mercoledì 30 giugno 2010

Legge-bavaglio. La protesta fuori tempo e fuori luogo. Piero Sansonetti

E così i giornalisti italiani, domani, daranno questo bello spettacolo: sfileranno uniti, senza distinzioni di colori politici, per protestare contro una legge che non c'è, che non è imminente, che probabilmente non ci sarà mai, che comunque non è affatto importante, e che però - casomai ci fosse - darebbe un briciolo di fastidio alla categoria. Una volta si diceva: alla “corporazione”.
Sapete cos'è una corporazione? Una specie di Lega di mutuo soccorso che tiene insieme tutti gli appartenenti a una certa professione. Possibilmente a una professione potente. La corporazione dei medici, degli architetti, dei giudici, dei giornalisti. Tra tutte le corporazioni, quella dei giornalisti è la più potente, perché controlla, o comunque influisce sui giornali e sulle tv e dunque può determinare le fortune o la disgrazia dei gruppi politici.

La corporazione dei giornalisti usa con disinvoltura questo suo potere, e riesce spesso a deviare il corso della politica e delle leggi. Lo ha fatto anche stavolta. Domani - mentre le Regioni e gli enti locali attraversano la più grave crisi della propria storia, perché la manovra economica ha tolto loro i soldi per funzionare, mentre migliaia di donne fanno i conti con la pensione, che improvvisamente, nel giro di qualche ora, si è allontanata di quattro o cinque anni, mandando all'aria i loro progetti di vita, mentre gli operai di Pomigliano ignorano il loro destino, non sanno se la Fiat investirà o chiuderà lo stabilimento, mentre gli operai di tutt'Italia temono nuove Pomigliano, cioè la perdita di diritti, o del lavoro, la bastonata della globalizzazione (o, diciamo meglio: dell'uso padronale della globalizzazione), mentre tutte queste vicende richiederebbero la mobilitazione politica, per esempio, della sinistra, e l'impegno professionale, per esempio, dei giornalisti - domani invece, dicevamo, assisteremo a un fenomeno surreale: tutti i giornalisti, da Feltri a Travaglio, da Scalfari a Belpietro, dal sindacato Rai ai direttori e ai redattori di “Stampa” e” Corriere” di “Libero” e del “Fatto” e tutti gli altri - seguiti da una gran fanfara di televisioni, telegiornali, giornali, speciali, radio, eccetera eccetera - occuperanno la piazza per dire: no alla svolta autoritaria.

E in cosa consisterebbe questa svolta autoritaria (che comunque è rinviata a settembre, o forse a dicembre, o forse dopo le elezioni anticipate o forse sine die...)? Consiste nel limitare i poteri degli 007. Già, le cose stanno esattamente così: la discussione è tra chi - pochissimi, tra i giornalisti quasi nessuno - vorrebbe ridurre il potere spionistico e la sua capacità di condizionare - o addirittura di guidare, di dirigere - la vita pubblica e l'informazione, e chi invece crede che il potere spionistico, pur con i suoi difetti, comunque garantisce trasparenza e repressione e presunzione di colpa, e ritiene che la trasparenza e la repressione e la presunzione di colpa siano l'esigenza principale dell'Italia dei nostri tempi. E la sinistra, e i liberali, e gli intellettuali che per tanti anni sono stati la gloria di questo Paese? Tutti scomparsi, o silenziosi, o travolti dal nuovo amore per le manette e le spie.

I giornalisti dicono che le cose non stanno come dico io. Che quella contro la quale si battono è una legge-bavaglio. Che limita la nostra libertà, la nostra professione. Mi chiedo: quale libertà, quale professione? La libertà di pubblicare sul giornale paginate che ci sono state offerte da poteri che non conosciamo e per scopi che non conosciamo e che servono a tagliare le gambe a qualcuno, magari con l'uso dello sputtanamento della sua vita privata o cose del genere? Sarebbe libertà? Sarebbe professione quest'idea che il giornalista sia l'operatore di un computer che trasmette notizie o illazioni o gogne, che vengono dalle procure o dalle centrali di spionaggio, e vengono trasferite direttamente in edicola, senza la possibilità di chiedersi: che sto facendo? Per chi sto lavorando?

Mamma mia. Sapete cos'è che mi lascia davvero stupito? Questa domanda: ma i miei colleghi si saranno accorti in questi giorni che mentre su temi come la giustizia, o il berlusconismo, o le varie vicende di sesso e potere e vita pubblica, o la spartizione dei posti in Rai, su questi temi qui i giornali italiani si dividono e si accapigliano, succede che invece non si accapiglino per niente, e marcino come un sol uomo se il problema sul tappeto sfiora la Fiat? Si saranno accorti che tutti i giornali italiani, nei giorni della crisi di Pomigliano, hanno pubblicato editoriali, commenti, approfondimenti, schede e rubriche, e pezzi di colore, tutti, tutti, tutti gemelli? E non gli è venuto da chiedersi: hai visto mai che qualcuno ci stia mettendo il bavaglio? Non gli è venuto. Neppure il sospetto che gli editori su certi temi non amino le liberalità. Neanche a “Repubblica”, per dirne una.

E infatti domani sfileranno, i miei colleghi giornalisti, a braccetto con gli editori, dietro i loro leader che principalmente sono due: Carlo De Benedeti e Rupert Murdoch. Uno italiano e uno straniero. Sfileranno sotto il sole e grideranno: «Andremo in prigione se sarà necessario, ma sulla libertà non transigeremo mai». Non si preoccupino, nessuno li metterà in prigione. Né se la legge si farà, né se, come è molto probabile, non si farà. Hanno sbagliato Risorgimento, tutto qui. (il Riformista)

Sentenza ineludibile. Davide Giacalone

Sentenza non digeribile e gravida di conseguenze, quella che condanna Marcello Dell’Utri a sette anni di carcere, per concorso esterno in associazione mafiosa. La formula di rito è: attendiamo di leggere le motivazioni. Ma questa è una posizione ipocrita, perché quella lettura sarà un problema dei soli avvocati, i quali dovranno redigere il ricorso in cassazione. Il dato pubblico e politico è evidente: Dell’Utri è un uomo decisivo nello sviluppo sia dell’impresa che della politica di Silvio Berlusconi, appartiene al ristretto gruppo dei fondatori, in entrambe le avventure, una sua collusione con la mafia porrebbe (la sentenza non è definitiva) un problema insuperabile.

La Corte d’appello di Palermo ha dovuto ragionare di politica e politicamente. Lo rilevo come fatto oggettivo, sottolineato anche dal procuratore generale (rappresentante dell’accusa) che si dice “profondamente deluso” perché ritiene che “l’aspetto politico era la parte della vicenda sulla quale l’accusa aveva quagliato meglio”. “Quagliato”, ha detto proprio così, testimoniando l’alta scuola giuridica spesa nel corso del processo. La sentenza è politica perché Dell’Utri è assolto per tutti i reati contestati dopo il 1992, ritenuti non esistenti. Le accuse di Spatuzza, tutte le chiacchiere sulla trattativa fra mafia e Stato, l’ipotesi che Berlusconi e Dell’Utri fossero i mandanti delle stragi, è tutta roba da buttare nella spazzatura. Chissà se avranno voglia di rovistarvi ancora, i molti che si sono distinti in questi ultimi mesi, a partire dal Presidente Emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

Di queste stesse cose abbiamo scritto ripetutamente, argomentando il perché quelle accuse erano prive di senno. Restando ai giudici, naturalmente, stabilire se suffragate da prove e riscontri. Ora conosciamo il loro giudizio: il fatto non sussiste. Si può ben titolare, dunque, che il teorema dell’accusa crolla, che l’inchiesta iniziata nel 1994, il processo avviato nel 1997, la sentenza di primo grado, del 2004, e i successivi sei anni che hanno portato all’attuale verdetto, sono stati sedici anni di calunnie, che il fantasticare di una politica asservita alla mafia è stato un delirio. Sono sicuro che molti imboccheranno questa strada. Ma noi, che lo avevamo già detto, non possiamo in nessun modo trascurare l’altra parte della sentenza, quella che condanna. Siamo tenuti a ragionarne, anche perché il concorso esterno di Dell’Utri si concretizzerebbe proprio nel difendere gli interessi di Fininvest e Standa, vale a dire delle aziende di Berlusconi. Qui si apre un problema di diritto, che non può non avere conseguenze politiche. Per questo la sentenza della cassazione sarà decisiva.

Lo schema sarebbe questo: uomini della mafia minacciarono gli interessi di quelle società, mentre Dell’Utri li protesse, giungendo a patti con loro. Vale per tutti gli imprenditori che pagano il pizzo o vale solo per Dell’Utri? Vale per la Standa o vale anche per le Coop rosse e per le imprese nazionali di costruzione? Qual è il confine fra l’essere vittima di un ricatto e l’essere complici di un crimine? E’ ovvio che pagando il pizzo, o fornendo altre utilità, si rafforza l’organizzazione criminale, ma vale per ogni dove, mica solo in questo caso. Il codice penale descrive una condotta specifica per chi non concorre a commettere un reato, ma ne favorisce l’esecuzione o gli artefici, e la chiama “favoreggiamento”. Si sa, insomma, cosa sia il “concorso” e si conoscono i contorni del “favoreggiamento”, nell’un caso come nell’altro dovendosi provare specifiche condotte. Quel che non si sa, invece, è cosa sia il “concorso esterno in associazione mafiosa”, e non si sa perché nel codice non c’è scritto, essendo un reato frutto della giurisprudenza, delle sentenze, non della volontà del legislatore, con il risultato che tale reato è stiracchiabile quanto lo scroto e non è affatto chiaro come lo si dimostri, quindi come ci si difenda.

Se Dell’Utri fosse stato condannato per favoreggiamento o per concorso nel reato la partita sarebbe esclusivamente giudiziaria e a giocare dovrebbero essere solo gli avvocati. Ma la condanna per concorso esterno pone un problema politico, perché quel reato è un’arma puntata contro chiunque abbia un ruolo pubblico. Come, infatti, testimoniano i casi di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, assieme a molti altri. Tocca al legislatore intervenire, restaurando la sovranità della legge e senza lasciarsi intimidire. Da anni, invece, è immobilizzato dal timore e dal ricatto.

Puntare tutto, invece, sull’assoluzione per i fatti politici, ritenendo accettabile la condanna per quelli criminali, significa dimenticare che questi ultimi sarebbero stati commessi nell’interesse dell’attuale presidente del Consiglio, del capo della maggioranza parlamentare. Impossibile essere ciechi al punto da non vedere l’inconciliabilità di quella verità processuale con la realtà istituzionale. Diciamolo in modo più piatto e ruvido: qui non si parla di qualche fattura falsa, o di qualche furbata in bilancio, che sono attività illecite ma ricompresse nella normale amministrazione, qui si parla di avere favorito la mafia. Con una sentenza simile non si convive. Né gli interessati né l’Italia.

I giudici di Palermo, come qui denunciammo, sono stati a loro volta intimiditi, al punto da sentire il bisogno, prima d’entrare in camera di consiglio, di comunicare che avrebbero fatto il loro dovere senza condizionamenti. Roba mai vista. La loro sentenza annienta un pezzo, il più eclatante, del teorema accusatorio, ma non risolve il problema. E il problema non è salvare Dell’Utri dalla condanna, ma salvare il codice penale dal fai da te giurisprudenziale. Noi non facciamo processi a mezzo stampa, né per accusare (come fanno tutti gli altri) né per difendere (quando si tratta di loro amici), noi avvertiamo che senza certezza del diritto un Paese affonda nella palta e nel ricatto. Dove noi, del resto, già mariniamo da tempo.

Così i camalli affondarono la democrazia dell'alternanza. Marcello Veneziani

Se cercate la scatola nera della sinistra italiana, potrete trovarla nel porto di Genova. Là, esattamente cinquant’anni fa, in un giugno più caldo del presente, la sinistra sfregiò la democrazia e fece cadere un governo legittimamente uscito dalle urne con un moto violento di piazza. Sto parlando dei ganci di Genova, come furono chiamati in gergo missino i micidiali ganci usati dai portuali comunisti, i feroci camalli che scesero in piazza per impedire lo svolgersi di un regolare congresso nazionale del Msi. Oggi tv e giornali ricordano i fatti di Genova con un sottinteso epico, quasi a celebrare un’epopea partigiana di giustizia e libertà. Affiorano rievocazioni nostalgiche di quel clima, in cui perfino le auto bruciate e le magliette a strisce dei portuali sono ricordate con tono elegiaco da commosso amarcord. E invece quell’evento che Aldo Moro definì «il più grave e minaccioso per le istituzioni» dalla nascita della Repubblica italiana, fu un vero e proprio golpe di piazza che tardò la nascita di una democrazia matura fondata sull’alternanza, resuscitò gli spettri della guerra civile e alimentò nella destra frustrata rigurgiti di neofascismo e sogni di golpe. Il principale testimonial e istigatore di quell’evento, con Umberto Terracini, fu Sandro Pertini, che ritrovò in quella mobilitazione lo spirito bellicoso della lotta partigiana, non accorgendosi che si trattava di una mobilitazione violenta contro un pacifico congresso ed un legittimo governo liberal-democratico. Era l’epoca del governo Tambroni, il primo governo di centro-destra che godeva dell’appoggio esterno dell’Msi. Il Paese viveva il boom economico, ormai pacificato, la violenta contrapposizione tra fascismo e antifascismo si era spenta, e anche la guerra fredda, con l’avvento di Krusciov e Kennedy si era intiepidita (salvo poi riaggravarsi a Cuba), assopendo l’antitesi comunismo-anticomunismo. Non era ancora stato eretto il Muro di Berlino.
In quel tempo l’Msi era guidato da Arturo Michelini, un nazional-conservatore che voleva inserire il suo partito nel gioco politico delle alleanze. Del resto, negli anni cinquanta, molte amministrazioni del sud erano rette dall’appoggio monarchico e missino, e perfino il Pci di Togliatti aveva trescato in Sicilia con l’Msi per sostenere la giunta Milazzo. Insomma, la guerra civile del ’45 e il frontismo radicale del ’48 erano ormai ricordi sepolti, come ricordo lontano erano ormai i celerini di Scelba contro i manifestanti o la legge dello stesso Scelba che vietava la ricostituzione del disciolto partito fascista. L’Msi ebbe l’infelice idea di celebrare il suo congresso a Genova, città antifascista con un forte movimento sindacale e comunista. Di fronte alle minacce della sinistra, il Prefetto di Genova aveva saggiamente proposto di spostare il congresso missino a Nervi. Ma social-comunisti, Anpi, Cgil e portuali non accettarono il compromesso; volevano cogliere il pretesto del congresso missino per abbattere il governo di centro-destra. Sarà proprio Sandro Pertini (che perfino il suo compagno di partito Pietro Nenni considerava un violento) ad accendere il fuoco della rivolta con il «discorso del brichettu» (il fiammifero) del 28 giugno. Due giorni dopo la città fu messa a ferro e fuoco dagli insorti, come accadde poi nel luglio del 2001 ad opera dei no-global. Aggressioni ai delegati missini, rifiuto di accoglierli in albeghi e locande, la celere travolta dai camalli, le jeep della polizia capovolte, incendi e assalti. Forse fece bene la polizia a non rispondere col fuoco e fecero bene i missini a non mobilitare il loro servizio d’ordine che comunque sarebbe stato soccombente. Ci sarebbero stati molti morti, non solo a Genova. Alla fine a morire fu il governo Tambroni e a restare invalida fu la democrazia italiana, che perse da allora il fianco destro. La spuntarono loro, i camalli d’assalto e le sinistre di piazza. Sotto i colpi della piazza i ministri della sinistra dc rassegnarono le dimissioni, il governo Tambroni cadde e gli stessi che avevano giudicato con allarme la violenza di piazza, come Moro e Fanfani, aprirono poi alla stagione del centro-sinistra, portando i socialisti al governo. Quando si parla del rumore di sciabole dei militari e carabinieri italiani, e della strisciante tentazione golpista che attraversò l’Italia tra il ’64 e il ’70, da De Lorenzo a Borghese, coinvolgendo i partigiani Sogno e Pacciardi, si deve considerare quel precedente genovese che rendeva impossibile la nascita per vie democratiche di un centro-destra in Italia. Quel clima violento perdurò a Genova fino ai primi anni 70, se si considera che tra i primi passi del terrorismo rosso in Italia ci furono l’assassinio del militante missino Ugo Venturini e il rapimento del magistrato “destrorso” Mario Sossi.
L’insurrezione di Genova diventerà la madre di tutte le mobilitazioni di piazza con cui la sinistra in Italia ha inteso forzare la democrazia italiana, i suoi governi, le sue scelte, le sue alleanze. Un metodo che viene tuttora utilizzato per abbattere con una spallata di piazza i governi usciti dalle urne. Per fortuna il clima è cambiato, i camalli si sono imborghesiti, non portano più le magliette a strisce e i ganci micidiali, né ci sono in giro partigiani pronti a riprendere le armi. Ma quel governo di centro-destra avrebbe accelerato la nascita di una destra postfascista e avrebbe insieme creato le premesse per una democrazia dell’alternanza, spingendo anche la sinistra a superare il massimalismo e a disporsi così a governare. Ma il Pci dell’epoca prendeva ancora ordini e soldi da Mosca e considerava l’America e il Capitalismo due mali da cui liberarsi. Così la Dc, con i suoi alleati, restò al governo vita natural durante. (il Giornale)

martedì 29 giugno 2010

Carcere preventivo: il limite cancellato. Pierluigi Battista

Se sono colpevoli o innocenti, lo si appurerà nel processo. Quando, se condannati, meriteranno il carcere. Appunto: se condannati. Mentre la prolungata custodia cautelare è sempre carcere (anche se domiciliare), ma senza condanna stabilita da un verdetto giudiziario. Una condanna preventiva. Una sanzione anticipata. Come se i tempi (mostruosamente dilatati) della giustizia non tenessero conto dei tempi della persona. Costituzionalmente innocente fino a verdetto definitivo: sempre che valgano ancora le regole dello Stato di diritto.

Princìpi elementari, quasi ovvii nel catechismo garantista che pure è la base dello Stato di diritto in cui abbiamo l’impressione di vivere. Ma che l’opinione pubblica, esacerbata dal moltiplicarsi di corruzione e di crimini contro il bene pubblico, tende a dimenticare. Anche nel caso degli indagati per il giro di false fatturazioni e di riciclaggio. La Cassazione ha stabilito che Bruno Zito, coinvolto nel «caso Fastweb», debba restare nella galera (preventiva) in cui è rinchiuso dal 23 febbraio: più di quattro mesi fa, oramai. Confermati anche gli arresti domiciliari di Silvio Scaglia. Il Corriere, alla vigilia del pronunciamento della Cassazione, ha pubblicato una lettera molto dignitosa del padre di Zito, dove non si entrava nel merito delle accuse, ma ci si chiedeva se davvero sussistessero le condizioni per cui il figlio dovesse essere trattenuto (preventivamente) in carcere. Anche i giornalisti non devono entrare nel merito delle accuse. Anzi, dovrebbero, perché molti giornalisti sembrano ispirati dalla missione di giudicare al posto dei giudici, sostituendosi a essi in modo arbitrario e prepotente. Ma chiedersi fino a quando può durare un regime di carcerazione preventiva non è una domanda legittima. Anche chiedersi se non c’è un abuso della custodia cautelare. O se, addirittura, in molti casi in Italia non si abusi deliberatamente del carcere preventivo per «ammorbidire» gli indagati, spronarli alla collaborazione: che poi è un modo gentile ed edulcorato per alludere alla confessione.

Ai tempi di Mani Pulite (sono fatti noti, oramai da raccontare come fossero storia) capitava che, alla scadenza dei termini di custodia cautelare, un’altra accusa si abbatteva sulla testa dell’indagato, e si ricominciava da capo, azzerando il cronometro. Di questi tempi, invece, il Tribunale del riesame di Firenze, motivando il rigetto di scarcerazione per Balducci e altri esponenti in vista della «cricca», ha deplorato addirittura «uno stile di vita antigiuridico degli indagati » nonché, testuale, «l'atteggiamento di totale chiusura all’ipotesi accusatoria». Se non si capisce male, la non aderenza degli indagati agli argomenti dell’«ipotesi accusatoria» costituirebbe un’aggravante, passibile di ulteriore sanzione carceraria (preventiva) che non si sarebbe manifestata se invece gli stessi indagati si fossero conformati alle ipotesi formulate dagli accusatori. Un’innovazione, che è anche un’indicazione per chi, in futuro, dovesse regolare opportunamente linee difensive e comportamenti («stili di vita») efficaci ai fini della scarcerazione.

Il merito delle accuse, dunque, non c’entra. C’entrano i criteri, i tempi, le modalità con cui la custodia cautelare può subire una distorsione irreparabile. Come fosse un surrogato per una pena la cui certezza, dopo e non prima la sentenza, appare sempre più aleatoria. Ma mettere il «prima» al posto del «dopo» è prassi ingiusta, anche se capace di appagare, in modi obliqui, la richiesta di giustizia dell’opinione pubblica. (Corrierre della Sera)

In nome del popolo italiano. Luca Sansonetti

Ragazzi non prendiamoci in giro su, ma quali tribunali, magistrati, pubblici ministeri, gup, gip e via discorrendo; il vero tribunale italiano, la vera aula d’inquisizione, la vera ghigliottina giuridica ufficiale è una sola ed è su carta, anche di ottima fattura. E’ L’Espresso la vera, reale, casa della giustizia italiana. Il periodico, dell’omonimo gruppo editore, sputtana, indaga e poi condanna; e come i veri tribunali e i veri magistrati, ovviamente, lo fa in un’unica direzione e con un unico scopo: screditare, demolire il “Nerone” Berlusconi oppure i fidati uomini del Cavaliere. D’altronde quale può essere il “gioco” più cinico e spietato di un “palazzo di giustizia” che annovera, tra “uomini di legge” e “giudici popolari”, integerrime personalità come Marco Travaglio, Giorgio Bocca, Umberto Eco, Michele Serra, Massimo Riva, Lirio Abbate: tutti “amici” di infanzia del Berlusca. La strategia, però, del tribunale L’Espresso adesso è decisamente cambiata, perché fino a poco tempo fa ad essere preso di mira era il Cavaliere in persona. Vi fu la questione della moralità, con l’affaire Noemi e quella D’Addario, l’harem “segreto” di Silvio, fatto di attrici, attricette e “sgallettate” varie, le feste di Villa Certosa e quelle di Palazzo Grazioli. Tutto avvallato da intercettazioni pubblicate sul sito internet; successivamente gli attacchi sul piano politico estero, con accuse addirittura di rapporti stretti con l’Iran, con la Libia; quindi sono arrivati i “giochetti mafiosi” di Silvio, con il periodico che ha pubblicato una presunta missiva, spedita dopo la “discesa in campo” del Cavaliere a Cosa Nostra. Proprio loro dell’impeccabile tribunale de L’Espresso, che giovedì 17 giugno hanno schifosamente macchiato e deturpato la memoria di Falcone e Borsellino con un fotomontaggio sul sito internet della testata giornalistica. I due magistrati antimafia portavano il bavaglio, “incollato” sui loro volti con un giochino grafico. La tesi a cui si accompagna l’immagine è che i due, a causa della legge sulle intercettazioni, al giorno d’oggi non potrebbero svolgere egregiamente il proprio compito, come avevano fatto quand’erano in vita. Un accostamento a dir poco stridente tra lotta alla mafia, stragismo e isterie di sinistra. D’altro canto cosa non si fa per schiacciare e disintegrare il Premier e il suo governo; e cosa non si fa pur di riportare consensi al Pd, anche accaparrarsi, senza alcun diritto, “eroi” come Falcone e Borsellino: pessimo e becero gusto rosso Espresso.

Terminati, poi, gli attacchi diretti a Silvio Berlusconi, perché tutti miseramente scoppiati come bolle di sapone e perché ultimamente il terreno è “poco fertile”, ecco il cambio di strategia del palazzo di giustizia rossa L’Espresso: obiettivo Guido Bertolaso e con esso la Protezione civile. L’ennesimo attacco, ormai diventato settimanalmente proporzionato all’uscita del periodico, sulla “Discarica Maddalena” è ad opera del puntiglioso Fabrizio Gatti, il quale ha rivelato che nel tratto di mare antistante la zona dell’ex Arsenale militare i lavori di bonifica, “costati 72 milioni di euro e affidati al cognato di Bertolaso” non sono stati ancora effettuati, “come” invece “aveva annunciato il capo della Protezione civile(mai udito)” . L’inchiesta ha documentato il tutto con testimonianze, video e fotografie. Peccato che anche quest’ultimo scoop, o meglio “sputtanamento” gratuito, come molti altri de L’Espresso si sgonfi quasi subito, purtroppo a fari spenti; perché in questo Paese è tanto facile e semplice accusare, quanto difficile, come storicamente provato, fare passi indietro e chiedere scusa. Lo scorso 24 aprile, infatti, in una lunga intervista al quotidiano La Nuova Sardegna, guarda caso del gruppo L’Espresso (neanche si leggono in “famiglia”) il dottor Nicola Dell’Aquila, dirigente generale del Dipartimento della Protezione civile, aveva sottolineato come le “opere di bonifica della Maddalena” si trovassero “ancora a metà”, e che i fondi per completare il risanamento fossero ancora “a disposizione del ministero dell’Ambiente, così come avviene per i parchi nazionali”. L’altro buco, neanche questo marginale, de L’Espresso riguarda le cifre spese, “24 milioni e non 72”, per le opere di bonifica , che, come ri-replicato ieri stesso dalla Protezione civile “verrano concluse dopo la stagione estiva”. Scelta che ha comunque consentito il regolare, sereno e perfetto svolgimento all’interno dell’ex arsenale a La Maddalena della Louis Vouitton Cup di vela, a differenza di quanto sostenuto da Gatti, per il quale vi erano stati numerosi problemi tecnici nel bacino durante le regate. Ma tutto questo non importa, d’altronde le smentite hanno sempre meno cassa di risonanza, il tribunale de “L’Espresso” ha sentenziato e così deciso: “Bertolaso Connection” e Protezione civile incompetente (eppure il mondo ce la invidia). Il “giudice” Lirio Abbate , ieri, ha letto la sentenza: “Il vero volto dell’uomo delle emergenze, l’eroe de L’Aquila, il consulente più pagato del governo Berlusconi si scopre la mattina del 10 febbraio...quando i Ros gli hanno notificato un avviso di garanzia per corruzione”. Ergo per Abbate, Bertolaso è un corrotto: così ha valutato la Corte rossa. D’altra parte è L’Espresso il vero tribunale italiano, l’ultima arma a disposizione della sinistra per “sputtanare”, condannare e soprattutto far cadere il governo Berlusconi. In nome del popolo sovrano, L’Espresso decide. (l'Opinione)

lunedì 28 giugno 2010

Dopo Brancher. Davide Giacalone

Ha ragione Aldo Brancher: quanta cattiveria, quanta durezza, ha dovuto subire. Anche da parte nostra. Ma occorre si renda conto di quanta sprovvedutezza politica, quanto azzardo istituzionale, quanta dabbenaggine comunicativa e quanta arroganza sostanziale vi è nella catena di eventi di cui egli è più oggetto che protagonista.

La condotta di ciascuno si presta a critiche radicali. Lo stesso Presidente della Repubblica ha rotto quel che restava, di formale, a dividere la più alta carica dello Stato dalla battaglia politica più diretta e inzaccherata, accettando prima di nominare un ministro (perché è il Quirinale che lo ha fatto, così come prescrive la Costituzione) senza portafoglio nel mentre resta vacante una sede con portafoglio, il che, già da sé, esclude che a un politico esperto e di lungo corso, come Giorgio Napolitano, sembrasse normale amministrazione, salvo poi, con scelta improvvida, sentenziare che quel ministro non deve organizzare alcun dicastero, come se l’assenza di portafoglio comporti l’assenza di organizzazione, e sostituendosi al giudice nello stabilire se il legittimo impedimento è reale o pretestuoso. Forse non è ancora chiaro, ma quel comunicato presidenziale invade le competenze sia del governo che della giustizia.

Non per questo, però, si può tacere la condotta spericolata della maggioranza, che troppo tardi, troppo in fretta e troppo grossolanamente ha deciso di porre uno strumento di salvaguardia (il legittimo impedimento) al servizio di un proprio uomo, come se fosse possibile nominare un ministro e spingerlo a quella richiesta come primo atto della propria attività. Se ne erano consapevoli si tratta di arroganza. Se non lo erano d’imperdonabile insensibilità. In ogni caso si sono dimostrati degli incapaci, che ora hanno aumentato i guai di chi volevano aiutare.

E non basta, perché la maggioranza ha anche la colpa di non essere rimasta compatta, davanti all’errore commesso, aggravandolo. Brancher è, da molti anni, l’uomo di collegamento fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. I guai giudiziari che lo riguardano (per i quali, vale per lui come per tutti, deve essere considerato innocente fino a sentenza definitiva contraria) si riferiscono ad una vicenda bancaria nella quale sono coinvolti interessi della Lega. Eppure è stato Bossi il primo a sparargli addosso, dal pratone di Pontida. E’ stato lui a disconoscerne la funzione, disvelando anche ai ciechi la strumentalità della nomina. La cattiveria comincia da lì. Ma non è stata una cattiveria gratuita, perché anche Bossi era a sua volta in difficoltà, visto che ai suoi elettori racconta storie non coerenti con quel che accade, e quelli se ne accorgono. Allo scarto leghista s’è subito unita la critica di Gianfranco Fini e dei suoi, cui non è parso vero di potere ficcare una lancia nella piaga apertasi sul fianco del rapporto che li esclude, dell’asse che li rende minoranza. Tutto questo capita dentro la maggioranza, e sarebbe un grave errore far credere che il problema consista nel pestar di piedi e nello straparlare di qualche esponente dell’opposizione.

Infine, l’opinione pubblica assiste allibita alla scena, scorgendo tracce di disperazione o di disperante inettitudine. Sia i simpatizzanti che gli antipatizzanti, paradossalmente, vengono spinti a ritenere che ci sia bel altro, dietro un errore così macroscopico. Non riesco ad immaginare come si potesse gestire peggio l’intera faccenda, né sistema più efficace per farsi del male e soffiare sul fuoco della cattiveria.

Il rimedio, ora, non consiste né nelle dimissioni né nella resa, ma neanche nella protervia del far finta di niente. L’unica cosa da farsi è cercare di dimostrare che dopo l’imbarazzante sdrucciolata si ha ancora la lucidità e la determinazione di far vedere al Paese di cosa altro è capace il governo. Altrimenti si vedrà di cosa altro è capace una società, lo ripetiamo da tempo, incattivita dalle tifoserie.

venerdì 25 giugno 2010

Così non va. Davide Giacalone

Così non va. Meglio dirlo in modo ruvido: così la baracca viene giù. Il presidente del Consiglio non aveva ancora finito di decollare per il Canada che i problemi non risolti hanno innescato conflitti destinati ad aggravarsi. Poco male, potrà pensare qualcuno, è la solita sceneggiata politica. Ma non è così, perché i nodi non sciolti rischiano di bloccare tutto, soffocando anche quella ripresa economica intravista da Confindustria e, comunque, penalizzata da tagli alla spesa che, in assenza di riforme e liberalizzazioni, hanno un effetto recessivo.

Dentro la maggioranza non mancano i problemi, visto che le tre aree che la compongono non si risparmiano pubbliche tortorate. Il tutto aggravato da una gestione non sempre lucida della compagine. Non sono fra quanti pensano che non si riesca a campare se non si nomina un titolare al ministero dello Sviluppo Economico, e neanche ritengo che l’efficienza di un governo sia data dal numero dei suoi componenti, per cui non mi scandalizzo affatto se si aggiunge un posto a tavola, però, che diamine, nominare un nuovo ministro senza avere idee chiare sulla funzione e delega, al punto che questa cambia con il passare delle ore e il vice presidente sconfessa l’originaria missione, nominarlo nel momento in cui si trova a doversi avvalere del legittimo impedimento, quindi in coincidenza con l’opportunità di non recarsi davanti ai magistrati, il tutto mentre resta vuota la poltrona di un ministero che ha, fra le sue competenze, il futuro energetico dell’Italia, insomma, è un andazzo da sconsiderati.

Stiano attenti, i capi della maggioranza, non ritengano che l’inesistenza dell’opposizione, la sua inconsistenza politica, li metta al riparo da possibili guai. E non ritengano che gli elettori cui devono la vittoria, e il sedere al governo, siano struzzi pronti a deglutire di tutto. Anche perché, in cambio, non ricevono politiche convincenti. Silvio Berlusconi tornerà in Italia il 4 luglio. Dieci giorni senza gatto non saranno dieci giorni di danza, per i topi casalinghi, ma un periodo in cui sono in grado di rodere gli stessi pilastri sui quali sono seduti.

Gli italiani guardano, e sanno valutare. Come credete che siano accolti gli annunci sulla semplificazione, sulla possibilità di aprire le aziende in un solo giorno, salvo subire successivamente i controlli? Con grande scetticismo, quando non con amara ironia. Il problema delle nuove aziende italiane non è quello di nascere, ma quello di sopravvivere e crescere. I costi intollerabili non sono quelli di partenza, ma quelli di permanenza in vita. Se posso avviare l’attività semplicemente comunicandolo lo farò, ma non investirò un tallero (che nessuna banca mi presterebbe, oltre tutto) fin quando non si saranno esauriti i controlli e messi tutti i bolli perché, altrimenti, rischio di perderlo non appena ad una qualche burocrate non salta lo sghiribizzo di considerare non in regola lo scarico del lavandino. E, anche qui, non farò nessuna apertura di credito ad un governo che m’induce a partire promettendo benevolenza ma, al tempo stesso, mi comunica che in caso di accertamenti fiscali e relative cartelle esattoriali sono tenuto a pagare tutto subito, senza fiatare, salvo poi chiedere l’intervento del giudice, che deciderà quando sarò fallito da un pezzo. La gente sa far di conto, e sa che, in questo modo, si nasce al solo scopo d’essere macellati.

C’è un grosso lavoro da fare, nel campo della semplificazione, ma non consiste nel posticipare la tortura burocratica, bensì nel rendere certo il diritto. I controlli non possono essere omessi, ma vanno cancellati quelli inutili e centralizzati gli altri. Insomma, la strada non è quella del decreto buttato giù in fretta e furia, per accompagnare i tagli con quello che sembra zucchero e, invece, è sale.

Prendete poi il capitolo del conflitto con le regioni. Prima si è mosso Roberto Formigoni, presidente della Lombardia e, da sempre, esponente del centro destra, avvertendo che non era possibile tagliare la spesa in quel modo. Non entro nel merito, che è complesso, in una mescolanza di torti e ragioni, mi limito ad osservare che, già dopo la presentazione del decreto, il capo del governo aveva accolto l’idea di alcune modifiche. Formigoni ha insistito, non fidandosi (e non avendo torto a diffidare), ma la risposta governativa è stata una sostanziale chiusura. A questo punto è ovvio che il posto in prima fila, nell’attacco all’esecutivo e alla manovra, viene preso da Vasco Errani, presidente della conferenza delle regioni ed esponente della sinistra. Che si aspettavano? pensavano che un uomo dell’opposizione potesse essere più accomodante di uno della maggioranza?

Intendiamoci, anche Giulio Tremonti ha scarsissimi margini per modificare la manovra, dovendone lasciare intatti i saldi (e sperando che siano sufficienti), ma proprio per questo era necessario un di più d’iniziativa politica, un maggiore sforzo di ricondurre ciascun pezzo dentro il senso di un’azione ben spiegata, attorno alla quale si doveva costruire il consenso. Invece è palese che neanche dentro al governo s’è raggiunto questo risultato.

Il resto dello scenario non aiuta, con le inchieste giudiziarie che precedono di anni i giudizi, un commissario dell’Autorità per le comunicazioni che si dimette, fucilato dalle intercettazioni, e la maggioranza che non riesce ad essere tale neanche nel regolarle in modo razionale e risolutivo, tenendo assieme il diritto alla sicurezza, quello alla privacy e quello di cronaca. I segnali di ripresa sarebbero dovuti servire per suonare la riscossa, invece avvertono che non si va lontano, senza darsi una mossa.

giovedì 24 giugno 2010

Il vero mistero è che all'epoca Ciampi non si accorse di cosa stava accadendo. Lodovico Festa

"Un voto che non va travisato".
Dice un titolo della Stampa (24 giugno).
Alla Stampa si travisa quasi su tutto: ma se si tratta dei gioielli di famiglia – come lo stabilimento di Pomigliano - allora la chiarezza diventa obbligatoria.

“Squadra senza guizzi, poco movimento di palla, attaccanti sempre spalle alla porta”.
Dice Silvio Berlusconi al Corriere della Sera (24 giugno).
Berlusconi vuol far intendere che è Fini a influenzare le scelte di Lippi?

“Un mistero che né D’Alema né Prodi protagonisti a diversi livelli della vicenda, mi hanno mai svelato”.
Dice Carlo Azeglio Ciampi al Corriere della Sera (24 giugno).
Un mistero nel ’92-’93 un altro nel 1998, Ciampi non spiega il mistero di come abbia potuto esercitare ruoli eccezionali nel suo decennio “politico” senza mai capire quel che stava avvenendo.

“Nelle condizioni date la posizione più saggia era quella di Bersani”.
Dice Alfredo Reichlin sull’Unità (24 giugno).
La famosa posizione: se c’ero, dormivo. (l'Occidentale)

mercoledì 23 giugno 2010

Tra verme e mafioso, la giustizia ridicola. Arturo Diaconale

Dare del verme vale 16mila euro. Dare del mafioso, invece, rientra nel diritto di cronaca. A stabilirlo è stato un magistrato che doveva decidere su una richiesta di risarcimento danni avanzata dal Presidente del senato Renato Schifani nei confronti di Marco Travaglio che lo aveva accusato in diverse occasioni, a mezzo carta stampata ed a mezzo televisivo, di essere al tempo stesso un verme ed un politico con rapporti mafiosi. Non entro nel merito della sentenza. E non perché condivida la tesi ipocrita e ridicola secondo cui le sentenze non si discutono. La libertà di stampa, infatti, è fondata proprio sull’esigenza di poter discutere e criticare le sentenze di magistrati che negli anni dei regimi assolutisti e privi di costituzioni liberale erano regolarmente asserviti al potere del sovrano. Le sentenze, allora, possono essere tranquillamente criticate. Perché solo una discussione libera sulle loro conclusioni garantisce la funzionalità e l’esistenza dello stato di diritto. Non entro nel merito perché non voglio immischiarmi nel contrasto personale tra Schifani e Travaglio. Sono fatti loro. Non condivido il modo di fare giornalismo sputtanatore di Travaglio. Ma credo che sia sbagliata anche la tendenza dei politici ad appellarsi alla magistratura per tutelare la propria onorabilità messa in discussione dai giornalisti sputtanatori. Credo che tra politici, giornalisti e gli stessi magistrati basterebbe un giurì d’onore effettivamente funzionante. E quindi non mi convince l’idea che l’onorabilità di una persona possa avere un qualsiasi prezzo. Ma la vicenda del verme che vale 16 mila euro di multa e del mafioso che rientra nel diritto di cronaca mi spinge a sollevare una questione di natura generale da una esperienza personale. Quella di essere il direttore di un giornale che per aver definito un “cattivo maestro” un rappresentante di un movimento islamico che nel suo paese d’origine era stato condannato a morte per terrorismo è stato condannato ad un risarcimento di danni di altre 70 mila euro da un magistrato monocratico. Bene, se dare del verme vale 16 mila euro e dare del mafioso non vale nulla, perché rientra nel diritto di cronaca, in base a quale criterio l’epiteto di “cattivo maestro” deve pesare e valere 70 mila euro?

La risposta è che nel nostro ordinamento giuridico non esiste un parametro oggettivo in base al quale si valuta quali affermazioni della stampa rientrino nel diritto di cronaca, e quindi non siano sanzionabili in alcun modo, e quali debbano essere considerate delle offese da sanzionare con risarcimenti danni dalla definizione fluttuante. Ogni magistrato decide autonomamente, in base alla propria cultura, coscienza e, naturalmente, in base alle proprie opinioni. La decisione, dunque, è assolutamente discrezionale. Ed essendo tale è influenzata dalle convinzioni e dalle convenzioni dominanti del momento. Per cui capita che criticare un musulmano venga considerato politicamente scorretto da un magistrato convinto che ogni tipo di osservazione negativa neghi in dialogo e favorisca la guerra di civiltà. E che sanzioni una pena esorbitante per chi ha avuto l’ardine di contestare un musulmano in odore di terrorismo. E può capitare anche che un magistrato politicamente corretto consideri assolutamente normale che il guru del giustizialismo italico dia del mafioso ad un aborrito berlusconiano, per di più Presidente del Senato, e decida di sanzionare solo un epiteto, come quello di verme, che difficilmente può rientrare nel diritto di cronaca del professionisti dell’antimafia. Ma se ogni magistrato può comportarsi come meglio ed interpreta la propria autonomia ed indipendenza come appiattimento sul pensiero politico dominante, diventa difficile dare credito e fiducia alla giustizia dei conformisti. Peggio che ai tempi degli stati autoritari! (l'Opinione)

giovedì 17 giugno 2010

Obama e la marea nera:"Armiamoci ... e partite!" Carlo Panella

Un perfetto, coinvolgente appello alla nazione che si potrebbe titolare: “Armiamoci e… partite!”. Ancora una volta, Barack Obama ha dato prova delle sue straordinarie capacità oratorie, e purtroppo, ancora una volta, ha confermato la sua straordinaria allergia nell’impegnarsi in prima persona nel risolvere le crisi. Problemino che delega ad altri, quasi non si fosse ancora accorto di essere l’uomo, il leader, con più poteri al mondo, a capo del paese più potente del mondo. Oltre ai voli pindarici sulle energie pulite, alla definizione della portata storica della catastrofe, alla nomina di Ray Mabus quale “zar del Golfo” con pieni poteri operativi, alla assicurazione che la Bp pagherà i danni (“ma non eccessivi”, ha poi corretto Obama, che deve rimediare ad una crisi diplomatica con l’Inghilterra causata dal suo scaricare le colpe solo sulla Bp), il paese, e il mondo, si aspettavano di sapere “cosa” esattamente farà la Casa Bianca. Ma Obama non l’ha detto. Sono passati 58 giorni dall’esplosione della piattaforma petrolifera ed una sola cosa è chiara: Obama sta tanto attento a far vedere la sua piena preoccupazione per la catastrofe, quanto nulla fa per impedirla (innanzitutto coinvolgendo la Marina e il Genio degli Usa per tappare la falla da cui fuoriescono 60.000 e non 35.000 barili al giorno, come sin ora ammesso). Non fa nulla e lascia che sia la Bp a tentare (e a fallire) di bloccare il mare di greggio che si riversa nell’oceano, per una semplice ragione: non vuole prendersi la responsabilità dei fallimenti. Sceglie che sia la sola Bp a operare, senza l’apporto degli immensi e decisivi mezzi che possono impiegare la Marina e il Genio Usa, e non gli interessa –con ogni evidenza- che la Bp non riesca a tappare la falla. E’ una tecnica di “scaricabarile” che Obama adotta a fronte di tutte le crisi, sia quella con l’Iran, che quella con la Corea del Nord che quella mediorientale, che infatti, dall’inizio della sua presidenza a oggi non hanno fatto altro che incancrenire su sé stesse. Un comportamento così irresponsabile da creare irritazione non solo nell’opposizione repubblicana ma anche nei democratici e nel sito più obamiano che vi sia, l’Huffington Post: “Il presidente non ha offerto nessun immediato conforto ad una nazione arrabbiata. Ha assicurato che “combatteremo contro questa fuoriuscita con tutti i mezzi a disposizione e per tutto il tempo necessario”, senza però fornire dettagli concreti su come sarà condotta questa battaglia, e, soprattutto, quanto costerà”. Duramente critico anche Ezra Klein sull’autorevole –e filo obamiano Washington Post: “Scegliendo di insistere soprattutto sulla linea generale della necessita di una riforma energetica, ha evitato di affrontare il problema in modo chiaro, non ha dato il sostegno a nessuna legge specifica, non ha stabilito obiettivi precisi”. Sarcastico Keith Olbermann della Msnbc: “Sarebbe stato un grande discorso se fossimo stati su un altro pianeta per 57 giorni. Obama non ha detto niente di specifico, e non credo che neanche lo volesse”. Sulla stessa linea anche Steny Hoyer, leader della maggioranza democratica al Congresso che ha invitato Obama –inutilmente- ad assumersi le sue responsabilità, cessando di delegare le operazioni alla Bp, inviando nel Golfo i mezzi della Marina e del Genio: “Ho apprezzato l'attenzione del presidente per il disastro, ma l’opinione pubblica ha bisogno di ulteriori assicurazioni del fatto che la risposta alla fuoriuscita, dalla ripulitura ai risarcimenti, sia coordinata e fatta rispettare dal governo”. (Libero)

Libertà di stampa e "sputtanopoli". Arturo Diaconale

Ma cosa c’entra la libertà di stampa con la convinzione che solo con il gossip e le intercettazioni pruriginose un giornale continua a vendere copie ed a salvarsi da un inarrestabile declino? I dirigenti della Federazione Nazionale della Stampa, quelli dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e tutti i direttori dei quotidiani che hanno fatto fronte comune contro la legge sulle intercettazioni non hanno speso una sola parola per rispondere a questo interrogativo. Ufficialmente si stracciano le vesti contro la legge liberticida, sollecitano la resistenza civile come se la legge anti-gogna fosse una delle leggi “fascistissime” che diedero vita al regime fascista e arrivano addirittura, come ha sollecitato “Il Fatto” di Marco Travaglio ed Antonio Padellaro e denunciato Ernesto Galli della Loggia, a sollecitare misure punitive degli organismi di categoria contro i parlamentari giornalisti che hanno votato la legge. Misure che, per logica estensione, dovrebbero poi riguardare anche contro quei pochi giornalisti che non condividono la linea della resistenza ad ogni costo contro il provvedimento. Ma dietro le quinte della rappresentazione ufficiale la realtà è diversa. I Grandi Sacerdoti che si stracciano le vesti in nome dell’indignazione per la libertà di stampa violata, lasciano intendere che la questione è diversa. La legge, a loro parere, non uccide la libertà ma rischia di far seccare l’unico filone che dagli anni novanta ad oggi ha consentito alla stampa quotidiana nazionale di difendersi in qualche modo dalla crisi che colpisce tutte le testate dei maggiori paesi occidentali. Si tratta del filone che può essere tranquillamente definito di “sputtanopoli”. Quello in cui si intreccia il qualunquismo tradizionale con il giustizialismo psicotico, il naturale istinto al linciaggio delle categorie intellettuali e nevrotiche delle grandi metropoli disumanizzate con il gusto perverso per le disgrazie degli altri (potenti e poveracci che siano) e per le loro più nascoste debolezze di natura sessuale. Lo sfruttamento di questo filone, che per il giornalismo nazionale degli ultimi quindici anni è l’equivalente del cinema mitologico o del western-spaghetti dei cineasti italiani degli ultimi quarant’anni, ha permesso di limitare i danni della crisi della carta stampata. Negli altri paesi il gossip pruriginoso era un filone già sfruttato da tempo.

Basti pensare ai tabloid inglesi ed alle vicende della loro casa regnante. Da noi quel filone ha avuto un contenuto prevalentemente politico negli anni della Prima Repubblica . E poi, da Tangentopoli ai nostri giorni, è diventato prima gogna mediatico-giudiziaria al servizio dei Pm in cerca di sostegno popolare e poi semplice sputtanamento giornalistico ai danni di chi offre il destro all’applicazione delle famose “tre s” (soldi, sesso, salute). I dati di vendita sono sotto gli occhi di tutti. Chi sputtana è premiato. Chi non lo fa rischia la chiusura, soprattutto tra la stampa un tempo definita progressista. E’ sotto gli occhi di tutti che il successo de “Il Fatto”, organo delle procure e dei mattinali delle questure, specializzato in sputtanamento giudiziario, stia uccidendo “L’Unità”, “ Il Manifesto”, “Liberazione”, metta in difficoltà “La Repubblica” e spinga addirittura il “Corriere della Sera” e “La Stampa” a spogliarsi dell’antico perbenismo ed a cavalcare l’onda sputtanatoria. I vertici di Fnsi, Ordine e della Fieg temono che la legge blocchi lo sfruttamento del filone e che la fine di “sputtanopoli” decreti la scomparsa di parte della carta stampata a tutto vantaggio dei siti internet piazzati all’esterno per sfuggire alla normativa domestica. Ma se è così perché non dirlo apertamente? Forse perché non si ha la capacità di affrontare una crisi che non è solo mondiale ma è in gran parte italiana e che richiederebbe più iniziativa e fantasia di quanto messo in campo fino ad ora? Urge risposta. Anche perché se passa la regola che per sopravvivere la stampa deve essere drogata e non c’è bisogno di trovare soluzioni diverse, il rischio di morte per overdose diventa scontato e terribilmente vicino! (l'Opinione)

Ocse o scemi. L'Occidentale

Esercitazione per l'esame di giornalismo. Il candidato consideri che nel 2007 la Camera votò inutilmente il Decreto Mastella che proibiva la pubblicazione di intercettazioni anche solo per riassunto; nel programma del Pd del 2008, poi, si auspicava il divieto «fino al termine dell’udienza preliminare», oltreché «severe sanzioni penali»; l'ex direttore dell'Economist Bill Emmott ha detto che «da noi le intercettazioni finiscono raramente ai giornali»; John Lloyd del Financial Times ha detto che «raramente vengono rese pubbliche»; Jörg Bremer della Frankfurter Allgemeine Zeitung ha detto che «in Germania è vietato»; Eric Joseph di Libération ha detto che «mai in Francia sono state pubblicate intercettazioni con particolari privati»; Peter Popham dell'Independent ha detto che «in Italia ci sono certamente abusi»; Miguel Mora del País ha detto che «in Spagna vengono pubblicate con molta più cautela»; L'Economist ha scritto che in «alcune delle restrizioni proposte dalla legge italiana sono ritenute normali in molti paesi». Morale: ieri una responsabile dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) ha chiesto che il governo italiano rinunci alla legge sulle intercettazioni o la modifichi in sintonia con gli standard internazionali. Ciò posto, il candidato ha sette minuti per valutare se questa responsabile dell'Osce: 1) è disinformata; 2) è scema; 3) legge Repubblica. (di Filippo Facci, Tratto da Libero)

Il giurista e le interviste partigiane. Michele Ainis

C’ erano un tempo politici di destra e di sinistra, ciascuno intruppato nel proprio schieramento.
Ora ti capita d'incrociare Gianfranco Fini, che milita a destra ma è caro alla sinistra.
Oppure Pierferdinando Casini, che in Parlamento vota insieme alla sinistra mentre il suo cuore batte a destra. Chi può restituirci le nostre geometrie perdute? Stampa e tv una soluzione l'hanno rimediata: i costituzionalisti.
Ne parlo qui per esperienza personale, ma è l'esperienza di tutti i miei colleghi. C'è in cantiere una legge sulle intercettazioni? Doppia intervista con un giurista contrario alla nuova normativa e uno favorevole (quest'ultimo più raro sul mercato, ma fa niente, vuol dire che gli toccheranno sei interviste al giorno). C'è un progetto di riforma del bicameralismo? Della giustizia? Dell'immunità per le alte cariche? Idem, anzi doppio idem. Una volta un tg nazionale mi ha chiesto una dichiarazione per difendere la promulgazione d'una legge contrastata, avendo già incassato l'opinione avversa: un'intervista a risposta obbligata. E se tu spiazzi il giornalista dicendo il contrario di ciò che lui s'aspetta? Non ti pubblica, e non ti chiamerà mai più in futuro: inaffidabile.
Qualcuno di noi (pochi) si sente un po' a disagio a indossare una maglietta da tifoso. Qualcun altro (molti) si compiace di quanto sia neutrale l'informazione qui in Italia, e soprattutto si compiace di leggere il proprio nome sui giornali. E la neutralità della scienza? Roba da Ottocento, l'importante è che sia partigiana la coscienza. L'importante, per noi addetti ai lavori, è difendere l'autorità della Costituzione, leggendola ovviamente da destra e da sinistra. Tanto più se quest'ultima si somma all'autorità degli ex presidenti della Corte costituzionale, anch'essi regolarmente intervistati in coppia: uno di destra e uno di sinistra. C'è il dubbio che le loro performance da ex non giovino all'immagine d'imparzialità della Consulta? Allora basta intervistare un ex presidente di sinistra, tirando a sorte fra i molti candidati: o meglio di sinistra come costituzionalista, di destra come ex presidente, dato che la sua testimonianza suonerà giocoforza come una convalida alle accuse di Berlusconi contro la Corte «comunista». Noi costituzionalisti, per amor di patria, ci prestiamo al gioco. Ma perché dobbiamo essere gli unici a rappresentare la nostra patria bipolare? Metti per esempio i terremoti o il ponte sullo Stretto: per farcene un'idea obiettiva pretendiamo che anche sismologi e ingegneri vengano intervistati in coppia, uno a dritta, l'altro a manca. (la Stampa)

mercoledì 16 giugno 2010

Marchionne, mandi a quel paese l'azienda-Italia e i suoi sindacati. Giuliano Cazzola

Nel corso della sua lunga storia il management della Fiat non è mai stato un interlocutore raffinato nel campo delle relazioni industriali. Le sue iniziative sono sempre state caratterizzata da un grande senso pratico per risolvere problemi reali che di volta in volta si presentavano all’orizzonte. Eppure, le scelte e i comportamenti del gruppo sono sempre stati accompagnati da grandi introspezioni ideologiche, da debordanti analisi di possibili scenari, di occulti complotti alla cui ricerca tutto il variopinto circo Barnum politico-sindacal-massmediatico si dedica con l’ardore e la puntigliosità che sono consuete nei confronti di un kombinat industriale che è insieme il più odiato ed il più amato. Anche nel caso di Pomigliano d’Arco la Fiat è mossa dall’esigenza di risolvere problemi molto concreti.

Per ragioni strategiche nella dislocazione internazionale del gruppo, Sergio Marchionne ha deciso di valorizzare lo stabilimento campano, investendo ben 700 milioni di euro (senza ricevere un soldo dallo Stato). Lo ha fatto con la medesima determinazione con cui ha deciso di dismettere l’opificio di Termini Imprese. Per dare lavoro allo stabilimento di Pomigliano d’Arco la Fiat è disposta a ri-localizzare o spostare cioè delle produzioni ora eseguite in Polonia. Sia chiaro: il gruppo ex torinese non vuole fare né assistenza né beneficenza. Agisce in nome di un preciso interesse economico e produttivo. Ma la scelta è talmente clamorosa e controtendenza da lasciare un po’ stupiti tutti gli analisti. Per qualunque imprenditore è più facile scappare dalla Campania che restarci ed investire delle risorse preziose proprio perché scarse.

Marchionne, però, ha presente tutte le criticità di quella fabbrica e delle sue maestranze: assenteismo anomalo e conflittualità diffusa, per non parlare d’altro.

Di qui la domanda alle organizzazioni sindacali: siete disposte ad impegnarvi per portare ad un livello fisiologico (e compatibile con le esigenze di produttività) l’orario e l’organizzazione del lavoro, da un lato, e i comportamenti anomali dall’altro? Sulle turnazioni la Fiat la spunta anche con l’adesione della Fiom. Non passano, invece, con i bellicosi metalmeccanici della Cgil le proposte di prevedere sanzioni economiche per gli scioperi anomali e per le assenze causate da malattia sospette. Si badi bene. Questi problemi non erano riservati alla discrezionalità dell’azienda ma a comitati paritetici in funzione di camera di compensazione e di valutazione di situazioni effettivamente abnormi. Questa è la cronaca pure un po’ banale di quanto è in ballo a Pomigliano d’Arco.

Strano Paese l’Italia. Marchionne varca l’Oceano, salva la Crysler, stipula con i sindacati americani e canadesi clausole limitative del diritto di sciopero sotto gli occhi di un riconoscente Barak Obama. Da noi sembra che siano gli operai a fare un favore alla Fiat. Tutto ciò premesso non mi sembra il caso di elevare la vertenza di Pomigliano ad esempio di un nuovo modello di relazioni industriali come, all’opposto, di scomodare chissà quale violazione di fondamentali diritti dei lavoratori.

La Costituzione, all’articolo 40, riconosce il diritto di sciopero, un diritto sacrosanto di cui non si può comunque abusare, come purtroppo avviene in quello stabilimento. Nel contempo, l’articolo 38 afferma che il lavoratore deve essere tutelato, sul versante del mancato guadagno, quando si ammala. Ma è un diritto avvalersi di medici compiacenti per andare a spasso quando occorre lavorare o – l’uomo non è di legno – quando giocano il Napoli o la Nazionale? Ecco perché è intollerabile la campagna scatenata dai quotidiani di sinistra (a proposito, che fine ha fatto il Pd di governo?) che immaginano disegni perversi di attacco ai diritti dei lavoratori, al punto da fomentare la cocciutaggine della Fiom e di mandare sul lastrico molte migliaia di famiglie in quell’area così piena di problemi.

Verrebbe voglia di consigliare a Marchionne di restare dov’è e mandare a quel paese l’azienda-Italia, dove tutto sembra dovuto e preteso. Prima viene il posto sicuro, poi lo stipendio. Poi magari, qualche volta si può anche lavorare.

Tornando alla vertenza, le altre organizzazioni sindacali, al solito, hanno sottoscritto l’accordo in presenza (sic!) di un "osservatore" della Fiom. La prossima settimana ci sarà il referendum. In tale occasione – confermano più o meno tutti – l’accordo sarà approvato, nonostante gli scioperi promossi e le manifestazioni organizzate dalla Fiom. Tuttavia, il cupio dissolvi di un sindacato farà comunque sì che un importante risultato per il Mezzogiorno e l’Italia, come il salvataggio e il rilancio dello stabilimento di Pomigliano, sarà vissuto come una sconfitta ed un ricatto. Ci sarà pure un tribunale di Norimberga che chiami i sindacalisti a rispondere dei loro misfatti! (l'Occidentale)

venerdì 11 giugno 2010

Più pezza che bavaglio. Davide Giacalone

La parola “libertà” s’è alquanto sprecata, ieri, al Senato. Il disegno di legge che regola le intercettazioni telefoniche è stato approvato, dopo che il governo aveva posto la fiducia, sicché le opposizioni hanno strillato, sia sul metodo che sul merito del provvedimento. Temo, però, che il prodotto non sia affatto risolutivo e che il clangore sia più recita che realtà. Per il prossimo 9 luglio è stato anche indetto uno sciopero dei giornalisti, anch’essi impegnati a combattere per la libertà. Non parteciperò, sia perché svolgo altra professione sia perché, quel giorno, sono pronto a scrivere anche cartoline, pur di non aderire all’ipocrisia.

Sul metodo, è presto detto: chiedendo la fiducia il governo ha, secondo le opposizioni, strozzato il dibattito parlamentare, imponendo il proprio testo. Peccato, però, che il dibattito “strozzato” è durato settimane e non accennava a concludersi, mentre il testo approvato non è manco per niente quello voluto dal governo. Questa gnagnera dei governi che umilierebbero il Parlamento, con la decretazione d’urgenza e la fiducia, deve finire, anche perché cambia il colore dei governi, ma non il ricorso a questi strumenti. La verità è che il nostro processo legislativo è insensato, maniacalmente ripetitivo, terribilmente inefficiente. Chi abbia a cuore l’importanza del Parlamento dovrebbe chiederne la modifica, cominciando dai regolamenti parlamentari e dal rapporto fra governo e Parlamento. Ma le cose, da noi, seguono un copione diverso: l’opposizione, quale che essa sia, cerca d’impedire al governo di governare. Che questo abbia a che vedere con la democrazia e con la libertà è tesi alquanto bislacca.

Nel merito, la situazione è ancora più paradossale. Antonio Di Pietro è giunto a dire che neanche Benito Mussolini avrebbe osato tanto. I riferimenti storici del noto intellettuale vanno presi con prudenza, in questo caso non essendo chiaro se si riferisce ai lavori parlamentari (ma allora l’opposizione era stata cancellata), o alla possibilità d’intercettare (ma allora ciascun cittadino era in balia dei poteri polizieschi), o, più semplicemente, di un rigurgito del sussidiario mai digerito. Sta di fatto che sono in molti a ritenere che la nuova legge, quando sarà tale, combinerà sconquassi. Il Corriere della Sera, per meglio documentarlo, se l’è fatto dire anche da Giuliano Tavaroli, fresco di patteggiamento per i reati commessi spiando e producendo materiale che lo stesso quotidiano ha pubblicato. Non oso immaginare chi intervisteranno quando dovesse discutersi una legge sulla violenza carnale.

Se la nuova legge servisse veramente a proteggerci dall’invasività e imprecisione degli inquirenti, oltre che dall’inciviltà di una stampa che s’inginocchia a far da ciclostile alle procure, sarebbero accettabili anche le controindicazioni. Ma non credo che stiano così le cose. Le intercettazione continueranno a farsi, la magistratura continuerà ad amministrarle più o meno come crede, i termini temporali saranno aggirati, perché ogni volta saranno urgenti e determinanti altri due o tre giorni (e voglio vedere come si fa a dimostrare il contrario), e, in quanto alla pubblicazione, le trascrizioni saranno pubblicate da siti internet allocati fuori d’Italia e da qui riprese. Funziona così anche per il mercato della pornografia, che ritengo meno offensivo della moralità pubblica.

La soluzione sarebbe dovuta essere diversa, bilanciando i tre principi in gioco: sicurezza
collettiva, diritto alla riservatezza personale e libertà di stampa. Ecco come: le intercettazioni non devono essere disposte dalla magistratura, non divengono mai elementi di prova, non possono essere depositate nelle carte processuali, ma sono strumento d’indagine, nelle mani della polizia giudiziaria, e servono a garantire la sicurezza di tutti nell’attività di prevenzione e ad acquisire prove, ove il reato sia già stato commesso, in quanto alla stampa, non essendoci testi da copiare dovrà provare a lavorare, facendo inchieste in proprio e raccontando gli esiti processuali, come avviene in ogni democrazia che si rispetti. Il testo approvato, fra clamori e schiamazzi, è una via di mezzo, né carne né pesce, con il risultato d’avere i difetti d’ambo i mondi animali, disperdendone i pregi.

Ancora una volta, quindi, una battaglia furente si rivelerà preludio di un risultato deludente. Questo sì, alla lunga, nuoce alla democrazia.

giovedì 10 giugno 2010

Bene lo scalone. Davide Giacalone

In tema di pensioni alle dipendenti pubbliche stiamo dando il peggio di noi stessi, e speriamo che l’idea di risolvere tutto in un colpo solo, con un unico scalone, indotto dal pungolo europeo, sia definitiva e immodificabile. La politica dell’opposizione è dissennata, perché pretendono d’opporsi ad una sentenza della Corte di Giustizia e ad un’intimazione della Commissione Europea che, per giunta, sono più che giuste. La politica del governo è stata tremula e improntata al rinvio, laddove invece, lo scrivemmo fin dall’inizio, non solo non ci sono difficoltà nel parificare, come si deve e come è bene, l’età pensionabile di donne e uomini, ma farlo subito neanche “danneggia” le interessate, che sono solo quelle la cui età raggiunge il limite da qui al 2018. Il risultato, paradossale e ridicolo, è che il Paese con un numero di lavoratrici scandalosamente basso e, quindi, con un numero enorme di donne che restano fuori dal mercato del lavoro, riesce a farsi punire per leggi che discriminano e danneggiano gli uomini. Roba da dar la testa contro il muro.
Il caso, ricordiamolo, nasce dal fatto che i dipendenti pubblici hanno un contratto con lo Stato, nelle sue varie articolazioni, ed in quello c’è scritto che se nasci femmina vai in pensione cinque anni prima. Discriminazione palese e irragionevole (che non avrebbe rilievo se fossero contratti fra privati), tenuto presente che la vita media delle donne è più lunga e che i bisogni legati alla prole non sopraggiungono a sessanta anni. Ma basta dir le cose come stanno, e dichiarare che va posto rimedio, che subito scatta la lamentazione per le donne “colpite”. Ma da che? Ci casca anche l’ottimo Tito Boeri, che leggo sempre con attenzione e gratitudine, il quale ha sostenuto che pagano le donne, anche perché hanno una carriera discontinua, in quanto a versamenti contributivi e rispetto agli uomini, anche in ragione dei bisogni e doveri familiari. Ma di che parla? Le dipendenti pubbliche non hanno nessuna discontinuità contributiva e hanno protezioni financo eccessive, per i periodi d’assenza. Anzi, è vero l’esatto contrario: fanno meno carriera e hanno pensioni mediamente più basse degli uomini anche perché vanno in pensione prima, quindi il “danno” è nell’attuale legislazione, non nella sua necessaria e opportuna modifica.
E, si badi, neanche utilizzo l’argomento dei risparmi, quindi dei tagli agli oneri pubblici, perché la parificazione dell’età pensionabile è un principio bastevole a se stesso, non bisognoso d’ulteriori fortificazioni. Non solo: se si mantenesse la distinzione per genere sessuale anche negli anni in cui, con una lentezza esasperante e non ragionevole, si va applicando la riforma pensionistica, quindi la parametrazione dell’età d’uscita dal lavoro alla speranza media di vita, ne deriverebbe che toccherebbe alle donne lavorare più a lungo, visto che soggiornano più a lungo su questo pianeta. Quindi, ai tanti che piagnucolano sul “danno” alle lavoratrici suggerisco di cambiare velocemente argomentazione, se non vogliono farsi inforchettare dalle loro presunte protette.
Il mercato del lavoro, per quel che riguarda le donne e non solo, ha certamente bisogno d’innovazioni profonde, ma nel senso opposto a quel che oggi suscita l’opposizione e il tremore di quanti fanno fatica a prendere atto della realtà: serve molta più elasticità, molte più porte girevoli, che consentano di entrare nel mercato e di uscirvi, per poi rientrarvi, perché il vero problema è che, in Italia, lavorano poche donne e poche persone in assoluto. Poi, oltre tutto, lo fanno per poco tempo.
Essendo conveniente cambiare, per ciascuna di loro, per ciascuno di noi, e per la collettività intera, guadagnando produttività e reddito, è stucchevole che ci si faccia bacchettare, come somari alle elementari, da una Commissione Europea che, di suo, non è esattamente il regno del libero mercato, ma, all’opposto, il guardiano ciccione dello Stato strabordante. Dovremmo correre noi, anticipando i tempi, invece ci facciamo prendere per le orecchie, sempre in ritardo. Ed i ritardi si devono anche all’inesistenza di un mondo giovanile consapevole e capace di far di conto, perché se ai ragazzi fosse chiaro che stanno pagando o pagheranno pensioni che loro non prenderanno, se ai lavoratori privi di sicurezza, temporale e reddituale, fosse chiaro d’avere pagato la cancellazione degli scaloni pensionistici, varata dal governo Prodi, senza che a loro sia stato dato nulla in cambio, se si accorgessero che i sindacati pensano solo ai lavoratori di un certo tipo, meglio se statali e meglio ancora se pensionati, e che il centro destra ha suonato la serenata alle “partite iva”, salvo lasciarle in balia della crisi, senza neanche offrire in contropartita aperture del mercato, tutta questa brava gente ce la troveremmo in piazza, animatamente protestante a favore, non contro la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro.
Invece siamo il Paese degli schieramenti ideologizzati, pur senza più ideologie. Paghi di fronteggiarsi e reciprocamente disconoscersi legittimità, ma troppo occupati ad odiarsi perché rimanga tempo da dedicare ai problemi concreti. Ancora, noi tutti e i giovani, troppo ricchi di un welfare sprecone e costosissimo, che speriamo sempre di mettere sul groppone d’altri, per potere supporre che questo mondo illusorio non sta per finire, è già finito, ma si trascina per inerzia e peso della zavorra.

mercoledì 9 giugno 2010

Solo Fabio Fazio può stupirsi che la Rai sia un terreno della politica. Lodovico Festa

“Vado in pensione. Non torno a casa”.
Dice Gianni Rinaldini al Manifesto (9 giugno)
I vecchi amici della Fiom hanno fatto affiggere per tutto il percorso dell’Autostrade del Sole da Reggio Emilia a Roma pietosi annunci che recitano così: chiunque trovasse un Rinaldini abbandonato senza guinzaglio e collare in un Autogrill, chiami subito la segreteria dei metalmeccanici Cgil (tel. 06-85262370 06-85262370)

“Il comune di Sesto San Giovanni farà costruire una cancellata lunga 400 metri ed alta tre per circoscrivere un sito ed impedirvi l’accesso a 40 rom rumeni” .
Dice il sommario di un articolo di Liberazione (9 giugno)
Dite quel che volete ma alla fine per costruire una buona barriera (muro o cancellata che sia) ci vuole qualcuno che sia cresciuto in qualche solida organizzazione comunista.

“Non copio mai ma cito senza nome”.
Dice Daniele Luttazzi all’Unità (9 giugno)
Un po’ come si fa a FareFuturo con la sinistra?

“Meno politica e più politiche”.
Dicono Enrico Letta e Francesco Russo a Europa (9 giugno)
Per una dichiarazione di medio valore ci si può anche arrangiare da soli, ma per la genialata bisogna essere almeno in due.

“Si dà per scontato che sia un terreno della politica”.
Dice Fabio Fazio al Corriere della Sera (9 giugno)
La Rai un terreno della politica? Ma no? Ma va? E da quando? (l'Occidentale)

lunedì 7 giugno 2010

Spiegatelo alle partite iva. Davide Giacalone

Lo sciopero dei magistrati è solo un sintomo. Pessimo, salvo che per un aspetto: la sinistra, per una volta, non è corsa a blandire la magistratura associata e politicizzata, non ha, almeno fin qui, coperto qusta irragionevole protesta. Un sintomo, comunque, rivelatore. Ci si può leggere la realtà complessiva del Paese, il nostro progressivo affogare nell’egoismo corporativo e nell’arroganza impotente. Non colpisce la protesta, ma la miseria della scena, l’assenza di forze e protagonisti capaci di credere veramente si possa cambiare, si possa rendere migliore l’Italia. Colpisce che a pagare sono i non protetti, i non inquadrati nelle corporazioni, a cominciare da quel “popolo delle partite iva”, tanto osannato quanto fregato.

Quella dei magistrati è una categoria iperprivilegiata. Guadagnano, mediamente, più dei loro colleghi d’Europa (amministrando la peggiore giustizia). Hanno vacanze infinite. Nessuno controlla i loro orari di lavoro. Nessuno ne valuta la produttività. Per accedere alla magistratura basta superare un concorso, dopo di che la carriera e i soldi sono garantiti, per tutta la vita. Quel concorso seleziona giuristi di prima qualità, persone serie che si dedicano con passione al lavoro, ma lascia passare anche gli analfabeti e i lavativi. Gli uni e gli altri, dopo l’ingresso, non vengono più distinti. Ora scioperano, perché si sentono penalizzati e non vogliono mollare un tallero. Dicono che i tagli previsti dal decreto governativo sono “punitivi”. Forse credono che quelli rivolti ad altri lavoratori siano, invece, premianti. Il ministro della giustizia, Angelino Alfano ha bollato come esclusivamente politica la loro protesta, perché non si vede come possano quelle toghe, già privilegiate, chiamarsi fuori da uno sforzo che le colpisce meno di altre categorie. Ma, forse, neanche l’Associazione Nazionale Magistrati ha tutti i torti, affermando che lo sciopero non è politico. Difatti, è corporativo. Inoltre, che un ordine dello Stato scioperi è anche inquietante. Il loro caso, però, non è affatto isolato.

Tanto per rimanere nello stesso settore, l’altra parte delle toghe, gli avvocati, si stanno battendo per imporre la loro presenza anche dove non è indispensabile (per esempio nelle conciliazioni) e per imporre tariffe minime. Essi stessi, quindi, considerano il ricorso all’avvocato non un diritto (com’è e deve restare), ma un dovere, per giunta oneroso e tabellarmente fissato. Il cittadino, alla fine, paga entrambe le toghe, per poi attendere anni d’avere una qualche risposta.

A fronte di ciò, il legislatore cosa fa? I problemi più urgenti sono aperti da anni, talché ci vuol fantasia per considerarli realmente urgenti. Si procede dando un colpo al cerchio e uno alla botte, con una produzione legislativa enorme, ma pulviscolare, destinata a scassare qualsiasi cosa, nella pretesa di farla funzionare senza riformarla. Ultimamente è impegnato in una lunga e demenziale battaglia sulle intercettazioni, al termine della quale (accetto scommesse) cambierà poco e niente, ma si sarà evitato di parlare di ciò che serve.

Riassunto: ciascuno combatte per la saccoccia propria e il cittadino ne subisce le conseguenze. Solo che c’è un limite, difficile da valutare e fissare, ma c’è. Finché ciascuno poteva pasteggiare alle spalle altrui, facendo tutti finta di condannare il debito pubblico così generato, la baracca si reggeva e, anzi, produceva anche felicità, ma non appena si è costretti a togliere qualche cosa a qualcuno la reazione si fa rabbiosa e s’indirizza, inevitabilmente, verso quelli che ancora approfittano. Di ciò, purtroppo, non c’è coscienza, altrimenti non si spiega come faccia la classe politica, per prima, a non capire che la propria condotta è propedeutica alla sommossa.

Nessuna persona ragionevole crede che togliendo qualche migliaio di auto blu dalla circolazione, facendo cessare i doppi incarichi o tagliano i privilegi parlamentari, si risparmi in modo significativo. Ma è difficile accettare tagli collettivi da gente che non rinuncia neanche a ciò che è disgustosamente inutile. Avete visto le immagini della festa quirinalizia per il 2 giugno? una sfilata di soddisfatti d’esserci, che discendono da macchine con autista. Come fanno a non capire che, così andando, si ritroveranno i forconi sotto casa? Non lo capiscono perché credono che i privilegi siano loro dovuti, se ne sentono meritevoli, li considerano naturali. Come i magistrati che scioperano, come gli avvocati che pretendono di conoscere l’interesse del cliente meglio di lui stesso. Non ci arrivano, anche s’offendono, perché pensano che il futuro non sia altro che la proiezione ingrandita del loro passato.

Ora, per favore, mettetevi nei panni di una partita iva, di uno di quei lavoratori che sono stati blanditi, quasi fossero la vera speranza d’Italia e che, in realtà, erano, in gran parte, persone che avrebbero volentieri accettato un lavoro dipendente, se solo qualcuno glielo avesse offerto. Non hanno mai preso lo stipendio, ma emesso fattura, al loro unico cliente, o ai due che si ritrovavano. Quando il cliente s’è trovato in difficoltà non li ha licenziati, visto che non li aveva mai assunti, li ha solo salutati. E così, dalla sera alla mattina, si sono trovati con il sedere a terra, mentre sui giornali leggono dei meravigliosi “ammortizzatori sociali”, di cui non godono, come leggono del fisco, cui dovranno dare tutto quel che chiede, entro novanta giorni, perché, e che cavolo, è finalmente cominciata la lotta all’evasione fiscale! Siete entrati in quei panni? Bene, ora guardate i tagli al finanziamento dei partiti, annunciati per il 50% e ridotti, forse, al 10; prendete il tira e molla, dove prevale il molla, sulle province, e relativi incarichi elettivi; mettete in conto la pensione ritardata per alcuni, che loro, comunque, non prenderanno mai; aggiungete la scena dei magistrati, straprotetti e strasicuri, che vengono ricevuti dal governo e che si tenta di non far arrabbiare troppo, e, ditemi, non vi pare sensazionale che questa gente stia ancora ad ascoltare, che non abbia ancora deciso di mandare tutti a quel paese?

Ciò capita perché la nostra spesa pubblica, il nostro stato sociale, ancora alimenta anche i loro consumi, perché ciascuno si trova in famiglie e zone irrigate da quei quattrini. Ma non può durare, perché i mercati ci prestano il denaro con crescente diffidenza, quindi la pacchia diventa costosa e la fonte si prosciuga. E qui voglio arrivare: in questi giorni si fanno gran titoloni sullo sciopero dei magistrati, che è irrilevante, che non cambia nulla, mentre della rabbia degli esclusi si parlerà solo quando non avremo più i soldi per mantenerli. E sarà un filino tardi.

Italiani sveglia, la pacchia è finita. Paolo Granzotto

Prima o poi doveva succedere: è suonata la sveglia. Quando accade non sempre ci si butta giù dal letto. È conveniente farlo, ma c’è chi guadagna ancora qualche minuto di torpore, rimandando di un po’ la levata. È quello che sta accadendo. Ancora a letto, la parte torpida della nazione fa finta di non rendersene conto o ne dà la colpa a Berlusconi e a Tremonti, ma la serie di sfavorevoli congiunture nazionali e internazionali - globali, dunque - cui dobbiamo necessariamente far fronte per non finire nel Quarto mondo, mette fine e per sempre a un old deal che andava avanti, bene o male, da una quarantina d’anni. Frutto di una intesa tacita ma solidamente operante fra la Dc e il Pci, nel giro di poco tempo si venne a creare uno Stato «pesante» che aveva voce e potere in ogni settore dell’economia e della finanza. E che sull’onda dell’ideologia comunista (a ciascuno secondo i propri bisogni) e di quella cattolica (la solidarietà sociale) si accollò il compito di mantenere il cittadino o comunque di esentarlo da tutte una serie di spese che lo Stato si accollava.
In pratica, un poderoso ma invertebrato, adiposo, decerebrato Stato sociale che si muoveva su due fronti: la gratuità di molti servizi e l’assegnazione a pioggia o meglio a grandine di una serie infiniti sussidi, di gabole per tirar su soldi (un esempio per tutti: la lavoratrice che si ritrovasse in stato interessante nel corso dei lavori, anche stagionali, in agricoltura, aveva o forse ha ancora diritto al sussidio maternità per un anno. Frotte di giovani spose specie del Meridione, terminato il viaggio di nozze andavano a raccogliere l’uva o le olive e due mesi dopo passavano alla cassa e chi s’è visto s’è visto). In certe cittadine del sud non c’era (non c’è?) abitante - uno solo - al quale lo Stato nega una qualche sovvenzione, foss’anche quella di invalidità e questo anche se l’invalidità era inesistente, ciò che ha permesso a un paio di generazioni di vivere alla michelaccio. Senz’altro cruccio che quello di far trascorrere il tempo. L’unico lavoro che sembrava loro opportuno era di frugacciare fra le pieghe dei decreti, delle leggi, delle delibere, delle ordinanze e delle disposizioni transitorie (cioè permanenti) e scovarvi il pretesto per fare rispettosa domanda onde beneficiare di questo o quel sussidio. E non è che nel resto d’Italia le cose siano andate in modo diverso. Vaste sacche di parassiti di Stato sussistevano e credo sussistano tutt’ora nel laborioso Triveneto, nella operosa Padania o nell’austero Piemonte.
Ai propri comodi ci si abitua in fretta e non vi si rinuncia senza pugnare. L’inverno scorso un paio di scuole col bilancio in rosso comunicarono ai genitori morosi che fino al pagamento degli arretrati avrebbero sospeso la distribuzione del pasto ai loro figliuoli. A colazione, si sarebbero dovuti accontentare di un panino. La reazione fu: affamano i nostri figli. Metter mano al portafogli e pagare il dovuto, no. Fornire ai figli un cestino con il cibo preparato dalla mamma solerte, no. L’unica reazione è l’attacco a testa bassa: affamano i nostri figli (che dunque hanno il diritto di mangiar gratis).Bene, questo impianto sociale - in pratica questa pacchia, questo Bengodi - reso ancora più malsano dal welfare nel welfare, ovvero dall’aiuto economico e materiale che genitori e nonni forniscono all’armata degli italici bambaccioni, non può più reggere a meno di non avviarsi alla bancarotta, ovvero sia alla povertà (quella vera, non quella vagheggiata da la Repubblica con le sue fantomatiche famiglie che non arrivano alla quarta settimana. Destinata, semmai, non a un arrivo, ma a una partenza per un lungo weekend). È suonata la sveglia. È tempo di sbaraccare l’old deal: non ci sono altre vie per scongiurare l’annunciata catastrofe e saranno dolori per i giovani assuefatti al mantenimento familiare o, peggio che mai, di Stato. Toccherà loro una sorte tremenda: andare a lavorare. E dire addio alla movida, che pareva fosse l’unica loro ragion d’essere. (il Giornale)

martedì 1 giugno 2010

Rottura costituzionale. Davide Giacalone

Il nostro sistema istituzionale marcia verso un punto di rottura. Sarebbe bello fosse una discontinuità virtuosa e consapevole, più probabilmente si tratterà di un sussulto vizioso e occulto. Le debolezze del sistema sono divenute brecce dalle quali passano interessi in contrasto con quelli collettivi. Dal sistema giudiziario crollato, al potere legislativo impantanato, a quello governativo che dispone di maggioranze parlamentari larghe ma non coese, tutto parla di un tragitto vicino al capolinea. Ma mentre la politica è assente, incapace di parlare la lingua del futuro, gli interessi reali sono presenti, spesso egoistici, sovente miopi e qualche volta stranieri. Tutti pronti a usare le debolezze del sistema per strappare qualche ultimo brano di carne al corpo economico e sociale dell’Italia.

Non è normale, ne abbiamo scritto, che chi è stato presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica, come chi è stato, o è, capo della lotta alla mafia, prenda a parlare di connivenze politiche, di stragi ordinate, d’interessi coincidenti, come se potessero essere argomenti di normale confronto. Questo è già un piede, con tutta la gamba, nel baratro. E non è normale che il dettato costituzionale sia divenuto un optional, pieghevole a tutte le pressioni della politica, fino a consentirsi la nascita di contropoteri irregolari. Mi riferisco alla poco commendevole scena che ha accompagnato il varo del decreto economico, quello che si chiama “manovra”. Lasciamo da parte il merito, che in parte ho già commentato e in gran parte continua a cambiare. Riflettiamo sul costume istituzionale, osserviamo quanto l’impalcatura costituzionale è stata rottamata.

Il potere di fare le leggi è del Parlamento (articolo 70 della Costituzione). Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica (art. 73), che, se ha qualche cosa da ridire, può inviare un messaggio alle Camere. Se le Camere riapprovano il testo, egli firma e tace. In caso contrario si tratta di alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90). Anche il governo può legiferare, sebbene in “casi straordinari di necessità e urgenza” (art. 77), se lo fa, però, ha l’obbligo di presentare i decreti alle Camere, il giorno stesso. La ragione è evidente: se il loro contenuto non è condiviso, il Parlamento può immediatamente cancellarli, anche se già entrati in vigore. Lo stesso articolo non fa cenno ad alcun potere specifico del Presidente della Repubblica, anzi, il fatto che i decreti vadano depositati in giornata esclude che il Quirinale possa tenerseli in lettura, per studiarli.

Ebbene, osservate la scena che si è svolta fino a ieri, fino alla firma di Giorgio Napolitano in calce al decreto economico, è ditemi cos’ha a che spartire con la Costituzione. Siamo giunti al punto che il Consiglio dei ministri si riunisce e approva un testo (ammesso che lo abbiano avuto e che lo abbiano letto), che poi cambia nel giro di poche ore, salvo poi inviarlo al Quirinale e far sapere a tutti che dal Colle sono giunte delle osservazioni, successivamente recepite, quindi chiudere il testo, così rimaneggiato, e farlo divenire legge, senza neanche riconvocare il Consiglio dei ministri. La responsabilità del governo è collegiale (art. 95), vale a dire che ciascuno è responsabile di quel che si decide in Consiglio dei ministri, ma noi abbiamo dei componenti che lamentano d’essere stati “esautorati” e, comunque, il testo discusso, di cui devono rispondere, è certamente diverso dal testo definitivo, negoziato con un soggetto costituzionalmente irresponsabile, il Capo dello Stato.

Tutto questo ha ragioni politiche, ma anche gravi conseguenze istituzionali. Il Presidente della Repubblica formula osservazioni che, in via teorica, il governo potrebbe rigettare, o prevenire sottoponendo un testo chiuso, come la Costituzione prevede, ma questo presupporrebbe un governo forte e un Quirinale non dedito all’uso un po’ ruvido di quella che, con multa generosità, si può definire “moral suasion”. Nel nostro sistema costituzionale il governo tende naturalmente ad avere buoni rapporti con la Presidenza, in modo anche da resistere ad eventuali debordamenti quirinalizi. Più recentemente, invece, incaponimenti sbagliati hanno indebolito Palazzo Chigi, ulteriormente danneggiato da una compagine non unita e, in qualche caso, non irreprensibile. Detto in sintesi: il governo è troppo debole, anche per colpa propria, finendo con il lasciare spazio a poteri impropri.

E’ vero che il governo (tutti i governi) abusa della decretazione d’urgenza, ma è anche vero che i regolamenti parlamentari sono concepiti apposta per indurre in questa tentazione. Ed è evidente che, in assenza di un’opposizione che sappia battersi sui temi concreti, Napolitano esercita un’innaturale supplenza. Ne consegue, però, che a forza d’entrare nel merito dei provvedimenti, nascono movimenti tesi a suggerirgli di “non firmare”, quindi a dare valore politico a un atto che dovrebbe essere pressoché notarile. Del che il governo approfitta (dopo avere subito), perché tende a rispondere alle proteste di piazza obiettando: ha firmato Napolitano. E che significa? E’ la Costituzione a prevederlo.

Non sono fra quanti si recano in pellegrinaggio e accendono ceri alla Costituzione, considerandola una divinità intoccabile. Anche perché è stata modificata già tante volte, e più che altro dagli stessi che dicono di volerla conservare vergine. Anzi, ritengo che la nostra Carta mostri segni vistosi di vecchiezza, ideologica ancor prima e ancor più che architetturale. Ma è pericolosissimo violarla e stravolgerla senza avere il coraggio e la forza di cambiarla. E siccome tutto questo avviene alla luce del sole, senza che dottrina e coscienza sembrino aver da obiettare, è uno dei segnali che si avvicina un punto di rottura. Lo sottolineo con forza, rompendo la cappa asfissiante di conformismo e viltà, nella speranza che non sia necessariamente un punto di caduta e che, magari, sia l’occasione per avviare la rinascita istituzionale.

Dieci morti per una verità capovolta. Fiamma Nirenstein

L’episodio di ieri notte, con i suoi morti e feriti sulla nave turca, ha qualcosa di diabolico. Perché diabolico è il rovesciamento, la bugia che si sta disegnando nell’opinione pubblica internazionale, come per la battaglia di Jenin, come per la morte di Mohamed Al Dura: la verità, salvo quella tragica e che dispiace assai, dei morti e dei feriti, ne esce capovolta, capovolte le responsabilità. Le condanne volano, e hanno tutte un carattere nominalista: chi era sulle navi si chiama «pacifista» o «civile», i soldati israeliani coloro che ne hanno sanguinosamente interrotto la strada verso una «missione di soccorso». Nessuno parla di organizzazioni filo Hamas, nessuno di provocazione: ed è quello che davvero veniva trasportato da quelle navi. Oltre naturalmente, all’essenza umana di chi ci spiace comunque di veder sparire.

Ma non basta dichiararsi pacifista per esserlo. L’organizzazione turca Ihh, protagonista della vicenda, è sempre stata filo terrorista, attivamente amica degli jihadisti e di Hamas, essa stessa legata ai Fratelli Musulmani, i suoi membri ricercati e arrestati e la sua sede chiusa dai turchi stessi per possesso di armi automatiche, esplosivo, azioni violente. Ma ora poiché era sulla nave Marmara, è diventata «pacifista», come le altre varie Ong molto militanti in viaggio sulle onde del Mediterraneo. Non basta più nemmeno dichiararsi «civile»: nelle guerre odierne, anzi, l’uso dei civili come scudi umani, e anche come guerrieri di prima fila è la novità più difficile in una quantità di scenari. La divisa non separa i buoni dai cattivi: abbiamo visto l’uso delle case e delle moschee come trincee dei «civili» militarizzati; al mare non eravamo abituati, ma è un’invenzione interessante per la jihad. Prima di partire una donna ha dichiarato: «Otterremo uno di due magnifici scopi, o il martirio o Gaza». Ma chi ascolta una dichiarazione così rivelatrice e scomoda quando canta la sirena delle imprese umanitarie? Il capo flottiglia ha dichiarato che il suo scopo era portare aiuti umanitari e non è importato, anzi è garbato alle anime belle dei diritti umani che andasse verso Gaza, striscia dominata da Hamas, organizzazione terroristica che perseguita i cristiani e ha condannato a morte tutti gli ebrei, che usa bambini, oggetti, edifici, tutto, nello scopo di combattere Israele e l’Occidente intero. Ma le navi viaggiavano verso Gaza per aiutarla, incuranti dei missili e degli attentati che ne escono.

Israele aveva più volte offerto agli organizzatori della flotta di ispezionare i beni nel porto di Ashdod, e quindi di recapitarlo ai destinatari. Essi avevano rifiutato, e questa sembra una prova abbastanza buona della loro scarsa vocazione umanitaria, come quando hanno detto che di occuparsi anche di Gilad Shalit, come chiedeva loro suo padre, non gli importava nulla. Un’altra volta.
La flottiglia si era dunque diretta verso Gaza e lo scopo degli israeliani era dunque quello di evitare che un carico sconosciuto si riversasse nella mani di Hamas, organizzazione terrorista, armata. La popolazione di Gaza aveva bisogno di aiuto urgente? Israele afferma che si tratta di scuse: nella settimana dal 2 all’8 maggio, per limitarsi a pochi beni di un lunghissimo elenco, dai valichi di Israele sono passati alla gente di Gaza 1.535.787 litri di gasolio, 91 camion di farina, 76 di frutta e verdura, 39 di latte e formaggio, 33 di carne, 48 di abbigliamento, 30 di zucchero, 7 di medicine, 112 di cibo animale, 26 di prodotti igienici. 370 ammalati sono passati agli ospedali israeliani etc etc... Non era la fame dunque che metteva vento nelle vele delle navi provenienti da Cipro con l’aiuto turco; sin dall’inizio è stata la pressione politica a legittimare Hamas, e la delegittimazione morale di Israele che non colpisce mai i cinesi per la persecuzione degli uiguri, o i turchi per la persecuzione dei curdi... E così l’aspirazione antisraeliana che caratterizzava la Marmara è saltata come un tappo di champagne quando i soldati, nel tentativo di controllare la nave per portarla ad Ashdod, sono scesi con l’elicottero. Alle quattro di mattina, secondo la testimonianza di prima mano di Carmela Menashe, cronista militare che ha scoperto senza pietà molti scandali nell’esercito, quando i soldati della marina hanno tentato di scendere sulla nave Marmara, sono stati accolti da spari, ovvero: «C’erano armi da fuoco sulla nave» dei pacifisti; i soldati che hanno toccato il ponte hanno affrontato un linciaggio «come quello di Ramallah» in cui membra umane furono gettate alla folla: sono state usate con foga enorme, dicono i testi, sbarre di ferro, coltelli, gas... i soldati sono stati buttati nella stiva nel tentativo di rapirli, o in mare. Questo per spiegare perché i loro compagni hanno sparato. Di certo i naviganti non erano militari, erano dunque civili: ma ormai nella guerra asimmetrica i civili sono scudo umano e combattenti. Israele doveva cercare di fermare la Marmara; se l’ha fatto con poca accortezza, non sappiamo. Ma di certo i soldati non hanno sparato per primi, è proibito dal codice militare israeliano, non è uso di quei soldati. Adesso se il mondo vuole semplicemente bearsi delle solite condanne a Israele faccia, ma proprio con il suo sostegno alle forze che hanno provocato il carnaio dell’alba di domenica prepara la prossima guerra. (il Giornale)