venerdì 22 maggio 2015

Povera borghesia ridotta a chiedere l'elemosina di Stato. Piero Ostellino

La decisione del governo Renzi di indicizzare, d'ora in poi, solo le pensioni inferiori a tremila euro mensili, dette con definizione da Terzo Mondo «pensioni d'oro», è la condanna al progressivo impoverimento della borghesia, le cui pensioni sono, per lo più, superiori ai tremila euro mensili e che, non essendo rivalutate, si ridurranno per la fisiologica inflazione cui saranno soggette nel tempo.
È lo stesso progetto di proletarizzazione della borghesia tipico del socialismo, incentrato sull'idea di far pagare a chi ha di più i costi del miglioramento delle condizioni di chi ha di meno, invece di combattere l'indigenza e la povertà con la tassazione generale. La borghesia – il cui sostegno a Renzi è comprensibile, dati il suo masochismo e la sua peculiare incapacità di capire quali siano i propri interessi e di cercare di promuoverli - è già penalizzata da una pressione fiscale oltremodo pesante.
Ma, così, viene ulteriormente impoverita dal blocco delle pensioni, voluto a suo tempo dal governo Monti – un altro caso di colpevole illusione da parte del ceto medio – e recepito successivamente dal governo Letta e, ora, da quello di Matteo Renzi. Con la prospettiva del salario di cittadinanza, prende forma l'idea di trasformare gli italiani in dipendenti della carità pubblica, come era nei Paesi di socialismo reale, indebolendone le capacità di provvedere a se stessi e l'inventiva imprenditoriale. Passo dopo passo, l'Italia esce così dal novero dei Paesi dell'Occidente democratico-liberale e capitalista per entrare a far parte di quelli di socialismo reale, già condannati dalle «dure repliche della storia».
Non si può neppure dire, a questo punto, che il presidente del Consiglio – che ha fondato tutta la sua fortuna politica sulla promessa del cambiamento rispetto alla Prima e alla Seconda Repubblica e sulla conseguente convinzione, sapendo di non mantenere le promesse fatte, di essere più furbo di tutti – sia un cinico imbroglione, visto che chi lo dovrebbe giudicare è proprio quella parte degli italiani che ne fa le spese e che gli crede e lo sostiene persino dopo aver constatato che, col blocco delle pensioni, ci rimetterà un bel po' di quattrini. Un tasto al quale, oltre tutto, la parte politica cui fa capo Renzi, ritiene che la borghesia sia particolarmente sensibile e interessata! Il minimo che si possa dire, di fronte a questo paradosso, è che la nostra borghesia non si smentisce mai, e ha il governo che si merita.
Matteo Renzi, col suo disinvolto e irresponsabile ottimismo e la vocazione a vendere chiacchiere, è, in realtà, l'espressione di un Paese che ha sostituito ancora una volta alla capacità di fare quella di raccontar balle. Il governo è una sorta di parodia di quegli imbroglioni che, all'angolo delle strade, invitano i passanti a giocare al gioco delle tre carte e a scoprire dove è l'asso che essi hanno truffaldinamente fatto sparire. Personalmente, non sono di quelli che rimpiangono gli ultimi tempi della Prima e della Seconda Repubblica; se mai, solo quelli della Prima, i periodi di de Gasperi e Einaudi. Ho sperato che fosse possibile, dopo i disastri dei governi di coalizione, prima con Berlusconi, poi con Renzi, cambiare effettivamente, come promettevano, questo nostro povero e disastrato Paese. Non avendo conferito né all'uno né all'altro alcuna fiducia, non posso neppure dichiararmene deluso. Prendo realisticamente atto che la cultura dominante, frutto dell'applicazione dell'occupazione gramsciana delle casematte della borghesia da parte della cultura di sinistra, è anche la cultura di governo di Renzi. Da qui nasce il mio sostanziale pessimismo circa il futuro dell'Italia. Non so se e come ce la caveremo, anche se le risorse di cui dispone ancora il Paese, sempre che Renzi e compagnia non le mortifichino, lascerebbero pensare al meglio.

Lo Stato totalitario per consenso. Gianni Pardo

La famosa teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, anche se non va esente da critiche, ha parecchio di ragionevole in sé. Tuttavia, non che riconoscere i guasti che si possono provocare intervenendo nell’economia, l’epoca contemporanea sembra credere che tutto possa andar meglio se guidato dall’alto. E, per conseguenza, pensa anche che debba esserlo. 
Lo Stato, essendo un’astrazione, è certamente disinteressato: dunque è il migliore operatore possibile quando si tratta di campi che interessano tutti e che non si possono affidare ai privati. Il conflitto d’interessi potrebbe infatti avere esiti fatali.
Se si affida a un professionista la direzione dell’esercito si corre il rischio che costui si impadronisca del potere con la forza. La cosa è avvenuta tante volte che ormai ha addirittura un nome: putsch militare. Né si possono affidare ai privati l’amministrazione della giustizia, la repressione della criminalità, la lotta all’evasione fiscale, e molte altre branche d’attività. 
Purtroppo, partendo da questo nucleo centrale di compiti naturalmente statali, nel corso del tempo l’intervento pubblico si è dilatato fino a coprire un ambito sempre più vasto, sempre più capillare, sempre più invadente. Non c’è molto che il cittadino possa fare senza sentirsi controllato e guidato dallo Stato. Le leggi si occupano di come i genitori devono educare i figli – è vietato persino dare loro uno scappellotto! – di come i cittadini devono costruire le case, di come devono curarsi, di come devono retribuire la donna di servizio. Se stipulano un contratto con un’impresa per la riparazione di un balcone, devono persino accertarsi che siano rispettati i regolamenti per la prevenzione degli infortuni. In caso di inosservanza di quei regolamenti, se si ha un incidente, lo Stato punisce anche loro. E dire che la stragrande maggioranza degli italiani questo non lo sa neppure.
Nessuno mette in dubbio che questa selva di prescrizioni sia a fin di bene, anche se esse si accavallano in maniera tanto caotica che ci si sperdono perfino i competenti. Il risultato è comunque una “devolution” dall’autonomia individuale al potere dello Stato.
Dalla Repubblica di Platone in poi, per secoli si è sperato potesse esistere un potere statale che ottenesse risultati migliori di quelli dell’iniziativa individuale. E tuttavia, malgrado i sogni dei filosofi, da Platone a Tommaso Campanella e a Thomas Moore, non ci si è mai provato seriamente. L’esperimento – tutt’altro che in corpore vili – si è infine tentato a partire dal colpo di Stato del 1917, a San Pietroburgo. Da quel momento, per circa settant’anni, si sono visti i risultati che ottiene uno Stato che ha tutti i poteri in tutti i campi e che proprio per questo si chiama “totalitario”. La reazione è stata presto del tutto negativa, ma il governo – sempre per il bene del popolo, ovviamente - si è mantenuto al potere con la dittatura, col regime poliziesco e con i campi di concentramento per i dissenzienti. Quando finalmente l’incubo è finito, l’esito finale è stato che tutti i Paesi che avevano assaggiato il “socialismo reale” si sono giurati di tenersene accuratamente lontani. 
A questo punto si sarebbe potuto lecitamente pensare che il collettivismo fosse definitivamente morto. Ma non è andata così. Anche perché, mentre le persone colte sapevano tutto dell’Unione Sovietica, i popoli dei Paesi più sviluppati e prosperi non avevano provato sulla propria pelle i guasti di quel mondo, e conservavano molte delle vecchie illusioni. E così, ciò che si è rifiutato in teoria, soprattutto perché collegato alla dittatura, in grande misura lo si è accettato in pratica. 
Gli intellettuali si illudono spesso che le loro evidenze siano quelle della massa. L’Illuminismo era appassionato di scienza e credeva, con le sue dimostrazioni razionali, di aver distrutto la religione. Si illudeva: il Cristianesimo dell’Ottocento fu certo melenso e sentimentale, ma anche generale e incontrastato. A questo punto si poteva pensare che la scienza avesse perso e che la religione fosse invincibile: ma ancora una volta ci si sarebbe sbagliati. Quando la scienza, sposandosi con la tecnologia, cominciò a trionfare in ogni aspetto della vita, indusse a poco a poco una miscredenza generalizzata. Dove non è riuscito Voltaire, sono riusciti il frigorifero, la lavatrice e il televisore. È rimasto soltanto un Cristianesimo di facciata, un buonismo condito con qualche rito folcloristico. La gente si sposa dinanzi al sacerdote perché l’ambientazione dell’evento è più bella in Chiesa che in Comune, ma se sta male non prega il suo santo protettore, chiama il medico. Quando si fa sul serio, la scienza trionfa.
Anche il collettivismo ha seguito vie diverse da quelle prevedibili. Se ne rifiuta la teoria, perché lo si è visto associato con la dittatura e la miseria, ma si pensa sia un bene che lo Stato regoli le dimensioni e perfino la curvatura delle banane. E così si rischia d’avere uno Stato “totalitario per consenso”. Ognuno si lamenta dei vincoli che si trova a sperimentare personalmente, ma in generale, soprattutto quando riguardano gli altri, li reputa giustificati. L’impressione complessiva, almeno in Italia, è che i cittadini siano una massa di bambini incoscienti che lo Stato deve accudire e guidare, in modo che non si facciano male e non facciano male agli altri. E poiché tutto questo avviene senza Ghestapo e senza NKVD, la gente non si accorge che, dopo avere rinunziato alla propria responsabilità, ha anche svenduto la propria libertà.
Gianni Pardo

giovedì 21 maggio 2015

La tassa aggiuntiva del "re" Matteo. Arturo Diaconale

 
 
Non è un “bonus”, cioè una graziosa concessione, il parziale rimborso che il Governo ha deciso di assegnare ad agosto a chi usufruisce di una pensione inferiore ai tremiladuecento euro al mese. È una tassa aggiuntiva a carico non solo di chi viene rimborsato in misura più che ridotta di somme provenienti da un diritto riconosciuto dalla Corte Costituzionale ma, soprattutto, di chi non riceve nulla in nome dell’applicazione elastica da parte del Governo del principio che le pensioni debbono assicurare ai lavoratori in quiescenza “mezzi adeguati alle esigenze di vita”.
Matteo Renzi ed i tecnici del ministro Pier Carlo Padoan hanno stabilito che chi prende più di tremiladuecento euro lordi mensili di pensione ha in abbondanza “mezzi adeguati alle esigenze di vita” e chi ne prende meno può tranquillamente assolvere le proprie esigenze con un’elargizione una tantum ad agosto ed oscillante tra i 278 ed i 754 euro. E, arrogandosi la facoltà ed il potere di stabilire quali e quante debbano essere le esigenze di vita, hanno deciso che fatte salve queste esigenze tutto il resto debba essere lasciato nelle casse dello Stato in nome di una solidarietà sociale che di fatto è solo un esproprio malamente camuffato.
La truffa mediatica compiuta da Renzi e dai suoi tecnici nel trasformare una nuova tassa in un’elargizione estiva è fondata sul furbesco silenzio con cui nascondono il valore reale della soglia dei tremiladuecento euro. Al netto delle trattenute, questa cifra equivale a poco più di millesettecento euro mensili. Basta per assicurare i famosi mezzi per le esigenze di vita o è la linea che segna il confine tra la povertà e l’indigenza ed una faticosa sopravvivenza?
Chi vive nei grandi agglomerati urbani conosce perfettamente la risposta. Ma anche chi non deve combattere ogni giorno con le difficoltà e con i costi sempre più esorbitanti delle città dalle dimensioni sempre più ampie sa bene che quella cifra, oltre la quale nessuno prende nulla e sotto la quale tre milioni e mezzo di italiani incassano una modestissima elargizione e dal 2016 una minuscola rivalutazione di cinque euro mensili, segna il confine tra i ceti colpiti da disperata povertà e quelli schiacciati da povertà appena meno drammatica. Rispetto alla sentenza della Consulta, quindi, l’operazione messa in piedi dal Governo non è altro che una nuova forma di prelievo forzoso ai danni delle fasce medio-basse della popolazione italiana. Renzi pensa di camuffarsi da Babbo Natale a Ferragosto, ma in realtà la sua immagine sta diventando sempre di più simile a quella del re Giovanni senza terra di Robin Hood, quello che con i suoi esattori e sgherri taglieggiava ed opprimeva i sudditi di re Riccardo impegnato nella crociata.
Chissà se i risultati elettorali di fine maggio non possano annunciare il ritorno di re Riccardo!

(l'Opinione)

 

Scuola, occasione persa. Davide Giacalone


Stiamo assistendo all’ennesimo spreco. La Camera dei deputati vota la riforma della scuola, consegnandola al Senato in un tripudio di politichese fine a sé stesso. Ma per l’istruzione è ancora un’occasione persa.

Per anni, ancora, parleremo di riforme scolastiche, con un percorso lineare che, a confronto, l’arabesco sembra un’autostrada nel deserto. Vediamoli, i punti qualificanti della riforma. Ma prima osserviamo il contesto: l’opposizione di destra non è riuscita a trovare una posizione o una tesi che ne rendesse distinguibile la politica; quella di sinistra, interna ed esterna alla maggioranza, insegue fantasmi e slogan che la relegano fra i ferri vecchi di un ideologismo estraneo alla realtà; il ministro dell’istruzione non ha avuto alcun ruolo significativo, se non quello di essere rimasta al suo posto, cosa che deve all’avere cambiato partito, tradito gli elettori e trasmigrato trasformisticamente nel partito del nuovo capo; il governo esulta per la vittoria, ma, come vedremo, su non pochi punti mente sapendo di mentire. Ora la carovana trasloca al Senato, ove la più risicata maggioranza rende più emozionanti i voti. Il tutto, però, ignorando la sostanza. Cui ora mi dedico, dividendola in 8 punti.

1. La sostanza più sostanziosa consiste in 160mila assunzioni. Roba da matti, ma è così. Quanti insegnanti servono e a cosa, quindi di cosa devono essere capaci, sarà stabilito dopo averli assunti. Che altro devo dire? Giusto che 100mila sono promessi per quest’anno, dalle graduatorie a esaurimento. Quelle in cui c’è tanta gente che non ha fatto nulla di male, ma non ha mai neanche fatto un concorso. Cittadini truffati, che a loro volta incarnano una truffa. Per assumerli con un pizzico di cervello occorrerebbe fare i piani entro giugno, quando la legge non sarà stata approvata. Quindi, delle due l’una: o non verranno assunti, o lo saranno a piffero. Propendo per la seconda. Intanto si vota, poi si vede. Achille Lauro sarebbe commosso. Assunta questa massa di persone i precari non saranno esauriti, quindi andranno a prender punti di vantaggio in un ipotetico futuro concorso. Mentre passano in coda quelli che il concorso lo hanno fatto e vinto, nel 2012. Pensare che la scuola sia un diplomifico non è bello, ma questa è un assumificio, che è pure peggio.

2. La legge sventola la bandiera dell’autonomia scolastica. Al punto che nasce il Ptof (Piano triennale di offerta formativa). Il fatto è che quella bandiera garrisce al vento già da tempo, senza che abbia prodotto nulla di men che ridicolo. La libertà culturale non può essere territoriale, semmai individuale. Ha un senso se le famiglie possono scegliere la scuola, portandosi dietro i soldi. L’autonomia è una gran presa per i fondelli, se poi tutto confluisce nell’esame di Stato che presiede al totem baluba del valore legale del titolo di studio. Il Ptof “esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia”. Vorrei sapere cosa ha studiato chi compita in tal modo. Ma vorrei anche sapere come può esistere un esame di Stato se ciascuno fa quel che gli pare. Esiste perché la premessa è falsa. Tutto qui.

3. Ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Bene, una buona cosa. Se fosse una cosa, però. Negli ultimi tre anni della secondaria ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Almeno 400 ore nei tecnici e professionali e 200 per gli altri. Occhio al punto rivelatore: si potranno fare anche durante le vacanze. Questi hanno confuso l’attività lavorativa a scopo formativo con i lavoretti per guadagnarsi le vacanze, che da noi non esistono perché il datore di lavoro rischia la galera. Quel sistema funziona dove le aziende mettono bocca nella formazione e le scuole mettono piede nelle aziende. Altrimenti si chiamano “gite”. Funzionano, inoltre, se non si limitano a occupare ore, ma se possono poi essere valutate. Chi e come dovrebbe farlo è un mistero che la riforma lascia tale.

4. Il super preside non esiste. Egli, infatti “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali, garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali”. Come ora, che non riesce a farlo. Possono scegliere chi assumere? No, possono piluccare negli albi territoriali. Possono formare una squadra di docenti che li coadiuvino. Funzionava così anche nella mia scuola, e parliamo dello sprofondo del secolo scorso. Possono valutare, confermando o allontanando, i neo assunti con contratto annuale. Ma a parte il fatto che quelli sono i 100mila cui è stata promessa la stabilizzazione a vita, come li giudica? Con che criteri? La verità è che tutto il capitolo dell’autonomia e dei poteri è un gran gargarismo, se a quelli non si legano i soldi, se al risultato formativo, misurato sugli studenti, non si associa la destinazione dei fondi.

5. A proposito di fondi, non è passata l’idea del 5 per 1000, che il contribuente potrebbe assegnare alla scuola frequentata dai figli. È stato stralciato non cancellato. Avrei due obiezioni: a. pago già, per la scuola, con le imposte sul reddito e le tasse d’iscrizione, quell’idea può venire solo a gente che non s’è mai guadagnata da vivere o ha sempre evaso le tasse, sicché non sa cosa significa pagare due volte la stessa cosa; b. in quel modo i soldi vanno non dove c’è la migliore qualità, ma genitori più ricchi.

6. Buona la possibilità di detrarre, fino a 400 euro l’anno, le spese sostenute per mandare i figli alla scuola privata. Ma trattasi di occasione persa. Intanto perché 400 euro sono pochi. Poi perché si sarebbe dovuto operare in modo da far diventare ricche le scuole pubbliche buone, introducendo il buono di cui la famiglia dispone liberamente. Quello avrebbe comportato libertà di scelta, ma anche di premio alla qualità. Invece no, solo lo sconticino. Buono per il principio, ma solo per quello.

7. Nuove materie e nuovi insegnamenti restano lettera morta, perché sommersa dai vecchi insegnanti. 30 milioni sono stanziati per favorire l’aggiornamento tecnologico e la cultura digitale. Errore: bastava usare i soldi che ogni hanno si fanno buttare alle famiglie nei libri di testo, in questo modo disponendo di cifre serie (30 milioni non lo è) e digitalizzazione reale. In quanto al bonus di 500 euro a insegnante, dico solo che con le scarpe di Lauro, almeno, si camminava.

8. In quanto alla nuova scuola, intesa come nuova formazione culturale, è relegata nelle deleghe al ministro. Mica è di quello che si occupa la riforma. Aggiungete che continua a non esserci una valutazione costante, oggettiva e indipendente degli studenti e della loro crescita, quindi dei loro insegnanti e delle loro scuole. Per premiare i migliori. Tutto questo, quindi, non può che andare nel capitolo degli sprechi e delle occasioni perse.

Pubblicato da Libero

mercoledì 20 maggio 2015

Proroga straziante. Davide Giacalone

 

Il 730 semplificato e scaricato si sta incarnando in un’avventura contorta e scaricante. All’orizzonte della precomplicata sorge l’ipotesi della proroga, confermando che così come tutti i salmi finiscono in gloria, tutte le chiacchiere si schiantano ingloriosamente contro la realtà. Che non è quella virtuale e cinguettante, proiettata sugli schermi degli smartphone governativi.
Si partì dicendo che sarebbe stato l’avvento della semplificazione, talché il contribuente non avrebbe dovuto far altro che, ammirato e commosso, constatare quanto il fisco fosse stato equo e preciso nel tracciarne il profilo reddituale. S’aggiunse che accettando quella silhouette non ci sarebbero stati controlli, dacché tutti i dati erano già stati controllati e verificati. Non è vero, scrivemmo. Disfattisti, ci dissero. Peccato che il profilo somiglia sempre di più a una caricatura e che l’Agenzia delle entrate non abbia controllato nulla, limitandosi a un copia e incolla lacunoso, nel senso che alcuni pezzi se li è persi per strada.
Così si sono accorti, ad esempio, che nelle precomplicate non sono indicati i giorni lavorativi, rendendo impossibile il calcolo delle detrazioni. Mancano i contributi per colf e badanti. Sono imprecise le rendite catastali. Spesso mancano i redditi aggiuntivi, sebbene i sostituti d’imposta li abbiano segnalati per tempo, inviandone copia sia al fisco che agli interessati (senza dimenticare che hanno avuto il modulo da utilizzare solo una settimana prima della scadenza, il che ha sovente comportato una doppia duplice spedizione).
Cinguetta Matteo Renzi: dall’anno prossimo ci saranno anche le detrazioni sanitarie. Questo lo sapevamo dall’inizio, sia che quest’anno non ci sono sia che dal prossimo ci dovrebbero essere. Speedy Gonzales, a questo giro, è in ampio ritardo. E aggiunge, sempre mediante l’agenzia ufficiale del governo, ovvero Twitter: “lo ripeto tutti i giorni: semplificare, semplificare, semplificare”. Ma chi intende raggirare, raggirare, raggirare? Hanno messo su un casotto che la metà basta. Si arriva alla scadenza della Tasi senza sapere quanto pagare e senza che i bollettini precompilati, questa volta previsti dalla legge, siano mai partiti. Che sta dicendo, anzi, cinguettando? Ecco cosa sta dicendo, anzi, cinguettando: “quasi 300mila italiani hanno già inviato la dichiarazione dei redditi precompilata (promessa già dalla #Leopolda). Critiche e suggerimenti?”. No, non lasciatevi tentare, c’è il rischio sia considerato reato.
Perché, gentile Leopoldo Speedy, quelli che hanno abboccato, accettando di non detrarre quel che era loro diritto detrarre, non solo potranno essere sottoposti a controlli (perché hanno rinunciato? sono solo creduloni o hanno qualche cosa da nascondere?), ma riceveranno una mail nella quale si spiegherà loro che hanno firmato un documento che può contenere errori. A quel punto saranno presi dal panico e correranno a chiedere l’aiuto degli esperti, ovvero esattamente quelli cui li si sarebbe dovuti sottrarre. I quali esperti, siano essi caf (centri di assistenza fiscale) o commercialisti, già dicono che, in queste condizioni, è impossibile assicurare una prestazione seria nei tempi stabiliti.
Ed ecco che si parla di proroghe. Tema che richiede una risposta immediata, perché vede, gentile Twitt Gonzales, lei avrà pure esaurito, come ci ha comunicato ieri, “il quarto d’ora di twitter sul fisco”, ma se si comincia a parlare di proroga tutto si sbrodola, quindi sarà bene dirlo immediatamente: c’è o non c’è? Smentisca immediatamente, altrimenti nessuno bloccherà lo sbracamento. E se smentisce sarà anche il caso di suggerire all’Agenzia delle entrate di smetterla di sostenere che ci sono solo problemi di rodaggio, perché le macchine non si collaudano arrotando i passanti. Noi queste cose le scriviamo dall’inizio. Esiste la possibilità di dire: scusate, fummo presciolosi e avventati. Se, invece, la straziante proroga sarà confermata, ditelo comunque subito, giusto per evitare che chi ancora crede alla parola dello Stato sia il solo a spaccarsi in quattro per tener fede a chi è infedele.
La distanza che c’è fra l’annuncio di cose giuste e la realizzazione di pratiche efficienti è lo spazio che divide le politiche propagandistiche dall’arte di governare seriamente. La parte minore è l’ideazione, quella maggiore la messa in pratica. Non viceversa. Il pubblico da assecondare non è quello che spara e gioisce per i titoli, ma quello che porta sulle spalle il peso di un fisco esagerato nelle pretese e satanico nelle modalità. Il mondo reale non è popolato da followers, ma da cittadini che non è il caso di far diventare folli. Anche perché, per difendersi dall’incipiente follia, adottano una soluzione largamente sperimentata: smettono di credere a quel che si dice. Sarebbe una beffarda nemesi, per chi pensò che la parola fosse sufficiente a cambiare il mondo.
Davide Giacalone
@DavideGiac
Pubblicato da Libero

mercoledì 13 maggio 2015

Le confessioni dell'ex procuratore Piero Tony:"Ecco cosa fanno le toghe rosse". Mario Valenza

L'ex procuratore: "Dire che la magistratura è politicizzata non è una provocazione ma è una dura realtà. I responsabili della gogna giudiziaria sono spesso nelle procure.














"Le toghe rosse esistono, e adesso vi racconto cosa fanno". A parlare è l’ex procuratore capo di Prato, Piero Tony, che in un libro, “Io non posso tacere.








Un magistrato contro la gogna giudiziaria. Confessioni di un giudice di sinistra”, scritto con il direttore de Il Foglio, Claudio Cerasa, racconta la sua carriera da magistrato iscritto a Magistratura Democratica. La toiga alza il velo sulle dinamiche dei magistrati di sinistra e sul loro modo di gestire la giustizia.

"La situazione di oggi è questa, una magistratura corporativa e politicizzata, vistosamente legata ai centri di potere, che non urla per protestare contro un sistema che l’ha resa inutile, ma anzi continua a opporsi in modo sistematico a qualsiasi progetto di riforma dell’esistente. È probabilmente l’effetto del piccolo cabotaggio delle varie campagne elettorali, attente più agli indubbi privilegi di categoria, compresi quelli economici, che ai modi per sanare un sistema spesso inefficiente. Piccolo cabotaggio che però non impedisce – soprattutto per quell’assenza di complessi sottesa a una politicizzazione così anomala – di agire e pontificare non solo in casa propria, ma in relazione a buona parte dei grandi temi politici nazionali e internazionali senza tema di essere apostrofati con un “taci, cosa c’entri tu?”. È questo che ha portato la giustizia, e non solo Magistratura Democratica, a ritenere di avere una singolare missione socioequitativa realizzabile non con la difesa dei più deboli, ma con l’attacco ai più forti. È come se a un tratto, in mancanza di alternative di governo, una parte della magistratura avesse scelto di perseguire attraverso la via giudiziaria l’applicazione del socialismo reale. Ma così salta tutto. Saltano i confini tra la politica e la magistratura. Salta la distinzione dei ruoli. Oggi è solo tautologia dire che la magistratura è partitizzata, non si tratta di un’opinione, è un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. È un dramma, negarlo sarebbe follia", scrive Tony.

E ancora: "ora è ovvio che qualcuno pensi, mettendo insieme i pezzi, che talvolta l’azione della magistratura possa nascondere un fine legato non solo al rispetto della legge, ma anche a un’idea della politica. Attenzione, non mi riferisco a complotti o ad altre ingenuità del genere. Qui si tratta proprio di un problema di metodo, individuale. Non esistono complotti, esistono atteggiamenti, che a volte possono essere più o meno diffusi, e questi atteggiamenti spesso presentano lo stesso problema: la legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. Anche nel caso Ruby, che in linea teorica avrebbe dovuto essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale". Insomma per chi avesse bisogno di ulteriori conferme non resta che leggere la confessione integrale di Piero Tony sul suo libro, che di certo solleverà non poche polemiche.