venerdì 29 febbraio 2008

Berlusconi-Veltroni due a zero. Daniele Capezzone

Occorre dare a Silvio quel che è di Silvio: nell'impostazione di questa campagna elettorale, ci sono - a mio avviso - due cose davvero importanti decise e realizzate da Berlusconi. La prima è un vero e proprio atto di coraggio politico, che pochi leader avrebbero compiuto: l'esclusione di Udeur, Udc, Destra e Lista Antiaborto. Non è uno scherzo: messi tutti insieme superano il 10 per cento dei voti, ma Berlusconi - a mio parere giustamente - ha preferito evitare di far gravare sia sulla fase preelettorale sia sulla possibile futura azione di governo elementi di impresentabilità (Mastella), di litigiosità interna (Casini), di schiacciamento a destra (Storace), di integralismo antilaico (Ferrara). Lo ripeto: in prima battuta, è una mossa assai costosa sul piano numerico; ma a ben vedere, il saldo può essere attivo, in termini di credibilità e coesione della proposta che si avanza agli elettori. La seconda scelta che mi pare felice è quella del tono ragionato e soft delle presenze televisive di Berlusconi. Non un capofazione che grida, ma un capofamiglia seriamente preoccupato che cerca soluzioni di buon senso; senza prospettare miracoli, ma con la consapevolezza della fase difficile che il Paese dovrà affrontare.

Mi spiace, ma non altrettanto può dirsi per l'avvio di campagna del suo competitor, Walter Veltroni. Anche in questo caso, un buon esercizio è quello di soffermarsi sui due parametri che ho citato poco fa a proposito di Berlusconi. Quanto alle alleanze, Veltroni ha fatto il contrario di quel che aveva promesso. Tutti ricordano l'enfasi con cui il segretario del Pd aveva annunciato di voler correre “libero e solo”. E invece, tra Di Pietro e radicali, tutto si può dire (il discorso vale - infatti - qualunque sia il giudizio di ciascuno sull'opportunità o meno dell'una o dell'altra alleanza) tranne che la corsa di Veltroni sarà solitaria. Direbbe Crozza: solo ma anche accompagnato. E accompagnato da due soggetti che (voglio ribadirlo ancora una volta: nel bene o nel male) non sono certo neutri nella definizione del profilo politico del Pd.

E questo incide anche sul secondo aspetto. Veltroni, in ultima analisi, ha fatto la scelta (molto italiana e molto poco americana) di avviare il suo cammino con una bugia, con una promessa non mantenuta, con un impegno capovolto. Vi immaginate cosa accadrebbe se, negli Stati Uniti, un candidato iniziasse la sua corsa promettendo un certo tipo di impostazione, e poi - in neanche una settimana - facesse esattamente il contrario? Dubito che sarebbe salutato da valanghe di applausi. E anzi, sono certo che prenderebbe quota, nei suoi confronti, un argomento e un dubbio devastante: se ha mentito su questo, potrà mentire anche su altro. Se non abbiamo potuto fidarci di questa prima promessa, come ci si potrà fidare di ogni altro suo impegno (sulle tasse, sulla spesa pubblica, e così via)? Ecco perché il Pdl, secondo me, farebbe bene a valorizzare subito e con decisione queste contraddizioni. Può essere un'operazione decisiva in primo luogo nei confronti di quel 20 per cento di elettori incerti a cui spetterà una parola importante sugli esiti della competizione del 13-14 aprile. (Ideazione)

Il cetriolo rincara? E' colpa del Protocollo di Kyoto. Ibl

I cetrioli rincarano? Colpa del Protocollo di Kyoto. L'Istituto Bruno Leoni (Ibl) provoca: è "assurdo" - dicono nel “pensatoio” della destra liberale - l'appello delle associazioni dei consumatori perché “Mr Prezzi” intervenga contro gli aumenti di frutta e verdura causati dal gelo.

Dice Carlo Stagnaro, direttore Energia e ambiente dell'Ibl: "Le richieste di quanti si sono autoproclamati tutori dei diritti dei consumatori dimostrano che la figura di Mr Prezzi, creato teoricamente senza poteri, rappresenta una costante tentazione all'interferenza con le dinamiche di mercato. E' un bene che i prezzi di frutta e verdura salgano, se la produzione è diminuita a causa del cattivo tempo, indicando così la scarsità di questi beni. In ogni caso - aggiunge Stagnaro - bizzarramente le associazioni dei consumatori, lamentandosi del freddo, sembrano invocare un maggior riscaldamento globale: ci aspettiamo dunque che si battano coerentemente per l'abbandono del protocollo di Kyoto, che tra l'altro sarà responsabile in futuro di ulteriori rincari di altri prodotti o servizi, quali le bollette della luce e del gas e i carburanti".È una provocazione, chiaramente.

Ma una provocazione per certi versi azzeccata.

da Affari Italiani, 29 febbraio 2008

giovedì 28 febbraio 2008

Il ritorno dei comunisti. Riccardo Barenghi

Libera da vincoli, libera dal governo e dagli incarichi istituzionali, la sinistra radicale, un po’ comunista un po’ no, ritrova se stessa. Con un pizzico, anzi più di un pizzico di antico. E così nel programma della Sinistra Arcobaleno che Fausto Bertinotti ha presentato ieri tornano a echeggiare vecchie parole d’ordine, vecchie idee, vecchie proposte che evidentemente non erano morte ma solo cadute in letargo. D’altra parte lo scrivono a chiare lettere, «non sempre nuovo significa meglio».

Ce n’eravamo scordati e invece rieccola. Tagliata, frantumata, sconfitta dal referendum del 1985 contro il decreto Craxi dell’anno prima, infine abolita, la scala mobile riappare come il famoso spettro di Marx. Lo dicono tutti che in Italia è aperta, anzi spalancata una questione salariale, lo dice anche Veltroni, lo sostiene addirittura Berlusconi, dunque per Bertinotti è facile rispondere con una ricetta tanto semplice quanto efficace (secondo lui): indicizzare i salari, legarli al costo della vita reale. Un meccanismo secco, automatico, tale e quale a come lo sottoscrissero trentacinque anni fa Gianni Agnelli e Luciano Lama, presidente della Confindustria il primo, leader della Cgil il secondo.

Non importa che nei decenni successivi la scala mobile sia stata messa sotto accusa, imputata di alimentare l’inflazione, non importa che adesso tutti (quasi tutti) dicano che gli aumenti salariali vadano legati alla produttività: per la Sinistra Arcobaleno bisogna tornare indietro, perché «non sempre ciò che nuovo è meglio».

Non l’avevano mai detto in questi ultimi anni, quando erano al governo. O almeno non con questa chiarezza. Ma adesso il governo non c’è più e non c’è nemmeno la prospettiva di tornarci: dunque ci si prepara a combattere dall’opposizione contro chiunque vinca le elezioni, si chiami Berlusconi o Veltroni. E l’arma della scala mobile, per quanto possa essere giudicata sbagliata o addirittura pericolosa, è sicuramente efficace per una parte del popolo al quale si rivolge la Sinistra di Bertinotti.

Così come un’altra parte di quel popolo sarà soddisfatta del «basta con la Nato e con le sue missioni». Anche qui ritorna alla mente il famoso slogan «fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia». Ritorna l’idea che i comunisti di una volta, quelli del Pci (prima dello strappo di Berlinguer) e quelli dei gruppi extraparlamentari, siano riemersi da non si sa dove, mescolandosi a quel movimento pacifista che ha riempito le piazze all’inizio del nuovo Millennio. Suona strano però se si pensa che chi lo dice oggi, fino a ieri ha votato per mantenere i nostri soldati in Afghanistan e in Kosovo. Ma tant’è, in politica l’abito fa il monaco: e oggi il monaco si è potuto togliere un abito nel quale stava evidentemente stretto.

Ma sarebbe sbagliato vedere tutto nella luce di un ritorno dei comunisti, come fossero appunto usciti da qualche sarcofago nel quale erano stati mummificati. Nel programma della Sinistra Arcobaleno si trovano anche cose nuove (in questo caso evidentemente il nuovo è meglio), per esempio l’abolizione del copyright o il salario sociale. La prima è indubbiamente una battaglia moderna, rivolta ai giovani che non sopportano di dover pagare i diritti d’autore su musica, libri e film che si scaricano da internet. La seconda può anche suonare antica, o se vogliamo comunista, ma così non è: l’idea di dare un salario ai giovani anche se non lavorano - e non solo ai precari tra un contratto e l’altro ma proprio a tutti quelli che sono disoccupati - sarà anche irrealizzabile, non compatibile con i conti pubblici, ma certo non è un qualcosa che viene dal passato. I dirigenti del vecchio Pci, così legati alla loro cultura iper-lavorista, avrebbero fatto un salto sulla sedia solo a sentir nominare una proposta del genere.

Dunque un misto di antico e di nuovo, ma certamente tutto condito con una salsa fortemente identitaria. Capace di far distinguere questa forza politica da tutte le altre, anche mettendo in conto le accuse che da oggi le pioveranno addosso: tardo comunismo o infantile estremismo. D’altra parte se Bertinotti dice - come ha detto nella riunione riservata che ha preceduto la presentazione del Programma - che «bisogna superare l’attuale sistema economico-sociale», cioè il capitalismo, l’impressione che si riceve è quella di un tuffo nel passato. Anche se lui invece lo considera un salto nel futuro. (la Stampa)

mercoledì 27 febbraio 2008

Concorrenza fiscale. Davide Giacalone

Siamo nuovamente in attesa di una lista di nomi, in attesa di sapere chi sono gli italiani con un conto segreto in Liechtenstein. A far partire la corrida è stato il governo tedesco, che per quattro milioni di euro ha comperato un cd contenente i nomi di molti, se non proprio tutti, correntisti. I soldi, del resto, si rimpiattano in posti segreti per due ordini di motivi: a. perché guadagnati illecitamente; b. perché così si pagano meno tasse. Il primo caso è facile (teoricamente) da risolvere: si combatta il crimine. E si tenga presente che molti quattrini frutto di reati sono riciclati anche da noi, senza ricorrere a strumenti finanziari particolarmente sofisticati.
Il secondo caso è più interessante. E’ naturale che il vasto pubblico dei cittadini a reddito fisso e frutto di lavoro subordinato s’arrabbi, perché concordiamo tutti nel sostenere che il fisco è intollerabilmente vorace, ma loro non hanno alcuno strumento per sfuggirgli. Anziché attaccare, anche moralmente, lo Stato che gli ciuccia via la ricchezza se la prendono con chi riesce a portar via qualche cosa. Il presupposto di questo atteggiamento è un falso scolastico: non è vero che se pagassimo tutti ciascuno pagherebbe meno, perché se pagassimo tutti lo Stato incasserebbe e spenderebbe di più. Non di meno la diversa struttura del reddito crea un’ingiustizia, offrendo solo ad alcuni l’opportunità d’essere sleali con il fisco. L’ideale è un fisco assai meno esigente, con aliquote massime assai più basse, senza trucchi con le imposte aggiuntive, e severità con chi fa il furbo. Ma si tratta di una cosa talmente ovvia che non voglio entrare in concorrenza con il programma veltroniano.
Vorrei fare osservare, però, che molti di quelli che aprono un conto corrente in qualche paradiso fiscale sono dei proletari dell’evasione fiscale. Sono quelli che portano via i risparmi, o che si fanno pagare le parcelle all’estero. E sono quelli i cui nomi finiscono nelle liste che ora si attendono. Mentre nella finanza più ricca si pubblica come notizia normale che un gruppo editoriale quotato in borsa abbia trasferito il suo cuore altrove, per ragioni fiscali. E si è detto che era segno di deprecabile provincialismo la nostra battaglia contro le scalate in borsa condotte con veicoli finanziari non solo residenti in paradisi fiscali, ma colmi d’anonimi, protetti dal segreto dei paradisi dell’opacità. E si ammetterà che se un tal capitano coraggioso può rilasciare interviste sulle sue prodezze, osannato dagli intervistatori carponi, senza che nessuno gli chieda conto dei soci e della bravata fiscale, è poi ridicolo che ci s’appresti ad impalare sulla piazza mediatica quelli che in Liechtenstein hanno messo i soldi propri.
E non basta: la concorrenza fiscale è una buona cosa. Non è una buona cosa che un Paese si presti ad agevolare i cittadini sleali di un altro Paese, ma è naturale che i soldi, come gli investimenti, il lavoro ed anche le persone, tendano ad andare dove vengono trattati meglio. L’Irlanda è un esempio virtuoso di riuscita concorrenza fiscale: hanno agevolato gli investimenti, detassato i profitti, liberato dai vincoli il mercato del lavoro e sono passati da un’economia povera ed agricola ad una ricca, finanziaria ed industriale. Sempre bevendo dell’ottima birra scura.
Tutto questo per dire che è attitudine medievale quella di credere che sia la paura il miglior deterrente all’evasione. Anzi, spesso uno Stato rozzo nell’incassare è anche scellerato nello spendere, dando ottima giustificazione a chi non intende alimentare la scelleratezza. L’idea che gli italiani paghino (come ha sostenuto Prodi) perché sanno che il ministro è inflessibile e cattivo, somiglia all’illusione di preservar la virtù delle fanciulle grazie ad una mamma occhiuta: “mamma, Ciccio mi tocca”. Basta un attimo: “toccami, Ciccio, che mamma non vede”. E si sa come va a finire.

Troppo. Jena

L’offerta di Veltroni a candidarsi nel Pd è stata gentilmente rifiutata da Berlusconi: «Sono troppo di sinistra, io». (la Stampa)

martedì 26 febbraio 2008

Oltre al futuro Walter ora s'inventa anche il passato. Benedetto Marcucci

Qualcuno dica qualcosa! Sono ormai vari giorni che Walter Veltroni snocciola cifre taroccate e ricostruisce la storia recente ritoccandola quel poco che serve a indorare la pillola, ma nessuno né dal centrodestra né tantomeno tra i colleghi giornalisti lo corregge. Ha cominciato ospite di “Porta a porta” dicendo, di fronte ai silenti Vespa, Pirani, Mazzuca e Giordano, che il centrodestra ha governato otto (dico 8) anni negli ultimi quattordici. Rivedere la registrazione per credere. Allora: visto che per il centrodestra ha governato solo Berlusconi e ci risulta sia rimasto otto mesi (10.05.1994 - 17.01.1995) nel 1994 e quattro anni e 11 mesi (11 giugno 2001 - 17 maggio 2006) dal 2001 al 2006. Come si arriva a questi otto anni di cui parla Veltroni? Mistero. O forse Walter fa il furbetto e vorrebbe ascrivere al centrodestra anche il governo Dini, visto il suo recente arrivo nel Pdl, durato comunque solo sedici mesi (17.01.1995 - 17.05.1996) con il sostegno dei Progressisti e dei Popolari? Anche adoperando questo puerile trucchetto gli anni sono sette, tondi tondi. Però tra gli astanti tutti zitti, contenti di bersi la ricostruzione dell’ultimo quindicennio taroccata. Poi arriva la bubbola dell’ospitata a Tv7. Alla domanda su come intende fronteggiare l’incipiente crisi economica, Veltroni con tono compassato e grave risponde che “le politiche economiche degli ultimi anni - principalmente del governo Belusconi, perché all’ultimo governo (si guarda bene dal nominare Prodi, innominabile da vari giorni ndr) in sedici (!) mesi non si può rimproverare più di tanto…”. E Riotta annuisce… Peccato che Romano Prodi è ancora in carica, e lo è dal 17 maggio 2006. Prevedibilmente lo rimarrà fino a metà maggio. Dunque avrà fatto due anni precisi di governo. Perché sedici mesi? A quanto ci risulta il Consiglio dei Ministri continua a riunirsi, emanando decreti, certo sugli affari correnti, ma sono correnti rispetto alle decisioni prese prima, o no?

E da ultimo la chicca finale, sulla quale aspettiamo cortese smentita di Marco Pannella. A meno che non abbia deciso di immolare la verità della storia personale e del suo partito sull’altare della “pravda” veltroniana. Dalle onde di “Radio anch’io”, dovendo rispondere sulle polemiche scaturite dallo sprezzante giudizio sul Pd “pasticcio” dato da Famiglia Cristiana, ha chiesto retorico e provocatorio: "Perché quando Pannella (e non la Bonino, Pannella...) nel 2001 si candidò col centrodestra, non ci fu tutto questo can can?". I radicali in verità nel 2001 si sono presentati da soli. Come già nel 1996. Infatti, come spesso ricordano, sono stati dieci anni fuori dal Parlamento. Dunque nessuno poteva fare “can can”, o meglio lo fece Buttiglione e fu accontentato. Ed è proprio lui che adesso smentisce prontamente il leader del Pd attraverso le agenzie. Nelle prossime settimane sarebbe meglio vedere qualche collega giornalista fare un po’ meglio il suo mestiere, rettificando le balle che racconta Veltroni. Oppure dovremo assistere a una campagna elettorale taroccata, non solo nei programmi, ma anche nella ricostruzione dei fatti? (l'Occidentale)

Di Pietro & Mastella. Davide Giacalone

Di Pietro e Mastella sono la stessa persona. Non hanno perso occasione per sbertucciarsi e da colleghi si sono rivolti apprezzamenti del tipo: “amico dei ladri” e “zavorra morale”. Ma ribadisco, facendoli arrabbiare entrambe, sono la stessa persona. Tutti e due hanno un partito che non è politico, ma personale. Tutti e due prendono i soldi del finanziamento e tutti e due hanno scoperto che, in questo modo, si può far pagare il mutuo al Parlamento, affittando un immobile al proprio partito. Tutti e due sono editori di giornali senza lettori, ma tutti e due ci hanno messo i figli, acciocché la specie non s’impoverisca. Tutti e due cacciano via chi prima avevano accolto, perché i nuovi arrivati sono così testoni da non capire d’essere ospiti in casa altrui. Tutti e due rappresentano un gorgoglio intestinale dell’Italia vera, che fatico a considerare civile. Ma in modo diverso.
Di Pietro è la scaltrezza del moralismo senza etica, dando corpo a tutti quegli italiani che ce l’hanno con le raccomandazioni ed i privilegi, cercando per sé una raccomandazione che li faccia accedere ad un privilegio. Più profittano e più alzano la voce contro i profittatori, giudicando immondi tutti gli altri ed assolvendo solo se stessi, perché solo i fessi non fanno così. Mastella cura con pazienza la clientela, perché una cosa lo accomuna ai suoi elettori: l’idea che la politica deve servire per ottenere qualche cosa ed il politico deve rendersi utile. Il resto sono chiacchiere. Egli è il protettore che i protetti riconoscono come tale. Lo difendono dagli attacchi che subisce, perché li vivono come condanna del loro stesso stile di vita. E c’è del vero. Quando Di Pietro dice “famiglia” pensi subito a quante persone deve ancora collocare. Quando lo dice Mastella pensi a quante ne può ancora utilizzare. Di Pietro è un giustizialista di estrema destra, che la sinistra tiene perché lo teme. Mastella un feudatario senza principe, che alla sinistra s’è tenuto perché nulla mutasse.
Una coppia siamese, con il secondo, almeno, simpatico. Ciascun italiano dovrebbe osservarla, apprezzarla, rispecchiandovi una parte della propria storia e realtà, l’eco di quell’Italia codarda e feroce, accattona e supponete, strisciante e prepotente, che solo dei pazzi, come noi, sperano di non vedere più.

L'ipoteca giustizialista. Angelo Panebianco

Dopo l'iniziale sconcerto di alcuni e qualche protesta, è calato il silenzio sulla scelta di Walter Veltroni di allearsi con l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro (che mantiene il proprio simbolo a differenza dei radicali), facendo così un'eccezione rispetto alla regola dello «andare da soli». Eppure quella decisione può essere foriera di rilevanti conseguenze sui rapporti fra la futura maggioranza (quale che essa sia) e la futura opposizione. Da quel che si è capito, la mossa di Veltroni è giustificata dalla volontà di «coprirsi» rispetto agli umori antipolitici che circolano nell'opinione pubblica. Non pare però che ci sia stata una attenta riflessione sui prezzi politici da pagare.

Da molti, e giustamente, è stata apprezzata, del segretario del Pd, la volontà, più volte affermata, di farla finita con l'eterna guerra civile italiana, di scegliere una competizione con il centrodestra non più fondata sulla demonizzazione dell'avversario. Quel nuovo stile e il nuovo clima politico che ha contribuito a suscitare hanno anche reso possibile ai leader dei due schieramenti (Veltroni e Berlusconi) di parlarsi fra loro con linguaggi nuovi. E fanno ben sperare, in linea di principio, anche per le future relazioni fra maggioranza e opposizione.

Ma l'alleanza del Partito democratico con l'Italia dei Valori mette a rischio tutto ciò. Di Pietro rappresenta l'antipolitica nella variante giudiziario- giustizialista. I suoi elettori tutto possono volere meno che la fine della guerra civile italiana. D'altra parte, nemmeno era ancora stato siglato l'accordo che già Di Pietro chiariva a tutti il senso della sua presenza politica proponendo, in pratica, l'esproprio proletario di alcune reti televisive. Come si concilieranno, nel prossimo Parlamento, lo stile nuovo e quella presenza?
Ma c'è di più. Non ci sarà mai nessuna possibilità di chiudere l'eterna transizione italiana se non interverrà un accordo bipartisan sulla giustizia. Ma Veltroni si è messo in casa una forza che lavorerà strenuamente (e giustamente, dal suo punto di vista, essendo quello il mandato che avrà ricevuto dagli elettori) perché un accordo del genere non possa essere siglato. Sarà difficile rimettere ordine, in modo consensuale, nel sistema giudiziario italiano. E continueranno le solite invasioni di campo (l'ultima in ordine di tempo, con il caso Mastella, ha dato il colpo di grazia al governo Prodi). L'Italia dei Valori, una piccola formazione che, in queste faccende, è in grado di trovare il sostegno esterno di un vasto esercito giustizialista, sarà lì, vigile, pronta a mettere veti. Prendiamo il caso delle intercettazioni che sono non solo una delle armi più avvelenate della politica italiana ma anche una spia evidente degli sviluppi patologici del nostro sistema giudiziario.

Riportare la giustizia alla normalità significa anche mettere regole e paletti, e cioè limiti, all'uso che i magistrati possono fare di uno strumento così delicato, che comporta l'intrusione nella sfera privata dei cittadini. Significa mettere la parola fine alle inchieste-mostro fondate sulle intercettazioni selvagge, «di massa» (intercetto mezzo mondo: alla fine qualcosa salterà pur fuori). Ne abbiamo viste fin troppe di inchieste del genere: grande fracasso, tante reputazioni fatte a pezzi, e poi, quasi sempre, una volta giunti in tribunale, tutto finisce in niente. Non è solo una questione di uso politico-mediatico delle intercettazioni. E', prima ancora, una questione di rispetto delle libertà individuali. Ed è un problema di responsabilizzazione che sempre deve accompagnare e limitare il (grande) potere di chi fa inchieste giudiziarie.
Per dimostrare di non essere condizionato dai giustizialisti alla Di Pietro, Veltroni ha dichiarato di voler limitare l'uso mediatico delle intercettazioni. Lodevole proposito. Peccato che ad esso si sia accompagnata, forse involontariamente, l'affermazione, di sapore un po' giustizialista, secondo cui i magistrati, a patto che ciò non finisca sui giornali, possono utilizzare le intercettazioni come, dove e quando vogliono. Ma ciò non è consentito ai magistrati senza che vi siano dei limiti nei regimi politici che rispettano davvero i diritti individuali di libertà. E' difficile credere che l'alleanza del Partito democratico con Di Pietro non finirà per incidere negativamente sulla futura politica di quel partito. (Corriere della Sera)

lunedì 25 febbraio 2008

Non si fanno più prigionieri

E' semplicemente scandaloso assistere agli annunci delle candidature del PD.

Industriali, mogli di potenti banchieri, professori universitari, responsabili confindustriali e personaggi in vista sui media negli ultimi tempi sono candidati alla guida del nostro Paese non per il partito che dovrebbe rappresentare i capitalisti, ma per l'ex Pc che ha fatto il compromesso storico con l'ala sinistra della vecchia Dc, fondando il PD.

Il programma di Veltroni è la fotocopia di quello del Pdl.

Prodi è sparito dalla circolazione e farà la fine di Occhetto.

Tutti gli intellettuali che fino a ieri criticavano il governo Prodi, oggi si genuflettono davanti a Uolter nella speranza di ricevere dei favori.

Se vinciamo, e vinciamo, ricordiamoci che questa volta non si fanno prigionieri.
Prendiamo nota di tutti coloro che incensano il nuovo corso del Pd e snobbano il programma di Berlusconi: costoro dovranno nascondersi per il resto della loro vita professionale.

Noi siamo i coglioni che solleviamo dalla polvere i perdenti e poi prendiamo le pugnalate nella schiena: basta con il nostro buonismo sincero che viene calpestato dal loro buonismo ipocrita.

Nessuno dovrà salire il 14 aprile sul carro del vincitore!

sabato 23 febbraio 2008

Imputati e candidati. Davide Giacalone

Si tratta di un erroraccio, e la cosa peggiore è che non hanno ancora capito perché. Forse, a destra come a sinistra, intendevano dire che non porteranno dei criminali in Parlamento. Mi pare un lodevole intento, né erano costretti al contrario. Ma se dicono: non candidiamo inquisiti o imputati, così come non candidiamo condannati, si mettono fuori dalla civiltà del diritto. E spiegano perché la giustizia italiana è ridotta allo schifo che è.
In un Paese serio esistono gli innocenti ed i colpevoli. I secondi sono quelli che hanno subito una condanna definitiva. In Italia esistono gli indagati o gli imputati a vita, che la Costituzione vuole presunti innocenti, ma per tutti sono colpevoli in attesa. Una politica seria ha il dovere (il dovere, non il diritto) di riformare la giustizia e porre fine a questo scandalo, che ci procura continue condanne internazionali. Invece che fanno? Non candidano gli imputati, così un qualsiasi procuratore può mettere fuori gioco, per venti anni, un cittadino integerrimo. Oppure i condannati, dimenticando che esiste la pena accessoria dell’interdizione. In Italia tutto è reato e non esiste giustizia. Puoi essere condannato per avere spostato una finestra, a casa tua. Trattasi di criminale ineleggibile? Non diciamo sciocchezze. Allora per lui si fa l’eccezione, poi la si fa per l’imputato perseguitato (ma se lo è vuol dire che la giustizia non funziona), poi per il condannato trenta anni fa, ed alla fine ci si è sbudellati con le proprie mani, criticati quali delinquenti perché si è troppo derogato al principio, che manco esiste.
La politica è una cosa diversa. Un condannato obiettore di coscienza lo candido apposta perché lo hanno condannato. Candido chi è detenuto in attesa di giudizio, per denunciare l’infamia. Preferibilmente candido persone che abbiano idee, coraggio, schiena dritta. Chi ha proposte ed ha studiato. Stiano attenti, gli stregoni delle liste, perché a forza d’inseguire la demagogia ci si trova circondati da giovani, donne e uomini, anzi, femmine e maschi, trasparenti e senza macchia, che non hanno identità disturbanti né un passato, capaci di dire “nuovo” e farlo sembrare già smandrappato. Insomma, circondati da cretini. Provate, con quelli, a riformare la giustizia! pregando che una procura non s’accorga di voi.

Iniziali. Jena

Anche nelle liste della Sinistra Arcobaleno ci saranno scienziati di fama, attori, cantanti, registi, scrittori, filosofi, intelettuali. Siccome però non hanno ancora sciolto la riserva, ne segnaliamo solo i nomi di battesimo e le iniziali del cognome: Fabio M., Franco G., Oliviero D., Alfonso P.S., Fausto B. (la Stampa)

venerdì 22 febbraio 2008

Le bugie di Tonino. Michele Brambilla

Adesso che Di Pietro è indagato sarebbe troppo facile tirare in ballo la Nemesi, la Legge del contrappasso, il chi-la-fa-l’aspetti. Soprattutto se risulterà innocente. Perché si potrebbe dire, a Di Pietro: visto che cosa succede quando basta l’avvio di un procedimento penale per essere sbattuti in prima pagina? Ci sono politici che hanno avuto la carriera spezzata solo per essere stati «indagati»: effetto di un clima che Di Pietro ha contribuito a creare, e che adesso gli si ritorce contro.
Sarebbe troppo facile anche dire che quando uno si presenta come grande moralizzatore la gente pretende un percorso netto, senza ombre e senza macchia, quindi anche senza udienze preliminari. Lo diceva pure Enzo Biagi: capita che qualcuno ingravidi una ragazzina, ma se lo fa il parroco lo scandalo è più grande.Ma tutto questo, dicevo, sarebbe troppo facile. Noi vogliamo dire una cosa un po’ più complessa. E cioè: i valori dell’Italia dei Valori sono soltanto la non-corruzione, il non-finanziamento illecito dei partiti, le non-tangenti, insomma solo il settimo comandamento? Non sarebbe il caso di inserire anche la schiettezza, il non prendere per i fondelli i lettori e gli elettori? Il dire pane al pane e vino al vino, tanto per citare un detto di quel mondo contadino tanto caro all’ex Pm?
Ce lo chiediamo perché Di Pietro ieri, commentando l’anticipazione di Panorama sull’inchiesta che lo riguarda, ha detto: «I fatti penali in questione sono già stati valutati con la richiesta di archiviazione formulata dal Pm già dall’anno scorso». Come dire: inchiesta ormai finita. Ma questo può dirlo una vecchia zia, non uno che ha fatto il pubblico ministero, e che quindi sa bene che un pubblico ministero può solo avanzare richieste, non prendere decisioni. Le quali spettano al giudice. E il giudice non ha ancora deciso. È possibilissimo che il prossimo 27 febbraio l’inchiesta venga archiviata, e che Di Pietro ne esca pulito come le Mani dei bei tempi. Glielo auguriamo: sarebbe meglio per lui, per la giustizia e per la campagna elettorale.
Ma sarebbe meglio per lui, per la giustizia e per la campagna elettorale anche se il paladino dell’Italia degli onesti parlasse più chiaro. Non è solo per l’ambiguità sui «fatti penali già valutati» che invece non sono stati ancora valutati. È anche, per esempio, per qualche altra stranezza. Per esempio. Sul suo sito ufficiale (www.antoniodipietro.com) l’ex magistrato ha scritto di suo pugno una propria biografia. Nella quale si legge fra l’altro: «Dal novembre 1997 al 2001 sono stato senatore della Repubblica». E poi: «Alle politiche del 2006 l’Unione vince le elezioni e Italia dei Valori diviene, all’interno della coalizione del centrosinistra guidata da Romano Prodi, il quarto partito di governo con 20 deputati alla Camera e 5 senatori. Al sottoscritto viene affidato il ministero delle Infrastrutture». Insomma uno legge tutta la biografia ufficiale e ha l’impressione che Di Pietro sia stato parlamentare italiano una volta sola: e che nell’ultima legislatura abbia fatto il ministro. Che sia stato eletto deputato, e quindi parlamentare, anche nel 2006, non c’è traccia.
Una dimenticanza? O forse non si vuol far sapere agli aficionados che Di Pietro è già stato parlamentare due volte? Perché la notizia creerebbe qualche imbarazzo. Al settimo degli undici punti del programma dell’Italia dei Valori si legge infatti: «Limitazione dell’elezione a parlamentare per massimo due legislature». Ieri Di Pietro, commentando l’articolo di Panorama, ha detto: «Sappiamo come si fa informazione in questo periodo preelettorale». Già, lo sappiamo: circolano perfino autobiografie un po’ lacunose.
Ma noi non vogliamo pensare che l’omissione sia stata voluta. È stato certamente un errore. Oggi Di Pietro preciserà: io sono già stato parlamentare due volte. E quindi tranquilli: anche se l’inchiesta penale finisce nel nulla, Di Pietro non si ricandida. (il Giornale)

giovedì 21 febbraio 2008

Le coscienze alla candeggina. Davide Giacalone

Bella la richiesta di Massimo D’Alema, nostro ministro degli Esteri: adesso, a Cuba, si rilascino i detenuti politici. Allora c’erano, esistevano! E’ bello sentirlo riconoscere da un esponente della sinistra telefonica, la stessa che ci ha portato a consegnare dei soldi alla dittatura castrista pur di entrare nella telefonia cubana, quella stessa che i cubani liberi ed oppositori non possono utilizzare.
E, poi, perché quei detenuti dovrebbero essere liberati adesso? Solo perché il dittatore, Fidel Castro, ha deciso di non essere più presidente? Va bene che i tropici annebbiano il cervello, ma è da beoti pensare che quella rinuncia equivale ad un’apertura al diritto ed alla democrazia.

Il caudillo spagnolesco non ha lasciato il potere, è la vita che sta lasciando lui. Con troppa lentezza, avendo troppo atteso. Il potere passa al fratello, che non è esattamente la procedura regolare nelle democrazie, bensì il costume delle dittature. I Castro, presto, lasceranno, tutti e due, una Cuba ridotta alla miseria, un gelido lager tropicale che è la sopravvivenza sanguinolenta della guerra fredda. La trovarono migliore, Cuba. Sì, lo so, l’intellettualità analfabeta continua a ripetere il contrario, sostenendo che prima di castro Cuba era l’isola della mafia e delle puttane. Poveri ignorantelli vestiti da intellettuali, non sanno e non hanno mai letto nulla. Oggi, ora, Cuba è l’isola di una mafia e tante puttane, con tanti puttani per contorno. Un tempo fu diversa, e migliore. Ma loro credono solo alle mitologie del comandante, se la fanno sotto a pronunciare, in uno spagnolo da comica, le parole della rivoluzione, sentono un brivido a pensarsi guerriglieri. Sono stati e sono, solo, nemici della libertà, e della cultura.

Leggo, ad esempio, che Claudio Magris scrive da Cuba, dove, senza vergogna, si trova per un festival letterario. Roba da pazzi. C’è gente che s’interroga se è il caso di andare a fare le Olimpiadi (quindi correre, saltare, tirare il giavellotto) a Pechino, dov’è al potere una dittatura, mentre queste coscienze alla candeggina neanche si chiedono se si può andare a festeggiare la letteratura in un Paese dove i letterati finiscono in galera e nei campi di concentramento. Avrebbero partecipato anche alla fiera del libro berlinese, nel 1939, se solo gli avessero dato un premio e l’albergo gratis. E certo avrebbero considerato con ammirazione stilistica il fatto che i governanti fossero quasi tutti in divisa. Come a Cuba, guarda tu il caso. Castro li ha menati per il naso per decenni, e se c’è una cosa che ha dimostrato ancora una volta, se c’è una cosa che si conferma in queste ore, è che il moribondo Fidel è assai più intelligente e capace di questi quattro strimpellatori che approdano alla sua corte per sentirsi chiamar musicisti. (l'Opinione)

mercoledì 20 febbraio 2008

La Sinistra che non mi piace. Luca Ricolfi

Lunedì questo giornale ha pubblicato un mio articolo in cui criticavo la politica del governo Prodi e invitavo sia Berlusconi sia Veltroni a non fornirci una ricostruzione insincera della storia di questa legislatura. Ieri, sotto forma di lettera al Direttore, è uscita una piccata e assai prolissa risposta di Romano Prodi, in cui mi si accusa di scorrettezza, mancanza di scrupoli, faziosità, mistificazione.

L'Italia è una democrazia, e La Stampa è un giornale indipendente, che ospita opinioni, analisi, valutazioni di persone che pensano con la propria testa. È stupefacente che il presidente del Consiglio, non gradendo un articolo uscito su un quotidiano, non trovi di meglio che accusare l'editorialista che l'ha scritto di «sostenere le proprie tesi in vista della competizione elettorale», o di farsi veicolo di una «mistificazione elettoralistica». Naturalmente si può e si deve discutere e contro-argomentare, polemizzare e opporre cifre a cifre, analisi ad analisi, ma è ben triste vedere la massima autorità politica del nostro paese che si riduce ad accusare di malafede uno studioso che, su un giornale libero, riferisce dei risultati delle sue analisi e scrive quello che pensa.

Quanto al merito della controversia, qui posso dire soltanto che l'autodifesa di Prodi non mi ha convinto per niente, e che il lettore interessato a conoscere la mia risposta può trovarla sul sito della rivista Polena (www.polena.net). Anzi, visti gli argomenti del presidente del Consiglio, sono ancora più persuaso di prima del punto centrale della mia analisi: il governo Prodi ha perso un'occasione d'oro per correggere in modo apprezzabile i conti pubblici, e lascia un'eredità difficile al governo che verrà.

Quel che vorrei fare qui, invece, è una breve riflessione su me stesso e sulla cultura politica della sinistra. Prodi può non saperlo, ma non ho mai partecipato ad alcuna competizione elettorale, né intendo farlo oggi o in futuro. Letteralmente non capisco in quale competizione sarei impegnato, quali interessi vorrei difendere, e perché mai vorrei farlo. Fra noi due, ho l'impressione che sia più il presidente del Consiglio uscente ad avere qualche interesse a «sostenere le proprie tesi in vista della competizione elettorale»…

Quanto a me, sono solo un cittadino che si riconosce in molti valori della sinistra, anche se questa sinistra mi piace poco. E non già per le sue idee, che spesso condivido, ma per la sua refrattarietà al lavoro degli studiosi indipendenti. Il mio lavoro è analizzare i dati, cercare di capire che cosa succede, provare a raccontarlo con parole comprensibili, nei libri come sulla stampa. Ma quando mi azzardo a farlo, i miei amici di sinistra si adombrano, e i politici si irritano. I primi, i miei amici, hanno un'insaziabile volontà di aver ragione, di sentirsi sempre e comunque dalla parte giusta, di dare sempre e comunque torto agli avversari politici. I secondi, i politici di sinistra, non sono abituati ad ascoltare, e vedono come un traditore chiunque dica qualcosa che sembri dannoso per la causa. Non si chiedono mai: è vero? è falso? come lo sai? Preferiscono domandarti: perché lo dici? a chi giova? da che parte stai?

Così, a 55 anni dalla morte di Stalin, e a quasi 20 dalla caduta del muro di Berlino, troppo spesso la cultura di sinistra rimane quella di sempre: chiusa anche quando predica il dialogo, arrogante anche quando è gentile, resistente ai fatti anche quando è colta. Peccato, sarebbe bello vivere in un mondo in cui chi ha qualcosa da dire (o da ridire) si limita a esporre i suoi argomenti. Senza offendere il prossimo. E soprattutto senza accusarlo, solo perché pensa diverso, di essere passato con il nemico. (la Stampa)

Perché non voto Walter V. Christian Rocca

Confesso di aver avuto poca fiducia in Walter Veltroni, malgrado ami le stesse cose che piacciono a me: jazz, basket e telefilm americani. Non credevo che Veltroni avesse il coraggio di andare alle elezioni da solo, senza i due o tre partiti comunisti, oggi a lutto per le dimissioni del loro idolo Fidél, senza i pecorari e senza gli scani. Invece Veltroni questo coraggio lo ha avuto e, inoltre, ha avuto anche il merito di presentare un programma di governo e di riforme mica male, sebbene non abbia spiegato per quale motivo questo medesimo pacchetto di riforme (uguale uguale) sia stato giudicato parafascista al momento del referendum confermativo della riforma costituzionale approvata dal Polo (peraltro sulla base delle posizioni dei Ds ai tempi della Bicamerale, ma questa è un’altra storia). Sappiamo come vanno le cose in casa post-comunista: la regola è che con una decina o ventina d’anni di ritardo ci si appropria delle posizioni degli avversari, senza mai riconoscere di aver nel frattempo propagandato soltanto una seria immensa di stronzate. Epperò viva Veltroni. Anche se non condividevo alcune cose, credevo che il suo sforzo andasse comunque premiato (e punita l’ennesima riproposizione del frontismo anti Berlusconi proposta da quel genio di Max D’Alema). Ero dunque pronto a votarlo e l’ho detto e l’ho scritto in più occasioni. Senonché ha imbarcato Tonino Di Pietro, il simbolo della debolezza democratica del nostro paese e del male politico in cui viviamo. In Italia i governi sono nominati e sgominati dalla magistratura, sia quelli di destra sia quelli di sinistra. Non è una questione di toghe rosse o nere, ma di toghe punto. I post comunisti hanno le loro gigantesche colpe, essendo stati con Achille Occhetto (non a caso poi finito con Di Pietro) gli apprendisti stregoni di questo inferno, convinti come erano di poter imboccare la svelta via giudiziaria al potere. Berlusconi si era messo in mezzo, ma la magistratura alla fine ha prevalso, riuscendo a far cadere anche il governo Prodi, dopo vari tentativi contro D’Alema e Fassino.
In Italia governa la magistratura, sostenuta dai Santoro, dai Grillo, dai Travaglio e dall’Unità fondata da Antonio Gramsci e affondata da Furio Colombo. L’economia è governata dalla magistratura (caso Telecom, Bankitalia, furbetti del quartierino), la tv anche (vallettopoli, Saccà eccetera). Così il calcio e addirittura Casa Savoia sono sottoposti al potere assoluto di una casta che può privare la libertà alla gente senza rispondere a nessuno (al referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei giudici, l’allora Pci votò no). E’ finita che è bastato un pm di Santa Maria Capua Vetere per far cadere the mighty Prodi cabinet.
Eppure Veltroni si è alleato con tutto questo. Non è una semplice alleanza per raccattare qualche voto in più, cosa che il PD avrebbe potuto fare con qualche altro partitino. Mi pare che Veltroni abbia voluto provare a comprarsi legittimità e copertura in quel mondo del terrore manettaro ("quello immediatamente successivo all’arresto è un momento magico", scrivevano Travaglio e Marcello Maddalena in un indimenticato pamphlet di qualche tempo fa), visto che il suo orizzonte politico lo costringerà a dialogare con Berlusconi. La motivazione dell’alleanza con Di Pietro, dunque, è la peggiore possibile, la meno democratica, la più conservatrice, la più codarda. Uno di sinistra (liberale) non può votare Walter V. Peccato. (Camillo)

martedì 19 febbraio 2008

Liberal con Casini: né di qua, né di là. L'uovo di giornata

La rivista Liberal diretta da Ferdinando Adornato ha per anni portato in esergo: “Incontro liberale tra laici e cattolici” e ne ha fatto una feconda battaglia di idee. Oggi il quotidiano Liberal di Ferdinando Adornato ci spiega in copertina che quell’incontro si chiama piuttosto “ammucchiata”.
E bene ha fatto Casini “in nome delle proprie idee” a sfuggire a simili lusinghe. L’uddiccino Volontè, sempre su Liberal di oggi spiega ancora meglio la questione: “Il compito dell’alternativa moderata è rompere lo schema della contesa a due”. Al diavolo dunque la contesa a due, meglio a 5, a 10, a 20…Renzo Foa, il direttore di Liberal, nel suo editoriale di oggi saluta il ritorno della politica, ma solo se le “sinistre restano due” e se verrà premiato Casini “che non ha accettato di annacquarsi nel Pdl”. “L’Italia non uscirà dalla paralisi” prosegue Foa, “inseguendo schemi astratti e traducendo un esaurito bipolarismo in un inesistente bipartitismo”. Al diavolo anche bipolarismo e bipartitismo.

Tutte posizioni legittime per carità, solo qualcuno dovrebbe ricordarsi di tutto l’ambaradam messo in piedi da Adornato e dalla Fondazione Liberal sull’idea del partito unico dei moderati alla vigilia delle scorse elezioni . I convegni del “Gruppo di Todi”, le riunioni a palazzo Wedekind, la “Costituente dei 100” (20 di An, 20 dell’Udc, 20 di Fi, 20 per i partiti minori e 20 della società civile), tutto officiato da Adornato in veste di gran sacerdote dell’unificazione del centro-destra. Tanto che sembrò giustificata la sua ira quando l’estate scorsa Michela Brambilla depositò il simbolo del Partito della libertà. Nando lo ritenne un mezzo plagio.

Scriveva all’epoca Adornato: “Intorno a questo progetto si misura il destino della classe dirigente del centro destra: sarebbe un errore storico perdere quest’occasione. L’obiettivo è quello di un partito popolare, liberale, nazionale, riformista che si collochi al 40 per cento dei consensi e si basi sulla fede nella centralità della persona”. Lorenzo Cesa era entusiasta: “Noi dell’Udc il partito unico avremmo voluto farlo anche prima. Io ci ho sempre creduto e dopo le elezioni penso sia l’unica strada per dare un contributo concreto al Paese”. Pierferdinando Casini, in uno dei tanti incontri organizzati da Liberal sottoscrisse il progetto: “E’anche la mia sfida”. Poi aggiunse solenne: “Credo che in Italia in futuro ci saranno due grandi coalizioni, una sul modello del Ppe e una sul modello del socialismo europeo”. Aveva perfettamente ragione, peccato che lui, e ora anche Adornato, non stiano né nell’una né nell’altra. (l'Occidentale)

Violentatore e malagiustizia. Davide Giacalone

Classico esempio di giustizialismo senza capo né coda: al pedofilo maiale che ha violentato ancora una ragazzina pratichiamo la castrazione chimica o lo teniamo in galera a lungo? Risposta: irresponsabili, prima si deve processarlo. Ed il fallimento della giustizia, il vostro fallimento di legislatori e governanti, la vostra insipienza bipolare, la vostra incapacità di ragionare sta proprio nel fatto che non si è stati neanche capaci di processarlo. Quindi piantatela di domandarvi quale sia la pena più adeguata, e prendete atto che il violentatore è, per colpa vostra, un presunto innocente.
Questo signore è stato arrestato nel 2004, accusato di avere violentato una bambina di dodici anni e due gemelle di otto. Condannato in primo grado a sei anni e quattro mesi di reclusione è stato poi scarcerato per decorrenza dei termini. In quattro anni non si è riusciti a fargli avere una condanna definitiva (e magari anche più adeguata), ma era sottoposto all’obbligo di firma, talché si è presentato ai carabinieri proprio in compagnia della bambina, quattro anni, che ha poi violentato. I genitori della bambina ora dicono: “credevamo fosse innocente”. Come si vede, dunque, non serve ad un bel niente interrogarsi sulle castrazioni e sulle pene, per la semplice ragione che quando la giustizia non funziona il resto sono chiacchiere senza significato. Anzi, chiacchiere pericolose, perché si fa leva sul giusto sdegno popolare per invocare punizioni immediate, che, però, saranno sempre illegittime senza l’intervento dell’ultimo e definitivo giudice.
La bancarotta giudiziaria è evidentissima: se si arriva a perdere quattro anni senza riuscire a fare neanche il processo d’appello, è evidente che torna in libertà uno che ha già violentato tre bambine. Cosa credete che possa accadere? Quel che è accaduto. Il rimedio non è nel varare leggi emergenziali e liberticide che mettano in altre mani il compito di stabilire chi resta in carcere da presunto innocente, ma, semmai, da una parte si deve rendere vivo il defunto processo penale e, dall’altra, si deve indagare il perché quel processo è finito a prendere la polvere e farla pagare a chi è responsabile. Più precisamente: si deve farla pagare ai magistrati responsabili di non avere fatto il loro dovere.Invece si finirà con il dire le solite cose, a cominciare dal fatto che non c’è un responsabile, ma la colpa è del “sistema”, della “società” e così via assolvendo chi ha consentito a quest’uomo di continuare a fare del male. Nel frattempo il politicante di turno si distinguerà facendo il severo ed il duro, senza avere neanche il coraggio di dire cosa si dovrebbe fare per evitare questo sconcio. Così, sempre nel frattempo, un’altra bambina ha subito l’ignobile violenza. Che altro si vuole, che altro deve succedere per accorgersi che le nostre grida contro la malagiustizia non sono una maniacale fissazione?

Walter davanti, Antonio di dietro. Filippo Facci

Questa campagna elettorale low profile sta diventando una fregatura. Facile invocarla oggi, dopo che al governo c’è stata la desolazione di Prodi, dopo che la Rai è stata occupata e non c’è più il regime solo perché c’è Travaglio, quello che parla da solo mentre critica il contraddittorio altrui. Abbiamo Walter davanti e Antonio di dietro, ossia una facciata di understatement e un retroscena manettaro. Abbiamo il buono che è contro le intercettazioni e il cattivo che le osanna, non abbiamo più per esempio un Antonio Polito (che non si ricandida per la presenza di Tonino, ha detto) e però abbiamo un’infornata di intellettuali dell’Italia dei valori: alcuni dei quali, secondo indiscrezioni, sanno anche parlare. Se volete capire lo schemino di Veltroni andatevi a vedere l’Unità che dirigeva lui: videocassette di Ejzenštejn e giustizialismo à gogo. Mentre il pupazzone, Di Pietro, giustamente gongola: ha dato a bere che potrebbe attirare i voti dei grillini e dei girotondini, ha scritto nel suo programma che un parlamentare non deve candidarsi più di due volte e lui è alla quarta, ha tuonato raggiante che nel Pd «i condannati non saranno candidabili» ma per l’onorevole Enzo Carra, condannato grazie a lui, farà un’eccezione. Ma tutti buoni, low profile. (il Giornale)

lunedì 18 febbraio 2008

Cinque strumenti per la campagna elettorale. Raffaele Iannuzzi

E' necessario prendere al volo alcune opportunità che la campagna elettorale ci sta mettendo sotto gli occhi. Primo: pochi sembrano essersi accorti che noi possiamo vantare fin d'ora una vittoria strategica, avendo costretto Veltroni a mettere giù un programma che sembra la fotocopia del nostro, con meno rigore e meno precisione. Dalla riduzione delle tasse, senza tener conto del solito pretesto del rigore sulla spesa pubblica, alla politica delle infrastrutture senza i veti incrociati. Questa è la nostra visione e Veltroni, che non ha idee e che guida un partito senza valori e identità, non può che pescare nel nostro bacino intellettuale e culturale.

Secondo: è caduto il primo dogma dell'innovazione del logo Pd, infatti oggi Di Pietro è legato a Veltroni e non esiste più il cosiddetto «coraggio» di andare da soli, sbandierato in una sorta di retorica da «sfida all'Ok Corral». Caduto questo pregiudizio, che rischiava di affaticare la campagna elettorale alla ricerca di qualche contenuto davvero innovativo da parte del Pd, l'unica vera novità siamo noi. E' un elemento che deve essere assai più enfatizzato e valorizzato.

Terzo: il governo Prodi uscente sta inciampando, e con esso il Pd veltroniano, sulle nomine. Rimando sul tema ad un'intervista a Brunetta pubblicata su L'Espresso, che apre uno squarcio importante di risoluzione della querelle anche sul piano metodologico. Ma una cosa è certa fin d'ora e non può passare sotto silenzio durante la campagna elettorale: Prodi sta facendo il furbo, da buon boiardo di Stato, anche questa volta e, con la scusa del modello bipartisan, sta cercando di mettere il cappello su tutti i nomi grossi dei manager di Stato. Un comportamento alquanto disonorevole per un ex premier, ma quel che conta maggiormente è la sua valenza di cifra politica, buona ad un riesame delle regole per nomine di questa importanza. Proposta: che faccia tutto il nuovo governo in carica, sentita l'opposizione e gli stakeholders. I nomi saranno valutati dal nuovo esecutivo.

Quarto: Veltroni è sempre più in imbarazzo sul governo Prodi. Da un lato è costretto a difenderne l'operato, dall'altro può fare ciò, con una notevole dose di audacia retorica, solo distinguendo Prodi dalla sua maggioranza. Un ragionamento che non sta né in cielo né in terra. Questo è un punto sul quale colpire duro. Bene ha fatto finora Berlusconi a sottolineare «il Pd di Prodi», inducendo a ciò che si chiama, nella strategia comunicativa, «ancoraggio»: nomini il personaggio e si porta dietro con sé tutti i mali dell'Italia. Perfetto. Su questo punto occorre non lasciare margini a Veltroni per artificiose e fittizie distinzioni.

Quinto: Berlusconi ha in mano un'arma in più, che dovrebbe utilizzare con efficacia, come lui sa fare soprattutto nei momenti caldi della battaglia. L'arma è uno stralcio del discorso del presidente della Repubblica Napolitano alla seduta del Csm. Lo riporto per intero: «E', infine, parte importante del senso del limite non sentirsi investiti in missioni improprie: il magistrato non deve dimostrare alcun assunto, non certamente quello di avere il coraggio di "toccare i potenti", anche contravvenendo a regole inderogabili. Né può considerarsi chiamato a colpire il malcostume politico che non si traduca in condotte penalmente rilevanti. La sola, alta missione da assolvere è quella di applicare e far rispettare le leggi, attraverso un esercizio della giurisdizione che coniughi il rigore con la scrupolosa osservanza dei principi del giusto processo, delle garanzie di cui hanno diritto tutti i cittadini». E' la fine dell'assioma ideologico della magistratura versus la politica, come indirizzo fondamentale del potere giudiziario autonomo dall'osservanza della Costituzione. Napolitano qui ci dà in mano un'arma impropria fino a ieri: ci restituisce la nostra idea di legittimo ruolo della magistratura, ma, facendolo dal massimo ruolo dello Stato, consente di spingere a fondo questo spunto e di cavarci fuori dalla ragnatela del fair play ovattato, che danneggia la nostra mission politica e ottunde la nostra visione etico-politica, dalla parte del popolo versus le burocrazie organizzate contro di esso.

La novità di questa campagna elettorale si realizzerà quando noi avremo il coraggio di affermare che l'unica vera novità è l'uscita dallo stato di crisi sistemica nella quale il governo Prodi, con il concorso di tutte le sinistre, incluso il Pd veltroniano, ha infilato il Paese. L'unica novità è dunque, in primo luogo, contenuta nella celebre frase: «Il re è (finalmente) nudo». (Ragionpolitica)

Elezioni e promesse dei leader. Luca Ricolfi

Veltroni ha presentato sabato le promesse del Partito democratico (Pd), fra una settimana circa Berlusconi presenterà quelle del Popolo della libertà (Pdl). È probabile che, al netto delle parole in cui saranno avvolte, le promesse finiscano per rivelarsi affini. Più sicurezza, meno tasse, sostegno ai redditi bassi, aiuti alla famiglia, contenimento della spesa pubblica, misure per la competitività, alleggerimenti fiscali sugli straordinari: chi avrà il coraggio di non ripetere le solite promesse?

Il punto dunque non è che cosa Pd e Pdl ci promettono, ma che garanzie offrono di mantenere le promesse. Di solito chi solleva questo problema aggiunge che ogni promessa costosa (come la soppressione dell’Ici sulla prima casa, o il bonus per i nuovi nati) dovrebbe essere accompagnata da un'indicazione precisa delle relative «coperture», ossia dei soggetti su cui verrebbe fatto gravare il peso finanziario della promessa. Giustissimo, ma da sempre i politici hanno escogitato un modo sicuro per aggirare la domanda. Alla richiesta di indicare le coperture rispondono: a) recupero di evasione fiscale; b) riduzione degli sprechi nella pubblica amministrazione; c) maggiore crescita. E il discorso finisce lì.

Andrà così anche in questa campagna elettorale, e quindi non proviamo nemmeno a scongiurare i politici di rivelarci «dove prenderanno i soldi» per fare le meravigliose cose che ci promettono. Non ce l’hanno mai detto, non ce lo diranno mai. Perciò siamo e resteremo indifesi di fronte al fiume in piena delle promesse. C'è una cosa, tuttavia, che può aiutarci a capire se un programma è credibile oppure non lo è: la sincerità con cui ci racconta il nostro passato e il nostro presente.

Non possiamo sapere che cosa Veltroni o Berlusconi ci riservano per il futuro, ma possiamo capire se ci trattano come bambini ingenui o come persone mature. Se si prendono gioco di noi oppure ci rispettano. Come ha scritto recentemente sul Sole - 24 Ore Franco Debenedetti, il punto di partenza di una stagione politica finalmente costruttiva è la condivisione dei «giudizi che si danno sul passato». Probabilmente non riusciremo a metterci d'accordo sul futuro, ma almeno mettiamoci d’accordo sul passato.

Prendiamo Berlusconi. Nei giorni scorsi gli abbiamo sentito dire in tv che il suo governo aveva realizzato l'85% del programma del 2001 - il famoso contratto con gli italiani - e che il «pezzettino» non realizzato (appena il 15%) era rimasto sulla carta per colpa degli alleati. Bene, allora è forse il caso di ricordargli che le due promesse principali del suo programma sono state clamorosamente disattese: l’aliquota Irpef massima non è stata ridotta al 33%, i delitti anziché diminuire sono aumentati. Per non parlare delle grandi opere, anch’esse realizzate in misura ben inferiore alle promesse. Perché raccontarci di aver onorato il «contratto» all’85% se non è vero? Gli italiani non sono ciechi, e se nel 2006 hanno tolto la fiducia a Berlusconi è anche perché si sono accorti che il contratto non era stato rispettato.

Per Veltroni il passato da indorare è quello di Prodi. Ma un conto è sorvolare signorilmente su qualche scivolone o su qualche punto marginale, un conto è capovolgere la trama della storia economico-sociale recente. Veltroni dice: ridurre le tasse e aumentare i salari si può, e si può proprio perché il governo Prodi ha condotto una lotta vittoriosa contro l’evasione fiscale (almeno 20 miliardi di gettito recuperati, secondo il governo uscente). Peccato che questa ricostruzione del nostro passato recente non sia compatibile con quel che si sa dell’andamento dell’economia negli ultimi due anni. Vediamo perché.

Lotta all’evasione. La cifra di (almeno) 20 miliardi recuperati è altamente controversa, ed è stata messa in dubbio da vari analisti e centri di studio indipendenti. Per il 2006, unico anno per il quale si dispone già di dati completi, non è nemmeno certo che esista un effetto-Visco (la mia miglior stima fornisce un recupero di evasione di appena 1,7 miliardi). Quel che in compenso è certo è che il governo Prodi ha sempre tenuto basse le previsioni sulle entrate fiscali, e proprio grazie a questo artificio contabile ha fatto emergere i vari «tesoretti».

Uso dell’extragettito. Quale che sia l’origine del cosiddetto extragettito (gettito non previsto dal governo), è incontrovertibile che i contribuenti non hanno visto sgravi fiscali per 20 miliardi di euro (la lotta all’evasione fiscale non doveva servire a ridurre le tasse ai contribuenti onesti?). Essi hanno invece assistito, nel corso del 2007, a una sistematica opera di dissipazione del gettito non previsto. Visco metteva i soldini nel salvadanaio, i «ministri di spesa» lo rompevano tutte le volte che si accorgevano che era pieno (Dl 81, Dl 159, Finanziaria 2008).

Situazione attuale. Nessuno, nemmeno il ministro dell’Economia, sa dire ancora con certezza se esiste un ulteriore gettito non previsto del 2007 (gli ultimi dati ufficiali dell’Agenzia delle entrate sono fermi al 30 novembre scorso). Quel che si può dire con certezza, invece, è che ci sono 7-8 miliardi di spese prevedibili ma non messe a bilancio, che l'andamento del gettito delle imposte indirette (il più sensibile all'andamento dell’economia) è in costante calo dal gennaio del 2007, e che a partire dallo scorso ottobre il gettito cresce meno del reddito nominale. In concreto questo vuol dire che, se l’economia dovesse continuare ad andare male, il gettito 2008 potrebbe risultare minore del previsto, anziché maggiore come è stato negli ultimi due anni.

Morale. Il governo Prodi consegna all’Italia una situazione nella quale non c’è più alcun extragettito da spendere e, se anche qualche risorsa dovesse mai spuntar fuori, verrebbe immediatamente bruciata per coprire i 7-8 miliardi di spese non messi a bilancio dalla Finanziaria 2008. Capisco che Veltroni sia così gentile da non voler vedere questa triste eredità, ma se si vuol essere nuovi bisogna esserlo anche sulle cose che contano: non basta mettere i giovani in lista, occorre anche cominciare a dire la verità. (Corriere della Sera)

venerdì 15 febbraio 2008

Che i laici non straparlino. Davide Giacalone

Da membro del governo, anzi, da ministro della Sanità, Livia Turco parla di “caccia alle streghe”, a proposito di un’indagine su un presunto aborto illecito. In quella posizione, però, dovrebbe avere la cortesia d’indicare chi sia il cacciatore. Non si può restare nel vago, non si possono dire parole pesanti se sorrette da un’analisi troppo leggera, perché su questa storia dell’aborto il mondo laico (del quale faccio parte) si sta dimostrano culturalmente debole, politicamente sprovveduto e moralmente impreparato. Le cose stanno così: in un Paese dove l’aborto è sempre e comunque proibito, in cui le donne rischiano la galera e prosperano le mammane, reclamare che la legge cambi significa battersi per un diritto civile, ma l’aborto in sé non è un diritto civile, bensì un dramma.
A Napoli una telefonata anonima ha segnalato che si stava praticando un aborto dopo la ventunesima settima, senza ragioni terapeutiche. Se fosse stato vero non solo sarebbe stato fuorilegge, ma anche atroce, perché in quel tempo non si spegne una speranza di vita, piuttosto un essere vivente. Così è intervenuta la polizia. Che c’entra la caccia alle streghe? Pare che l’intervento fosse, invece, regolare. Meglio così, pur non risolvendo questo altri problemi morali o religiosi. Se trovano l’autore della telefonata anonima gliela facciano pagare. Pare anche che la donna, ancora sotto anestesia, sia stata interrogata in modo ruvido. Se è così la polizia si scusi, o proceda contro gli agenti che hanno agito malamente. Ma quello non è stato un attacco alla 194, semmai un tentativo di farla rispettare.
Noi laici si dovrebbe stare bene attenti a non menarla, straparlando d’ingerenze vaticane ed attacchi alla laicità dello Stato, ogni volta che qualcuno richiama l’attenzione sul valore della vita. Anzi, direi che la vita terrena è forse più importante per chi ha dei dubbi sul fatto che prosegua oltre la morte. Se il Vaticano dice che l’aborto è un male io non li invito a tacere, ma sottoscrivo. Aggiungendo che, per evitare il male voluttuario, ci sono delle cose chiamate anticoncezionali, da diffondersi assieme all’educazione sessuale. E neanche m’inquieta che dei prelati dicano la loro in politica, anzi, valuto la cosa, di volta in volta consentendo o dissentendo, come un segno di laicizzazione. (l'Opinione)

giovedì 14 febbraio 2008

Veltroni: Pd solo (anche con Di Pietro). Paolo Guzzanti

Che peccato. Dopo la smagliante ed energica performance di Berlusconi da Vespa che ha detto di no a tutti coloro che volevano aggregarsi al Popolo della Libertà con il vecchio sistema partitico dell’alleanza, speravamo francamente che dall’altra parte anche il (poco) prode Veltroni riuscisse a reggere. Invece, ha sbracato. E con chi ha sbracato? Con Di Pietro il quale correrà con il suo simbolo autonomo ma “apparentato” con il Partito democratico, e che rappresenta la cupa ala giustizialista, la voglia di forca, il peggio del peggio dell’antipolitica già morta e da seppellire. Peggio: Di Pietro ha tentato di imbarcare anche Marco Travaglio (un coraggioso che abbiamo sfidato pubblicamente a un confronto e che ancora scappa) e si è fatto dire di no. Che figura miserabile.

Ci aspettavamo insomma che, non foss’altro che per spirito di emulazione, Veltroni sapesse tener duro come Berlusconi che ha detto di no a Casini, a Storace e persino a Ferrara, mentre lui non è stato in grado di farlo con l’uomo che riuscì ad affondare tutti i partiti democratici della prima Repubblica ma senza scalfire il Pci. Fantastico. Una curiosità: ma Veltroni non ha fra i suoi uomini il nostro vecchio amico Enzo Carra, l’uomo che durante Mani Pulite fu trascinato in catene davanti alle telecamere? Che meraviglioso partito: Caino ma anche Abele, il gatto ma anche la volpe, il lupo ma anche l’agnello. Così Veltroni evidentemente vede il nuovo, lui che si è preso sulle spalle l’immane compito di costruire una sinistra democratica occidentale che ancora non esiste? E per riuscire in una tale impresa a chi è andato invece a dire di no? Ai socialisti di Boselli e di Bobo Craxi i quali, quanto a genoma democratico stanno alcuni chilometri più in alto di lui, che per rimediare alle misere origini comuniste è costretto a travestirsi ora da Kennedy e ora da Obama.

Veltroni ha anche sbattuto la porta in faccia ai radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino, altra stirpe politica di cui e su cui si può discutere, ma che potrebbero impartire a Uolter e ai suoi alcune lezioni sui fondamenti della democrazia liberale. Insomma, una delusione ma – peggio ancora – un tragico errore. Noi, che facciamo parte dell’altra squadra, dovremmo gioire di tali errori perché faranno perdere altro consenso al partito che già nasce con la palla al piede di un presidente che si chiama Romano Prodi detto «con me e dopo di me il nulla». Ma non è così.

Questa partita va giocata nell’interesse dell’Italia prima ancora delle parti politiche: Berlusconi ha fatto una figura trionfale in televisione perché dimostra di voler realizzare il suo progetto con una forza di carattere e una chiarezza uniche: sostituire il bipolarismo con il bipartitismo per mettere fine al massacro dei veti incrociati nelle coalizioni che rendono il Paese ingovernabile. Questa grande operazione di restyling della politica l’ha varata quando ancora Veltroni annaspava alla ricerca di una identità che ancora oggi non riesce non solo a trovare, ma neanche a cercare. Così, siamo di fronte a questo paradosso macabro: il Partito della Libertà raccoglie un popolo già omogeneo da anni, mentre il Partito Democratico raccoglie elementi di divisione e di odio. Inoltre, se Berlusconi mette la barra sul futuro senza guardare in faccia neanche gli amici, Veltroni arruola come un signore della guerra il torturatore della Prima Repubblica e che incarna quel giustizialismo che ormai massacra anche la sinistra.

Certo, peggio per lui. Ma peggio anche per l’Italia che non ha una sinistra decente e democratica, ma soltanto giustizialismo e rancori brucianti. (il Giornale)

martedì 12 febbraio 2008

Candidature

A me Storace piace (fa anche rima).
Lo vedrei bene come sindaco di Roma. Anche perché, "digiamolo", Rutelli mi sembra bollito e mandato allo sbaraglio tanto per essere tolto dai piedi.
Il Cavaliere del Popolo della Libertà potrebbe dimostrare di essere il solito mago degli effetti speciali se appoggiasse la candidatura di Storace e rinunciasse ad una propria.
Otterrebbe un doppio risultato: quello di comprovare l'intenzione del centrodestra di rimanere il più possibile coeso e ammorbidire la riluttanza de "la Destra" ad entrare nella nuova formazione di Berlusconi, Fini & Co.
Potrebbe sembrare fantapolitica, ma in quest'ultimo mese ci siamo abituati a tutto.
E il bello, secondo me, deve ancora venire.

lunedì 11 febbraio 2008

Il Popolo della Libertà non deve vincere, deve stravincere. Milton

L’ora è arrivata. Romano Prodi (Presidente del PD, non scordiamocelo mai!) e il suo Governo tra cumuli di rifiuti, tasse e miseria, dopo aver messo in ginocchio l’Italia, sono andati a casa. Il Presidente della Repubblica, con una sindrome da protocollo istituzionale non in linea con le urgenze del Paese, ha constatato, con una certa riluttanza, l’impossibilità (e l’inutilità) di formare un nuovo esecutivo, e ha così finalmente sciolto le camere.

Nel frattempo la sinistra si è spaccata. L’anomalia tutta italiana di una sinistra massimalista e radicale alleata con la sinistra che (con la solita buona dose d’immodestia) si definisce riformista, sembra essere finalmente terminata con circa cinquant'anni di ritardo, rispetto a tutte le esperienze delle più grandi democrazie europee. E’ proprio questo ritardo che deve fare pensare, e deve fare stare all’erta; Veltroni e il PD (che ha come Presidente Romano Prodi, non scordiamocelo mai!) corrono da soli perché sanno che la riproposizione dell’accozzaglia sbandata del 2006, porterebbe ad una sconfitta certa e cocente. Quindi da soli per necessità, non per scelta o diverso posizionamento politico, accompagnando il tutto con questa ormai stantìa esegesi del nuovo, patetica e comica , recitata ogni giorno da chi ha iniziato ad alzare il pugno chiuso negli anni settanta, ha continuato a farlo fino al Congresso dei Giovani Comunisti Europei a Sofia alla fine degli anni ottanta, per poi dimenticarselo ed abbracciare l’America, Martin Luther King, Obama, Jovanotti, l’Africa e la solita vecchia, trita e ritrita galleria di citazioni, buonismi e chiacchere al vento. Da Spello Veltroni ci dice tutto e il contrario di tutto, ma soprattutto dice che è la politica che si deve rialzare, quella politica che lui fa da trent’anni, ricoprendo cariche via via più importanti. Insomma un’autocritica inconsapevole, un marziano che all’improviso sbarca in Italia.

Ma nonostante questo vuoto spinto, nonostante il significativo vantaggio nelle indicazioni di voto del Popolo della Libertà, Veltroni e il PD non vanno sottovalutati, essenzialmente per due ragioni. Primo perché sono già iniziati i soliti endorsement (con Mieli gran ciambellano), le interviste in ginocchio (Veltroni a Matrix, la settimana scorsa) le adesioni dei “soliti pezzi” della società civile e … non siamo ancora in campagna elettorale.

Secondo perché una volta tanto ha ragione Veltroni, non bisogna vincere a tutti i costi. E vero! Bisogna stravincere a tutti i costi. Il Popolo della Libertà, questa volta, deve stravincere, perché per la missione che l’aspetta, non ci devono essere ostacoli, trasformismi, camaleontismi, ripensamenti, capriole, follinismi, titubanze. Perché la missione è, questa volta, una vera rivoluzione liberale, non più derogabile, senza compromessi, senza colbertismi, non più emendabile, senza rendite di posizione, senza codardi moderatismi.

E’ l’ultima chance perchè il Popolo della Libertà non tollelerebbe un’ulteriore occasione perduta; chi non ci sta, lo dica ora, e vada per la sua strada, perché per ciò che c’è da fare serve coraggio, determinazione e coerenza.

Perché ci vuole coraggio per mandare a quel paese ogni corporazione, i signori delle rendite, i capitalisti senza capitali, i monopolisti privati, basta con la concertazione, con i soliti tavoli, con i soliti interessi. Serve un piano di liberalizzazioni che permetta finalmente ai cittadini di esercitare la propria libertà di scelta, in un quadro di trasparenza e concorrenza. Vogliamo finalmente avere la libertà di mandare a scuola i nostri figli dove più lo riteniamo opportuno, vogliamo un’università libera dai baroni con una propria autonomia e responsabilità, vogliamo essere curati dove pensiamo lo facciano meglio, non vogliamo più balzelli e bolli. Si devono liberare finalmente tutte le energie del mercato, chi intraprende e rischia non venga più sbertucciato, affinché l’intrapresa torni ad essere quella insostituibile cellula sociale creatrice di benessere, perché il valore sostituisca finalmente la rendita.

Perché ci vuole coraggio per mettere mano alla vergogna della spesa pubblica; una spesa che ormai ha raggiunto la metà del PIL. I numeri sono scandalosi: più di 42 milioni di giornate di malattia retribuite nel 2006, più di 12 giorni di malattia per dipendente pubblico all’anno, nessuna mobilità, un potere invasivo e devastante dei sindacati, i veri padroni della macchina della pubblica amministarzione. Più di 100 miliardi di euro l’anno spesi nella sanità, con i bambini che muoiono di appendicite negli ospedali e la necessità di raccomandazioni, per fare una TAC in tempi non biblici. Sulla spesa pubblica e la PA non ci vogliono esitazioni e titubanze, va razionalizzata e resa più efficiente, va bloccato il turnover dei dipendenti pubblici e la mobiltà non deve essere più volontaria, e più responsabilità ai dirigenti. Chi gestisce un ospedale deve essere giudicato per i risultati che porta e per il servizio che riesce a dare, nient’altro. E nessuno rimetta sul tavolo i voti degli statali, c’è il voto dell’Italia che produce che aspetta e che non può essere più tradito.

Perché ci vuole coraggio per dare finalmente anche ai lavoratori italiani un fisco giusto, che chieda ai cittadini la giusta parte dei risultati del loro lavoro ed in cambio, fornisca servizi adeguati. Giù le tasse, senza titubanze con i soldi del taglio della spesa pubblica, innalzando l’età pensionabile a livelli europei. Giù le tasse, per riaccendere i consumi e lo sviluppo.
Perché ci vuole coraggio per dire ad un giovane, il futuro è nelle tue mani, mettiti in gioco, punta sulla conoscenza, sulla competenza, il posto sicuro è una schiavitù, sei tu la tua sicurezza e il tuo destino, in un ambiente che premia il merito, favorisce la mobilità sociale e la capacità di rischiare.

Perché ci vuole coraggio per dire a chi non ce la fa, che la soluzione sta nella creazione del benessere e non nella redistribuzione, che chi dice di rappresentarli, in effetti non l’ha mai fatto, curando sempre i propri interessi corporativi. Benessere e sviluppo combattono la povertà, nient’altro.

Perché ci vuole coraggio per dare voce all’Italia dei volontari che ogni giorno, in silenzio, mette in gioco se stessa al servizio degli altri, l’Italia della sussidiarietà mai rappresentata a nessun tavolo, ma motore vitale di coesione, solidarietà e sviluppo.

Perché ci vuole coraggio per mettere mano finalmente ad una nuova politica energetica, che faccia piazza pulita dell’ambientalismo dei veti, a un nuovo piano infrastrutturale prendendosi la responsabilità di decidere ed avendo la forza di farlo. Un ambientalismo consapevole e responsabile che comprenda che la tutela dell’ambiente non è in conflitto con lo sviluppo, ma al contrario ne va ricercata la simbiosi.

Perché ci vuole il coraggio delle scelte perché i cittadini sentano la sicurezza come un valore, perché non si muoia più sul posto di lavoro, né per incidente o negligenza, né perché non si è pagato il pizzo.

Perché ci vuole coraggio per dare ai cittadini una giustizia che funzioni, la certezza di essere giudicati da giudici imparziali in tempi brevi, poche regole ma certe, interpretazioni univoche, la libertà di alzare il telefono e poter parlare liberamente, senza il timore che qualcuno ascolti.

Coraggio, forza e responsabilità. E per questo che bisogna stravincere, la rivoluzione liberale non può più attendere.

Due mesi ancora per riprendersi il Paese e la nostra libertà. (l'Occidentale)

La sinistra Mieli-style. Davide Giacalone

La sinistra Mieli-style è irreale. Il direttore del Corriere s’è lanciato in una lezione di storia politica europea per dimostrare che, al contrario di quel che è avvenuto in Francia, Germania ed Inghilterra, da noi i socialisti sono rimasti troppo deboli e vicini ai comunisti, con il risultato che non c’è mai stata una sinistra autonomamente candidata a governare. E’ vero, ricorda Mieli, che pure abbiamo avuto una sinistra al governo, ma è roba resa possibile dallo scissionismo e dal trasformismo, destinata a contare poco. Morale: evviva il pd di Veltroni, finalmente candidato solitario. Posto che anche qui s’è apprezzata la dottrina Veltroni, voglio far osservare che nella lezione impartita da via Solferino più che buchi ci sono voragini.
Ne ricordo, per brevità, solo quattro. 1. Il pci è stato il “più grande partito comunista d’occidente”, perché è stato il partito comunista occidentale più finanziato dall’Unione Sovietica e dai suoi satelliti, con soldi sporchi di sangue. Gli italiani erano, assieme ai tedeschi occidentali, i più esposti al lato caldo della guerra fredda, ed il pci fu (non solamente) il rappresentante degli interessi nemici. Basterà ricordare gli euromissili. 2. Da noi il mondo della cultura è stato vile, e chi non ha piegato la testa è stato ridotto al silenzio. La dottrina comunista ha trovato adepti, anche sotto i cingolati che schiacciavano la libertà, perché scrittori, cineasti e guitti vari furono comprati con il conformismo. Pochi non vollero “suonare il piffero per la rivoluzione”. La viltà perdura, oltre tutto alimentata dall’ignoranza. 3. La scelta togliattiana di spartire con i democristiani (dossettiani in specie) l’influenza ed il potere, diede i suoi frutti. Costringendo la sinistra democratica ad aborrire l’alternativa di sinistra. 4. Quando leaders della sinistra si posero contro quest’andazzo, come fecero Saragat o Craxi, furono massacrati. In ultimo sotto il peso convergente dei soldi sporchi, della ribalda vigliaccheria giornalistica e culturale e delle istituzioni colonizzate, magistratura in testa.
Se la sinistra italiana non è mai stata (purtroppo) sinistra di governo, la colpa è anche di chi non ha voluto che fosse anticomunista tanto quanto antifascista, di chi ha collaborato alla distruzione di quella democratica.

Il costo dei nani. Tito Boeri

Fra un mese, con la presentazione della Trimestrale di Cassa, avremo un quadro preciso dei conti pubblici lasciatici in eredità da Prodi. Sapremo se, al di là del forte incremento del gettito, c’è stata nel 2007, a differenza che nel primo anno di governo del centro-sinistra, anche una riduzione della spesa pubblica.

I dati resi disponibili in questi giorni dall’Istat sulla spesa delle amministrazioni pubbliche per funzione ci offrono, invece, un quadro preciso di cosa è avvenuto durante i 5 anni del governo Berlusconi. In quel periodo la spesa, al netto degli interessi sul debito pubblico, è cresciuta di più di 100 miliardi di euro. Circa due terzi di questo incremento sono ascrivibili alla spesa previdenziale e alla sanità. Altri 20 miliardi sono stati destinati ad aumenti salariali ai dipendenti pubblici. In sede di consuntivo dell’operato del suo governo, Silvio Berlusconi ha lamentato i vincoli imposti dal diritto di veto dei partiti minori, che lo avrebbero frenato in ogni tentativo di razionalizzare la spesa pubblica. C’è da credergli: i piccoli partiti presidiano interessi specifici e difficilmente appaiono come responsabili degli aumenti delle tasse agli occhi degli elettori. Quindi hanno tutto l’interesse a conquistare trasferimenti ai gruppi che rappresentano, noncuranti dei livelli raggiunti dalla pressione fiscale. I dati lo confermano: i sistemi politici maggiormente frammentati sono quelli che generano livelli più elevati di spesa pubblica. Più alto il numero dei partiti, più difficile anche ridurre il numero dei parlamentari e tagliare i costi della politica. Dopo aver ripetutamente tuonato contro i piccoli partiti, Berlusconi ci ha però lasciato in eredità una legge elettorale che concede ancora più spazio alle formazioni minori. I tanti one-man party spuntati come funghi durante la legislatura che si è appena conclusa ne sono la riprova.

Purtroppo non sarà facile liberarsi di questa legge elettorale, riducendo lo strapotere dei partiti minori. È molto più difficile passare da un sistema proporzionale a uno maggioritario che viceversa. Lo documenta uno studio di Josef Colomer (It’s Parties that Choose Electoral Systems, Sono i partiti a scegliere i sistemi elettorali) che consiglieremmo come lettura a molti strateghi di sistemi elettorali. Mostra come 37 paesi (sugli 87 passati in rassegna) siano passati da un sistema maggioritario a uno proporzionale. Mentre si registrano più che altro fallimenti nei tentativi di adottare sistemi elettorali che riducano la frammentazione politica e favoriscano la stabilità dei governi in paesi che hanno un alto numero di partiti. Classici i casi della riforma fallita dai cristiano-democratici in Germania nel 1967 o dell’inutile tentativo dei socialdemocratici olandesi nel 1977, soffocati dall’opposizione dei partiti minori. Dobbiamo perciò rassegnarci ad assistere impotenti alla crescita della spesa pubblica in Italia? In questa legislatura abbiamo raggiunto la cifra record di 39 partiti rappresentati in Parlamento e la spesa pubblica ha superato il 50 per cento del prodotto interno lordo. Se il Parlamento che uscirà dal voto del 13 aprile riprodurrà lo stesso grado di frammentazione politica di quello uscente, sarà anche molto difficile cambiare la legge elettorale. Rischiamo così di trovarci in un circolo vizioso fatto di frammentazione politica che genera ulteriore frammentazione politica, il tutto sulle spalle o, meglio, sulle tasche degli italiani.

L’unico modo per uscire da questo circolo vizioso è che gli elettori penalizzino col loro voto i partiti minori. Bene, in ogni caso, che gli italiani siano consapevoli che c’è una tassa, nel vero senso della parola, associata al voto ai piccoli partiti. L’altra possibilità è quella di impedire ai piccoli partiti di entrare a far parte di coalizioni elettorali che permettano loro di ottenere premi di maggioranza per aumentare le loro compagini parlamentari (che sono, dopotutto, la loro raison d’être). La scelta di Walter Veltroni di portare il Partito democratico da solo al voto è, per queste ragioni, una scelta lungimirante, merce rarissima nel panorama politico italiano. Non sappiamo ancora cosa sia il Popolo delle Libertà nato in questi giorni. Bene che non sia una semplice lista elettorale, ma un partito vero e proprio, in grado di ricomporre differenze d’opinione al suo interno. Fondamentale che si chiuda a federazioni con partiti minori. Se così fosse, queste elezioni potrebbero davvero rappresentare una svolta per il Paese. Molti piccoli partiti e piccoli leader sparirebbero come d’incanto e, durante la prossima legislatura, si potrebbe finalmente pensare di dotare l’Italia di una legge elettorale che non abbia un «ellum» come suffisso e ridurre il numero di parlamentari, permettendo finalmente agli elettori di scegliere e a chi verrà scelto di poter davvero governare.

Nuovismo di cartapesta. Gianteo Bordero

E' davvero insopportabile la retorica con la quale gli stessi commentatori che due anni fa osannavano e magnificavano la candidatura di Romano Prodi descrivono oggi la scelta del Pd veltroniano di correre da solo alle prossime elezioni del 13 e 14 aprile. Orfani di un prodismo divenuto inguardabile e indifendibile, rilanciano ora il mantra del «nuovo che avanza», ovvero dell'indomito sindaco di Roma che «rivoluziona» il quadro politico italiano, fa fare «un passo avanti» alla nostra democrazia, apre col suo coraggio una «nuova stagione» per il nostro paese. Del resto, la capacità della cosiddetta «grande stampa» di genuflettersi di fronte al potente (ovviamente di sinistra) di turno è pari soltanto all'ipocrisia con cui essa nasconde agli italiani la pura e semplice verità: andare in solitaria alle prossime elezioni non è, per Veltroni, una scelta, ma una necessità dettata dal vecchio, saggio motto per cui «è meglio perdere le elezioni che perdere la faccia». Correndo da solo, il segretario del Pd uscirà sconfitto dalle urne, ma almeno avrà salva la dignità politica. Tutto qui.

Ma ai giornali con un occhio rivolto a sinistra e l'altro ai cosiddetti «poteri forti» interessa altro rispetto alla verità: interessa creare l'ennesimo mito della «meglio sinistra», il «new dream», appunto la «nuova stagione». Tutta panna montata ad arte per nascondere l'evidenza di una sinistra sinistrata, alla frutta, uscita a pezzi dalla devastante esperienza dell'Unione e del governo Prodi. Una sinistra priva di slancio ideale, che ha abbandonato il popolo per entrare nei salotti che contano; che ha messo al bando la classe operaria, tassandola e tartassondola con furore vampiresco, per promuovere i «liberali della cattedra» a nuovi profeti dell'economia nazionale; che ha eluso tutti i grandi temi storici della sua politica per dedicarsi alla sistematica distruzione dell'operato del precedente governo di centrodestra.

Che cosa può avere di nuovo il Partito Democratico quando i suoi dirigenti sono, nella maggior parte dei casi, gli stessi che hanno gestito il lento ma inesorabile declino della sinistra come orizzonte politico e come identità? Quando i suoi notabili hanno partecipato senza colpo ferire agli scempi prodotti dall'esecutivo prodiano? Quando persino il suo stesso leader è in politica dal 1976, in posizioni di rilievo nel Pci, nel Pds, nel Ds - di cui fu pure segretario, portandolo al mimino storico nel 2001? Eppure quasi nessuno dice più queste cose, e ci si acconcia in tutta tranquillità (in alcuni casi perfino tra le fila del centrodestra) ad essere presi per i fondelli dal Paolo Mieli di turno, che ci racconta la favola bella di Veltroni e del Pd dopo che quella di Prodi e dell'Unione, da lui con egual enfasi vergata, è finita in tragedia. Come se gli italiani fossero fessi e avessero la memoria corta, non ricordando oggi quel ch'è accaduto ieri.

E allora via con le articolesse, i peana, le finte analisi super partes degli illuminati politologi che tentano di convincerci della «portata dirompente» della strategia veltroniana, a fronte della quale il centrodestra rischierebbe di apparire come il «vecchio», «incapace di rinnovarsi», «sempre uguale a se stesso». In spregio ad ogni senso del ridicolo e - cosa ancora peggiore - ad ogni senso della realtà, che indica con chiarezza il divario di gradimento popolare che separa il centrodestra dal Partito Democratico, si proprina al popolo - ritenuto, come sempre, «bue» dalla sinistra e dai poteri non eletti che gli tengono bordone - l'indigeribile sbobba nuovista del sindaco della Capitale, spacciata per cibo succulento destinato a conquistare il palato della maggioranza degli italiani.

Bene ha fatto, il centrodestra, ad aggregare nel Popolo della Libertà Forza Italia, Alleanza Nazionale e altri partiti minori della coalizione: in tal modo ha tolto a Veltroni uno dei pochi argomenti da lui spendibili in campagna elettorale, quello dell'eccessivo numero di sigle e simboli presenti nello schieramento berlusconiano. Un'operazione che il segretario e candidato premier del Pd ha definito di «maquillage», dimenticando di guardare in casa propria, all'interno del suo partito pullulante di ex. Guai a ricordarlo a Veltroni, un mitografo prestato alla politica che non tollera deviazioni o scarti dalla rotta dell'iconografia di regime e dalla propaganda ufficiale. (Ragionpolitica)

venerdì 8 febbraio 2008

Vuolter l' "amerricano". Orso Di Pietra

“Yes, we can”. Walter Veltroni che imita Obama scatena entusiasmi incredibili tra gli aedi professionali della grande stampa italiana. I più banali si limitano a ripetere senza sosta quant’è bello Vuolter, quant’è bravo Vuolter, quant’è intelligente Vuolter, quant’è nuovo Vuolter! Quelli che invece si sentono una spanna al di sopra dei tromboni mediocri si esibiscono invece in più ardite sinfonie. Prendi, ad esempio, Francesco Merlo, che da quando ha risciacquato in Senna il suo barocchetto catanese tende a scavalcare il Cavalier Marino in fatto di acrobazie linguistiche. Per lui, grazie all’imitazione dell’avversario di Hillary, Veltroni “ha vinto prima ancora di vincere”. In lui si è incarnato lo “Spirito del Tempo”, quello che impone al leader del Pd di “correre da solo per sfasciare la poltiglia che non permette al paese di essere governato”. Insomma, Vuolter come Obama, come “il cow boy, il giustiziere, il farmer” che nella letteratura e nel cinema americani corrono da soli contro “banchieri, avvocati e federali” che nell’Ovest sono come i “tanti partiti italiani, imbroglioni e perditempo”. Vuolter come Humphrey Bogart e John Wayne, che “generosamente risolvono i problemi ma alla fine se ne vanno vittoriosi e perdenti, lasciando ad altri la terra, le donne, una nuova regola e un nuovo modo di stare al mondo”.

Sarà! Ma anche tra gli amici più stretti di Vuolter eccessi come questo di linguismo acrobatico (anzidetto in volgare leccaculismo) scatenano ondate di preoccupazione alimentate da ricordi decisamente nefasti. Già una volta Vuolter ha fatto l’ “amerricano” e ci ha lasciato le penne. Nel 2001, da segretario dei Ds, entrò in campagna elettorale copiando l“I care” di Don Milani. E la Cdl conquistò un centinaio di parlamentari in più del centro sinistra. Con il “we can” quanti saranno? E Vuolter, lasciate terre, donne e regole, dove si andrà a nascondere per sfuggire al “Corvo Rosso” D’Alema in cerca del suo scalpo? (l'Opinione)

Programmi. Jena

Salve, sono una forza politica e vorrei allearmi col Pd. Benvenuta tra noi, tuttavia qui abbiamo stabilito una regola ferrea: deve sottoscrivere tutto il nostro programma. Sono qui per questo, potrei solo dargli un’occhiata? Assolutamente no. E perché? Non l’abbiamo ancora fatto. (la Stampa)

Con il Cavaliere in pista la sinistra stramazza. Paolo Granzotto

Egregio Granzotto,
mostrandosi al solito il migliore sulla piazza il nostro Silvio ha assicurato che questa sarà una campagna elettorale accesa ma non infiammata, e ciò non solo per restituire dignità alla politica ma per preparare il terreno a una legislatura costituente. A questo punto le chiedo: per favorire il cambiamento ed instaurare un più solido clima di pacificazione non sarebbe opportuno che Berlusconi si facesse da parte lasciando il posto ad un altro esponente della Casa delle libertà?

Magari la prossima volta, caro Marchesi.
Ora come ora deve essere il Cavaliere a condurre le danze. Lui in persona. In carne ed ossa. E deve riempire le città di manifestoni formato campo da tennis con la sua faccia e il suo nome bello in grande. Nome che sta alla sinistra come l’aglio ai vampiri. Li stramazza. E questo noi si vuole, caro Marchesi, e di questo la sinistra ha bisogno: di stramazzare. Di prendersi una bella lezione. Mi spiego: sono quindici anni che la sinistra politica, imprenditoriale, giornalistica, letteraria, cinematografica, canzonettistica e cabarettistica, che la sinistra blasonata e quella cialtrona, quella con a disposizione un cervello pensante e quella che nella zucca ha solo slogan e parole d’ordine, son quindici anni, dicevo, che dà addosso da matti a Silvio Berlusconi. Gli dà addosso scatenandogli contro i mastini delle Procure, la piazza, gli organi di informazione «democratici», le sciure dei salotti e delle terrazze romane, le Vladimir Luxuria e i bamba del girotondo. Non limitandosi a battere e ribattere che Berlusconi rappresenta il Male e il Peggio del Peggio, ma rompendogli gli zebedei con la bandana, i cactus, le squinzie sulle ginocchia, le ville di qui e le ville di là, lo stalliere, il riporto, il trapianto, le meches, il lifting, i tacchi, lo jogging in braghe bianche, le schitarrate con Apicella, le barzellette e i foulards a pois. E poi giù con il tormentone del conflitto di interessi buono solo per batterci la mazza della grancassa perché se avessero voluto, i governi di sinistra lo avrebbero sistemato in quattro e quattr’otto, e invece nisba. E giù con l’Economist , anzi, il prestigioso Economist che ritiene - e sai chi se ne frega - Berlusconi unfit to lead Italy. E giù... mi fermo?
È dal 1993, anno dalla «discesa in campo», che la sinistra ha smesso di fare politica (demandata a quel simpatico fallito di Prodi), di fare cultura (affidata a quel raffinato intellettuale di Daniele Luttazzi), di fare tutto perché ossessionata dall’idea che Berlusconi debba sparire dalla faccia della terra. Ebbene, caro Marchesi, la risposta più appropriata è: Berlusconi a Palazzo Chigi. Per cinque anni cinque. Perché se con gesto principesco il Cavaliere si mettesse da parte, quelli si farebbero prendere dal ballo di San Vito sostenendo che al termine di una dura battaglia l’hanno costretto al ritiro. Dunque, Palazzo Chigi. A dimostrazione che con tutta la loro spocchia, la loro sussiegosa saccenteria, ’sti progressisti non sono altro che una manica di quaquaraquà. Che la belluina, quindicennale character assassination si è rivelata un flop. Un floppone. E che dunque forse gli conviene lasciar perdere perché più gli ringhiano contro, più fanno udire un certo noto tintinnio, più i Maltese lo sbeffeggiano e le Littizzetto gli fanno il verso, più il Cavaliere vince. Anzi, stravince. Alla faccia loro, of course, per dirla con e all’Economist. (il Giornale)

giovedì 7 febbraio 2008

Gli anni di Romano. Marcello Sorgi

Nessun addio è mai veramente definitivo. Due anni fa, dopo la sconfitta, Berlusconi sembrava un ex leader, oggi è il candidato favorito a vincere le elezioni.

Ieri anche Prodi pareva finito, quando ha detto che non si ricandiderà alle elezioni del 13 aprile. Ma pure per lui, mai dire mai. Berlusconi e Prodi da oltre dieci anni condizionano la vicenda italiana. Nel modo in cui hanno governato, e sono stati battuti, c’è una lezione per il futuro dell’Italia. Le loro due esperienze sono speculari. Ma se il Cavaliere, all’uscita dai suoi cinque difficili anni di governo, è stato sconfitto per non aver realizzato tutto quel che aveva promesso, Prodi, al contrario, è caduto per aver fatto quel che non doveva.

Lasciamo stare la capacità, scomparsa in dieci anni, dal 1996 al 2006, di mobilitare un intero Paese su obiettivi alti come quelli dell’euro e dell’Europa. Prendiamo invece l’indulto, ereditato dalla precedente maggioranza di centrodestra. Ammesso che fosse inevitabile, perché era in gioco, oltre alla condizione disumana dei carcerati, la credibilità dell’intero Parlamento rispetto al Papa (al quale, per inciso, era stata promessa l’amnistia), era proprio necessario vararlo come primo atto significativo della legislatura? Non era prevedibile l’allarme sociale che ne è derivato e la recrudescenza di microcriminalità che lo ha seguito?

Anche l’opera di risanamento dei conti pubblici nel 2006, che resta il risultato più importante del governo, è stata condotta in modo da dare la sensazione di una stretta eccessiva, insopportabile per la parte più debole della società, che nel centrosinistra aveva riposto le sue speranze. La disputa inconcludente sul «tesoretto», che doveva servire - e non è servito - ad alleviare le sofferenze dei meno garantiti, non ha fatto che confermare queste impressioni.

Schematico, inoltre, e per certi aspetti ideologico, è stato l’approccio a tutte le riforme varate dalla Casa delle libertà nella XIV legislatura. Quella delle pensioni, ad esempio, non era poi così male, e oltre ad aver ricevuto l’approvazione delle autorità europee, era stata metabolizzata da gran parte dei cittadini. Non è affatto vero che la gente muoia dalla voglia di andare in pensione a 57 anni. Anzi, come dimostra l’adesione agli incentivi previsti per chi voleva restare al lavoro dalla riforma Maroni (altra legge cancellata), forse è vero il contrario. E in un periodo in cui l’età media e la qualità della vita vanno verso un innalzamento, questa tendenza è destinata a consolidarsi. Il nodo dei lavori usuranti, su cui il sindacato ha basato tutta la trattativa, poteva forse essere sciolto con un provvedimento più limitato. E i risparmi realizzati dalla riforma, indirizzati verso obiettivi diversi. Non è un mistero, tra l’altro, anche se non lo ammetterà mai pubblicamente, che questo era il punto di vista del ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa.

Un analogo ragionamento avrebbe dovuto riguardare la giustizia. Prodi e i partiti della sua maggioranza sapevano bene che i magistrati avevano considerato un atto di guerra nei loro confronti la riforma varata dal centrodestra. Dal centrosinistra si aspettavano, dunque, non la riforma della riforma, ma la cancellazione della stessa. La mezza separazione delle carriere, la finta inibizione delle intercettazioni e tutti i compromessi grazie ai quali alla fine il governo ha cercato di salvare il salvabile, hanno finito con lo scontentare sia il fronte dei riformisti e garantisti, sia quello dei difensori della completa autonomia della magistratura, così come è scritta nella Costituzione e come viene talvolta - non sempre bene, se si pensa a magistrati come Forleo e De Magistris - interpretata dai giudici. Il risultato finale è stato quello di un ministro della Giustizia, come Mastella, magari non privo di responsabilità, ma condannato e rimosso per via giudiziaria e senza un regolare processo. Si potrebbe aprire, infine, il capitolo degli annunci non seguiti da fatti e dei fatti non corrispondenti agli annunci. L’elenco sarebbe lungo. A parte il «tesoretto», pensiamo ai «Dico». Erano così urgenti, così necessari, al punto da avanzarli a costo di una fragorosa frattura della maggioranza? E la nuova legge sul conflitto d’interessi? E quelle sulle tv e la Rai? Era logico proporle senza avere i numeri per approvarle, sapendo che avrebbero provocato un’alzata di scudi del fronte berlusconiano, e soprattutto mentre si cercava, al Senato, di trovare un dialogo con l’opposizione?

Così, da subito, Prodi e il suo governo si sono indeboliti. E giorno dopo giorno non hanno più rimontato. Oggi, stando a quel che ha detto Prodi, in uno dei suoi ultimi giorni a Palazzo Chigi, verrebbe la tentazione, anche se non è detto, di scrivere la parola fine sulla sua epopea. Con Prodi, infatti, finiscono il centrosinistra, l’Ulivo e l’Unione come li conoscevamo, e perfino l’epoca del bipolarismo, in cui i premier e i governi venivano scelti dai cittadini. I prossimi governi, se non proprio il prossimo, nasceranno in Parlamento. La politica tornerà ad essere l’arte del possibile. Si sa: da giorni ormai, da settimane, forse da mesi, tira aria di grande coalizione. In questo Paese il futuro riparte sempre da ieri. (la Stampa)

E Mister Prezzi vende fumo. Massimo de' Manzoni

Il cielo è azzurro, ma quando si copre di nuvole diventa grigio. E allora dovete stare attenti, perché potrebbe piovere e, se non siete muniti di ombrello, quasi certamente finirete per bagnarvi. Se poi fa molto freddo, occhio alle strade: se l’acqua ghiaccia, potreste scivolare. No, non sono impazzito. Anzi: pensate che con consigli del genere, se fosse durato ancora un po’ il governo Prodi, forse avrei potuto aspirare alla nomina a Mister Clima. E allora avrei dovuto sgomitare con il mio collega Mister Prezzi per avere il giusto spazio sugli organi di informazione e distribuire a tutti le mie perle di saggezza.
Il fatto è che Mister Prezzi esiste davvero: si chiama Antonio Lirosi, è il capo del Dipartimento per la regolazione del mercato del ministero per lo Sviluppo economico retto da Bersani ed è stato nominato tra squilli di tromba un mese fa dal governo. La sua figura è stata istituita, nientemeno, dalla legge più importante dello Stato, la Finanziaria. E martedì, con la diffusione dei dati Istat sull’inflazione che ha toccato il 2,9%, il livello più alto dall’estate del 2001, è arrivato il suo grande giorno. Intervistato da Repubblica, Mister Prezzi ha «fatto il suo affondo», come lo definisce il quotidiano romano: «Consumatori, arrangiatevi». Abilmente, il titolista ha camuffato il tutto con un più bellicoso: «Consumatori, ribellatevi», ma la sostanza resta la stessa: la grande arma di Romano Prodi per tenere sotto controllo i prezzi è peggio che spuntata: è impotente.
Il povero Antonio Lirosi non ha alcuna facoltà di intervenire concretamente, e quindi «contribuisce a creare la consapevolezza di consumatori e imprese sulla dinamica reale dei prezzi, evitando che si accetti qualsiasi prezzo. Per esempio: un litro di latte può costare da un euro e dieci centesimi fino a due. Qui è il consumatore che può scegliere». Geniale! Ammettetelo: voi non ci avevate pensato.Ma Mister Prezzi non si limita ai consigli, fa anche appelli. Ecco quello consegnato all’Ansa il primo febbraio scorso, quando già si aveva sentore dell’aumento dell’inflazione: «Mi sento in dovere di lanciare un appello perché vengano calati i prezzi a febbraio e marzo». Ecco fatto. In questi due mesi andiamo pure a fare la spesa tranquilli: il superman di Prodi veglia su di noi. E soprattutto sui venditori di fumo. (il Giornale)

martedì 5 febbraio 2008

La novità dello scontro a tre. Arturo Diaconale

L’anomalia della prossima campagna elettorale è costituita dall’unità del centro destra e della divisione del centro sinistra. Dal ’94 ad oggi lo schema è sempre stato quello dei due blocchi contrapposti e della battaglia frontale tra i due schieramenti. Ora lo schema cambia. La Casa della Libertà, sempre che mantenga il vecchio nome, si dovrebbe presentare come un soggetto molto variegato ma sicuramente unitario. Il centro sinistra, al contrario, sarà diviso in due blocchi non solo distinti ma anche conflittuali tra di loro. Non è escluso, naturalmente, che nei prossimi giorni questo schema possa subire delle modificazioni. Nel centro destra Gianfranco Fini tenterà di ottenere da Silvio Berlusconi l’esclusione dalla Cdl dei partiti minori, dalla “Destra” di Francesco Storace all’Udeur di Clemente Mastella. A sua volta Walter Veltroni non potrà fare a meno di valutare come e quando derogare al principio della “solitudine identitaria” del Partito Democratico e trovare intese con qualche partito come lo Sdi e l’Italia dei Valori alla Camera ed opportune desistenze con il blocco di sinistra radicale al Senato. Ma anche a mettere in conto queste variabili, è difficile che alla fine lo schema della campagna elettorale caratterizzata dal confronto tra tre grandi soggetti tra loro in competizione possa subire cambiamenti significativi.

Perché nel centro destra il Cavaliere non avrà difficoltà a far prevalere l’interesse generale della coalizione ad una larga vittoria sugli interessi particolari di un sia pure importante alleato come Alleanza Nazionale. Ed a sua volta il segretario del Pd, anche se obbligato a stipulare qualche alleanza imposta dal sistema elettorale, compirà ogni sforzo per dimostrare la volontà del proprio partito di andare avanti in maniera autonoma e non più legata alla sinistra radicale. A differenza delle tre campagne elettorali precedenti, allora, quella di adesso sarà caratterizzata da due conflitti precisi. Quello tradizionale tra Casa della Libertà ed il fronte progressista e quello inedito tra la sinistra di governo e quella antagonista. L’osservazione può sembrare banale. Ma non è difficile prevedere che dei due conflitti quello più duro e senza esclusione di colpi non sarà il primo ma il secondo. Una sola certezza, infatti, è emersa dalla fase politica iniziata con il fallimento del governo Prodi e l’inutile esplorazione di Franco Marini. Quella secondo cui le larghe intese per le riforme sono rinviate a dopo le elezioni. E queste larghe intese prevedono il ritorno all’opposizione di una sinistra radicale che da questo momento in poi ha un diverso nemico principale. Non più Berlusconi ma il Pd. (l'Opinione)