ed emotiva, la storia d’Italia degli ultimi trenta-trentacinque anni, sarà impossibile trascurare l’azione, sulla scena e dietro le quinte, del “partito di Repubblica”, e l’interminabile serie di casi in cui Scalfari prima, poi Scalfari e l’editore De Benedetti in tandem, e ora De Benedetti coadiuvato da direttori e scrivani più modesti del vecchio fondatore, hanno cercato di determinare il corso delle cose politiche, economiche e sociali del nostro Paese, non di rado in modo opaco ed inquietante. Lo schema è sempre lo stesso: pretendere di stabilire - sulla base di un’investitura rigorosamente autoassegnata - non cosa sia opportuno o no, ma cosa sia morale o no. È come se a Largo Fochetti tracciassero ogni giorno una immaginaria riga sul campo, squalificando sul piano etico chiunque osi oltrepassarla. Gli ultimi giorni ci hanno offerto almeno tre esempi di questo “metodo”.

Primo. Si intervista il solitamente silenzioso Carlo Azeglio Ciampi, da molti mesi assente dal dibattito pubblico, e ne viene fuori, in modo inusitato per perentorietà di toni e anche per mancanza di riguardo nei confronti del suo successore al Quirinale, una specie di grido contro un’eventuale firma presidenziale in calce alla legge sul processo breve. Il sasso, a questo punto, è scagliato: e, se Napolitano provasse a “disobbedire”, sarebbero già pronte paginate di giornale e arene televisive tutte volte a ricordargli che “Ciampi non l’avrebbe fatto”.

Secondo. Si cerca da settimane, pestando stancamente l’acqua nel mortaio, di inventarsi la fiction sul “Berlusconi mafioso”. Entra in campo, più spompato e incattivito del solito, l’appuntato D’Avanzo, con un suo sodale d’occasione: danno qualche prima indicazione, qualche traccia di lavoro, qualche pista da seguire. Neanche ventiquattr’ore dopo, temendo che qualche sventurato pm possa avventurarsi su un terreno chiaramente incredibile (Berlusconi “bombarolo” e mandante delle stragi del ‘93), correggono il tiro e assegnano un nuovo compito, quello di indagare sulle origini del patrimonio e delle fortune economiche del Cavaliere. Insomma, cari pm, date retta a noi, e vedrete che qualcosa viene fuori.

Terzo. Il Pd bersaniano non sembra convinto di partecipare alla manifestazione contro Berlusconi del 5 dicembre prossimo? Semplice: parte la campagna di colpevolizzazione preventiva. Si arruola perfino Sofri (che pure dovrebbe conoscere e temere la pericolosità - sia quando se ne è autori sia quando se ne è vittima - delle manifestazioni di odio contro una persona) per spiegare che serve lo “sgombero” di Berlusconi, e che è impensabile che il Pd non partecipi alla piazzata. Puntuale, il giorno dopo, viene convocato (o intervistato?) il povero Bersani, costretto a tramutare il suo “timido no” in un “quasi sì”.

È troppo chiedere che qualcuno, a sinistra, trovi il coraggio per disobbedire a ordini di questo tipo? (il Velino)

Seguendo la stampa. Lodovico Festa

“Siamo costretti a stare sempre insieme con forcaioli, violenti, reazionari, comici diventati messia, gente che starà bene solo quando vedrà tutti in galera, altri che fanno una satira di serie C e altri ancora che mandano mail a tutto il mondo con barzellette su Berlusconi o sull’altezza di Brunetta”. Dice Francesco Piccolo sull’Unità (30 novembre).
Ecco un’attenta analisi delle varie correnti del centrosinistra. (l'Occidentale)

venerdì 27 novembre 2009

Razzismi immaginari. Davide Giacalone

Per ragioni di pura propaganda la politica s’industria, sempre più spesso, a far sembrare razzisti gli italiani. Che non lo sono. Sia che si ascoltino sparate a protezione della presunta “italianità”, o dell’ambito vernacolare, sia che si mettano in scena scontate e melassose difese dello “straniero”, il risultato è sempre a somma zero: non si affronta alcun problema, ma se ne inventa uno pur di avere spazio sui mezzi di comunicazione.
A questo si aggiunga che si tralasciano quelli veri, che ci sono e li vedremo, per cui si parla sempre delle stesse cose, pestando l’acqua nel mortaio, senza che nulla cambi.
Gli immigrati sono una risorsa. I residenti in Italia sono all’incirca il 7% della popolazione e contribuiscono per quasi il 10% al prodotto interno. Non rubano il lavoro a nessuno, perché svolgono mansioni, e con retribuzioni, non appetibili per la gran parte degli italiani. Un Paese civile ha leggi che regolano l’afflusso degli immigrati. Un Paese saggio fa di più: incentiva l’arrivo di quanti sono maggiormente utili.
Un Paese che tollera l’immigrazione clandestina, quindi la violazione delle proprie leggi, invece, è non solo scassato, ma sta anche gettando legna sul fuoco del rifiuto e dell’intolleranza. Non è difficile capire il perché. La clandestinità, con l’inevitabile corollario dell’illegalità, si scarica sui quartieri meno ricchi, dove vivono gli italiani meno protetti, cui si prospettano altri due svantaggi: il senso di degradazione sociale e la convivenza con il disadattamento dei nuovi arrivati. A questo s’aggiunga, inutile tacerlo, che l’impossibile integrazione dei clandestini porta a fenomeni di prepotenza, quando non di criminalità, ancora una volta gettati sulle spalle dei deboli. Insomma, i travestiti battono per le vie notturne ed offrono i loro servizi ai passanti, ma poi vanno a vivere nei luoghi che la televisione ci ha abbondantemente mostrato. Come credete che stiano le famiglie italiane che ancora si trovano da quelle parti? Pensate siano partecipi del dramma familiare di chi è stato scoperto a pagare migliaia di euro per prestazioni mercenarie, o, piuttosto, siano intenti a fare i conti con i centesimi, sperando di potere portare i propri figli il più lontano possibile? L’ultima cosa che si può dire, a quelle persone, è che siano dei razzisti. Anche perché, qualche volta, sono loro ad essere etnicamente in minoranza.
Dire che i clandestini devono essere respinti non significa affatto sostenere che gli stranieri debbano essere messi alla porta, perché, all’opposto, è razzista pensare che i due gruppi di persone stiano sullo stesso piano, che la devianza debba essere tollerata, compreso il commercio di droga, sol perché praticata da un nero anziché da uno slavato. Noi abbiamo convenienza a che ci raggiunga chi intende lavorare, meglio ancora se qualificato (non ci trovo niente di male in una politica dell’immigrazione che sappia scegliere, come avviene in altri Paesi civili), ma per quelli che intendono delinquere no, ci bastano già i nostri, che non sono pochi.
La tragica condizione della nostra giustizia, la sua incapacità di destinare i colpevoli alla giusta pena, non fa che moltiplicare i disagi ed i drammi. Anche a carico degli immigrati, i quali, se onesti (e lo sono in gran maggioranza), soffrono la presenza di loro connazionali che sono qui per rubare, prostituirsi, spacciare, commerciare illegalmente e variamente industriarsi al servizio del crimine. Ne soffrono perché accomunati a costumi che non sentono affatto propri. Date loro il voto, e state certi che vi ritrovare con una valanga di consensi nel segno di “legge e ordine”.
Il diritto di voto è giusto darlo, ma assieme ai doveri della cittadinanza. Ci sono migliaia d’italiani che studiano e lavorano negli Stati Uniti, come in altre parti del mondo, senza che per questo qualcuno pensi di doverli far votare per scegliere i rappresentanti di un popolo che è tale non solo per nascita, ma per riconosciuti doveri e per avere onorato gli obblighi fiscali. Nessuno di questi italiani si sente discriminato, nessuno solleva problemi di razzismo. Ciascuno, però, se crede, può chiedere la cittadinanza, ottenendone, se ricorrono le condizioni (una delle quali è dimostrare di sapersi e potersi mantenere), anche il passaporto e la scheda elettorale.
In tutti i Paesi civili, Italia compresa, è riconosciuta la libertà di culto, ma in nessuno si piega la vita collettiva ai tempi della ritualità. Anni fa ebbi da ridire con una confessione religiosa (che rispettavo e rispetto) in cui si riconoscevano degli italiani, i quali pretendevano di sospendere il lavoro pubblico quando il loro credo prevedeva di non doversi far niente. No, non si può. Certo, so anch’io che la domenica è festiva (si fa per dire, perché siamo in tantissimi a lavorare anche quel giorno), che ci sono altre ricorrenze a sfondo religioso e che questo è legato al calendario della cristianità, ma è anche legato alla nostra storia, come negli Stati Uniti si festeggia il giorno del ringraziamento o quello di Colombo. Ciascuno ha le proprie, e non possiamo scambiarci le storie. Se sono ospite, insomma, rispetto quelle degli altri, senza per questo sentirmi minimamente coinvolto nella loro presunta sacralità.
Questo è un modo razionale di affrontare la questione, solo che non fa scena, non attira pubblico, richiede più freddezza e ragionamento che accalorati schiamazzi. Non sollecita le tifoserie, ma impone di fare i conti con la realtà. Troppo, me ne rendo conto, per certa politica.