venerdì 28 giugno 2013

Ustica, la follia dei maxirisarcimenti. Gian Marco Chiocci

 
Per trovare un paragone che regge, è un po' come se a indagare sull'omicidio di JFK fosse lo sceriffo di uno sperduto paesino di una contea degli States.
Allo stesso modo, la verità processuale sul grande mistero del disastro aereo di Ustica non può essere trovata nella sentenza di un giudice onorario, per quanto onesto intellettualmente e animato dalle migliori intenzioni. A maggior ragione se si tratta di intestare una responsabilità civile a otto zeri ai ministeri dei Trasporti e della Difesa ipotizzando scenari che, in sede penale, sono stati ritenuti insussistenti.

L'Avvocatura dello Stato ha per questo deciso di impugnare il dispositivo con cui, nel settembre 2011, il Tribunale civile di Palermo ha condannato i due dicasteri a pagare la bellezza di 100 milioni di euro di risarcimento ai familiari delle 81 vittime del Dc9 inabissatosi al largo della Sicilia il 27 giugno 1980, di cui ieri ricorreva il 33esimo anniversario. Dispositivo che poggia le fondamenta proprio sulla sentenza, emessa nel 2003 dall'avvocato Francesco Batticani, che sposa la tesi - scartata in sede penale - del razzo esplosivo.

In una lettera indirizzata alla presidenza del Consiglio, l'avvocato generale dello Stato contesta la ricostruzione «secondo cui sarebbe abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile» e propone un «ricorso per revocazione» alla Cassazione per cancellare un altro risarcimento da 1,2 milioni a favore dei familiari di tre vittime. D'altronde, nonostante un'attività investigativa durata tre decenni con milioni di pagine giudiziarie passate al setaccio da pm, periti, commissioni d'inchiesta, una parola definitiva sulle cause del disastro non è mai stata data.

Di sicuro c'è che sono stati tutti assolti i generali dell'aeronautica militare additati per traditori e linciati mediaticamente per anni. In origine, fu avanzata l'ipotesi del cedimento strutturale, poi scartata per manifesta infondatezza. Il collegio di esperti internazionali nominato dal giudice Rosario Priore depositò il 23 luglio del 1994 una relazione che batteva la pista di una bomba posizionata nella toilette dell'aereo. Due periti, però, ne presentarono un'altra che non escludeva l'impatto con un missile. E così si è andati avanti fino al 21 giugno 2008 quando la Procura di Roma ha deciso di aprire un nuovo fascicolo dopo le rivelazioni di Cossiga su un improbabile missile «a risonanza e non a impatto» lanciato da un caccia francese.

La matassa da sbrogliare è enorme. E non aiuta il fatto che, ancora oggi, a trent'anni da quei fatti, con cadenza periodica tornano d'attualità capitoli che si erano chiusi perché già chiariti. Come il ritrovamento del Mig libico sui monti della Sila. Stavolta, è uno 007 dell'Aeronautica a sostenere che il caccia della flotta di Gheddafi sarebbe stato abbattuto il giorno stesso del disastro del Dc9, quando in realtà prove documentali e periti oltre a più testimoni oculari hanno detto e dimostrato esser caduto il 18 luglio 1980 e non il 27 giugno.

Per non dire del gup Villoni che nel 2003 demolì l'ipotesi dello «stesso giorno» sostenendo che non c'era alcun legame logico o indiziario tra il Mig e il Dc9 e che, dunque, l'ipotesi di un combattimento aereo era una mera «ricostruzione della vicenda operata dal giudice istruttore». E a ogni ricorrenza, inclusa questa, purtroppo si torna a parlare di presunte «morti sospette» che in realtà - è stato dimostrato - non lo erano affatto: dai piloti delle Frecce tricolori a Ramstein a chi ha perso la vita in incidenti stradali, dai suicidi agli infartuati. Ma guai a dirlo: per gli iscritti al «partito del missile» chiunque si discosti dal pensiero unico è un depistatore.

(Ha collaborato Simone Di Meo)

(il Giornale)

giovedì 27 giugno 2013

Un'ossessione trasversale. Michele Ainis

In un memorabile saggio del 1927, Carl Schmitt individuò le categorie fondamentali della politica nella coppia amico-nemico. Come nell'estetica il bello si profila in opposizione al brutto, come nella morale il buono s'oppone al cattivo, così in politica ogni identità si forgia in contrasto all'identità dell'altro, dello straniero. E lo straniero è il tuo nemico, lo specchio che ti restituisce l'immagine rovesciata di te stesso. Da qui il cemento dei popoli in armi non meno che dei partiti in piazza, da qui la rissa permanente fra destra e sinistra, che ha scandito i vent'anni del bipolarismo all'italiana. Ma dov'è, qui e oggi, il nemico? Quali sembianze assume, mentre i vecchi antagonisti siedono l'uno accanto all'altro sui banchi del governo?

Fateci caso: negli ultimi mesi i partiti sono diventati afoni. L'assenza d'un nemico da combattere ne ha sfibrato il corpo, ne ha disseccato le energie, al pari dei guerrieri spartani reduci da mille battaglie, che poi tornati in patria morivano di malinconia. Vale per la maggioranza, vale - singolarmente - pure per l'opposizione. Dove il Movimento 5 Stelle è avvolto in una spirale autodistruttiva, che sommerge ogni progetto. La Lega Nord ha abbandonato Roma per rincantucciarsi nei propri territori, peraltro ormai scarsamente popolati dai suoi stessi elettori. E l'opposizione di Sel non è convinta, dunque non è nemmeno convincente. Del resto mettersi in trincea sarebbe un'impresa complicata, per un partito che si è presentato alle elezioni insieme alla principale forza di governo, e che esprime pur sempre la presidenza della Camera.

Nel silenzio dei partiti, un'unica voce risuona nei palazzi: quella del potere esecutivo. S'ascoltano dichiarazioni del premier, annunci dei ministri, promesse di decreti. È la rivincita delle istituzioni sulle segreterie politiche, che le avevano così a lungo sequestrate. Ma è anche il presagio d'uno Stato amministrativo, dove la gestione prevale sulla progettazione. E dove non c'è spazio per la politica, e non c'è nemmeno posto per i partiti politici. Loro lo sanno, o almeno ne avvertono confusamente il pericolo letale. Sicché reagiscono nell'unico modo che conoscono: cercandosi un nemico. E trovandolo, se non all'esterno, dentro le proprie fila. Ora la vitalità residua dei partiti si scarica su un nuovo bersaglio: il nemico interno.

Le prove? Scelta civica fa notizia solo per le baruffe quotidiane fra i suoi troppi colonnelli. Nella Lega il nemico è diventato Bossi, che ne era stato il fondatore. Il Movimento 5 Stelle ha già perso 6 parlamentari: un'espulsione al giorno toglie il medico di torno. Nel Pd Renzi è vissuto come una minaccia, non come una risorsa. Nel Pdl i falchi incrociano gli artigli con le colombe, ma la sentenza costituzionale sul processo Mediaset, e a seguire quella di Milano sul caso Ruby, hanno offerto all'unità del partito il suo antico nemico: il potere giudiziario. Tutto sommato Berlusconi dovrebbe ringraziare i magistrati.

C'è un che di claustrofobico in questo diffuso atteggiamento. C'è un disturbo paranoide nel concepire il tuo compagno come un sabotatore o un traditore. Ma non è forse il morbo di cui soffriamo tutti? L'anno scorso abbiamo contato 124 casi di femminicidio, per lo più fra le mura domestiche. Sono volatili gli affetti, i sodalizi culturali, i rapporti di lavoro. Perché abbiamo smarrito ogni fiducia, in noi stessi prima che negli altri. E disgraziatamente la politica non ci aiuta con l'esempio. (Corriere della Sera)

Effetti collaterali. Davide Giacalone

La sentenza milanese, che condanna Silvio Berlusconi per la faccenda della minorenne, ha un trascurato, ma non trascurabile, effetto collaterale: uccide il processo accusatorio. E’ un aspetto decisivo, largamente prevalente sul resto, il che rende ancora più significativo e inquietante che lo si sia rimosso.

Siccome conosco i miei polli, sicché son tutti pronti a dire che questa è una trovata per non parlare della faccenda grave, vale a dire della (ex) minorenne e della condanna, sbrigo la faccenda all’inizio: a. l’imputato è (in questo procedimento) al suo primo grado, e ricordo alla diffusa ignoranza che, in Italia, il processo è uno solo, talché la presunzione d’innocenza vale fino alla fine, mentre la colpevolezza solo dopo la condanna definitiva; b. il governante (di allora) si abbandonò a condotte incompatibili con il ruolo, non perché sia io moralista o me ne importi alcunché di quel che ciascuno fa in brachette, ma perché l’insieme delle cose avvenivano rendendo aleatoria la riservatezza, da ciò discendendo che, secondo me, quella è colpa rilevante, a prescindere dall’esistenza o meno del reato, che una volta svelata non è rimediabile; c. il leader politico era già minacciato da altre, imminenti e definitive, pendenze penali, al punto che la condanna in oggetto potrebbe fungere più da galvanizzante che da desertificante elettorale. Ora che non mi sono sottratto, veniamo alla questione seria.

Condannando l’imputato (da questo punto in poi la sua identità è irrilevante, a meno che non si voglia sostenere che per farlo fuori ogni mezzo è lecito, così avvalorando la tesi della persecuzione) il tribunale ha chiesto di sottoporre a procedimento penale i testimoni della difesa. Ciò significa che, a giudizio del tribunale, le loro testimonianze non sono state tali da smentire l’accusa, ma l’hanno avversata con il falso. Qui si crea un non risolvibile cortocircuito. E’ vero che la sentenza di primo grado è appellabile, ma come si fa a fare l’appello se gli stessi testimoni non potranno essere ascoltati? Né potrebbe essere diversamente, perché ove si presentassero a sostenere le stesse cose, magari perché convinti di dire il vero, il loro comportamento potrebbe essere rubricato quale reiterazione del reato. Una eventuale assoluzione dell’imputato originario diventerebbe inquinamento delle prove, nel procedimento a carico dei testimoni. Senza contare che, una volta divenuti imputati proprio per quanto detto in aula, quegli stessi potrebbero non testimoniare, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Sotto al peso di questa contraddizione il processo penale è morto, in Italia. Non “quel” processo, ma tutti i processi.

E che doveva fare, il tribunale, non segnalare quella che suppone essere una falsa testimonianza? Qui è il nodo. Nel processo accusatorio, non a caso detto “all’americana”, la falsa testimonianza viene proclamata immediatamente, con susseguente penalità per il reo. Se, invece, all’italiana, la si persegue successivamente e in separata sede, come cavolo si fa a chiudere un processo in cui la veridicità e genuinità della prova è solo supposta, ma non dimostrata come irregolare? All’americana, del resto, giustamente, non viene riconosciuto all’imputato il diritto di mentire e imbrogliare, ma solo quello di tacere. Da noi abbiamo impostato un guazzabuglio che a Milano ha esalato l’ultimo respiro. Ma non è evidente che chi ieri pagò la minorenne per accompagnarvisi la paga oggi (maggiorenne) per tacere? Questa è la santa inquisizione, perché occorre prima dimostrare il reato principale. Cosa impossibile in un processo inficiato dalla persecuzione dei testimoni, o dalla proclamazione del loro mendacio per superare la loro avversità.

A Milano ha preso corpo il disfacimento giuridico, a sua volta prodotto di una selezione a dir poco superficiale del personale giudicante. Lo fo’ per Berlusconi? No, per piacer mio.

Pubblicato da Il Tempo

domenica 23 giugno 2013

Chiquita e le zoccole. Caino Mediatico

    

Appena sentono odore di escort i sensori della più coraggiosa corripondente di guerra italiana s’allertano. Ella allarga furiosa le narici e parte in tromba, per così dire. L’icona delle senonoraquandine, Concita De Oratorio, la direttora, un tempo in mini, di quello che fu l’organo di quello che fu il partito, fondato da Antonio Gramsci sta sempre sul pezzo. Chiquita De Rosario ha già recuperato dall’orlo del suicidio Marrazzo, disgustoso acquiescente utilizzatore finale di ambivalenti procacità, per farlo pentire pubblicamente. Ha denunciato gli orridi retroscena, che il popolo ha imparato ad aborrire, delle alcove del tiranno. Più tardi ha sbeffeggiato con collage semiporno le cortigiane del caimano e la corriva subalternità dei suoi stessi compagni di partito verso la degenerazione dei costumi. Lo fa ancora oggi con il coraggio e l’acutezza con cui la Fallaci provocava gli Ayatollah.

Coccìuta Sanatorio si muove con la destrezza di un Ettore Mo, ma tra alberghi ad ore e case di tolleranza. La sua penna guizza come quella di un Kapuzcinsky, ma tra le nudità immaginate di odalische minorenni dai nomignoli menzogneri e pruriginosi. Non è seconda neppure a Don Parco Serraglio nell’incalzare con repugnanti immagini corrotti e corruttori, televisivi, giornalistici unti e presunti. Il guizzo delle sue chiome acconciate è una lama che non perdona sfoderata in una mossetta. Questo sempre che non sia impegnata definire i confini a destra dei candidati segretari del PD, il che avviene solo nei ritagli di tempo che la sua missione gli lascia. Ieri notte le è apparso in sogno l’istesso Savonarola per rammentarle che nella patria dannata e godereccia di Dante, sotto lo sguardo in tralice e gli attributi a mezz’asta del Davide di Donatello si pecca, si commettono abomini di meretricio. Sì nelle sale rinascimentali tra arazzi, velluti e mogani lucidati, sotto gli occhi fiammeggianti di dei e demoni dipinti, gli stessi che hanno attizzato Dan Brown, ad un passo dal Salone de’ Cinquecento qualcuno s’eccitava per istinti meno artistici. Gli scranni sacri all’arte ad alla politica, in Palazzo Vecchio etici per funzione e storia, vengono insozzati dalle chiappe di donne di malaffare. Funzionari e dirigenti si fanno degni del biasimo suo come lo furono i Medici nelle requsitorie del Frate Domenicano. S’accoppiano come animali nel più osceno libertinaggio con giovani donne avvezze al mercimonio del corpo. Qui, ne è sicura la nostra, deve esserci altro, un filo rosso, un collegamento. Di certo il lercio che emerge nasconde altro lerciume. Disinvolte fanciulle si recano da un torvo orefice e questi s’adopera per commerciarne le grazie coi potenti del luogo, come avviene ovunque-dice la nostra. Equivoche pensioni di quart’ordine nascondono circoli demoniaci di gaudenti dediti al sesso sfrenato. Ed inevitabilmente le rete di prosseneti s’intreccia con gli ignavi e gli ipocriti del potere politico. Il potere che non distingue, che non vede il nemico per convenienza, che non fa dell’etica privata la bussola del suo funzionamento pubblico.

Tale potere è in sé diabolico, reca il segno della subalternità a Satana. Chi s’è discostato dal giusto, chi ha frequentato i palazzi dell’Impuro, chi s’è limitato a riderne, s’imbatte nei peccatori, e questi schiavi di Satana vedendolo debole lo attorniano e lo condizionano chissà da quanto, chissà con quanti altri. Come sempre cosa c’è dietro? Alla fine del suo coraggioso reportage dall’inferno della lussuria in Arno, il sospetto, il dubbio Cortita è anche il nostro: tra coloro che conoscono le puttane, e oggi le disconoscono ipocriti, ce n’è già uno che è rimasto dove? Nella “giunta Renzi”. Ahhhhh. Eccolo, di striscio, per ora, ma il nome del satanasso rottamatore risuona comunque nelle sale Matteo-eo-eo-eo…Il nome alla fine esplode tra le righe del pezzo, come un boato, come un orgasmo dell’abisso. Aspettatevi novità. Intanto la “rossa” vendicatrice, il terrore dei posseduti e delle possedute, donna Ilda Bocassini è “in corsa” per la procura di Firenze. Cionquita de Pretorio ha lanciato il suo anatema, le truppe del bene si stanno radunando, aspettatevi il lavacro del castigo. Matte’ fatti frate ! (the Front Page)

venerdì 21 giugno 2013

Tempo spredato. Davide Giacalone

E’ bastato che dagli Stati Uniti si sia messa in dubbio la durata eterna della loro politica monetaria espansiva che le Borse abbiano accusato il colpo e la sorte degli stati europei abbia ripreso a divaricarsi. La crescita degli spread non può certo essere letta, come da noi si è troppo a lungo fatto, come un giudizio sulle politiche dei singoli governi. Per due ragioni: a. quelle di ieri erano le stesse di quelle di sei mesi prima, quando gli spread scendevano; b. la divaricazione è avvenuta ovunque, facendo crescere il debito di tutti rispetto al costo di quello tedesco. Quel dato, dunque, dice una sola cosa: la bufera non è finita e non esistono ripari sicuro. Tutto può, in ogni momento, essere rimesso in discussione.

Noi italiani ci troviamo in questa condizione: fra il 1995 e il 2011 abbiamo accumulato avanzi primari pari al doppio di quelli tedeschi, siamo stati virtuosissimi, salvo restare incapaci di fare riforme strutturali; fra il 2011 e oggi, pur restando in avanzo primario, siamo precipitati nella recessione e vediamo crescere il nostro debito pubblico più di quello altrui. Quindi non solo non abbiamo fatto riforme, a parte quella delle pensioni, ma abbiamo applicato politiche sbagliate.

Mentre al G8 si fa finta di combattere contro i paradisi fiscali (presenti nei territori e funzionali all’economia di ciascuno dei combattenti), noi viviamo un autentico e materialissimo inferno fiscale. La Corte dei conti calcola che depurando l’economia dalla sua parte sommersa la pressione reale dell’erario è giunta al 53%. Trattandosi di una media è la Corte stessa a certificare che per alcuni settori produttivi, per attività professionali e commerciali, siamo già al 60%. Non impressionatevi, perché credo che sia una stima fin troppo prudenziale. Ma neanche dovete rassegnarvi, perché con questo andazzo finiremo con l’uccidere le vacche da cui ancora si munge latte.

Il tessuto produttivo italiano è forte. La rete di protezione intessuta dalla famiglie italiane è robusta. Ma tutto questo non può resistere al prolungarsi di una condizione insostenibile. Il governo ha sbandierato un decreto, chiamandolo del “fare”, ma a parte che ancora non c’è, in quello non si trova un solo comma che comporti un’immediata riduzione della spesa e del fisco. Nulla. In compenso è in corso un animato, esasperante e stucchevole dibattito su un solo punto d’Iva. Non da tagliare, ma al più da non aumentare. Faccio osservare due cose: a. se anche questa epocale questione sarà risolta, come promettono Pd e Pdl, saremmo esattamente dove ci troviamo; b. la settimana prossima saranno già diffusi e pronti all’uso i software per il calcolo dell’Iva maggiorata, perché chi lavora deve prepararsi. A questo punto, se menano ancora il torrone, costerà anche il dovere ripristinare i vecchi calcoli. E saranno soldi buttati.

Detesto la demagogia, ma se queste cose non si sanno e non si sentono, fra il governo e i presunti esperti dei partiti, è perché non conoscono il lavoro e l’economia reale. Vanno a orecchio e sono stonati.

Servono tagli alla spesa corrente. Servono dismissioni di patrimonio (mobiliare e immobiliare). Servono sgravi fiscali poderosi (non centesimi). Tutto questo è possibile, come abbiamo documentato, scendendo anche nel dettaglio, ma presuppone conoscenza e volontà. Sarà doloroso? Sarà terribile non farlo, perché si uccideranno i bravi per lasciare proseguire i furbi. Verso l’impoverimento collettivo. Non è ineluttabile, ma è urgente quel che ancora non vediamo.

Pubblicato da Il Tempo

mercoledì 19 giugno 2013

Eccezione e cultura. Davide Giacalone

Il concetto di “eccezione culturale” è di destra, ma se ne pavoneggiano intellettuali e intellettualoidi di sinistra. L’idea che il cinema sia “l’arma più forte” dello Stato dispensatore di cultura è direttamente mussoliniana, ma trova alfieri nei danarosi solo politicamente sinistrati. E’ un tema affasciante, ma così vasto che mi tocca ridurlo in punti. L’eccezione culturale è bene che esista.

1. Ne attribuirei la paternità contemporanea a Giovanni Gentile. Vide l’Enciclopedia Britannica e volle fare l’Enciclopedia Italiana (dove lavora Massimo Bray, attuale ministro della Cultura e difensore dell’eccezione, dimostrandosi che la storia, consapevolmente o meno, si riverbera nei contemporanei). Vide i college inglesi e volle fare i convitti. La difesa della cultura nazionale, e in quella dell’identità patria, era, per Gentile, produzione di cultura. Non certo rendita. Poi le idee si confusero.

2. Del Fondo unico per lo spettacolo (soldi pubblici) solo il 18,59% va al cinema. Allora perché si parla solo di quello? Per due ragioni, poco culturali: a. perché per molti che straparlano quella è l’unica fonte de curtura; b. perché solo gli attori famosi sono tali quanto basta per piangere miseria ed essere ascoltati.

3. Non è affatto un male agevolare il cinema. Hollywood nacque grazie ad agevolazioni fiscali (prima quell’industria si trovava a New York). Ma se i soldi vengono distribuiti in base al “valore culturale”, accertato da apposite commissioni di raccomandati ministeriali, sono buttati, e se, invece, li si scuce in base ai biglietti venduti, va a finire che finanzi i film di cassetta. Che non è affatto detto non abbiano valore culturale (anzi), ma sono di sicuro i meno bisognosi. Si dovrebbe gentilianamente impegnarli nelle scuole, o commercialmente nelle agevolazioni produttive, per tutti.

4. Quando gli italiani vanno al cinema pagano più che altro film americani (53%), meno gli italiani (27), meno ancora gli europei (17). Esterofili? Mica tanto, perché quando sentono musica pagano al 56% quella italiana (che ha mercato globale). Temo noi si produca una copiosa manata di boriose cavolate. Assieme a pepite preziose. Pensare che sia utile finanziare le prime è azzardato.

5. Lo ha qui scritto benissimo Carlo Pelanda: dall’accordo di libero scambio con gli Usa noi siamo i primi a trarre giovamento. Ci manca che lo si renda difficile. E la cultura? Anche in quella, dico io. Perché il mondo è grande e i modelli che si affermano nell’Asia che cresce, ma pure nel mondo affetto da fondamentalismo, sono occidentali. Vale anche per la moda. E’ un vantaggio. Culturale.

6. Piuttosto che fare a testate con il mercato, meglio profittarne. Mario Vargas Losa ha pubblicato un bellissimo “La civiltà dello spettacolo”, ragionando (anche) sul turismo di massa e la sua superficialità. Prima di lui era stato Giorgio Gaber a cantare che la fila fuori dai musei, con i panini, “mi fa malinconia”. Hanno ragione. Ma i musei chiusi o inaccessibili fanno rabbia. Mercato, mercato, mercato: gestioni private, orari lunghi, vendita di libri, oggetti, magliette, bicchieri. Servono a far soldi e rendere vitali centri in agonia. La massificazione ha i suoi difetti, vediamo di non ciucciarceli senza profittare dei pregi.

7. Eppure c’è bisogno di “eccezione”. In senso gentiliano, ma non solo. Per comprare gli e-book di Libero si deve andare su Apple-store. Prima di metterceli la società di Cupertino si riserva di autorizzare. Vi pare normale? A loro non importa nulla se si fa un libro pro o contro Napolitano, Hollande o la regina Elisabetta, ma vi pare accettabile che l’Europa perda sovranità editoriale? E come funziona la distribuzione dei film, nel mondo? Nell’era digitale aumenta la pressione della massificazione, ma anche gli spazi per la distinzione. Sarebbe sana una politica europea che agevoli la seconda (che è il contrario dell’iva di favore sui libri e penalizzante sui medesimi contenuti in digitale).

8. Ha ragione Fausto Carioti quando scrive che il vero problema non è il principio dell’“eccezione”, ma il modo in cui si passa ai fatti. Una cosa è pensare che sia eccezionale tenersi la Rai pubblica (magari piangendo sull’altra sprecona, quella greca), altra rispondere al grido di dolore di Salvatore Accardo: non si insegna più la musica. Siamo la patria della lirica, ma morto Pavarotti il mercato globale ha altre ugole e altri esecutori (Boccelli ha successo, ma qui lo considerano “commerciale”).

9. L’eccezione deve consistere non nel sottrarre la cultura al mercato, ma nell’interpretare il patrimonio culturale come un valore di mercato. E in un mercato si deve produrre. Producendo difendersi, perché la concorrenza mira anche sotto la cintola. Lo so che non sono zucchine, ma so anche che è fallimentare sovvenzionare le teste di zucca.

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sabato 15 giugno 2013

Che pena. Davide Giacalone

Andrà a finire che ci terremo la malagiustizia e aboliremo la pena. Tutto partendo dal (reale e drammatico) problema del sovraffollamento delle carceri. Una bozza di decreto legge prevede sconti di pena che salgono da 45 a 60 giorni per ogni semestre scontato e liberazione anticipata, sempre in caso di buona condotta, per chi ha un residuo pena di 3 anni, o di 6 se si tratta di tossicodipendenti. Questi ultimi avviati ai lavori socialmente utili, laddove, se sono tali, forse sarebbe saggio pensare alle comunità di recupero. La pena potrà essere sospesa anche nel caso restino da scontare fino a 4 anni agli arresti domiciliari. Tutto, ripeto ed è il problema, sulla base del sovraffollamento e non di una diversa politica penitenziaria. Anche perché siamo lo stesso Paese, con la stessa classe politica, che voleva cancellare la legge Gozzini (regolante l’ordinamento carcerario) dopo che s’era soffiato sull’indignazione popolare per alcune scarcerazioni anticipate.

Non sapendo cancellare le ingiustizie si procede a cancellare parte delle pene. Anzi no, per essere più precisi: la pena consiste nell’essere indagati, poi nel beccarsi dieci anni di processo, se il reato presupposto ha l’aggravante della spettacolarità si subirà la pena accessoria della pubblicità, consistente nella pubblicazione ed esposizione al pubblico ludibrio di tutte le proprie telefonate, quindi poi alla trasmissione in video-streaming delle arringhe d’accusa, ergo alla pubblicazione di tutte le richieste del pubblico ministero, spacciate già per condanne e, infine, ove mai non ti assolvano, ove il tempo che hanno perso non comporti la prescrizione (così evitano di sentirsi dire che anni d’inchieste e lustri di processi sono fondati sul nulla), ove, insomma, ti condannino, a quel punto basta, hai già scontato, e in ragione del sovraffollamento delle carceri una bella pacca sulle spalle e che il cielo t’accompagni. Stanno lavorando a questo capolavoro.

E’ vero che pende sull’Italia la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, che considera incivili le nostre carceri, ma è anche vero che pendono mazzi di loro condanne per l’incivile durata dei processi. Solo che liberare i condannati, quindi sfollare le galere, è considerato più facile e fattibile che non far funzionare la giustizia. A chi sembri surreale tale raffigurazione suggerisco di leggere la risposta che il ministro Anna Maria Cancellieri ha dato a chi la interrogava (Michele Brambilla, per La Stampa) sull’abolizione dell’ergastolo: “… bisognerebbe sentire anche le vittime di coloro che sono stati condannati all’ergastolo …”. Ma non sono morti? Ci sono ergastolani le cui vittime deambulano? O il ministro si riferisce (senza dirlo) ai loro familiari, introducendo un pezzo d’islam nel nostro ordinamento? Totalmente assurdo.

Anziché mandare anticipatamente a casa quelli che sono stati condannati, facendolo per inseguire l’emergenza permanente e non risolta della mancanza di posti, suggerisco soluzioni diverse. I detenuti sono 66.000, mentre la capienza carceraria è 40.000; fra il 35 e il 40% sono in attesa di giudizio (fra i 23.100 e i 26.400 non stanno scontando una pena); il 19% (12.500) non ha neanche una condanna di primo grado. Da ciò deriva che i detenuti che stanno scontando una pena sono in numero perfettamente compatibile con la capienza carceraria, ma c’è una massa di persone che stanno attendendo d’essere giudicate. Se ci avviamo sulla strada descritta dal governo, come avvenne quando si varò l’indulto, otterremo un risultato paradossale: metteremo fuori i condannati e terremo dentro dei non condannati, quindi giuridicamente innocenti.

Fra questi ci sono certamente soggetti pericolosi, che è bene trattenere anche in attesa del giudizio (sono gli stessi casi per cui, ad esempio, negli Usa non è concessa la cauzione), ma è escluso che siano così numerosi. Per distinguere, però, occorre far funzionare la giustizia. E qui si torna a bomba: se non si ha il coraggio di scalfire le corporazioni togate non c’è rimedio che tenga, saremo sempre punto e a capo. Quali sono le soluzioni, su quel versante, lo abbiamo scritto molte volte e a quelle proposte rimando.

Non basta: un terzo dei detenuti è extracomunitario. Fra questi ci sono criminali pericolosi, ma anche una massa di disperati che non abbiamo cacciato in quanto clandestini (come si sarebbe dovuto), ma li abbiamo arrestati in quanto ladri. Rimedio: rimandiamoli a casa. Il ministro Cancellieri fa due obiezioni: a. non di tutti conosciamo il Paese d’origine; b. occorre il loro consenso perché scontino lì la pena. La prima categoria non può essere così numerosa. In ogni caso: se non sappiamo da dove vengono è segno che non ce lo dicono, consideriamola aggravante pesante e facciamo passare la voglia di fare i misteriosi. In quanto al consenso, se ne deve fare a meno. Fuori dalla categoria dei rifugiati politici (che sono un problema internazionale e non solo nostro) non è che entrare in Italia possa equivalere all’essere mantenuti, magari in carcere.

In quanto a depenalizzazioni e pene alternative, concordo. Ma se ne ricordino quando poi votano in massa per l’arresto obbligatorio degli accusati (non dei colpevoli) di stupro, o altri reati alla moda del forconismo. Perché il fanatismo troglodita dei propagandisti fa danni incalcolabili.

Svuotare le carceri con provvedimenti emergenziali equivale a raccattare l’acqua dal pavimento senza chiudere il buco nelle condutture: vai avanti in eterno. Il buco è nella giustizia. Quando lo avremo tappato, cosa per cui occorre più volontà che tempo, più determinazione che saggi, allora varrà la pena di prendere in considerazione l’amnistia. Che è provvedimento sovranamente ingiusto, ma, almeno, avrà il senso di rimettere la giustizia in condizioni di funzionare. Il resto non è solo pannicello caldo, sono anche zuppo di maleodorante ipocrisia.

Pubblicato da Libero

Fare e lasciar fare. Davide Giacalone

Muoviamoci subito o asfissieremo in fretta. L’allarme della Banca centrale europea, la forza con cui ribadisce che il quadro macroeconomico negativo non consente all’Italia di diluire nessuno degli impegni presi, quindi la necessità di tenere il deficit sotto il 3% continuando a ridurre il debito e a spendere l’avanzo primario nella sua remunerazione, serve al governo per avere una sponda solida. Nessuno chieda di non aumentare l’Iva, fra quindici giorni, essendo già un miracolo se non si metteranno altre tasse. Ma è una condizione folle, a fronte della quale il presidente del Consiglio e i suoi ministri continuano a partecipare a innumerevoli convegni, senza avere un bel nulla da dire. Arano il consenso delle corporazioni, non evitano di prendersi i loro fischi, ma lasciano abbandonato quello della crescita. Stiano zitti, per carità di Patria, e rimettano mano al lavoro serio.

Ecco le cose da farsi, ciascuna delle quali non richiede che si mettano attorno a un tavolo 42 presunti saggi che si vedono una volta alla settimana (significa che parlano dieci minuti a testa e finiscono la giornata, poi arrivederci alla prossima), ma tre o quattro che sappiano di che parlano, che lavorino tutti i giorni e finiscano in dieci.

1. Nei tempi brevi non ci schiodiamo dal peso del debito pubblico. Abbiamo detto e ridetto che il semplice rapporto debito pubblico/pil non solo non descrive la solidità di un Paese, ma aumenta in ragione delle politiche fiscali che dovrebbero ridurlo. Amen, nell’immediato serve una via d’uscita, che consiste nel mettere immediatamente (decreto legge) in funzione un meccanismo e un fondo per le dismissioni pubbliche, mobiliari e immobiliari. Il 10% del patrimonio più facilmente liquidabile equivale, più o meno, a 3 punti di pil (45-50 miliardi). Buttando sul mercato sia la capacità di decidere e realizzare, che la disponibilità finanziaria che ne deriva, si ottiene un moltiplicatore che fa crescere la nuova ricchezza prodotta di almeno un 50% in più. Il che non solo ci strappa all’asfissia della recessione, ma genera gettito fiscale.

2. Quei soldi non devono andare in spesa corrente, perché è esattamente in quel modo che ci siamo rovinati. Lo scambio deve essere: meno patrimonio in cambio di meno pressione fiscale e più investimenti infrastrutturali. Detto rozzamente: metà per meno tasse e metà per trasporti, digitalizzazione, riedificazione. A questo si aggiunga una portentosa deregolamentazione burocratica (favorita dalla digitalizzazione) e l’Italia del fare si ritrova un sano Stato del lasciar fare. E’ quella la nostra ricchezza.

3. Sul fronte europeo non si tratta di mandare in giro governanti con il cappello in mano, ma con il fucile a tracolla. Sono convinto che uscire dall’euro sarebbe un danno e l’alimentazione di un’illusione, ma proprio per questo credo che il prof. Paolo Savona abbia ragione: un Paese serio deve disporre di un piano B. Della serie: noi non molliamo, ma neanche ci facciamo ammollare, quindi ci prepariamo a uscire. Non ci stiamo a soffocare nel mentre siamo contributori netti dell’Unione europea (diamo più soldi di quanti ne prendiamo) e non riconosciamo ai tedeschi il diritto di farci concorrenza sleale, con aziende che accedono al credito grazie a sostanziali aiuti di Stato (con banche pericolanti e dai bilanci equivoci). Se l’Europa diventa anti-europeista noi europeisti imbocchiamo la porta. Quando la crisi dei debiti sovrani cominciò la Bundesbank fece girare la notizia di avere un piano per portare fuori la Germania. E’ ora di presentare il nostro. Prima ci sarà e meno sarà necessario usarlo.

4. Abbiamo una giustizia che fa schifo, ma non siamo capaci di cambiarla (che pena, e sì che sarebbe facile). Creiamo una sede arbitrale specializzata per gli investitori esteri nel capitale di rischio, fornendo al mondo un testo unico dei diritti e dei doveri dell’impresa, in Italia. Già con questo i solchi essiccati torneranno a vedere scorrere liquidità, rigermoglieranno le aziende capaci e si creerà gettito fiscale.

Bastano queste cose. Ne servirebbero molte altre, ma bastano queste e l’Italia fa un balzo in avanti. Ci saranno scompensi, qualcuno soffrirà, le fasce che campano di trasferimenti pubblici (anche imprese) sentiranno dolore, ma il guizzo vitale porterà tutti, anche questi, fuori dalla pozza nella quale siamo finiti. Questo è il lavoro da farsi, senza star lì a menarla sul solo punto di Iva, che nel migliore dei casi restiamo dove siamo, e nel peggiore aumenteremo l’aliquota vedendo scendere il gettito. Serve molto di più.

Avverto chi governa che non gliene frega niente a nessuno delle larghe o delle strette intese, che tutti loro sono accompagnati da un collettivo giudizio di sfiducia, che andare in giro a non dire un accidente nuoce alla loro già precaria salute e che pensare di aspettare settembre è una pessima idea. Silenzio e lavoro. Fateci vedere che ancora capite in che situazione siamo.

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giovedì 13 giugno 2013

I saggi di Letta

I SAGGI DI LETTA, ECCO L’ELENCO COMPLETO

Di seguito i nomi che compongono la commissione di saggi.

Michele Ainis – Università Roma 3
Augusto Barbera – Università di Bologna
Beniamino Caravita di Toritto – Università la Sapienza Roma
Lorenza Carlassare – Università di Padova
Elisabetta Catelani – Università di Pisa
Stefano Ceccanti – Università Roma 3
Ginevra Cerrina Feroni – Università di Firenze
Enzo Cheli – Presidente Emerito Corte Costituzionale
Mario Chiti – Università di Firenze
Pietro Ciarlo – Università di Cagliari
Francesco Clementi – Università di Perugia
Francesco D’Onofrio – Università La Sapienza Roma
Giuseppe de Vergottini – Università di Bologna
Giuseppe Di Federico – Università di Bologna
Mario Dogliani – Università di Torino
Giandomenico Falcon
Università di Trento
Franco Frattini – Presidente Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale
Maria Cristina Grisolia – Università di Firenze
Massimo Luciani – Università La Sapienza Roma
Stefano Mannoni – Università di Firenze
Cesare Mirabelli – Presidente Emerito Corte Costituzionale
Anna Moscarini – Università della Tuscia
Ida Nicotra – Università di Catania
Marco Olivetti – Università di Foggia
Valerio Onida – Presidente Emerito Corte Costituzionale
Angelo Panebianco – Università di Bologna
Giovanni Pitruzzella – Università di Palermo
Anna Maria Poggi – Università di Torino
Carmela Salazar -Università di Reggio Calabria
Guido Tabellini – Università Bocconi di Milano
Nadia Urbinati – Columbia University
Luciano Vandelli – Università di Bologna
Luciano Violante – Università di Camerino
Lorenza Violini – Università di Milano
Nicolò Zanon – Università di Milano.

(il Fatto quotidiano)

mercoledì 12 giugno 2013

Mr. Gorbachev, tiri giù quel muro (26esima edizione).  Christian Rocca

Il 12 giugno 1987, ventisei anni fa, il presidente Ronald Reagan pronunciò a Berlino la famosa frase rivolta al leader sovietico. Questo è un articolo lungo che ho scritto qualche anno fa sulla genesi di quel discorso che ha cambiato la storia. (il Foglio)

Vizio fiscale. Davide Giacalone

Nel mentre Enrico Letta annuncia un decreto legge “del fare”, specificando che si occuperà anche di materia fiscale. Nel mentre, immediata e puntuale, si apre la polemica su quali ne saranno i contenuti, la Confartigianato ripete che la pressione dell’erario è semplicemente intollerabile: 68,3% sugli utili lordi d’impresa, contro il 30,2 della Svizzera. Una volta si portavano i soldi nella confederazione elvetica, per evadere il fisco, ora conviene andarci a lavorare, per evitare che il fisco ti uccida. Vedremo casa ci sarà nel decreto, sperando che non sia la continuazione del montismo: grande inventiva nel battezzare, nessuna capacità nel realizzare, libidine nel tassare.


Il centro destra balla attorno al totem dell’Imu e dell’Iva, fin qui ottenendo solo rinvii. Il centro sinistra non riesce a credere ai propri occhi nel verificare che gli elettori si dimostrano meno severi di loro stessi, nel giudicarli. In realtà è solo una gara a chi perde di più: a febbraio la vinse il Pd, ora è in netto vantaggio il Pdl. La questione fiscale è determinante. E’ la sola chiave per convincere gli elettori che ha un senso partecipare alla contesa. Ma occorro idee vere. Siccome scarseggiano, ho letto con interesse le tesi di Yoram Gutgeld (senior partner McKinsey, oh yes), parlamentare del Pd e, a torto o a ragione, considerato ispiratore delle tesi fiscali di Matteo Renzi. Egli dice: la via giusta non è né quella di tagliare la spesa dello Stato sociale né quella di aumentare le tasse. Bello, e allora? Dice: “la priorità assoluta è una vera lotta all’evasione fiscale, destinando i proventi ad alleggerire l’Irpef di chi guadagna fino a 1.000 – 1.200 euro al mese”. Plaudii alle novità renziane quando ancora si era agli albori leopoldini, ma questa è una banalità. Sconfortante.

Il presupposto (sbagliatissimo) è che evadono i ricchi a danno dei poveri. Ma da dove lo ricavano? Provino ad andare per mercatini, siano essi di prodotti alimentari o di vestiario, beni per la casa, utensili; provino a conoscere il mercato dei piccoli artigiani: l’evasione serve al cliente per acquistare e al venditore per non chiudere. Posto che l’acquirente compra roba da poco e il venditore si massacra di lavoro per essere su quella piazza. Quelli non sono evasori ricchi, ma poveri. Questo giustifica la loro evasione? La gnagnera moralistica non mi fa né caldo né freddo, guardiamo la concretezza delle cose. C’è un patto fiscale virtuoso, che recita: lavoro, produco reddito e una parte di questo, proporzionale e crescente, ma nell’ordine di un terzo, lo verso al fisco, per contribuire alla spesa collettiva. Ce n’è uno vizioso: siccome la parte che va al fisco supera la metà e sono non solo soldi buttati, ma tanti quanti ne bastano per impedire sia di comprare che di vendere, noi evadiamo e ci dividiamo la differenza fra il valore di mercato e il disvalore fiscale. Il primo patto è onesto e il secondo disonesto, ma solo se non è disonesto lo Stato esattore. Che è, invece, il nostro caso.

Quindi Gutgeld non cada nell’illusione culturale che regge l’esosità del fisco, perché funziona all’esatto contrario: s’impoveriscono i poveri. Una “vera lotta all’evasione” si accanirà contro di loro, mentre il ricco avrà armi per difendersi. Siccome, però, non possiamo rassegnarci alla disonestà collettiva, ne deriva che c’è una premessa obbligata: far scendere la pressione fiscale. Prima, non dopo. Come condizione per punire gli evasori, non come conseguenza del supplizio. Si obietta: ma così crolla il gettito. Dove sta scritto? Il gettito scema perché la fiscalità demoniaca è recessiva e terrorizzante, quindi i consumi crollano, e cala anche perché il suo satanismo è così conclamato da santificare l’arte di sfuggirgli.

Guardate le dichiarazioni dei redditi: gli italiani sono tutti poveri. Che non è vero, ma è la conseguenza del fiscalismo sottrattore. Se si vuole cambiare musica (e si deve) non serve a nulla far la faccia feroce dei fessi, ma si deve restituire soldi tagliando la spesa. Cosa che si può fare, come qui ci affanniamo concretamente a dimostrare, senza incidere sui servizi utili. Dietro la dizione “Stato sociale” c’è la più asociale distruzione di ricchezza. Se non partiamo da lì, se continuiamo a far guerricciole dementi sulle cosucce di bandiera, potremo perseverare nel trovare nomi fantasiosi per i decreti, utili solo a decretare l’inutilità della politica.

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martedì 11 giugno 2013

La guerra dei poteri forti: 20 anni di cordate anti Cav. Lodovico Festa

Nella primavera del 1994 dentro il nostro ristretto establishment economico si iniziò a pensare che la corsa politica di Silvio Berlusconi fosse meno bizzarra di quello che s'era previsto. Il «re» Gianni Agnelli se ne uscirà con una delle solite battute brillanti e ciniche: «Se Berlusconi perde, perde solo lui, se vince vinciamo tutti».
Solo qualche settimana dopo, però la vittoria apparirà meno di «tutti»: non solo non si eleggerà presidente del Senato il suo candidato, Giovanni Spadolini, ma quando il presidente della Fiat si lamenterà per la disobbedienza di fronte a una platea confindustriale a Verona, verrà fischiato.

Anche da qui un'irritazione verso il governo berlusconiano che fa sì che l'ammiraglia dell'establishment, il Corriere della Sera, svolga ruolo primario di destabilizzazione anticipando, e diffondendo durante un vertice G8 a Napoli, l'avviso di garanzia per una delle prime inchieste antiberlusconiane. Dalla sua, Confindustria di Luigi Abete (dove la mente è il fedelissimo Fiat Carlo Callieri) apparirà più propensa a dialogare con Sergio Cofferati che con un governo impegnato in un'audace riforma delle pensioni.

In questa fase l'asse Fiat-Mediobanca è ancora il fulcro di un establishment legato a un patto con la politica (a lungo con la Dc ma dopo gli anni '70 insieme consociativamente e conflittualmente anche con il Pci) non privo di virtù (il ruolo di Enrico Cuccia nell'accumulazione capitalistica post '45 fu insostituibile, Agnelli fu prezioso ambasciatore dell'Italia verso gli Stati Uniti) ma dalla logica particolarmente escludente.

Certo, negli anni '90 matura la coscienza che la fine della Guerra fredda cambia tutto, si vive Mani pulite con smarrimento (ma poi cavalcandola), si ragiona in modo astratto (con guasti per l'Italia anche grazie a uomini legati all'establishment come Carlo Azeglio Ciampi) di vincoli esterni (europei) per «disciplinare» la società nazionale. L'unica cosa che s'inventa è il riformismo referendario senza nerbo e visione di Mario Segni. Alla fine anche il grande establishment di Gianni&Enrico ha una reazione snobistica verso Silvio, cercando di continuare quel ruolo di regia dietro le quinte che però funzionava solo grazie al partito-Stato Dc che lo consentiva. Comunque in quel dicembre del 1994 grazie a Oscar Luigi Scalfaro si manda a casa il «disubbidiente», lo si sostituisce con l'uomo di mondo Lamberto Dini e per qualche settimana ci si convince che tutto sia risolto.

Come oggi Giorgio Napolitano sarà l'uomo più vecchio (Cuccia) a vedere da più «giovane», comprendendo l'urgenza di innovazioni radicali in politica come in economia, constatando l'affermarsi di una centralità nuova di Romano Prodi con gestione oligarchica delle privatizzazioni tesa a nuovi equilibri chiusi di potere (tendenza ben rappresentata da Giovanni Bazoli) senza neanche la spinta allo sviluppo della Mediobanca d'antan. Verificando la subalternità alla Germania e la poca attenzione alla parte vitale dell'industria. Il più geniale «gnomo» italiano perseguirà invece un reale pluralismo finanziario, lavorerà per legare attraverso le Popolari la media impresa alla finanza strategica, aiuterà Massimo D'Alema quando sembrava voler riformare lo Stato e sosterrà la svolta anti-Fiat di Confindustria con Antonio D'Amato. Tutto ciò s'impatterà con la crisi del gruppo presieduto da Agnelli che vuole preservare le sue influenze politiche ancor prima delle condizioni di rilancio imprenditoriale. Quest'ultima tendenza si collegherà naturalmente all'antiberlusconismo, porterà a un duro (definitivo?) ridimensionamento di Mediobanca, preparerà un «ritorno» torinese in Confindustria con Luca Cordero di Montezemolo, appoggerà il nuovo tentativo di Prodi con tanto di editoriale benedicente di Paolo Mieli sul Corriere della Sera.

Ma Prodi l'unica cosa che saprà fare sarà consolidare l'Intesa di Bazoli smantellando un presidio del vecchio establishment (Marco Tronchetti Provera a Telecom Italia). Da qui nuove delusioni, il lancio via Corriere-Confindustria montezemoliana della lotta anti Casta (altra fonte di disgregazione permanente della società italiana) e la scelta di un altro abatino (Walter Veltroni) come contendente di Berlusconi. Dopo l'ennesima sconfitta quel che resta dell'establishment lavorerà per cercare di disgregare il nuovo governo berlusconiano inventandosi il «liberale» Gianfranco Fini, cercando (con altalenanti successi) di separare Giulio Tremonti da Berlusconi, usando (l'imprinting è bazoliano) Giuseppe Mussari presidente dell'Abi per portare su posizioni antiberlusconiane Emma Marcegaglia, arrivando alla fine (su prioritaria ispirazione di una sempre più sbandata Mediobanca) a inventarsi il governo Monti.
E ora? Mentre la Fiat grazie a Sergio Marchionne si occupa finalmente più di industria che di politica, e così Mario Greco alle Generali, Federico Ghizzoni e Giuseppe Vita a Unicredit, l'unico baluardino del vecchio establishment resta Intesa anche se Enrico Cucchiani ha in mente più di far da banchiere che regista di giochi nazionali, e l'asse Sergio Chiamparino-John Elkann gli fa da sponda, mentre Bazoli, non solo si è visto affondare Mussari ma ha perso con la non elezione di Umberto Ambrosoli in Lombardia l'ultima carta per sparigliare ed è condizionato dai non brillanti risultati (Rcs è solo l'ultimo esempio) che caratterizzano la sua lunga presidenza della banca.

Forse alla fine di questi venti anni si apre la via per un establishment nuovo non più chiuso e irritato dagli outsider: anche se non sarà facile ai «nuovi» esercitare quel ruolo unificante che un establishment anche aperto deve assumersi. Il rischio di defilarsi dalle proprie responsabilità si combina con certa frenetica irrisolutezza che si nota anche in un imprenditore di valore come Giorgio Squinzi. (il Giornale)

domenica 9 giugno 2013

Rinvio e paura. Davide Giacalone

Se il governo Letta potesse rinviare i problemi, oltre alle decisioni e alle soluzioni, se potesse dire alla contrazione del credito e all’aumento dell’incertezza di sospendere i loro effetti e rivedersi tutti a fine anno, la cosa avrebbe anche un suo surreale fascino. Ma il governo può solo scansarli e occultarli, i problemi, allungando sempre la palla e lasciando credere che poi sarà capace di riprenderla.

L’Imu la paghiamo subito e quasi tutta, salvo quella che è stata solo rinviata a settembre, in attesa di una riforma che dovrebbe sopraggiungere entro agosto. Non sarebbe stato più sensato chiudere la partita e dare corpo alla riforma? Dell’ulteriore punto d’Iva, previsto a luglio, il governo si preoccupa più per le polemiche politicanti che porta con sé che per gli effetti sui consumi, quindi comincia ad anticipare che si potrebbe rinviare a Natale. Perché non alla Befana, così chi trova il carbone si convince d’essere stato cattivo. Eppure basterebbe guardare le previsioni, relative alle imminenti vacanze estive, per rendersi conto di quel che accade: poco meno della metà degli italiani contano di restare a casa. Al governo non credano che sia conseguenza della povertà, è l’effetto della paura.

La paura genera paura, e mano a mano che cresce i media la amplificano trasmettendone lo spettacolo. Qualche giorno addietro mi sono occupato di turismo, raccontando perché quei dati sono tutt’altro che precisi. Ma che importa? Quel che conta è che nessuno affronta e risolve i problemi, il governo esercita il rinvio con virtuosismo degno di miglior causa, le persone sensate tengono da parte i soldi, perché non si sa mai, così facendo i consumi crollano e la recessione avanza, a quel punto si manda in onda direttamente la povertà, la denutrizione e la fame (non scherzo, lo stanno già facendo), alla faccia dell’essere la terza potenza economica e la seconda industriale dell’area più ricca del mondo.

Ma non basta, perché dopo avere raccontato la bubbola che il problema dell’Italia sono i pochi che tolgono ai molti, quando la tattica del rinvio produrrà i suoi frutti avvelenati e si dimostrerà un’inutile perdita di tempo, si proverà a scaricare tutte le colpe sull’Europa, in questo modo spingendo prima alla rabbia e alla rivalsa sociale, poi al rigetto dell’Unione e allo spreco di vagonate di soldi bruciati sull’altare dell’equilibrio di bilancio.

Mi chiedo, sul serio, come fanno a non vedere qual è il salatissimo prezzo delle non decisioni? Sarebbe mille volte meno doloroso chiarire subito cosa si deve pagare. Sarebbe un milione di volte meglio raccontare senza birignao cosa si deve tagliare. La previsione (con date e misure) di un fisco meno satanico porterebbe a far scemare il nostro guaio più grosso: la paura. Mentre i rinvii la alimentano, scavandoci la fossa.

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venerdì 7 giugno 2013

Qualcuno ricorda i 173 That's Right? Christian Rocca

Obama uccide più sospetti terroristi di quanti ne abbia uccisi Bush, compresi i cittadini americani, spulciando quotidianamente una kill list di individui da uccidere, tiene i detenuti a Guantanamo, senza processo e a tempo indefinito, bombarda più paesi stranieri di quanti ne abbia invasi Bush, cambia i regimi a lui ostili, per quasi un mandato ha usato più soldati in Iraq e Afghanistan di quanti ne abbia lasciati il predecessore, ha esteso i poteri di guerra, mantenuto le rendition, ampliato le strutture detentive antiterrorismo a Gitmo e a Bagram, militarizzato la CIA e trasformato il Pentagono in un'agenzia di operazioni segrete e coperte, ha usato gli stessi generali e alcuni civili scelti da Bush per la war on terror, confermando l'architettura legale impostata da Cheney, compreso il Patriot Act, ora c'è la notizia controlla i dati del traffico telefonico degli americani, compresi quelli dei giornalisti che fanno troppi scoop, ah e poi non rende pubblico niente, incrimina chi fornisce informazioni ai giornali e molto altro ancora.

 Tutte queste cose, da solo, le ho scritte già 4 anni con decine di articoli prima sul Foglio e poi sul Sole e in 173 post intitolati That's Right per sottolineare che sì, giusto, Obama faceva la cosa giusta sulla sicurezza nazionale e semmai più a destra di Bush sulla politica estera. Le risate, di alcuni giornalisti. Gli sfottò, degli innamorati. Il muso, dei propagandisti. Lo sgomento, ora, dopo un banale scoop del Guardian. Ma niente paura, vi spiegheranno ancora una volta che Obama non è come Bush, che è un guerriero riluttante, che uccidere è più etico che incarcerare, che c'è un motivo perché spia gli americani. Vi spiegheranno, inoltre, che avevano ragione loro. Quando poi - non ora, ora è ancora presto - scaricheranno Obama, troverete sempre qui su Camillo chi lo difenderà. (Camillo blog)

Imparare la lezione americana. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Crescita, occupazione, deficit pubblico: quante differenze con l'Europa


Gli Stati Uniti stanno crescendo al ritmo di circa il 2 per cento l'anno e in un triennio il tasso di disoccupazione è sceso dal 10 al 7,5 per cento. Il deficit pubblico al netto degli interessi è sceso di 7 punti in percentuale del Prodotto interno lordo (Pil): dall'11,5 per cento circa al culmine della crisi nel 2009, al 4,5 per cento previsto per quest'anno. In tre anni, fra il 2011 e il 2013, hanno ridotto le spese di circa 2 punti di Pil e aumentato le imposte di un punto e mezzo. Anche in Europa i deficit sono scesi, ma la crescita non riparte. In Italia stiamo attraversando la recessione più grave dal dopoguerra. Che cosa spiega queste differenze?

Alcune di queste sono difficili da eliminare nel breve periodo: la maggiore flessibilità dei mercati americani, in particolare quello del lavoro, la mancanza in Europa di una politica fiscale comune, le divergenze fra i Paesi dell'euro che impediscono una maggiore integrazione dell'eurozona e legano le mani alla Bce. Ma una cosa importante la potevamo fare, imparando dagli Stati Uniti: attaccare alla radice e senza indugi il problema delle banche. Le prime misure del governo americano, all'inizio della crisi, quando era ancora presidente George W. Bush, furono rivolte alle banche, le quali furono obbligate a rafforzare il loro patrimonio anche con l'aiuto pubblico. Fatto questo, gli interventi volti a ridurre il deficit (si può poi discutere se siano stati più o meno sufficienti e di buona qualità) sono stati molto meno costosi che in Europa proprio perché non si sono sommati a una contrazione del credito.

Nell'eurozona abbiamo seguito la sequenza sbagliata. Occorreva prima rafforzare le banche affinché la loro debolezza non desse luogo a una contrazione dei prestiti, e dopo, solo dopo, ridurre i deficit tagliando le spese. Invece abbiamo fatto esattamente il contrario. Non abbiamo ricapitalizzato le banche e anziché tagliare le spese abbiamo aumentato le imposte. Alcuni Paesi, fra cui l'Italia, hanno rifiutato i fondi messi a disposizione, sia pure tardivamente, dall'Europa per ricapitalizzare le banche. Non li abbiamo voluti per due motivi. Per lo stupido orgoglio di non accettare che qualcun altro metta il becco nelle nostre banche: «Le nostre autorità sono più che sufficienti» (lo si è visto alla Banca Popolare di Milano!). E perché le Fondazioni bancarie, ovvero i padroni delle banche, non hanno i fondi per ricapitalizzarle, e non vogliono diluire la loro proprietà.

Due giorni fa Standard & Poor's ha pubblicato uno studio che evidenzia (se ancora ve ne fosse bisogno) la gravità della contrazione del credito in Italia, soprattutto per le imprese piccole e medie. Si è creato un circolo vizioso. Private del credito le aziende falliscono; più imprese falliscono, più crescono le sofferenze bancarie, cioè i crediti inesigibili; più aumentano le sofferenze, più diminuisce il capitale delle banche e con esso i prestiti alle imprese e più crescono i fallimenti.

Stiamo ripetendo l'errore che fece il Giappone vent'anni fa quando, dopo un crac immobiliare, lasciò le banche a languire per un ventennio. Il risultato è purtroppo ben noto: vent'anni di crescita zero e un debito pubblico che ha raggiunto il 200 per cento del Pil. Per favore: impariamo dagli Usa, non dal Giappone. (Corriere della Sera)

domenica 2 giugno 2013

Le lepri che inseguono Grillo. Gianni Pardo

Chi ha battuto Napoleone? Molti direbbero: Wellington, a Waterloo. E dal punto di vista bellico è vero. In realtà Napoleone è stato battuto dai suoi eccessi. Se si fosse accontentato di un po’ di gloria e di qualche territorio, sarebbe morto a Parigi, forse da imperatore. Invece ha voluto troppo. Ha allarmato l’intera Europa, l’ha indotta a coalizzarsi contro di lui ed alla fine ha perso tutto.

Il successo può dare alla testa. Quando si è riusciti molte volte al di là delle proprie speranze, si finisce col credere che non ci siano limiti a ciò che si può conseguire e a ciò che ci si può permettere. Questa sindrome è così in linea con la natura umana che ne soffrono soggetti di tutti i livelli: dai massimi personaggi ai bulli di quartiere, da Alessandro Magno a quelle rockstar che divengono capricciose e insopportabili.

Ora abbiamo un nuovo esempio, Beppe Grillo. Indubbiamente quest’uomo ha compiuto un’impresa così strabiliante che rimarrà nella storia. Ma mentre Napoleone ha cominciato ad esagerare – per esempio attaccando la Russia – dopo una lunga serie di successi, Beppe ha cominciato ad esagerare immediatamente dopo la prima vittoria. Ha ingenuamente preteso di mantenere alla lettera ciò che aveva promesso: per esempio la povertà dei suoi eletti. E in questo modo da un lato ha irritato, e persino messo in difficoltà, le sue truppe, dall’altro si è fatto un po’ ridere dietro da tutti. L’errore più grande tuttavia è stato il rifiuto delle alleanze con i partiti già esistenti. Una donna che dice molti no si fa desiderare, ma se dice sempre no rimane zitella. Grillo, a forza di rifiuti, è divenuto ininfluente. Nessuno nega che il suo elettorato sia troppo variegato per permettergli una presa di posizione molto netta, e nessuno nega che egli abbia voluto rimanere fedele alle sue promesse: ma anche se la coerenza è una bella virtù, ne quid nimis, non bisogna esagerare. I francesi hanno eletto De Gaulle gridando “Algérie française!” e il Generale quell’Algeria l’ha immediatamente sbaraccata. Meritandosi la gratitudine della Francia. Un grande politico fa il bene del suo Paese al di là delle piccole virtù borghesi.

Altro grande errore di Grillo: dopo avere predicato una sorta di democrazia ateniese – dove tutti si riuniscono in piazza e alla fine uno vale uno – è risultato che ognuno in quella piazza deve fare in tutto e per tutto ciò che dice lui, “altrimenti è fuori”. Già i suoi eletti soffrivano dell’inesperienza che dà il non aver mai fatto seriamente politica e dall’aver visto Roma solo in fotografia, lui li ha fatti apparire personaggi muti e sbiaditi, turisti per caso, burattini privi di personalità. Si è passati dall’impressione di una gioiosa anarchia alla caserma, dalla sfrenata libertà di parola alle punizioni per insubordinazione. L’ammutinamento, in questi casi, è pressoché inevitabile.

Altro errore ancora: dopo aver subito una batosta bestiale alle recenti elezioni amministrative, Grillo ha sostenuto contro ogni evidenza di avere vinto. Ad ammettere un arretramento, la colpa comunque sarebbe della stupidità degli italiani. Il leader è così riuscito in un sol colpo a rendersi ridicolo e ad offendere la nazione. Quel popolo sovrano che in democrazia ha sempre ragione.

Ma già, nel suo mondo il popolo è composto da quelli che hanno un computer e sono capaci di votare in rete. Infatti è arrivato a dire che Stefano Rodotà era il candidato della base alla Presidenza della Repubblica perché era stato votato da settemila internauti o giù di lì. Contare sulla stupidità del prossimo paga, ma non bisogna esagerare.

Infine, come tutti gli aspiranti dittatori, Grillo è suscettibile. Quando il Professor Rodotà, “il candidato migliore per divenire Presidente della Repubblica”, si è permesso di dire che il M5S le elezioni le ha perse eccome, il Capo l’ha mandato al diavolo, irridendolo per giunta. Anche questo non si fa. Non bisogna sputare nel piatto in cui s’è mangiato. Soprattutto non bisogna procurarsi nemici se non è necessario. Mussolini, proclamando “molti nemici molto onore”, ha detto una sciocchezza. Ha più ragione il proverbio tedesco per il quale “molte lepri sono la morte del cane”.

Siamo stanchi della nostra classe politica, siamo stanchi delle logomachie parlamentari, siamo più che preoccupati per la nostra situazione economica, e l’unica vera novità di questi ultimi mesi comincia a sgonfiarsi appena sfornata, come un soufflé mal riuscito. Peccato. (LS Blog)

Gli italiani sono meglio dei pm. Giuliano Ferrara

Ecco che mi ritrovo a pensare che Ennio Flaiano non è morto, che Federico Fellini vive e lotta insieme a noi, che Alberto Arbasino è più rilevante della Ilda Boccassini, per non dire di Machiavelli e Guicciardini, grandi moralisti del Cinquecento; in fondo possiamo celebrare in allegria la nostra sfacciata intelligenza, magari sulla colonna sonora della Quarta sinfonia di Beethoven o con l'accompagnamento di Valentino Liberace. Farà bene Berlusconi a infischiarsene dell'assalto guardonista del pm del Ruby bis, della puerile inquisitio generalis contro le cene «orgiastiche» e dello sputazzamento moralistico sul «corpo delle donne» e sulla libertà e socievolezza dell'amicizia, perché gli italiani sono superiori alla rappresentazione meschina, procuratizia e falsamente devota, che ne offrono i media asserviti alla menzogna.

La prima notizia consolatoria me la dà nientemeno che il Fatto quotidiano, il giornale che trasforma con losca abilità la merda inquisitoria in romanzaccio popolare. Luigi Bisignani, l'uomo che sussurra ai potenti, vende in libreria tre, quattro, cinque volte di più dei libri narcisisti e convenzionali di un Matteo Renzi e di un Walter Veltroni. I politici «de sinistra» che sussurrano all'opinione pubblica, che squadernano sempre nuove idee vecchie, sono giudicati meno interessanti di questo memorialista delle mille p2 p3 p4, un concentrato chimico di bonario cinismo, di genuini rancori, di chiacchiere e sfondi da set cinematografico anni Sessanta, di questo sublime sceneggiatore del potere scambiato regolarmente per uomo nero e dato in pasto alle patrie galere, ai processi e all'orgia (qui ci vuole) del perbenismo nazionale. Bisignani sarà smentito serialmente, e come ogni memorialista potrà incappare nella disavventura del ricordo impreciso, più qualche umanissima panzana, ma il suo spirito è quello illuministico del diradare le ombre, è quello machiavelliano di sfrondare l'alloro ai regnatori e metterli un po' in mutande, ma senza rabbia, senza indignazione, rivelandoli nelle loro metamorfosi mitiche per quello che sono.
Finalmente un botteghino vendicatore si eccita per la curiosità di un racconto non malsano, non prescrittivo, non censorio, non disperato e invidioso, e si diverte a sapere quel che si è sempre saputo. Che i Woodcock e i de Magistris e tutti gli altri arrestatori dello sviluppo intellettuale e morale della nazione non sanno nulla delle cose di cui si occupano, e si occupano solo delle cose che non sanno, sia come inquirenti sia come «intellettuali generali» di un'Italia pura e nobile che non esiste, come non esiste da alcuna parte un mondo terragno puro e nobile. Dopo tante ordinanze di cattura, dopo milioni di intercettazioni pruriginose, dopo lo sfrenato pettegolismo anticasta, uno della casta, e dei più riservati e segreti, dei più capaci e ricchi di talento, ce ne rivela tra Argentina, Vaticano e Italia tutti quei dettagli che fanno la piccola storia dei poteri civili o ecclesiastici, frammisti come sempre è stato all'intrigo e alla manovra d'influenza, senza odio, senza falsa coscienza, senza ideologia.

Ma non basta alla mia gioia una vittoria editoriale così sorprendente e avvincente, conseguita da un libro che si divora in tre ore, pagine di buona fattura morale nonostante le loro malizie e le loro pecche. C'è altro su cui non abbiamo riflettuto abbastanza. Grillo ha restituito 42 milioni di euro, lanciando dall'elicottero la grande elemosina demagogica all'opinione indignata e antipartito, e ha subito dimezzato i suoi voti. Gli elettori non si comprano così a buon prezzo. L'intelligenza del popolo costa cara, come ha potuto capire un Bersani lanciatissimo verso il vuoto della serietà al governo, e ivi spiaccicato. A Siena, dove il rais di Genova pensava di fare il pieno in ragione del dubbio o falso scandalo del Montepaschi, ha a stento superato l'8 per cento dei consensi. Alleluia per la grande sottigliezza degli italiani! Applaudono e ridono e confortano il tribuno del popolo quando vuole offrire loro la testa della partitocrazia, ma poi giustamente ci riflettono su e decidono che nell'urna la verità e l'interesse ti vedono, ti controllano, ti sorvegliano occhiuti, Grillo no.

Come se non bastasse, Bisignani rivela nel suo libro, con dettagli non smentiti, che il grillismo è la solita manovretta tragicomica innescata dai conversarii d'ambasciata e di Cia con l'amiko amerikano, la stessa puzzonata che fu alle origini delle celebri inchieste sulla corruzione di Milano, inizi anni Novanta, roba da consolato di Milano. I poteri veri, ma non sempre capaci di distinguere, scommettono sull'italiano di scorta, e l'italiano di scorta, ieri un Di Pietro che è finito come è finito, oggi un Grillo che sta finendo come sta finendo, rendono loro bassi e riservati servigi. E questo Paese non la beve. Berlusconi si rassicuri, si riposi, si mobiliti e faccia il comodo suo di leader politico immarcescibile: potranno emettere qualunque sentenza morbosa, fondata sul nulla probatorio, sulla percezione laida di proiezioni guardone e origliatrici, ma tutto questo agli occhi del Paese sapientemente immoralista, mai sazio di vera intelligenza delle cose, preoccupato dell'essenziale che è la crisi della società e della capacità di governo, non vale un fico secco. (il Giornale)